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Mad Max: Interceptor – opera prima di George Miller

Questo film del 1979 è l’inizio di una trilogia che appassionerà il mondo intero, cui si aggiungerà un tardivo quarto capitolo “Mad Max: Fury Road” nel 2015 e un quinto è in uscita nell’estate 2024 col titolo “Furiosa: A Mad Max Saga”. È l’opera prima di George Miller, regista che in seguito pur mantenendosi fedele a stile e tematiche non mancherà di misurarsi anche con altri generi. È anche erroneamente indicato come il debutto di Mel Gibson che però era avvenuto un paio d’anni prima con “Summer City – Un’estate di fuoco” dopo tanti piccoli ruoli nella tv australiana, poiché protagonisti e film vengono tutti da lì: periferia estrema delle produzioni cinematografiche che nei decenni successivi ha dato molte star al cinema internazionale: in fondo all’articolo la lista dei nomi.

Ma come cinematografia specifica quella australiana faticherà sempre a decollare nonostante le molte eccellenti produzioni che verranno. È nel 1978 che si registrò l’anno di svolta per un’industria cinematografica ancora inesistente con ben 13 film piazzati al Festival di Cannes (rimando all’ultimo paragrafo chi volesse approfondire i titoli e i nomi di Cannes ’78) e possiamo affermare che la cinematografia australiana arriva per la prima volta al mondo intero grazie a questo film del 1979, il primo di una saga che viene definita post-apocalittica fantascientifica e distopica ma che effettivamente in questo debutto a bassissimo costo c’è ancora ben poco di quello che verrà. Ma andiamo con ordine partendo dall’autore debuttante.

Byron Kennedy e George Miller al missaggio del sonoro del film

George Miller si è appassionato al cinema mentre ancora studiava medicina e risalgono a quel periodo i suoi primi esperimenti: durante il suo ultimo anno all’Università del Nuovo Galles del Sud realizza insieme a uno dei suoi fratelli un cortometraggio di un minuto che vince il primo premo di un concorso studentesco, e il premio era un corso di cinema all’Università di Melbourne dove conosce Byron Kennedy, insieme al quale gira il corto “Violence in cinema: part 1” molto splatter e molto satirico sulla violenza nei film che ottenne consensi anche fuori dall’Australia e questo spinse i due a creare una propria casa di produzioni, la “Kennedy Miller” con la quale si avvieranno verso questo progetto: insieme scrivono la sceneggiatura ispirati dal film australiano “Stone” di Sandy Harbutt del 1974 che raccontava le gang di motociclisti che terrorizzavano gli isolati abitanti dell’outback e che aveva nel cast molti di quegli stessi criminali.

All’inizio del film una scritta ci avverte: “Few years from now…” a pochi anni da adesso, un futuro assai prossimo e senza effetti speciali: c’era la fantasia ma non c’erano i soldi e il grosso dello sforzo produttivo è andato nella realizzazione delle auto che insieme alle motociclette creano spettacolari scene d’azione su strada che sono l’hard-core del film – che oggi va visto come documento di quell’epoca: un ipotetico futuro che per noi è già vintage.

la V8 Interceptor

Maxwell Rockatansky, che poi si meritò l’appellativo di Mad Max, è un poliziotto che guida una V8 Interceptor per la realizzazione della quale sin dal 1976 durante la fase di pre-produzione, George Miller, consapevole che l’automobile sarebbe stata insieme agli attori una protagonista del suo film d’azione, incaricò lo scenografo Jon Dowding di realizzare una vettura che fosse “nera australiana e cattiva”; l’attenzione andò subito a un’auto di costruzione esclusivamente australiana, la Ford Falcon XB GT Coupé prodotta in un numero esiguo e che oggi è un rarissimo esemplare da collezione; e Dowding incaricò una società di personalizzazione di auto per modificarla; lì Peter Arcadipane, Ray Beckerley e John Evans, con il decoratore di carrozzerie Rod Smithe, hanno trasformato l’auto secondo le esigenze cinematografiche.

Fra le altre variazioni di vetture c’è una versione di side-car con la seduta laterale coperta da una mezza sfera che gli conferisce un aspetto un po’ spaziale: la saga di “Star Wars” era cominciata nel ’77 e aveva già cominciato a influenzare l’immaginario collettivo. Mentre le motociclette usate dalla gang sono delle Kawasaki che la produzione era riuscita a ottenere in dono assicurando un rientro in pubblicità, come fu, e che sono state appositamente scenografate da una ditta specializzata che sfortunatamente fallì subito dopo l’uscita del film, mentre un’altra azienda giapponese, dato il successo delle Kawasaki modificate, ne ha ricreato delle copie per il mercato dei collezionisti fino ai primi anni 2000.

James Healey

Era il momento di comporre il cast. Miller avrebbe voluto un noto attore americano per garantire al film più ampia visibilità e andò anche a Hollywood per prendere contatti, ma resosi conto che l’attore da solo gli sarebbe costato l’intero budget tornò a Melbourne deciso a scritturare giovani sconosciuti a basso costo. La prima scelta fu l’irlandese lì trasferito con la famiglia James Healey che aveva già avuto dei ruoli in una serie tv ma che al momento lavorava in un macello aspettando di debuttare sul grande schermo: quale migliore occasione? ma l’attore lesse la sceneggiatura e rifiutò la parte perché la trovò “poco accattivante” e soprattutto il personaggio parlava poco mentre lui si riteneva un grande interprete: finirà col recitare sempre in soap opera come “Dinasty” e “Santa Barbara”.

Mel Gibson e Steve Bisley

A quel punto entra in scena Mel Gibson con la classica narrazione dell’amico che accompagna un amico e ottiene la parte al posto suo. La produzione si era rivolta agli insegnanti del NIDA, National Institute od Dramatic Art, specificando che cercavano dei giovani “con i capelli a punta”: era esplosa l’epoca punk; si presentò Steve Bisley accompagnato da Mel: entrambi avevano debuttato in “Summer City” ed entrambi furono scritturati ma Steve, da buon amico, ebbe il ruolo del buon amico. Gibson accettò un contratto secondo cui sarebbe stato pagato solo dopo l’uscita, e la buona riuscita, del film: fu lungimirante, al contrario di James Healey. Ma se Gibson divenne una star internazionale il suo amico Bisley si è mantenuto fermo su una carriera di tutto rispetto anche se in secondo piano. Nel ruolo della moglie del protagonista Joanna Samuel che resterà un’attrice di genere australiana.

Hugh Keays-Byrne

Più interessante il casting della banda di motociclisti: la maggior parte furono scritturati fra i veri fuorilegge che sulle moto battevano le superstrade australiane, appartenenti al clan dei Vigilanties e tre di essi, Hugh Keays-Byrne, Roger Ward e Vincent Gil avevano già recitato, come detto, in “Stone”. Il primo è qui nel ruolo del capobanda Toecutter, il tagliaditadeipiedi, e nel cinema troverà il suo futuro fino a concludere la sua carriera nel sequel di Mad Max del 2015. Ma intanto, data la scarsezza dei mezzi produttivi tutti la banda si era spostata a proprie spese da Sydney a Melbourne: cosa non si fa per l’arte.

Come sappiamo il film fu un clamoroso successo internazionale ma con un sostanziale distinguo: il film che era costato fra i 200mila e i 400mila dollari australiani (fonti diverse danno cifre diverse) incassò in patria più di 5 milioni raggiungendo in poco tempo il record mondiale di 100 milioni entrando nel Guinness dei Primati come il miglior film col minor costo e il maggior incasso, superato solo vent’anni dopo nel 1999 da “The Blair Witch Project”; ma per le manipolazioni subite l’unico Paese in cui il film non ebbe successo furono proprio gli Stati Uniti d’America. Vinse tre premi tecnici all’Australian Film Institute Awards per montaggio, sonoro e colonna sonora firmata da Brian May, compositore che aveva debuttato al cinema l’anno prima col B movie “Patrick” che ebbe un curioso sequel: avendo avuto successo nelle sale italiane, il regista di B movie italiani Mario Landi ne firmò un sequel apocrifo col titolo “Patrick vive ancora” in una deriva sexy come suggerisce la presenza di Carmen Russo nel cast. Tornando al film: vinse anche il premio speciale della giuria al Festival internazionale del film fantastico di Avoriaz.

Visto oggi il film, senza conoscerne il contesto, è un filmetto che sente il peso degli anni ed è davvero il documento di un’epoca e lo specchio di chi lo ha portato al successo, e va visto come il capostipite di una saga che ha avuto ben altro spessore. In ogni caso, dato il suo clamoroso successo che ha portato la cinematografia australiana nel mondo, esso è ancora oggi celebrato sul continente con feste e parate, tributi e anche ritrovi. Con i suoi sequel Mad Max è diventato un fenomeno culturale e con il suo futurismo distopico e apocalittico ha ispirato film come “1997: Fuga da New York” (John Carpenter 1981), la saga di “Terminator” (James Cameron 1984), “The Hitcher” e “I banditi della strada” (Robert Harmon, 1986 e 2004), oltre ai videogiochi “Fallout” e al manga “Ken il Guerriero”. Il prossimo capitolo “Interceptor – Il guerriero della strada” porterà la narrazione a un livello decisamente superiore… e da qui in poi non si parla più del film.

Richiami e rimandi bikexploitation

Vale la pena ricordare che inserendosi di diritto nel filone dei film con motociclette e motociclisti si può addirittura cominciare dal cinema muto che Miller ha detto di amare con “Lo spaventapasseri” dove Buster Keaton cavalca un sidecar Harley Davidson.

Un altro caposaldo è “Il selvaggio” con Marlon Brando che cavalcava una Triumph Thunderbird 6T del 1950, film diretto da Laszlo Benedek nel 1954 che è considerato un capostipite del genere bikexploitation che è esploso a metà degli anni ’60, e fra i film più noti c’è “I selvaggi” del 1966 che è considerato uno dei più grossi successi commerciali di Roger Corman: con un budget stimato di soli 360.000 dollari, il film ne incassò, solo negli Stati Uniti, circa 14 milioni; anche Corman, come Miller più di un decennio dopo, scritturò come comparse alcuni Hell’s Angels che però durante le riprese crearono non pochi problemi alla troupe. Sempre incentrato su quei terribili Hell’s Angels ci fu l’anno dopo “Angeli dell’inferno sulle ruote” di Richard Rush con Jack Nicholson in uno dei suoi primi ruoli da protagonista.

Si arriva al 1969 con un film che resterà nella storia: “Easy Rider” di e con Dennis Hopper, Peter Fonda e ancora Nicholson, un film il cui merito è andare oltre le narrazioni più o meno fuorilegge dei motociclisti, che al contrario qui sono degli innocui pacifisti che raccontano l’avanzata della contro cultura americana, la contestazione giovanile e l’antimilitarismo; il titolo viene da “Easy Life” che fu il titolo americano per il nostro “Il sorpasso” di Dino Risi a cui il film si ispira. E restando in Italia voglio ricordare la Moto Guzzi “Falcone Sport” che Alberto Sordi cavalca in “Il vigile” di Luigi Zampa del 1960.

Un po’ di star internazionali provenienti dal nuovo continente

In elenco Judy Davis, Cate Blanchett, Nicole Kidman con la sua amica Naomi Watts, Margot Robbie e Toni Collette fra le attrici; fra gli attori Hugh Jackman, Jason Clarke, Joel Edgerton, Guy Pearce, Geoffrey Rush, i fratelli Chris e Liam Hemsworth, il compianto Heath Ledger e Russell Crowe e Sam Neill che per correttezza sono neozelandesi; come neozelandese è Jane Campion fra i registi, con gli australiani Peter Weir, Phillip Noyce e Gillian Armstrong che proprio lo stesso anno di questo film firmò il più artistico “La mia brillante carriera” con Judy Davis che andò a vincere il BAFTA nel Regno Unito e Sam Neill che da lì in poi ha sviluppato una sua brillantissima carriera.

Approfondimento sul Festival di Cannes del 1978

Fra i titoli australiani vanno ricordati “The Chant of Jimmie Blacksmith” di Fred Schepisi e “Il sapore della saggezza” di Bruce Beresford. Quell’anno c’erano in concorso e fuori concorso molti grandi sui quali è interessante dare un’occhiata: “L’albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi che vinse la Palma d’Oro e che si aggiudicò anche in ex aequo con “La spirale” di Krzystof Zanussi il Premio Ecumenico, mentre il Grand Prix Speciale della Giuria è stato assegnato ex-aequo a “Ciao maschio” di Marco Ferreri e “L’australiano” (che non è un film australiano ma è il titolo italiano per “The Shout”) del polacco Jerzy Skolimowski con produzione britannica; altro ex aequo per la migliore attrice a Jill Clayburgh per “Una donna tutta sola” di Paul Mazursky e Isabelle Huppert per “Violette Nozière” di Claude Chabrol; miglior attore Jon Voight per “Tornando a casa” di Hal Ashby; miglior regista Nagisa Ōshima per “L’impero della passione”; Gran Prix tecnico a “Pretty Baby” del francese Louis Malle che si era spostato negli Stati Uniti perché legatosi a Susan Sarandon protagonista di questo suo primo film americano; e per finire il premio FIPRESCI a “L’uomo di marmo” di Andrzej Wajda. Ma erano presenti anche titoli come il grandioso “Molière” di Ariane Mnouchkine, “Ecce Bombo” di Nanni Moretti, “Fuga di mezzanotte” di Alan Parker, “L’ultimo valzer” di Martin Scorsese, “Nel regno di Napoli” di Werner Schroeter. Non c’è da stupirsi se in questo contesto gli australiani venissero considerati degli alieni.

I magnifici sette cavalcano ancora

Con la saga de “I magnifici sette” cominciata 12 anni prima, quello che ha fatto più soldi, oltre al produttore Walter Mirisch, è sicuramente il compositore Elmer Bernstein che piazzò questa sua colonna sonora fra le più ascoltate e oggi è sempre inserita nelle compilation delle più belle musiche hollywoodiane: di film in film aggiunge qualche variazione, qualche nuova melodia di accompagnamento alle nuove scene, e per il resto ci campa di rendita, che è il riconoscimento migliore per chi ha talento; nel corso della sua carriera ha ricevuto 14 nomination all’Oscar e solo una statuetta nel 1968 per il dimenticato musical “Millie” di George Roy Hill con Julie Andrews; vinse anche due Golden Globe, un Emmy e un Academy Award.

In questo 1972 si conclude malinconicamente la gloriosa saga con un film raffazzonato e noioso, scritto male e diretto peggio. Il protagonista Chris Adams è ormai un brand che può interpretare chiunque e in quest’ultimo capitolo ne veste i panni Lee Van Cleef che sette anni prima era stato miracolato da Sergio Leone che era andato a scovarlo quando l’attore stava ormai rinunciando al cinema per darsi la pittura: in “Per qualche dollaro in più” tutti i dettagli. Partecipa anche al terzo capitolo della Trilogia di Leone e per i successivi cinque anni resta in Italia dove gira altri sei spaghetti-western prima di essere richiamato in patria dove però continua con altri western di serie B, e per gli anni successivi farà avanti e indietro di qua e di là dall’Atlantico: questo suo Chris Adams è senz’altro il primo ruolo significativo in una produzione hollywoodiana, ma ahilui la gloriosa saga è ormai allo sbando.

Scrive Arthur Rowe che essendo principalmente uno sceneggiatore per la televisione ne ripropone i moduli e l’andamento, pedissequamente assecondati dalla piattissima regia dell’altrettanto televisivo George McCowan: movimenti di camera come in uno studio tv, carrellate e zoom come in una sit-com, e massima disattenzione ai dettagli: stuntmen che si buttano giù dal cavallo in ritardo sugli spari e gli scoppi, e si vede pure chiaramente che si buttano in modo di non farsi male. La produzione seriale televisiva aleggia sin dall’inizio e ci si predispone allo sbadiglio quando non all’irritazione. Sorprende che il produttore abbia messo su questa farsa, ma probabilmente neanche lui ci credeva più e pensava di grattare il fondo del barile.

Pedro Armendáriz Jr. e William Lucking

Il pistolero mercenario dal cuore d’oro si è qui sistemato e sta mettendo su famiglia; è diventato sceriffo di una cittadina dell’Arizona sul confine con quel Messico dove si sono svolte le sue precedenti avventure; e ha una bella moglie in attesa di prole che invece di stare a casa a preparare torte, come fanno le brave mogli del west, va a spettegolare nell’ufficio del marito con vista sulle celle dove i delinquenti possono intrattenersi con le mamme addolorate: tutto assai improbabile.

Mariette Hartley, prima a sinistra.

Se è plausibile che un pistolero che cavalcava ai limiti della legge diventi un tutore dell’ordine – nel vecchio west accadeva questo e molto peggio, l’importante era saper sparare – non è assolutamente credibile che due donne si ritrovino a chiacchierare amabilmente davanti alle celle dei malviventi colà imprigionati come se fossero dal parrucchiere: la logica della piatta scrittura non si preoccupa del contesto, anche storico e culturale, ma solo di mettere in scena i suoi personaggi per portare avanti una storia altrettanto improbabile.

Lee Van Cleef con Stefanie Powers

La novità del film è che il secondo nome del cast sempre necessariamente virile è qui femminile: Stefanie Powers, che era diventata popolare grazie alla serie tv “Organizzazione U.N.C.L.E.” e che più avanti sarà amata protagonista della serie “Cuore e batticuore”. Attrice che capeggia un’armata di donne, vedove o vedove bianche a causa del solito bandito messicano che scorrazza di qua e di là dal confine. E questi ultimi magnifici (si fa per dire) sette, lo sceriffo li mette insieme assoldando cinque di quei delinquenti che aveva sbattuto dietro le sbarre, più un giornalista che era venuto a raccoglierne le prodezze passate per scriverne un libro.

Il giornalista è Michael Callan, ex attor giovane canterino già nel cast della versione teatrale di “West Side Story” ma che cine-televisivamente non lascerà una gran traccia di sé. Gli altri cinque sono: Ed Lauter, uno stand-up comedian che qui debutta sul grande schermo e che si ritaglierà una lunga proficua carriera di caratterista; il messicano originale Pedro Armendáriz Jr. che come il padre partecipò a uno dei film della saga di 007; Luke Askew che aveva appena avuto un piccolo ma fondamentale ruolo in “Easy Ryder” di Dennis Hopper; James B. Sikking, altro caratterista molto televisivo; e William Lucking che in tarda età ha acquisito notorietà con la serie tv “Son of Anarchy”. Il cattivo ragazzo che innescherà tutta l’azione è l’oggi sconosciuto Darrell Larson, che si accompagna al cattivaccio Gary Busey che avrà il suo apice nel prossimo “Un mercoledì da leoni” di John Milius. Sul numeroso stuolo di belle signore al servizio dei sedicenti magnifici si staglia, oltre alla Powers, Mariette Hartley come querula ma sfortunata moglie del protagonista.

Fu il primo (oltre che l’ultimo) film della serie interamente girato negli Stati Uniti fra una linda cittadina del vecchio west che fece da sfondo a moltissimi altri film e serie tv, e gli spazi rocciosi e semi desertici che colà non mancano di certo senza la necessità di spingersi a girare in Messico, il primo film, e in Spagna, i primi due sequel. il film è talmente scialbo che fu ignorato anche dal mercato internazionale che solitamente riappianava gli scarsi introiti nazionali, ed ebbe una perdita netta di 21 mila dollari, e solo con i successivi passaggi televisivi si riuscì a coprire le spese. Se abbiamo visto gli altri film della serie va visto anche questo, solo per renderci conto di come si può cadere in basso e disperdere un iniziale capitale artistico ed economico, nella polvere. Letteralmente.

Ricapitoliamo: il primo film della tetralogia si ispirò a “I sette samurai” di Akira Kurosawa (1954) e seguiranno un remake fantascientifico che da noi venne intitolato “I magnifici sette nello spazio” (1980) ma il cui titolo originale fu più discretamente “Battle Beyond the Stars” perché probabilmente il produttore Walter Mirisch non accordò il permesso di utilizzare il titolo del suo brand; fu diretto da Jimmy T. Murakami che essendo stato principalmente un animatore dovette trovarsi in difficolta con gli attori in live action e gli venne in soccorso sul set Roger Corman, che era anche il produttore esecutivo e che non si volle accreditare nei titoli. Poi, siccome si torna sempre sul luogo del delitto, Mirisch si associò con la MGM per produrre una serie televisiva di 22 episodi che da noi fu trasmessa da Rai2 nel 2002. Al momento i remake si concludono col film del 2016 con Denzel Washington che non essendo stato un blockbuster non generò ulteriori sequel.

Gioventù bruciata – e per la prima volta sullo schermo Dennis Hopper

Appena due anni prima, nel 1953, Michelangelo Antonioni aveva composto il suo film a episodi “I vinti” ispirandosi a fatti di cronaca, un film rigorosamente specchio della realtà nell’intenzione dell’autore, ma poco apprezzato da pubblico e critica che solitamente amano essere solleticati con prodotti più accattivanti; là Antonioni parlava di “generazione bruciata” ed era un concetto che girava nell’aria se due anni dopo, appunto, i distributori italiani intitolarono “Gioventù bruciata” il film che nell’originale è “Rebel Without a Cause” il cui titolo rimanda al libro che lo psichiatra Robert Lidner aveva pubblicato nel ’44, “Ribelle senza causa: analisi di uno psicopatico criminale” in cui studiava lo psicopatico come qualcuno “incapace di compiere sforzi per il bene altrui”, non empatico diremmo oggi, riferendosi al caso reale di un ragazzo di nome Harold allora detenuto in Pennsylvania. La Warner Bros. aveva subito acquisito i diritti per svilupparne un film che nel corso degli anni e delle riscritture aveva alla fine una narrazione che più nulla conservava del libro se non il titolo, e il progetto finì momentaneamente in un cassetto. Ma l’argomento “giovani ribelli” era nell’aria e furono messi in cantiere vari progetti fra cui spiccarono in quella prima metà degli anni ’50 “Il selvaggio” con Marlon Brando diretto dall’ungherese László Benedek e “Il seme della violenza” con Glenn Ford diretto da Richard Brooks. Così Nicholas Ray, attento agli umori del botteghino, rispolverò il suo soggetto la cui sceneggiatura conclusiva la firmò Stewart Stern qui alla sua prima prova importante: era amico di James Dean e in qualche modo veicolò la sua scrittura attorno alla figura del giovane attore emergente, chiamando James-Jimmy il suo personaggio. Stern due anni dopo l’improvvisa morte di Dean scrisse il documentario “La storia di James Dean” diretto da un giovane Robert Altman già sceneggiatore per la tv ma non ancora regista cinematografico.

Primo giorno di lettura della sceneggiatura. In senso orario da sinistra in basso: di spalle dietro al paralume Nicholas Ray e Stewart Stern, poi James Dean con gli occhiali (era fortemente miope), accanto lui un uomo non identificato, poi l’attore Jim Backus e Natalie Wood. Saltando un uomo e una donna, con la camicia a quadri Sal Mineo.

Il film di Ray si distingue dagli altri perché per la prima volta esamina il contesto dei giovani ribelli non più come espressione delle classi disagiate ma anche all’interno dell’alta borghesia, un contesto in cui gli adulti erano colpevoli quanto e forse più dei ragazzi. Con la scrittura di Stern si definirono le influenze chiavi del film: Ray auspicava un tono classico e senza tempo per la sua storia, guardando a “Romeo e Giulietta”“la migliore commedia scritta su giovani delinquenti” aveva detto, mentre lo sceneggiatore dal canto suo considerava il film una rilettura di Peter Pan; di fatto entrambi hanno attinto alle proprie vite, e Stern in particolare prese ispirazione dal rapporto conflittuale con i suoi genitori: “Ray aveva terribili rimorsi di coscienza su sé stesso come padre, e io ero terribilmente furioso con me stesso come figlio” ha ricordato lo sceneggiatore. Il resto del cast: Edward Platt è il poliziotto assai comprensivo, Jim Backus, Ann Doran e la veterana Virginia Bissac sono i genitori e la nonna del protagonista; William Hopper e Rochelle Hudson sono i genitori della ragazza; Marietta Candy è la mamie, e Corey Allen è il capo dei “bravacci” che sfida il protagonista nella corsa mortale; nel gruppo debutta Dennis Hopper.

Mentre il film era in scrittura, nel 1947 venne convocato negli studios il 23enne Marlon Brando, già giovane ribelle emergente nelle produzioni teatrali, a cui furono date alcune pagine di una sceneggiatura incompleta per sostenere un provino col regista, al quale bastarono solo cinque minuti per decidere che il ruolo sarebbe andato a lui, facendolo debuttare sul grande schermo; senonché, non essendoci ancora una vera sceneggiatura completa da valutare, il giovanotto che aveva già le idee molto chiare preferì continuare a fare teatro e quell’anno trionfò in “Un tram che si chiama Desiderio” di Tennessee Williams, dramma che avrebbe poi recitato al cinema nel suo secondo film del 1951: aveva debuttato l’anno prima con “Il mio corpo ti appartiene” di Fred Zinneman. Per gli appassionati di Brando quel provino è inserito in un’edizione speciale del DVD del 2006 di “A Streetcar Named Desire”. Quando nel 1950 fu conclusa la sceneggiatura definitiva Marlon Brando era ormai irraggiungibile, oltre a essere fuori parte per ragioni anagrafiche dato che aveva 31 anni e il personaggio ne aveva 16, e produzione e regista appuntarono la loro attenzione sul 24enne James Dean già star con “La valle dell’Eden” di Elia Kazan.

Natalie Wood già attrice bambina

La vera 17enne Natalie Wood (all’anagrafe Natal’ja Nikolaevna Zacharenko, figlia di immigrati ucraini) era all’epoca un’ex attrice bambina che con questo film rilanciò la sua carriera come adulta, benché avesse seriamente rischiato di non ottenere la parte perché secondo il regista aveva l’aria da brava ragazza per niente ribelle e, come ella stessa raccontò nella sua autobiografia, solo quando finì in ospedale per un incidente d’auto dopo una serata con gli amici e Nicholas Ray andò a trovarla – e c’è molto di romanzato a mio avviso in questo racconto: il dottore l’aveva apostrofata “dannata delinquente giovanile” e lei urlò subito al regista: “Hai sentito come mi ha chiamato, Nick?! Mi ha chiamato un dannata delinquente giovanile! Ora me la dai la parte?!”

Il 16enne Sal Mineo, figlio di immigrati siciliani (il padre Salvatore senior era un costruttore di bare) aveva debuttato lo stesso anno in “La rapina del secolo” interpretando Tony Curtis da ragazzo; anche sua sorella Sarina e i fratelli Michael e Victor erano stati avviati al palcoscenico dalla madre che evidentemente covava sogni artistici, e il ragazzino si era fatto notare nelle messa in scena del 1951 di “La rosa tatuata” di Tennessee Williams, dramma che l’autore aveva scritto per la nostra Anna Magnani che però declinò l’offerta perché non riteneva il suoi inglese abbastanza buono da potersi esibire in teatro, e avrebbe recitato il personaggio nel film di quattro anni dopo diretto da Daniel Mann; Sal continuò in teatro come principino nel musical “Il Re ed Io”, libretto di Oscar Hammerstein II e musiche di Richard Rodgers, con Yul Brinner nel ruolo del protagonista che avrebbe ripreso nel film diretto da Walter Lang nel 1956.

Nella prima inquadratura vediamo che Plato, il personaggio di Sal Mineo, portava i calzini scompagnati: nel sinistro senza scarpa ha un calzino rosso…
…nell’inquadratura successiva il piede sinistro col calzino rosso ha la scarpa ed è il destro col calzino blu ad essere scalzo.

Il film, venduto come un torbido dramma generazionale, riscosse grande successo in patria e all’estero, ma in realtà è un gran pasticcio pieno di superficialità e retorica che sfiorano il ridicolo, nonché di madornali errori. Comincia presentando i tre giovani ribelli che si incontrano a un posto di polizia: James Dean, fermato per ubriachezza molesta, rivela un tormentato rapporto con la famiglia ultra borghese, ma poi a casa si attacca un paio di volte alla bottiglia del latte, espediente narrativo per far capire al pubblico che in fondo è un bravo ragazzo; Natalie Wood, fermata perché coinvolta in una rissa dei suoi amici definiti dal doppiaggio italiano “bravacci” con memoria leopardiana, perché i bulli e il bullismo sono di là da venire; anche la ragazza è in piena crisi generazionale: essendo divenuta adolescente non è più la cocca di papà del quale cerca ancora imbarazzanti baci e abbracci, e il pover’uomo fatica a staccarsela di dosso per non sembrare un maniaco; Sal Mineo è stato abbandonato da entrambi i genitori alle cure della mamie negra e poverino fa il ribelle sparando agli animaletti. Psicologia da strapazzo e caratteri sbozzati con l’accetta, e la critica non fu tutta benevola: il film, altrove lodatissimo, fu tacciato di superficialità e rozzezza espressiva, i personaggi e le situazioni quasi da cartone animato, mentre di James Dean si arrivò a dire che aveva copiato lo stile recitativo di Marlon Brando con una malignità che pescava nei retroscena della vita segreta dei due…

Mineo ha un ruolo fortemente ambiguo: il suo personaggio si lega a quello del protagonista, spinto a parole da una forte ammirazione prossima all’idolatria, ma nei fatti sembra spinto da una forte attrazione omoerotica e Nicholas Ray preme il pedale in questo senso e in molte inquadrature, come del resto in tutta la sceneggiatura, il ragazzino è sempre lì a fare da terzo incomodo fra James Dean e Natalie Wood, quasi un ménage à trois.

In un’intervista del 1972, quattro anni prima della sua tragica morte, l’attore – che aveva già dichiarato la sua bisessualità (come compromesso per non dichiararsi pienamente omo) in un’epoca ancora fortemente omofoba – spiega che quel suo personaggio “è stato, in un certo senso, il primo adolescente gay nei film. Lo guardi ora, sai che aveva una cotta per James Dean. Lo guardi ora, e tutti sanno della bisessualità di Jimmy, quindi è come se lui avesse avuto una cotta per Natalie e me. Ergo, io dovevo essere fatto fuori”. Fu tristemente profeta: aveva 37 anni e stava interpretando in teatro il ruolo di un ladro omosessuale in “P.S. Your Cat Is Dead!” spettacolo che da San Francisco si stava spostando a Los Angeles: fu accoltellato al cuore mentre rientrava a casa dalla prova generale; l’immediata supposizione fu quella di un reato omofobo ma venne arrestato un fattorino di pizze a domicilio colpevole di diversi rapine nella zona il quale dichiarò di non sapere chi fosse la vittima; ma Mineo non era stato derubato quindi di suppose ancora che il delitto fosse maturato nell’ambiente della droga di cui l’attore era consumatore abituale; in ogni caso il movente restò insoluto.

Il film fu censurato nel Regno Unito e addirittura bandito in Nuova Zelanda, e Spagna dove poi uscì nel 1964. Ricevette tre nomination agli Oscar del 1956: miglior soggetto a Nicholas Ray e migliori non protagonisti Sal Mineo e Natalie Wood che però si aggiudicò il Golden Globe, mentre quell’anno James Dean ebbe una candidatura postuma – la prima nella storia degli Oscar – nella sezione protagonisti per il precedente dello stesso anno “La valle dell’Eden”. Nomination ai britannici BAFTA per il miglior film e il protagonista. Con tutte le sue imperfezioni il film è stato inserito fra i 100 migliori americani ed è diventato un cult grazie anche alla sua fama di film maledetto per la tragica fine dei suoi tre protagonisti: di Mineo ho detto; e come si sa Dean era morto in un incidente sulla sua Porsche 550 Spyder “Little Bastard” mentre finiva di girare il suo ultimo film “Il gigante” che uscì postumo, e anche quando uscì “Gioventù bruciata” nell’ottobre del ’55, Jimmy era già morto da un mese.

Natalie Wood morì 43enne in un incidente nautico che tutt’oggi rimane misterioso: all’epoca l’autopsia rivelò che l’attrice era morta annegata cadendo dal gommone del suo yacht, e nel suo sangue furono ritrovate importanti tracce di alcol e psicofarmaci; la sera prima aveva litigato col marito Robert Wagner perché lei flirtava col collega Christopher Walken, ospite sull’imbarcazione, col quale lei stava girando il fantascientifico “Brainstorm” diretto da Douglas Trumbull e uscito postumo; diverse circostanze e dettagli fecero pensare che si trattasse di uxoricidio passionale, e le indagini sono state riaperte un paio di volte in anni più recenti però senza mai giungere a ulteriori risultati specifici. Nel 2004 Peter Bogdanovich diresse la miniserie TV “Il mistero di Natalie Wood”.

Appena finite le riprese del film Dean, Mineo e il debuttante Dennis Hopper saranno di nuovo scritturati per “Il gigante”. Hopper, benché in ruoli secondari si fece notare come ribelle e come tale continuò per qualche anno, passando per la factory di Andy Warhol e partecipando a un suo filmetto sperimentale, prima di posare per una delle sue opere photo-pop. Hopper aveva davvero un animo da ribelle, da ribelle secondo la borghesissima morale dell’epoca, e per il breve periodo hippie che percorse gli anni ’60 ne fu esponente, prima di debuttare in regia con “Easy Rider” nel 1969 in cui esprime proprio quella cultura, controcorrente e assolutamente pacifista.

E ora le chiacchiere e i pettegolezzi. Nel 2016 è stato pubblicato il libro, scandalistico sin dallo stile della copertina, “James Dean: Tomorrow Never Come”, scritto da Darwin Porter e Danforth Prince, entrambi abitualmente scrittori di libri e guide per viaggiatori che qui pare abbiano tentato il salto “Hot, Unauthorized, and Unapologetic!” nel mondo delle biografie più o meno bollenti, non autorizzate e men che meno apologetiche. Nel libro parla a ruota libera un vecchio amico di Dean, Stanley Haggart, altro autore di libri di viaggi e vacanze, che ha riferito che Jimmy Dean aveva incontrato per la prima volta il suo idolo Marlon Brando allorché quello era andato a New York perché curioso di sentirlo durante un incontro col pubblico e la stampa. I due si incrociarono per pochi istanti, sufficienti perché Jimmy dichiarasse a Marlon la sua grande ammirazione e anche il suo amore, e gratificato da tanta attenzione Marlon rispose baciandolo sulla bocca: fu l’inizio di una relazione bollente dai risvolti sadomaso col più anziano e macho che si divertiva a manipolare e umiliare il più giovane e fragile, usandolo come oggetto sessuale, e pare anche che gli spegnesse addosso le cicche di sigarette, e più Jimmy gli mostrava di aver perso completamente la testa, più Marlon lo umiliava in un cortocircuito di omofobia all’interno di un rapporto omosessuale. “Avevo l’impressione che Jimmy avesse una relazione da gatto e topo con Brando, Brando era il gatto, ovviamente. Sembrava giocare con Jimmy per divertimento, lo usava sadicamente e Jimmy lo seguiva come un cane, con la lingua fuori” ha rivelato Haggart che ha aggiunto che Brando costringeva Dean a fare da spettatore passivo mentre lui se la spassava con altri, oppure lo lasciava “come un cucciolo di cane” ad aspettare fuori dalla porta che lui si decidesse a farlo entrare. Marlon amava solo sé stesso: “Mi comandava sempre mentre facevamo l’amore” confessava Jimmy agli amici. Nel libro parla anche il compositore Alec Wilder che fu amico di entrambi gli attori: “Erano sicuramente una coppia. Ma si potrebbe dire che la ‘fedeltà sessuale’ non facesse parte del loro vocabolario”. In età matura Brando ha dichiarato: “Come un gran numero di uomini, ho avuto esperienze gay e non me ne vergogno. Non ho mai prestato molta attenzione a ciò che la gente pensa di me”.

Brando mostra il dito medio ai fotografi che lo immortalano accanto a Dean.

La stella di James Dean brillò con tre soli film in un solo anno e la sua morte tragica e improvvisa contribuì a creare il suo mito fra i giovani, e anche fra i meno giovani, che all’epoca non volevano sentir parlare di omosessualità. Jonathan Gilmore, ex attore bambino diventato giornalista scandalistico, fu il primo a parlare pubblicamente dell’omosessualità di Jimmy nel suo libro “The Real James Dean” ma nessuno gli credette e anzi fu etichettato come uno sporco profanatore di tombe. La giovane sfortunata star ebbe un solo amore femminile: l’italiana Anna Maria Pierangeli, adottata a Hollywood come Pier Angeli, la quale aveva avuto un affaire sentimentale col collega Kirk Douglas incontrato sul set dell’episodio “Equilibrio” nel film a episodi “Storia di tre amori”.

I due, disadattati ognuno a suo modo, si incontrarono nell’estate del 1954 mentre lei stava girando “Il calice d’argento” nel set della Warner accanto a quello dove lui girava “La valle dell’Eden”. Elia Kazan, regista di lui, dichiarò in un’autobiografia di averli sentiti fare l’amore nel camerino di lui. Lei, emigrata a Hollywood, non si era ancora del tutto integrata; lui era di suo fragile e disadattato, in cerca di un amore assoluto che sapesse accoglierlo con tutte le sue imperfezioni: “Sono un essere malvagio, altrimenti mia madre non sarebbe morta (era morta di cancro all’utero quando lui aveva 9 anni e il padre lo aveva mandato a vivere presso parenti) e mio padre non m’avrebbe abbandonato” aveva confessato a un sacerdote che poi, tanto per cambiare, si era approfittato sessualmente di lui. Jimmy e Pier si intesero subito, e subito lui avrebbe voluto sposarla. Ma la madre di lei, cattolicissima, si oppose perché lui era di famiglia quacchera, oltre a tutte le altre chiacchiere di corridoio; la rigidissima signora, che metteva bocca su tutto nella vita della figlia, avrebbe voluto invece accasarla col macho Marlon Brando, ignorando le intime digressioni del divo. Come fu, come non fu, alcuni mesi dopo lei sposò il cantant’attore italo-americano Vic Damone, e la rottura improvvisa che seguì all’improvviso matrimonio, contribuirono ad acuire il senso di auto distruzione dell’attore, che finì come finì: fra i documenti personali trovati nel cruscotto dell’auto c’era un foglio con la formula matrimoniale e sopra, scritto a penna, il nome di Anna Maria Pierangeli. Alla morte di lui, lei cadde in una profonda depressione tanto che fu ricoverata in una clinica in Italia e per lei seguì una vita sentimentale fatta di fallimenti, così come la carriera andò via via in discesa. Morì suicida a 39 anni per overdose da psicofarmaci, quindici anni dopo la morte di lui. Subito dopo la sua morte venne ritrovata una sua lettera destinata a James Dean che si concludeva: “A te, mio unico, grande amore”.

Oggi diventa illuminante ciò che Jimmy aveva detto di sé: “Essere un attore è la cosa più solitaria del mondo. Sei completamente da solo con la tua concentrazione e con la tua immaginazione, e quello è tutto ciò che hai… Credo ci sia una sola forma di grandezza per l’uomo. Se un uomo può colmare il vuoto tra la vita e la morte. Voglio dire, se riesce a vivere anche dopo che è morto, allora forse quello era un grand’uomo. Per me l’unico successo, l’unica grandezza, è l’immortalità”. 

La Porsche 550 Spyder sulla quale Dean perse la vita fu prodotta fra il 1953 e il 1957, e fu proprio lui a soprannominarla affettuosamente “Little Bastard” per le sue performance. Inizialmente fu impiegata dalla Porsche nelle corse professionali come Le Mans e poi con alcune modifiche fu proposta agli acquirenti privati, quei ragazzacci come James Dean o Steve McQueen in cerca del brivido delle corse più o meno legali su strada. La Warner Bros. aveva espressamente vietato all’attore sotto contratto, che amava anche scorrazzare in moto, di fare corse: aveva appena finito di girare “Gioventù bruciata” era già impegnato sul set di “Il gigante” – ma Dean disattese il divieto. George Barris, il suo meccanico, si incaricò di recuperare la vettura gravemente danneggiata e mentre veniva caricata su un rimorchio un sostegno si spezzò e finì per fratturare l’anca e una gamba a un meccanico: comincia lì la sinistra ma affascinante fama di auto maledetta intorno alla quale sorsero chiacchiere e leggende, ma alcuni fatti sono reali, riportati dalla stampa con tanto di nomi e cognomi. Barris aveva tenuto in garage telaio e carrozzeria rivendendo alcuni pezzi. Il motore venne acquistato da un altro di quei piloti dilettanti in cerca di fama ed emozioni, e ne ebbe a sufficienza quando durante una gara perse il controllo dell’auto e finì per travolgere e uccidere un commissario tecnico e ferire un medico. Un altro pilota dilettante montò un semiasse della Little Bastard e finì coinvolto in un gravissimo incidente; un altro ancora, che acquistò gli pneumatici rischiò di perdere la vita. Pare che addirittura un ragazzino avesse tentato di rubare un pezzo dell’auto dal garage di Barris ma col telaio si tagliò un braccio in modo così da grave da dover essere amputato, storia non documentata dai giornali quest’ultima, ma le vere storie raccapriccianti continuarono: la “bastardina” fu utilizzata per una campagna itinerante di sensibilizzazione contro la velocità: pagando un biglietto si poteva salire sull’auto accartocciata, dove un cartello con la scritta “questo incidente poteva essere evitato” fungeva da ulteriore scoraggiamento; ma giunta a Sacramento, il telaio dell’auto cedette e fracassò l’anca di un visitatore. Poi, durante la trasferta verso la tappa successiva, il camion che la trasportava venne tamponato, i portelloni si aprirono e la Porsche scivolò fuori uccidendo un uomo a bordo di un’altra auto. Ma non finisce qui: giunta a New Orleans, in seguito alla rottura della pedana di sostegno l’auto si spaccò in undici pezzi: ce n’era abbastanza e terrorizzati gli addetti ai lavori decisero di rispedire i rottami a Los Angeles tramite un mezzo più sicuro: il treno. E la macabra storia si conclude con un mistero: l’auto scomparve nel nulla durante il viaggio e non fu mai più ritrovata. Vennero anche ingaggiati degli investigatori privati e addirittura fu messa una taglia di un milione di dollari che molti cercarono di incassare con delle imitazioni, ma ancora oggi dove sia finita la Little Bastard rimane un mistero. Un mito macabro all’interno di un mito romantico.