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Palazzina Laf – opera prima di Michele Riondino

Con l’opera prima di Michele Riondino ritorna il cinema di impegno civile, quello che negli anni Sessanta e Settanta vide dietro la macchina da presa autori come Francesco Rosi, Florestano Vancini, Giuliano Montaldo, per dire i primi che mi vengono in mente: cinematografia che aveva una sua ragione d’essere scoprendo come racconto la denuncia sociale e le malefatte del potere, cinema che in quegli anni si proponeva come alternativa alla commedia all’italiana; cinematografia che non ha mai smesso di esistere e che si è ravvivata in questi ultimi due decenni dei Duemila.

Il tarantino Riondino, trasferitosi a Roma per frequentare l’Accademia Nazionale di Arte Drammatica, è uno di quei fortunati che ce l’hanno fatta in un ambiente in cui la fortuna conta più del talento: e lui il talento ce l’ha, insieme a un suo discreto fascino che certo non guasta. Accumula candidature ai premi ma afferra solo il Premio Guglielmo Biraghi assegnato dai giornalisti per “Dieci inverni” del 2009 del debuttante Valerio Mieli. Fino a questi David di Donatello 2024 in cui è ovviamente candidato come regista debuttante accanto a Beppe Fiorello per “Stranizza d’amuri”, Micaela Ramazzotti per “Felicità” e Paola Cortellesi che con “C’è ancora domani” porta via il premio, come da previsioni; al suo film vengono però assegnati due premi di peso: quello per il miglior protagonista a lui personalmente e quello per il non protagonista a Elio Germano, oltre alla miglior canzone originale a Diodato (Antonio) anche lui tarantino benché nato ad Aosta, ma si sa che la gente del sud si sposta molto.

Non sorprende il debutto socialmente impegnato di Riondino: a Taranto è nel “Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti” nato nel 2012 per puntare l’attenzione pubblica sui problemi tarantini legati all’occupazione e all’Ilva nello specifico, comitato che organizza in città il concertone del 1° maggio chiamato “Uno maggio Taranto libero e pensante” di cui il nostro è da qualche anno anche direttore artistico insieme a Diodato, guarda un po’, e il trombettista siracusano (di Augusta) Roy Paci. La sceneggiatura che Riondino ha scritto insieme al napoletano Maurizio Braucci che non è l’ultimo arrivato: “Gomorra” e “Reality” di Matteo Garrone, “Pasolini” e “Padre Pio” di Abel Ferrara, “La paranza dei bambini” di Claudio Giovannesi, “Martin Eden” di Pietro Marcello, per ricordare i film più noti alla cui scrittura ha partecipato; “Palazzina Laf” dove il LAF e l’acronimo di “laminatoio a freddo” che è lo stabilimento accanto alla palazzina in questione, si ispira al romanzo di un altro tarantino, Alessandro Leogrande, giornalista e scrittore decisamente impegnato sul fronte sociale, che in “Fumo sulla città” ha raccontato le malefatte nell’Ilva del Gruppo Riva che l’aveva acquisita nel 1995 quando l’impresa parastatale fu privatizzata; disgraziatamente lo scrittore è morto all’improvviso poco prima di poter prendere parte alla scrittura del film, che nei titoli di coda gli è dedicato: aveva 40 anni.

Alessandro Leogrande

L’anno dopo la capitale albanese Tirana gli ha intitolato una via del centro riconoscendogli l’impegno che lo scrittore profuse a quella nazione col suo libro-inchiesta “Il naufragio” nel quale ha raccontato l’affondamento della Kater I Rades in cui perirono 81 persone dei 120 migranti, per lo più famiglie con bambini, che nel 1997 si erano imbarcati per raggiungere le coste pugliesi ma la nave fu speronata accidentalmente da una corvetta della nostra Marina Militare impegnata in una manovra di respingimento.

Il film, che non possiamo dire biografico perché è a tutti gli effetti un racconto di finzione, pone il punto di vista di un operaio (Riondino) cooptato da un dirigente (Germano) che in cambio di fittizie fugaci e ingannevoli regalie introduce come sua spia nella palazzina in cui venivano confinati gli impiegati di concetto che si erano opposti alla “novazione” del contratto, ovvero l’illegale declassamento a operai, pratica oltremodo pericolosa per persone che non avevano la preparazione specifica per stare ai macchinari: fatti reali, personaggi fittizi.

Film solido e decisamente diretto con mano ferma e felice, ma a tratti poco accattivante: senza voler diventare rigoroso documentario si fa veicolo per due belle interpretazioni ma la scrittura, scegliendo questa via, avrebbe dovuto essere più generosa con gli attori inserendo un paio di quelle necessarie (a mio avviso) scene madri, monologhi o scene forti, che gratificano gli interpreti e strizzano l’occhio al pubblico – che essendo il fruitore finale e principale va in qualche modo assecondato: a tal proposito basta fare il confronto con le altre opere prime in gara a cominciare dal furbissimo film della Cortellesi che giustamente trionfa. E difatti quest’opera prima di Riondino, rispettabilissima e molto apprezzata dalla critica, è stata praticamente ignorata dal pubblico: ha incassato 750 mila euro in tutto. E se da un lato mi viene da dire “peccato” dall’altro penso “che serva da lezione”. È sbagliato anche o soprattutto il titolo: “Palazzina Laf” dice il contenuto del film ma non è accattivante quanto “C’è ancora domani” che dice il film ma incuriosisce, o “Stranizza d’amuri” o, paradossalmente, “Felicità” che invita a comprare il biglietto ma non racconta assolutamente il film, tradendo poi le aspettative del pubblico: altra trappola in cui non cadere perché il passaparola è determinante. Gli editori, quelli che fanno i libri, sanno quanto siano importanti il titolo e la copertina, e si impongono sempre sulla visione ristretta degli autori. Tornando al film, il titolo del romanzo “Fumo sulla città” sarebbe stato senz’altro più vincente dato che richiama “Mani sulla città” glorioso film di Francesco Rosi del 1963 sulla speculazione edilizia dell’allora boom economico.

Il camaleontico Elio Germano, sempre un passo avanti, era stato chiamato da Riondino per il ruolo dell’operaio protagonista, ma l’attore romano che qui recita in perfetto tarantino, ha scelto il ruolo dell’antagonista perché ha anche il talento di chi sa scegliere i ruoli e ha fatto centro, lasciando all’autore la patata bollente del protagonista che altrettanto fa un ottimo lavoro aggiudicandosi anche lui il premio, ma schivando di un filino il centro: il personaggio è un operaio abbastanza ignorante e anche un po’ ottuso, tanto da lasciarsi infinocchiare dal padrone, ma a Michele Riondino che lo interpreta alla perfezione rimane però, nel suo personale sguardo umano, una luce di intelligenza che il personaggio non ha: sto cercando il pelo nell’uovo, lo so. E qui di seguito mi lancerò in una sterile provocazione, tanto per fare pettegolezzo.

C’è un altro attore pugliese cui il neo autore avrebbe potuto rivolgersi: Riccardo Scamarcio, che rispetto a Riondino (gli è una decina d’anni più anziano) vive su un altro pianeta e di certo i due non sono amici. Si erano ritrovati insieme sul set dell’inutile remake Mediaset del 2006 del glorioso sceneggiato Rai “La freccia nera” da Robert Luis Stevenson allora diretto da Anton Giulio Majano che nel 1968 aveva lanciato Loretta Goggi e Aldo Reggiani, e nel remake lanciando Scamarcio che ne era protagonista accanto a Martina Stella che fece parlare di sé solo per il seno nudo; mentre Riondino aveva un ruolo secondario. Sono poi stati di nuovo insieme nell’infelice fiction Rai “Il segreto dell’acqua” sempre protagonista Scamarcio, Riondino in un ruolo di supporto.

Riondino e Scamarcio si fronteggiano sul set

Diciamola tutta: i due non si sopportano. Avevano già fatto a botte, per finta sul set, beninteso, quando entrambi recitavano gli studenti nella serie Rai “Compagni di scuola” e su richiesta di Riondino la cosa si è ripetuta, sempre per finta, per carità, sul set di questo “Il segreto dell’acqua”, come lo stesso attore ha raccontato a Vanity Fair, e anche lì c’è da capire quanto ci sia di giornalisticamente vero e quanto di ulteriormente fiction: “Quando ho letto la sceneggiatura per la prima volta, Riccardo mi è stato subito sul c…! Ma come, io ho una storia idilliaca con la Lodovini (Valentina, n.d.r.) e basta che arrivi uno Scamarcio qualsiasi per rompere tutto? Per di più, il mio personaggio non doveva mai reagire, ma io ho protestato” e ha ottenuto quello che voleva: fare a botte con lo Scamarcio qualsiasi.

Diversità, fra i due, fondamentali. Scamarcio è intemperante, da ragazzo ha cambiato diverse scuole fino a ritirarsi definitivamente dagli studi probabilmente senza neanche conseguire legalmente il diploma; va a Roma a frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia e anche lì abbandona perché insofferente alle regole e all’autorità – al contrario del più ordinato Riondino che conclude il corso all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica e comincia a lavorare in teatro. Debuttano entrambi in tivù e il più anziano Scamarcio diventa fortunosamente un sex-symbol col giovanilistico “Tre metri sopra il cielo” diventando richiestissimo da registi e produttori: scegliendo accortamente, anche con l’illuminante guida della sua più anziana compagna (fino al 2018) Valeria Golino conosciuta nel 2004 sul set di “Texas” dell’esordiente Fausto Paravidino, si piazza nelle produzioni più interessanti lavorando anche all’estero e recitando in inglese e francese, e facendosi anche produttore oltre che occasionalmente sceneggiatore: insomma si dà da fare. Non ha (ancora) debuttato in regia.

Riondino, che ahilui non è mai assurto al ruolo di sex-symbol, tornando appena possibile al teatro (cosa che Scamarcio ha frequentato da guest star) come già detto resta culturalmente e politicamente legato alla sua terra, segno di una coscienza sociale che in un mestiere che si fa col coltello fra i denti può essere a volte un freno piuttosto che uno slancio – a meno di non farsi autori con una propria visione di cinema, che è quello che adesso ha fatto. Però non ha mai preso parte a produzioni internazionali né men che meno ha recitato in lingue straniere. È stato protagonista di “Il giovane Montalbano”, una produzione con la quale la Rai ha tentato il ringiovanimento del glorioso personaggio per liberarsi dall’ormai ingombrante Luca Zingaretti, che stanco di ripetere il personaggio non ne voleva più sapere, salvo poi accettare compensi stratosferici per continuare stancamente il suo “Montalbano sono”. Riondino è poi stato Pietro Mennea nella bio-fiction sempre Rai e al momento è protagonista della serie “I Leoni di Sicilia” su Disney+.

Dice il neo autore: “Il film racconta una storia vera che in pochi sapevano. La Palazzina Laf si chiama così per il nome di un reparto dell’acciaieria ex Ilva dove venivano reclusi, o condannati a stare in attesa, 79 operatori che non hanno accettato di firmare una clausola contrattuale che li avrebbe demansionati a operai. Ma quegli operatori erano altamente qualificati: ingegneri, geometri, informatici. Quando sono arrivati i Riva nel 1995 avevano subito detto di non aver bisogno di impiegati ma solo di operaiE, per una sorta di rimodulazione dell’assetto produttivo dell’azienda, avrebbero dovuto licenziare un certo numero di persone. In quei contratti però c’era l’art. 18, che impediva al proprietario di licenziare senza giusta causa. Il reparto lager è un reparto italiano e non solo di Taranto, ecco perché questo film non parla solo dell’ex Ilva. Veniva usato alla Fiat, nelle realtà industriali molto importanti per costringere i lavoratori, che si trovavano in quelle determinate condizioni, a licenziarsi o a commettere quell’errore che avrebbe prodotto la giusta causa.”

Gli altri interpreti del film sono tutti tarantini o pugliesi: Vanessa Scalera, Anna Ferruzzo, Domenico Fortunato, Marta Limosani, Michele Sinisi, con Eva Cela nel ruolo della fidanzata, che essendo per nascita albanese (è arrivata in Italia a due anni) il suo ruolo rende implicito omaggio all’autore del romanzo scomparso prematuramente e onorato in Albania.

Io capitano – l’Oscar che non c’è

Matteo Garrone non ce l’ha fatta agli Oscar 2024, come non ce l’ha fatta ai Golden Globe dove era altrettanto candidato, e a mio avviso non poteva farcela perché la concorrenza al Miglior Film Internazionale (ex Miglior Film Straniero) era di altissima qualità, nulla togliendo all’italiano. L’Italia, che in ogni caso mantiene il più alto numero di candidature in quella sezione, mancava esattamente da dieci anni quando nel 2014 fu presente con “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino che si portò a casa la statuetta insieme al Golden Globe: Sorrentino come nemesi di Garrone? andiamo con ordine.

I due astri nascenti, diversissimi, si ritrovano a confronto in quel di Cannes nel 2008, Garrone con “Gomorra” dal libro inchiesta Roberto Saviano che poi ha moltiplicato pani pesci puntate e pubblico con le 5 stagioni della serie tv Sky, e Sorrentino con “Il Divo” sul mefistofelico Giulio Andreotti; entrambi erano in concorso per la Palma d’Oro che però restò in casa andando a Laurent Cantet per “La classe – Entre le murs” ma i nostri vennero premiati con le pergamene del Grand Prix Speciale della Giuria (quell’anno presieduta da Sean Penn con Sergio Castellitto come italiano fra i giurati) a “Gomorra” e il Premio della Giuria per “Il Divo”, tenendo presente che i due riconoscimenti sono lo stesso premio con due diverse diciture ed è il più importante dopo la Palma d’Oro: insomma due premi apparentemente diversi per non assegnare un ex-aequo. Da lì in poi la stampa ha inventato, o chissà forse solo registrato, una concorrenza diretta fra i due – che non analizzerò per non dilungarmi come al mio solito.

Tornando a oggi, qualsiasi sia la concorrenza vera o presunta fra i due (per certo non sono amici), entrambi sono assai stilosi e di Matteo Garrone si può certo affermare che il tema sociale, insieme al tema del magico e del favoloso, sia parte integrante del suo cinema, con radici coltissime nel favolistico di casa nostra o comunque europeo in generale, e dunque quanto di più lontano dal fumettistico fantastico ed effettistico statunitense: cosa, questa, che lo allontana dal pubblico d’oltreoceano più abituato agli effetti speciali e ai trucchi prostetici che alle atmosfere conturbanti e noir della nostra narrativa fantastica.

Partito ai suoi esordi con stile e contenuti decisamente neo-realistici si fa notare da critica e pubblico con “L’imbalsamatore” (2002) che gli valse il David di Donatello per la sceneggiatura, ma il film collezionò molti altri premi fra attori e produzione: già in questo film usa per il ruolo del protagonista l’attore nano Ernesto Mahieux come elemento di collegamento alla sua visione fantastica della narrativa cinematografica.

Anche il successivo assai disturbante “Primo amore” (2004) liberamente ispirato al romanzo “Il cacciatore di anoressiche” di Marco Mariolini è una favola nera dove l’orco è uno psicopatico ossessionato dalle donne magrissime che spinge la protagonista alla fame in una relazione di amore malato. Segue il “Gomorra” del successo internazionale e dopo realizza “Reality” (2012) dove il protagonista si fa accecare dalle favole moderne e ingannatrici dei reality show, un film con cui torna all’indagine sociale e in cui scatena visivamente la sua vena surreale e grottesca.

Arriva il raffinatissimo, e per questo anche poco digeribile e poco digerito dal grande pubblico, “Il racconto dei racconti” (2015) che schierando un cast internazionale in una coproduzione con Francia e Regno Unito (per cui Garrone anche produttore ha messo un’ipoteca sulla sua casa) è stato distribuito anche col titolo “Tale of Tales”, dalla raccolta di fiabe seicentesche “Lo cunto de li cunti” di Giambattista Basile; il film si concentra su tre racconti la cui narrazione si incrocia e incastra, e nell’insieme è un materiale enorme che potrebbe essere raccontato meglio in una coraggiosa produzione televisiva se solo Garrone si lasciasse tentare dalla serialità, cosa che ha fatto Sorrentino in Sky con “The Young Pope” e “The New Pope”, così tanto per dire. Il film di due ore e un quarto lascia un retrogusto amaro in bocca: quello del non perfettamente riuscito – ma la visione fantastica di Matteo Garrone è al suo fulgore massimo.

Ancora con i debiti da pagare accantona il suo successivo grandioso film su Pinocchio e rispolvera un vecchio progetto più a basso costo (4 milioni di euro contro i 15 del precedente) col quale torna alle sue origini di noir metropolitano di indagine sociale: “Dogman” (2018) su un fatto di cronaca nera romana che ebbe come protagonista un uomo detto “er canaro”, altra figura da favola horror, ed è di nuovo amore col Festival di Cannes che premia il protagonista Marcello Fonte, e trionfa ai Nastri d’Argento e ai David di Donatello, fra gli altri premi. E qui vale la pena spendere una curiosità: all’epoca della prima stesura di una decina d’anni prima, Garrone aveva proposto il ruolo a Roberto Benigni che poi sarà Geppetto nel successivo “Pinocchio”, grande favola che stavolta piacerà anche agli americani, molti dei quali ancora credono che il burattino sia un’invenzione di Walt Disney, e difatti riceve due candidature tecniche per costumi e trucco agli Oscar.

È evidente che Garrone, concorrenza o no, punta all’Oscar; del resto ha già trionfato in casa e in Europa e impugnare quella statuetta lo farebbe assurgere all’empireo ultimo, e qui film torna alle origini della sua ispirazione narrativa. Aveva debuttato nel 1996 con “Terra di mezzo” dove ha raccontato in tre e episodi la realtà di differenti immigrati in Italia, opera prima che al Torino Film Festival gli sono valsi il Premi Speciali della Giuria e il Premio Cipputi per il miglior film sul mondo del lavoro, premio ispirato al personaggio del metalmeccanico comunista creato da Altan; e col successivo “Ospiti” si concentra sulla figura di due ragazzi albanesi immigrati a Roma; dunque il tema dell’immigrazione lo appassiona e con quello che continua a succedere nel Mediterraneo era solo questione di tempo prima che anche Garrone ne traesse ispirazione, avendo già due titoli in una filmografia che è già un genere nella cinematografia italiana ricchissima di titoli a partire dalla fine degli anni ’80 con “Il tempo dei gitani” (1988) di Emir Kusturica cui segue a tambur battente “Pummarò” (1990) di Michele Placido, per dire solo i titoli più importanti, cui seguono “Lamerica” (1994) di Gianni Amelio, “Vesna va veloce” (1996) di Carlo Mazzacurati, “La ballata dei lavavetri” di Peter Del Monte e “L’assedio” di Bernardo Bertolucci, entrambi del 1998 e fra i titoli che si fanno assai più numerosi nel nuovo millennio ricordiamo “Quando sei nato non puoi più nasconderti” di Marco Tullio Giordana, “Bianco e nero” di Cristina Comencini, “Terraferma” di Emanuele Crialese, “Alì ha gli occhi azzurri” di Claudio Giovannesi ispirato agli scritti di Pier Paolo Pasolini, “Razzabastarda” opera prima di Alessandro Gassmann, “Fuocoammmare” di Gianfranco Rosi e il recentissimo “Nour” del 2020 di Maurizio Zaccaro.

I film fin qui realizzati si fermano a raccontare l’incontro-scontro degli immigrati con la realtà italiana e solo in pochi casi raccontano la tragicità del mare attraversato e dei viaggi, mentre Garrone – col suo team di co-sceneggiatori composto da Massimo Gaudioso, Andrea Tagliaferri e dall’attore Massimo Ceccherini che avendo nel curriculum uno suo spettacolo teatrale su Pinocchio già aveva affiancato come sceneggiatore Garrone nel di lui “Pinocchio” dove anche interpretò la Volpe – va oltre, sbarca in Africa, si addentra oltre il deserto per giungere in Senegal, nei villaggi e nelle case dove una certa politica vorrebbe rispedire i migranti.

Il soggetto di Garrone si ispira direttamente alle storie vere raccontate da Fofana Amara, Mamadou Kouassi Pli Adama, Arnaud Zohin, Brhane Tareka e Siaka Doumbia, tutti ragazzi che hanno realmente compiuto il viaggio dei due protagonisti del film, accreditati nei titoli come collaboratori alla sceneggiatura insieme a Chiara Leonardi e Nicola Di Robilant.

Il casting venne fatto in loco sotto la direzione del camerunense Henri-Didier Njikam che è incorso in un incidente diplomatico allorché gli fu negato dall’Ambasciata d’Italia a Rabat, Marocco, il visto d’ingresso in Italia per presenziare al Festival di Venezia; tempestivamente intervistato da “The Hollywood Reporter Roma”, Njikam ha accusato i responsabili di razzismo: “L’ambasciata ha giustificato il rifiuto sostenendo che non c’erano garanzie che avrei abbandonato il territorio italiano una volta entrato a Venezia. In pratica mi hanno trattato come un migrante, come se volessi approfittare della situazione per scappare. Ma io ho un lavoro, una tessera professionale del Centro Marocchino del Cinema. E, sinceramente, se avessi voluto lavorare in Europa, lo avrei già fatto: l’ente non ha guardato il mio curriculum né i miei documenti, ma solo il colore della mia pelle. Questo problema esiste solo con l’ambasciata italiana in Marocco, perché i miei colleghi dal Ghana e dalla Costa d’Avorio sono riusciti a partire. Se fossi stato bianco, non credo che sarei stato trattato così.”

Seydou Sarr insieme a Moustapha Fall sono i due ragazzi che abbagliati da sogni di notorietà e ricchezza lasciano la certezza di una tranquilla miseria quotidiana per l’incertissimo viaggio dispensatore di sofferenze e morte che tutti sconsigliavano; e Seydou, vero protagonista del film, è stato insignito a Venezia del Premio Marcello Mastroianni come attore emergente, ma l’intero cast è di altissimo livello e tutte le interpretazioni concorrono all’intensità narrativa del film costruito da Garrone senza sbavature e senza retorica, sempre focalizzato sulla tragedia umana di ragazzi che sognano un mondo migliore ma che trovano squali anche nelle sabbie del deserto.

Gli unici fugaci momenti in cui si indebolisce il racconto, a mio avviso, sono le due sequenza oniriche del protagonista che sogna, prima di salvare una donna nel deserto e poi volare indietro fino a casa ad osservare sua madre che dorme: due brevi momenti di abbagliante bellezza cinematografica che proseguono nella linea stilistica dell’autore ma che in questo caso deviano dall’intensità tragica del racconto, intensità universalmente riconosciuta da critica e pubblico.

Le curiosità: 1. resterà negli annali l’imbarazzante ultim’ora del Televideo Rai in cui il film veniva raccontato come la vicenda del capitano Schettino che abbandonò il comando della Costa Concordia incagliatasi sugli scogli dell’Isola del Giglio in Toscana nel 2012. Non si sa com’è andato l’incidente telematico, c’è chi parla di uno scherzo certo per minimizzare, c’è chi parla di un complotto certo per massimizzare, ma l’ipotesi più credibile è quella dell’intelligenza artificiale che ha creato la notizia pescando nel suo database, notizia farlocca che però è stata pubblicata da qualche intelligenza naturale… naturalmente a riposo.

2. le ultimissime di cronaca riferiscono di Claudio Ceccherini che ospite del programma Rai “Da noi a ruota libera” certo ispirato dal titolo ha parlato a ruota libera: “Sono molto fiero di aver lavorato con Garrone che ha fatto un film favoloso. Sappiate che il film della cinquina è più bello solo che non vincerà perché vinceranno gli ebrei. Quelli vincono sempre.” Va da sé che l’attore sceneggiatore non ha tutti i torti, solo che poteva esprimersi in modo diverso: i membri dell’Academy sono da sempre molto sensibili ai temi della Shoah tant’è che nel 1999 premiò “La vita è bella” di Roberto Benigni, miglior film straniero, miglior protagonista e miglior musica a Nicola Piovani. Non si parla di corde in casa dell’impiccato, si tratta di buon senso ed educazione, e tanto più vanno ponderate le parole in questo periodo di feroce conflitto in Medio Oriente.

3. mia personale curiosità: leggo nella scheda tecnica del film i nomi dei doppiatori ma “Io capitano” è stato distribuito in originale, il wolof parlato in Senegal, il francese e l’inglese, e non c’è traccia di doppiaggio. Si tratta forse di un’altra versione che sarà distribuita nelle versioni Home e On demand?

Accantonata la delusione per non avere afferrato la statuetta dorata Matteo Garrone guarda già al futuro per il suo bellissimo film che proseguirà il viaggio tornando nei luoghi da cui è partito, con proiezioni nei villaggi del Senegal anche su tendoni improvvisati, per raccontare a chi resta che a volte è più coraggioso restare. Meglio che morire nel deserto o nel mare, meglio ancora che essere umiliati da società e apparati politici ciechi alle urgenze umane nel coltivare i loro minimi miserevoli giardinetti recintati e vietati agli estranei.

Comandante

Edoardo De Angelis è un regista napoletano, anzi un autore, da tenere d’occhio; e la napoletanità non è solo una nota biografica ma lo specifico della sua cinematografia. In una decina d’anni ha realizzato cinque film in una parabola crescente sia dal punto di vista dell’impatto su critica e pubblico che su quello prettamente stilistico. Si è diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia nel 2006 con il cortometraggio “Mistero e passione di Gino Pacino” dove racconta in napoletano stretto la storia surreale di un uomo che sogna di fare l’amore con Santa Lucia e che per il senso di colpa perde la vista: parabola tragica e grottesca; cortometraggio che va a finire in Serbia al “Küstendorf Film and Music Festival” dove, vincendo il premio della critica, incontra Emir Kusturica che lo supporterà nella realizzazione del primo lungometraggio, co-producendone nel 2011 l’opera prima “Mozzarella Stories”, Luca Zingaretti fra gli altri, una storia altrettanto grottesca e visionaria che continua a muoversi nell’ambiente partenopeo raccontando però una storia originalissima, che all’epoca pochi hanno visto ma che non passa inosservata alla critica; Francesco Alberoni scrisse sul “Corriere della Sera”: “Gli artisti spesso intuiscono il senso dei tempi. Lo ha fatto Edoardo De Angelis nel suo bellissimo e divertente film”. Un film che oggi varrebbe la pena recuperare.

Il talentuoso autore non perde tempo e con l’amico Pierpaolo Verga fonda la casa di produzioni “O’Groove” con la quale realizza nel 2014 il noir napoletano “Perez.”, Zingaretti protagonista, film col quale arrivano i primi riconoscimenti importanti: ai Nastri d’Argento viene candidato per il miglior soggetto e si aggiudica due premi, a Zingaretti va il Premio Hamilton Behind the Camera e a Simona Tabasco nel ruolo di sua figlia il Premio Guglielmo Biraghi; oltre al Globo d’Oro sempre al protagonista.

Nel 2016 dirige un episodio dei tre del collettivo “Vieni a vivere a Napoli” e l’intenso, tragico e doloroso, “Indivisibili”, che nella storia di due gemelle siamesi ritrova uno sprazzo di grottesco, ma ancora più amaro e feroce: le due gemelle si esibiscono come cantanti “fenomeno” nelle feste di paese, sfruttate dalla famiglia in un ambiente di squallida periferia partenopea, e arriva una caterva di altri riconoscimenti fra candidature, su cui sorvolo, e premi ricevuti: 6 David di Donatello, 6 Nastri d’Argento, 6 Ciak d’Oro, un Globo d’Oro, 4 premi minori al Festival di Venezia e altri 3 al Bari International Film Festival. Il 2018 è l’anno di un altro film di storie dolorose e di solitudini ancora ai margini del capoluogo campano, “Il vizio della speranza” e sono altri riconoscimenti fra cui finalmente quello al miglior regista, ma lontano, al Tokyo International Film Festival, che non è poco. Nel 2020 si dedica al teatro con una “Tosca” per il teatro San Carlo di Napoli, e la televisione realizzando per la Rai il primo di una trilogia delle commedie “in famiglia” di Eduardo De Filippo: “Natale in casa Cupiello” cui seguiranno “Non ti pago” e “Sabato, Domenica e Lunedì”. Il biennio 2021-22 lo dedica alla serie Netflix “La vita bugiarda degli adulti” dal romanzo di Elena Ferrante.

E si arriva a questo “Comandante” con un triplo salto mortale: è il primo film che De Angelis gira lontano da Napoli, è il primo film italiano moderno ambientato in un sottomarino (c’è un precedente del 1955 che diremo) ed è il suo primo con un budget da film internazionale: 14 milioni e mezzo di euro con il pieno sostegno della Marina Militare che ha aperto alla produzione i suoi archivi con i diari di bordo di Salvatore Todaro, il personaggio protagonista interpretato da Pierfrancesco Favino sempre più a suo agio nel riprodurre le cadenze e i dialetti dei personaggi biografici che sempre più spesso interpreta. Alla sua uscita nell’autunno 2023 il film ha incassato poco più di 3 milioni restando assai lontano dal suo costo ma c’è ancora da rifarsi con i diritti tv – al momento è su Paramount+ – con lo streaming, i DVD, il mercato estero su cui non è ancora uscito e il probabile ritorno di fiamma nel pubblico di casa nostra dopo gli eventuali auspicabili premi nostrani.

il vero Salvatore Todaro

Pur iscrivendosi di diritto nel genere bellico, e nel sottogenere sottomarini, il film è crepuscolare, intellettuale, poetico. De Angelis continua la sua ricerca sui personaggi a disagio nel loro contesto, e con lo scrittore Sandro Veronesi che debutta come sceneggiatore, scrive un film con dialoghi e monologhi che hanno una cadenza da tragedia classica dove al protagonista si contrappone un coro, con momenti surreali, come quando tutti, comandante in testa, marciano cantando e ritmando “Parlami d’amore Mariù” come dedica d’amore alle donne che avevano lasciato a casa, e dedicata dal compositore Nino Bixio alla propria moglie, su testo di Ennio Neri per il film “Gli uomini, che mascalzoni…” diretto da Mario Camerini nel 1932 e per la voce del 30enne Vittorio De Sica; la canzone ebbe così tanto successo da divenire per tutti gli italiani un inno all’amore che successivamente fu cantata dai più grandi, anche della lirica.

Coraggiosi momenti surreali, nel film, e grotteschi persino, che si integrano perfettamente nella narrazione riuscendo a coinvolgere ed emozionare, perché il linguaggio alto e ricercato, poetico, da tragedia classica appunto, si sporca dei tanti dialetti che il sommergibile contiene nella sua varia umanità, così sintetizzato dal personaggio del comandante: “Questa è l’Italia unita. Arriva qui un livornese, un siciliano… sono più che stranieri, sono abitanti di due pianeti diversi, e lontani per lingua, cultura, temperamento… eppure proprio il crogiolo di tutti i dialetti, i piccoli manufatti e le grandi opere dell’ingegno, e le ottuse credenze pagane, la rivoluzione egualitaria del cristianesimo e le vecchie reliquie – si sono fusi… è il nostro tesoro. Proprio questo bordello, meraviglioso, e putrido, è l’Italia”: è un’altissima scrittura cinematografica che riesce a mettere insieme ispirazione letteraria e lingua parlata, con monologhi che potrebbero anche diventare repertorio da provino per attori e attrici – perché in un film necessariamente tutto al maschile non mancano le figure femminili: le brevi scene come cartoline ricordo della moglie del comandante, interpretata da Silvia D’Amico, e il monologo della donna che sul pontile guarda partire i marinai, monologo che è valso alla sua interprete Cecilia Bertozzi il Premio David Rivelazioni – Italian Rising Stars, un monologo recitato con voce fuori campo, come un pensiero, e che comincia: “Questo vento, io lo so dove li soffia tutti questi ragazzi, li soffia a morire…” giusto per dare qui il sapore del lirismo della scrittura di De Angelis e Veronesi, che dopo aver concluso il film hanno novellizzato la sceneggiatura per Bompiani.

Immagino che per questa sua scrittura che guarda dentro i cuori e le menti piuttosto che mostrare muscoli, il film potrà piacere più in Europa, e in Giappone dove l’autore è già stato premiato, che in quegli Stati Uniti che tanti film hanno dedicato ai sottomarini. Detto questo il film non manca di pathos e di tensione narrativa in un equilibrio assolutamente magistrale che esplora il limite fra la cieca obbedienza militaresca e la lungimirante pietas umana, con i tanti momenti riflessivi che si alternano a quelli d’azione e tensione: un gran film che secondo me non è stato compreso a fondo. Era in concorso al Festival di Venezia, anche come film d’apertura sostituendo il già programmato “Challengers” – il film americano di Luca Guadagnino la cui uscita è stata posticipata dalla Metro-Goldwyn-Mayer a causa dello sciopero degli attori – ma lì non ha ricevuto nessun premio, neanche minore; ricordiamo che il Leone d’Oro è andato a “Povere Creature” di Yorgos Lanthimos, mentre due Leoni d’Argento sono andati al giapponese Ryūsuke Hamaguchi per “Il male non esiste” e al nostro Matteo Garrone per “Io capitano” che si è aggiudicato anche il Premio Marcello Mastroianni per il debuttante senegalese Seydou Sarr, film che è anche candidato negli Stati Uniti come miglior straniero al Golden Globe e all’Oscar. Film che non ho ancora avuto l’opportunità di vedere. In ogni caso, da quello che leggo, troppa roba con cui confrontarsi, ma io resto un fan di questo film al quale auspico di rivalersi nei prossimi premi nazionali.

Il regista col protagonista

Riguardo ad alcune critiche sul web ne trovo un paio a firma femminile che ideologicamente, e per partito preso, accusano il film d’essere “testosteronico” e ironizzano sulle poche figure femminile come “prefiche”, senza minimamente aver compreso il film sul piano artistico e cinematografico: l’ideologia acceca ed è sciocco volere immaginare, e fin anche pretendere, figure femminili più importanti in una storia che non ne contiene: è come quel politically correct che pretende di rivedere storie e personaggi che appartengono a un’epoca in cui il politically correct non esisteva.

il Cappellini originale

Gran lavoro per lo scenografo Carmine Guarino, concittadino e collaboratore di De Angelis fin dal di lui debutto. Ha ricreato una copia a grandezza naturale del sommergibile Comandante Cappellini il cui nome completo era “Comandante Cappellini – Aquila III – U. IT. 24 – I. 503”. Tranne qualche rara immagine dello scafo non esistono fotografie dell’interno, che è stato costruito nel parco divertimenti Cinecittà World utilizzando come materiale di partenza la replica di un U-Boot costruita per il film statunitense del 2000 “U-571” diretto da Jonathan Mostow, mentre lo scafo esterno è stato costruito col supporto della Marina Militare e di Fincantieri nel bacino navale dell’Arsenale Militare di Taranto, nel cui mare ha poi navigato come una scatola vuota per le riprese esterne. Le riprese subacquee si sono svolte nel Mare del Nord al largo del Belgio da cui provengono alcuni dei personaggi e degli interpreti del film. Mentre gli effetti visivi, che hanno preso il 10% del budget, sono stati curati dall’americano Kevin Tod Haug, fedele collaboratore di David Fincher: un titolo su tutti “Fight Club”, 1999. La curiosità è che il Cappellini è comparso, sempre in copia più o meno conforme, nel 1954 nel film “La grande speranza” di Duilio Coletti; nel film tv anglo-tedesco “L’affondamento del Laconia”, un transatlantico inglese convertito al trasporto di truppe e prigionieri che fu affondato dai tedeschi nel 1942, con il Cappellini che fra altri soccorse i naufraghi; c’è poi un altro film tv del 2022 giapponese “Sensuikan Cappellini-go no boken” che però parte da un aneddoto per raccontare una storia di fantasia. E anche il film di De Angelis, come tanti altri film storici, è incorso in qualche errore o anacronismo: viene usato l’Inno dei Sommergibilisti che però fu creato un anno dopo la vicenda narrata.

Per comporre il cast l’autore partenopeo affida ai suoi fedeli i ruoli principali: il napoletano Massimiliano Rossi, fin qui sentito recitare solo in napoletano più o meno stretto, e col regista fin da “Mozzarella Stories”, è il comandante in seconda e intimo amico del protagonista col quale comunica – primizia assoluta – in dialetto veneto; e ricordiamo che il comandante Todaro era per nascita messinese ma trasferito a Chioggia con la famiglia allo scoppio della Prima Guerra Mondiale; Gianluca Di Gennaro, nipote del cantante Nunzio Gallo, che ha cominciato a recitare da bambino vent’anni fa, qui alla sua prima collaborazione con De Angelis nel ruolo del marinaio Vincenzo Stumpo che dà la vita per salvare l’intero equipaggio, con un altro bellissimo monologo interiore mentre sott’acqua disincaglia il sommergibile da una mina inesplosa: “Andate voi, andate… tanto io sono morto… e che me ne fotte a me?” si conclude il suo monologo. A un altro giovane napoletano, Giuseppe Brunetti, va il ruolo del cuoco di bordo Gigino il Magnifico, già con De Angelis nel televisivo Rai “Natale in casa Cupiello” e anche nella serie Netflix “La vita bugiarda degli adulti”, della cui scrittrice Elena Ferrante è stato anche nel cast della terza stagione della serie Rai “L’amica geniale” creata da Saverio Costanzo. I naufraghi belgi che il Comandante accoglie nel sommergibile sono interpretati da Johannes Wirix, che avendo studiato recitazione presso l’Accademia Silvio D’amico a Roma nell’ambito del Progetto Erasmus, recita anche in italiano e nel film fa da traduttore; Johan Heldenbergh interpreta il suo capitano e Lucas Tavernier è il marinaio belga infame, per usare un termine partenopeo.

Completano il cast Arturo Muselli, noto al pubblico televisivo per il suo ruolo nella serie Sky “Gomorra”; l’ex bambino Giorgio Cantarini che a 5 anni ha esordito come figlio di Roberto Benigni nel film premio Oscar “La vita è bella” aggiudicandosi come primo italiano, e come più giovane, il premio Young Artist Award scherzosamente detto Kiddie Oscar, e che tre anni dopo fu anche in un altro film da Oscar come figlio di Russell Crowe in “Il Gladiatore” di Ridley Scott, e oggi ventenne sta cercando una nuova collocazione artistica; per la rappresentanza siciliana c’è Giuseppe Lo Piccolo che abbiamo visto nell’opera prima di Giuseppe Fiorello “Stranizza d’amuri”. In un cameo l’87enne Paolo Bonacelli.

“Comandante”, titolo assoluto impegnativo ed esplicativo, è anche titolo di altri due film: il documentario del 2003 di Oliver Stone su Fidel Castro, e con l’articolo il fu un film con Totò del 1963. Questo di Edoardo De Angelis, oltre che a mio avviso bello, è anche importante in quanto film bellico biografico, e anche necessario, per conservare la memoria della storia e dei fatti, complessi e schizofrenici, che ci hanno condotto fin qui, a oggi. Dove noi siamo culturalmente più schizofrenici che complessi.

Felicità – opera prima di Micaela Ramazzotti

Il 2023 è stato un anno felice per i debutti alla regia di attrici e attori, a cominciare dall’acclamatissima opera prima di Paola Cortellesi “C’è ancora domani” che ha sbancato il botteghino; e vale la pena annotare il documentario biografico della polacca italianizzata Kasia Smutniak che in “Mur” racconta la zona geografica caldissima, di grande attualità, tra la sua Polonia e la Biolorussia; e sul versante maschile debuttano gli attori Alessandro Roja con il suo “Con la grazia di Dio”, Michele Riondino con “Palazzina LAF” e il figlio d’arte Brando De Sica con “Mimì – il principe delle tenebre” oltre ad altri interessanti registi puri (non attori) i cui nomi non ci dicono nulla nell’immediato. Ma non tutti hanno goduto o ancora godono dell’attenzione del pubblico, come nel caso di questo debutto che al Festival di Venezia, presentato nella Sezione Orizzonti, ha ricevuto il Premio Spettatori, e una benevola attenzione della critica che però non ha mancato di segnalare alcune debolezze del film.

A mio avviso la debolezza principale sta proprio nell’attrice che dichiaratamente ha realizzato un film sulla scia del suo personale percorso artistico, senza tentare vie meno comode, come quello della Smutniak, o come quell’altro meno riuscito di Jasmine Trinca che con “Marcel!” ha tentato una favola drammatica senza riuscire a maneggiare appieno il materiale, però; o l’originale thriller psicologico “Tapirulàn” molto ben diretto e interpretato da Claudia Gerini.

Il film di Micaela Ramazzotti, che ha incassato meno di 600 mila euro, è già in chiaro su Sky Cinema per accompagnare l’uscita della serie “Un amore” che interpreta insieme a Stefano Accorsi che l’ha ideata e prodotta, e per l’occasione è intervistata da Omar Schillaci nel suo programma “Stories” nel quale si racconta con una voce da donna adulta che mi stupisce perché mi ero convinto che il suo tono sempre cantilenante di bambina un po’ imbronciata, che è il marchio tipico delle sue interpretazioni, fosse il suo naturale modulo espressivo.

Molto generosamente cita il successo della Cortellesi, rivendicando il ruolo delle attrici nel nostro cinema, e nell’insieme si racconta rivelando che per costruirsi la carriera ha seguito un modello: all’inizio ha capito che andava la svampita e come tale si presentava ai provini e sui set, procedendo passo passo nella carriera di attrice dopo il suo debutto a tredici anni come interprete dei fotoromanzi “Cioè” e il suo primo ruolo significativo lo ebbe a 21 anni come “Zora la vampira” che fu il debutto dei fratelli registi accreditati come Manetti Bros. Il grande successo, e la svolta anche nella vita privata, arriva con “Tutta la vita davanti” di Paolo Virzì, col quale scoccò una scintilla sul set tanto da convolare a nozze; nel film, che le valse la nomination ai David di Donatello come non protagonista, era una giovane madre scombinata, un ruolo che immergeva in un contesto drammatico la svampita che l’aveva condotta fin lì; è un personaggio molto riuscito e Micaela, che fedele alla sua ricerca della via che porta al successo prende a cavalcare anche quel tipo di donna che lei definisce “storta”, un tipo nel quale il pubblico e la critica la apprezzano: è intensa, indifesa e forte al contempo, e dimostra anche sicure doti di commediante, tanto che – volendo fare uno di quegli inutili accostamenti che però aiutano la lettura – un po’ ricorda Monica Vitti.

Avevo notato che funzionavano i personaggi svampiti, leggeri, – racconta a Omar Schillaci – quindi i registi un po’ li ho presi In giro fingendo di essere veramente svampita, leggera, frivola. Poi a un certo punto me lo sentivo stretto, sentivo che forse ero anche io un po’ fraintesa come persona. E allora ho iniziato ad amarle veramente queste donne e a studiarmele seriamente, a scegliere quei personaggi e scegliere appunto le loro storture. Perché ho sempre amato chi sbaglia, l’imperfezione, chi cade e si rialza. Mi è sempre piaciuto portare al cinema quelle donne lì”. Ma è anche vittima di queste sue donne “storte” che le riescono così bene e su questa traccia comincia a pensare al suo film da debutto autorale; lo scrive insieme all’amica attrice livornese Isabella Cecchi, un’eredità affettiva che le è rimasta dal marito livornese ormai ex, e la non identificata Alessandra Guidi. In realtà nessuna delle tre sembra avere un percorso formativo di scrittura cinematografica e proprio la sceneggiatura è la parte più debole del film, insieme all’inevitabile sensazione di dejà vu: quante famiglie problematiche abbiamo visto al cinema?

Perché l’argomento potesse passare indenne da queste forche caudine avrebbe avuto bisogno di qualcosa di nuovo, un punto di vista personale, più forte; invece il film percorre la via della commedia drammatica, in cui l’ex marito è maestro, che sembra essere la nuova commedia italiana del nuovo millennio. La scrittura soffre anche di tante ingenuità, a cominciare dalla vecchissima gag delle parole tecniche o straniere storpiate, una gag che si rifà all’avanspettacolo, a un’epoca in cui l’ignoranza era diffusa e ci si rideva sopra: ma oggi che una certa ignoranza è drammaticamente di ritorno, ancora più grossolana e anche cattiva, essa non fa più neanche sorridere e arriva cinematograficamente patetica; per non dire delle caratterizzazioni dei personaggi e di certe situazioni che sono rimaste nel grezzo stadio embrionale.

C’è poi il suo personaggio di sempiterna svampita in salsa drammatica, personaggio che qui sdoppia nella figura del fratello disadattato, e stavolta davvero la misura è colma: perché se lei maneggia con sicurezza il suo modulo recitativo, a Matteo Olivetti, che abbiamo visto debuttare nel film di debutto dei Fratelli D’Innocenzo “La terra dell’abbastanza”, non riesce altrettanto: l’attore non sembra maturo per personaggi di un tale spessore, e la cosa grave è che continua a biascicare incomprensibilmente come in quel debutto, dove però il biascichio era lì funzionale.

Dal punto di vista tecnico, puramente registico, il film è invece molto ben confezionato: basta notare la sequenza d’apertura che si svolge su un set cinematografico dove la nostra lavora come parrucchiera, con un dolly ripreso da un altro dolly in un gioco di specchi dove il cinema racconta il cinema. Per il resto, come dicevo, l’autrice fa partire la sua storia di famiglia “storta” da quei set cinematografici che da attrice ben conosce, non riuscendo a immaginarsi come autrice in un contesto diverso: insomma va sul sicuro, si butta col salvagente, e coinvolgendo gli amici: il regista Giovanni Veronesi, col quale però non ha girato alcun film, fa sé stesso; e si affida ad ottimi professionisti: fotografia di Luca Bigazzi, montaggio di Jacopo Quadri e musiche dell’ex cognato Carlo Virzì al quale deve in qualche modo la sua fortuna di attrice: era stato lui a notarla e a presentarla al fratello Paolo.

Anche il titolo, “Felicità”, appare alquanto improbabile in questa storia di dissoluzioni familiari, tanto che i giornalisti gliene hanno chiesto conto, e Ramazzotti ha spiegato: “L’ho scelto perché è una parola che sta sulla bocca di tutti noi, quasi sempre durante la giornata, sia ai bambini che ai grandi, è una parola che mi piaceva, è facile, si ricorda. La felicità per quanto riguarda il mio film viene dal meraviglioso termine greco eudaimonìa che è il percorso che una persona fa per arrivare a quella famosa felicità, salire su quel benedetto treno. Perché la felicità insomma, oggi come oggi, è difficile trovarla, bisogna quasi inventarsela. Invece l’eudaimonìa è una conquista, un percorso che uno fa, uno stile di vita, è un andargli incontro.” In realtà i giornalisti hanno chiesto, e l’autrice ha dovuto spiegare, perché nel finale sorella e fratello si avviano verso una loro personale presa di coscienza, consapevolezza – ma la felicità è un po’ troppo oltre – e cinematograficamente il finale è debole, resta lì, sospeso, non finale aperto ma solo non conclusivo. Felicità resta solo una bella parola accattivante che strizza l’occhio al pubblico, per poi deluderlo.

Di gran livello il resto dei coprotagonisti. L’ex comico televisivo Max Tortora, giunto in età più che matura si sta reinventando come caratterista di lusso nel cinema romano e romanesco; fu proprio nel film di debutto dei D’Innocenzo che per la prima volta si confrontò con un personaggio drammatico a tutto tondo; è qui il padre di famiglia della tossica famiglia, con un personaggio evidentemente scritto su di lui: si ostina a fare il comico e l’intrattenitore che in età avanzata sogna ancora una brillante carriera ma intanto sbarca il lunario esibendosi nei centri per anziani. Anche il ruolo della madre è scritto su misura per Anna Galiena, attrice con studi e frequentazioni internazionali, che ebbe il suo exploit a 41 anni nel 1990 nel sensuale ruolo del titolo in “Il marito della parrucchiera” accanto a Jean Rochefort e diretta da Patrice Leconte; fama che nell’immediato le portò qualche altro bel ruolo ma con l’avanzare degli anni la sua carriera si è stabilizzata nei ruoli di supporto ancorché importanti.

Qui Ramazzotti le offre un’autocitazione quando il personaggio ricorda il suo passato di parrucchiera che tutti desideravano. Detto questo, l’ottuso razzismo e la grettezza dei personaggi, benché resi benissimo dagli interpreti, sono nella scrittura grossolani, a dir poco.

Assai funzionale e ben tratteggiato il marito della protagonista, un intellettuale interpretato con contenuto istrionismo da Sergio Rubini, un personaggio in cui probabilmente confluiscono anche alcune dinamiche private dell’attrice, ma un personaggio che corre anch’esso verso un finale che vuole essere una svolta drammatica a sorpresa e che invece risulta arraffazzonato. In un piccolo ruolo, quello dell’attore con le mani lunghe, Marco Cocci, rockettaro toscano cooptato al cinema da Paolo Virzì, qui a riprova del fatto che l’ex famiglia d’arte toscana dell’ex marito è divenuta anche la famiglia dell’attrice romana.

In un piccolissimo inconcludente ruolo, neanche un cameo, l’ex bellissima francese Florence Guérin attiva anche in Italia dalla seconda metà degli anni ’80 come icona erotica che nulla ha lasciato all’immaginazione – che nel 1998 però, a 33 anni, interruppe la sua carriera a causa di un gravissimo incidente stradale nel quale perse il figlio di cinque anni, restando lei stessa in coma per lungo tempo e subendo diversi interventi chirurgici; è tornata a recitare nel 2000, soprattutto per la televisione francese, con lo pseudonimo di Florence Nicolas prendendo come cognome il nome del figlio perduto.

In conclusione il debutto di Micaela Ramazzotti come regista è un film con molte imperfezioni che però è nell’insieme scorrevole e gradevole, non a caso il premio del pubblico a Venezia. Se ci sarà un’opera seconda mi auguro che si affidi anche per la scrittura a dei comprovati professionisti, per partire sotto i migliori auspici dalle fondamenta delle sceneggiatura. E che abbandoni le vie già percorse e comode. L’abbiamo vista nuda sul settimanale “Max” e sul grande schermo, ha vinto un David di Donatello, quattro Nastri d’Argento e due Ciak d’Oro, è parimenti amata da pubblico e critica, e oggi che ha 45 anni deve trovare la forza di reinventarsi, a cominciare dal ruolo di regista, o passerà presto nei ruoli secondari della zia svampita dai facili costumi.

Barry Lyndon – ricordando Ryan O’Neal

Lo scorso 8 dicembre 2023 abbiamo detto addio all’82enne Ryan O’Neal che i più giovani ricordano già anziano e acciaccato come padre della protagonista nella serie tv “Bones” ma per i meno giovani O’Neal richiama alla mente film epocali come “Love Story” del 1970 di Arthur Hill che lo lanciò nel panorama internazionale: per quel film da noi vinse il David di Donatello e in patria fu candidato a all’Oscar e al Golden Globe per il quale fu tre anni dopo candidato ancora per “Paper Moon” di Peter Bogdanovich dove recitò con la figlia decenne Tatum O’Neal che si aggiudicò sia l’Oscar che il Golden Globe come migliore debuttante, e il nostro David di Donatello, surclassando così il padre che nella sua carriera non vinse mai nulla. Dalla parte di Tatum, c’è da dire, all’epoca giocò in suo favore la giovane età, e difatti della sua carriera cinematografica, che pur continuò, non ricordiamo più nulla. Dalla parte del padre, ottimo attore e questo “Barry Lyndon” lo dimostra, giocò forse a sfavore l’essersi speso in commedie che, tranne qualche preziosa perla, anch’esse non sono memorabili. Era anche il periodo in cui Robert Redford, che fu in lizza per il ruolo ed era l’attore più fisicamente simile a lui, rastrellava per sé il meglio delle produzioni poiché non aveva il timore di impegnarsi in film più difficili. Anche il suo fascino, da belloccio della porta accanto, mancava del magnetismo dei vari Paul Newman, Marlon Brando, Alain Delon e via dicendo. Insomma, agli inizi col botto non seguì un’adeguata carriera. Quando il geniale Stanley Kubrick lo scelse come protagonista del suo capolavoro storico, il 33enne Ryan, che si era fatto conoscere dal grande pubblico televisivo nella soap opera “Peyton Place” accanto a Mia Farrow, aveva già dato il meglio di sé appunto con “Love Story” di cui tenterà l’inutile sequel “Oliver’s Story”, e con la commedia di Peter Bogdanovich “Ma papà ti manda sola?” dove fece coppia con Barbra Streisand, coppia che si riformò qualche anno dopo con “Ma che sei tutta matta?” di Howard Zieff, e la similitudine dei titoli e solo dovuta al genio della distribuzione italiana.

Come il protagonista irlandese del romanzo “Le memorie di Barry Lyndon” di William Makepeace Thackeray, l’attore losangelino aveva origini irlandesi (il cognome è evidente) e ascoltando il sonoro originale del film (disponibile su Sky Cinema) è altrettanto evidente che Ryan ha studiato l’accento irish-british. Del film è protagonista assoluto (e anche per questo l’ho scelto per ricordarlo, oltre all’importanza del film stesso) benché nei titoli di testa faccia coppia con la modella passata al cinema Marisa Berenson che appare sullo schermo esattamente dopo mezzo film per poi ritrovarla in scene occasionali con un ruolo più decorativo che altro, ma che resterà impresso nella memoria dei cineamatori anche perché lei pure non girerà più nulla di memorabile. Nonostante la grandiosità del film di Stanley Kubrick che oltre a dirigere, scrisse e produsse, esso deluse le aspettative non ottenendo un gran successo al botteghino – e forse questo contribuì a creare in Ryan O’Neal una certa freddezza per i film cosiddetti “importanti” e “impegnati”. Ma il film è davvero notevole e visto oggi, a mezzo secolo di distanza, sembra girato appena ieri e le tre ore passano velocemente, magari con una pausa accentata (caffè-pipì). Difatti, benché apprezzato dalla critica già alla sua uscita, oggi è stato ampiamente rivalutato e comunemente ritenuto fra i migliori film o anche il migliore di Kubrick, e Martin Scorsese ha dichiarato di essere stato ispirato da questo film per girare il suo “L’età dell’innocenza” (1993) mentre all’epoca furono diversi i registi e le produzioni che si ispirarono: uno fra tutti “I Duellanti” del debuttante (alla grande) Ridley Scott del 1977.

Kubrick, del cui debutto “Paura e desiderio” abbiamo parlato, si era fatto conoscere dalle grandi platee come regista di “Spartacus” nel 1960, kolossal in cui il protagonista Kirk Douglas lo volle di nuovo alla regia dopo la felice collaborazione in “Orizzonti di gloria”; era seguito il film scandalo “Lolita”, il grottesco “Il Dottor Stranamore”, il fantascientifico-filosofico “2001: Odissea nello spazio” e il disturbante “Arancia Meccanica”: tutti capolavori, e di genere sempre diverso che l’autore maneggia in modo personalissimo sempre allontanandosi dai canoni cinematografici imperanti e sempre creando film personalissimi. Il suo successivo film avrebbe dovuto essere su Napoleone con Jack Nicholson (chissà quale altro capolavoro avrebbe potuto essere) ma l’autore lo accantonò in seguito all’insuccesso del simile “Waterloo” di Sergej Bondarčuk del 1970 con Rod Steiger, Christopher Plummer e Orson Welles a produzione dell’italiano trasmigrato a Hollywood Dino De Laurentiis che sempre alternò blockbusters a clamorosi flop. Accantonando Napoleone gli era però rimasto il gusto per il film storico che non aveva ancora esplorato e rivolse la sua attenzione al romanzo di Thackeray: “Ho avuto l’intera collezione delle opere di Thackeray sulla libreria, a casa, per anni. Dovetti leggere i libri svariate volte prima di arrivare a Barry Lyndon. Prima, ad esempio, mi interessava “La fiera della vanità” ma la storia era troppo intricata per essere spiegata solo in un film. Oggi ci sarebbero le miniserie televisive, ma non avevo assolutamente l’intenzione di girarne una.” Difatti accantonò “La fiera della vanità” quando seppe che era in scrittura una miniserie televisiva che poi però non venne mai realizzata.

Parla ancora Kubrick: Barry Lyndon offriva l’opportunità di fare una delle cose che il cinema può realizzare meglio di qualunque altra forma d’arte: presentare cioè una vicenda a sfondo storico. La descrizione non è una delle cose nelle quali i romanzi riescono meglio, però è qualcosa in cui i film riescono senza sforzo, almeno rispetto allo sforzo che viene richiesto al pubblico.” Inizialmente Kubrick aveva proposto il film alla Metro-Goldwyn-Mayer che volle nel ruolo del protagonista Robert Redford ma l’attore, che in un primo momento si era detto interessato, poi declinò l’invito per tornare a lavorare con George Roy Hill che dopo il clamoroso successo di “La Stangata”, in coppia con Paul Newman, aveva pensato solo per lui “Il Temerario” che però non ottenne altrettanto successo. Anche la collaborazione con la MGM prese la via dell’aceto perché la produzione cominciò a pretendere da Kubrick un maggiore controllo sul progetto, così che l’autore ruppe la collaborazione e produsse il film da sé. Con l’uscita della MGM e di Redford entrò nel progetto la star in ascesa Ryan O’Neal, che comunque era già nel pacchetto dei papabili che oltre a lui e Redford comprendeva Steve McQueen, Paul Newman e Marlon Brando: solo voci di corridoio e nessun contatto specifico pare. O’Neal era anche etnicamente più appropriato avendo ascendenze irlandesi come il cognome dichiara, e anni dopo Kubrick spiegherà in un’intervista: “Era l’attore migliore per la parte. Aveva l’aspetto giusto ed ero sicuro che avesse più dote di quanto non ne aveva mostrato sino ad allora. Penso di averci visto giusto, data la sua performance, e non riesco ancora neanche a concepire uno che avrebbe interpretato meglio Barry. Ad esempio, nonostante siano grandi attori, Al Pacino, Jack Nicholson o Dustin Hoffman sarebbero sicuramente stati errati in quel ruolo.”

Per il ruolo di Lady Lyndon scelse Marisa Berenson che qualche anno prima, in linea col suo primo lavoro di modella, avrebbe dovuto debuttare in “Blow-up” di Michelangelo Antonioni che però le preferì la più pepata Jane Birkin; la Berenson debuttò poi come attrice, praticamente muta, in “Morte a Venezia” di Luchino Visconti, film pochissimo parlato a dire il vero, e poi ebbe un ruolo secondario ma significativo in “Cabaret” di Bob Fosse; a seguire pur di fare la protagonista accettò un filmetto della commedia sexy all’italiana, “Un modo di essere donna” di Pier Ludovico Pavoni (chi ricorda il film e il regista?) e finalmente approda sul set di Kubrick dove è assai funzionale col suo fascino gelido e fragile insieme.

La lavorazione del film si rivela assai complessa perché il maestro al suo solito è assai pignolo e non tralascia alcun dettaglio; per dirne una: ideò lui stesso le candele con tre stoppini – per avere più fiamma e più luce – che insieme ai lumi a olio avrebbero reso l’illuminazione naturale degli interni-notte, riproducendo la luce dei dipinti cui si ispirò per la composizione delle sue scene nella scenografia firmata da Ken Adam, Roy WalkerVernon Dixon. E poiché per l’illuminazione interno-notte le candele potenziate non bastavano, Kubrick portò sul set le telecamere progettate da Carl Zeiss e utilizzate dalla Nasa per filmare lo sbarco sulla Luna dell’Apollo 11 nel 1969. La location principale, la tenuta dei Lyndon, era la Powerscourt Estate in Irlanda: era, perché alcuni mesi dopo la fine della lavorazione fu completamente distrutta da un incendio e questo film rimane l’unico documento visivo degli interni del palazzo che fu. A metà lavorazione ci fu un’escalation di attacchi terroristici da parte dell’IRA che combatteva per un’Irlanda unificata fuori dal dominio britannico e lo stesso Kubrick fu minacciato di morte per l’essersi impegnato in quel film; ricevette una telefonata anonima che gli intimava di lasciare l’Irlanda entro 24 ore e il maestro non se lo fece ripetere: la lasciò entro 12 ore, trasferendo i suoi set in Inghilterra, e anche questo aggiunse ritardi sulla tabella di marcia. La lavorazione si protrasse per 300 giorni, 10 mesi, in un arco complessivo di due anni, dal 1973 al 1975 con un costo che levitò fino agli 11 milioni di dollari, e all’uscita nelle sale americane fu un flop che parzialmente si riprese sul mercato internazionale arrivando a incassare una ventina di milioni: 9 milioni di dollari di incasso lordo, da cui togliere tasse e spese, sono ben meno della cifra iniziale spesa.

Sotto alcuni dei quadri cui si ispirò Kubrick

Benché la fotografia porti la firma di John Alcott, già suo collaboratore, in realtà ci lavorò anche Kubrick che, ricordiamolo, nasceva fotografo: la sua carriera cominciò quando 17enne vendette alla rivista Look uno scatto in cui ritraeva un edicolante che rattristato legge la notizia della morte del presidente Roosevelt – e vale la pena farsi una passeggiata sul web a scoprire gli scatti giovanili che Kubrick pubblicò sulla rivista.

Tornando al film: anche la musica è un elemento fondante e usa e riadatta esclusivamente brani di classica: Bach, Händel, Mozart, Paisiello, Schubert e Vivaldi. “Per quanto i compositori di colonne sonore possano essere bravi, non saranno mai un Beethoven, un Mozart o un Brahms. Perché usare una colonna sonora discreta quando c’è dell’ottima musica disponibile dal nostro passato più recente? Quando completai il montaggio di “2001” avevo fatto registrare alcune musiche originali che volevo usare nel film. Lo stesso compositore, però, davanti al ‘Bel Danubio blu’ rimase esterrefatto e allora cambiò idea e inserì queste tracce nelle scene. Con ‘Barry Lyndon’ non ricaddi nell’errore e usai direttamente musiche non originali. La musica del XVIII secolo non è però molto drammatica. Sentii il tema di Händel, che fa da sottofondo a molte scene del film, suonato con una chitarra, e stranamente, mi faceva pensare a Ennio Morricone. Allora aggiungemmo i bassi e la musica si adattò perfettamente alla drammaticità della pellicola.” E le musiche gliele ha riscritte e riorchestrate Leonard Rosenman, mentre l’autore faceva ascoltare agli attori sul set i brani originali per ispirarli. Nelle foto sotto: Dominic Savage con la “madre” Marisa Berenson, e Leon Vitali fra il “patrigno” Ryan O’Neal e la “madre” Marisa Berenson, dietro la cui spalla sinistra s’intravede come figurante la figlia dell’autore Vivian Kubrick.

Nel resto del cast principale Patrick MaGee interpretò lo “Chevalier” di Balibari, ricordandoci che in passato come oggi si definiva elegantemente e genericamente “cavaliere” un individuo di oscure origini e dai traffici poco chiari: noi abbiamo recentemente avuto il cavaliere Silvio Berlusconi. Hardy Krüger era il capitano tedesco che cooptò Redmond Barry non ancora Lyndon alla sua causa; Steven Berkoff e Gay Hamilton nel parterre dei nobili, la caratterista irlandese Marie Kean come madre di Barry e Murray Melvin era il reverendo precettore del giovane Lord Bullington interpretato prima dall’intenso debuttante 13enne Dominic Savage che crescendo preferì darsi alla regia; personaggio che da adulto fu interpretato da Leon Vitali, il quale affascinato dalla personalità di Kubrick preferì diventare suo braccio destro nei successivi film salvo avere un ruolo secondario nell’ultimo poco riuscito film del maestro “Eyes Wide Shut”.

Giancarlo Giannini, riconoscibilissimo, doppia il protagonista mentre Lady Lyndon ha la voce della tedesca naturalizzata italiana (senza alcun accento) Solvi Stübing, che all’epoca divenne da noi popolarissima con la pubblicità in cui sussurrava agli italiani “Chiamami Peroni, sarò la tua birra”, e tutti di corsa a comprare la birra sognando di bersi la bella tedesca. Alberto Lionello doppiò lo Chevalier, Oreste Lionello (nessuna parentela con Alberto) il precettore e la teatrale Gianna Piaz diede voce alla madre di Barry; Rodolfo Traversa fu la voce di Lord Bullington mentre all’importante voce fuori campo del narratore ci fu Romolo Valli che nell’originale aveva la voce di Michael Hordern.

Il film ottenne gli Oscar per Fotografia, Scenografia, Colonna Sonora, Costumi della danese Ulla-Britt Soderlund in coppia con l’italiana Milena Canonero che aveva debuttato da costumista solista nel precedente film di Kubrick “Arancia meccanica”. Tre nomination all’autore per il film, la regia e la sceneggiatura. Kubrick si aggiudicò però il Golden Globe sia come regista che nella categoria Film Drammatico e nel Regno Unito il BAFTA alla regia e alla fotografia, e fra gli altri premi minori in giro per gli Stati Uniti e il mondo ebbe anche il nostro David di Donatello sotto forma di David Europeo. Resta da dire che Kubrick, economicamente scottato dall’impresa, pensò per il film successivo di rivolgersi a un genere che andava molto fra le masse: l’horror, e tirò fuori dal suo cilindro quell’altro capolavoro che fu “Shining”.

Tornando al compianto Ryan O’Neal, a seguire lavorò di nuovo con Peter Bogdanovich in “Vecchia America” che non ebbe lo stesso esito di “Ma papà ti manda sola?” e “Paper Moon”, e dopo il corale bellico “Quell’ultimo ponte” di Richard Attenborough, andò a infilarsi nella bislacca commedia “Jeans dagli occhi rosa” di Andrew Bergman (nessuna parentela col maestro svedese) in coppia con la nostra Mariangela Melato in una delle sue poche e poco riuscite incursioni a Hollywood (compreso il suo ultimo film, duole dirlo). In quegli anni ’70 Ryan fu in lizza insieme ai soliti noti (Robert Redford, James Caan, Burt Reynolds) come protagonista per “Rocky” (i produttori non credevano in Sylvester Stallone come attore benché il film l’avesse scritto lui) e per il ruolo di Michael Corleone in “Il Padrino” insieme al solito Redford, ma in lizza c’erano anche Jack Nicholson e Dustin Hoffman (sempre i produttori non volevano Al Pacino che definirono “un nanerottolo”). E per il nostro, fra vita privata burrascosa (si definì un pessimo padre che non avrebbe dovuto avere figli: ne ebbe quattro da tre donne diverse e tutti entravano e uscivano dai centri di riabilitazione) e scelte professionali sbagliate, per lui non ci fu più nulla di memorabile, se non l’arresto in tarda età, a 63 anni, per possesso di stupefacenti insieme all’ultimogenito Redmond, chiamato così in onore del suo più importante personaggio Redmond Barry Lyndon, e avuto con la sua ultima compagna Farrah Fawcett. Nel 2001 gli fu diagnosticata la leucemia mieloide cronica, e mentre lottava con la sua malattia è sempre stato vicino a Farrah che intanto combatteva contro un cancro che l’ha portata via nel 2009. Nel 2012 l’attore ha dichiarato che gli era stato diagnosticato un cancro alla prostata. Con lui se ne vanno molti bei ricordi cinematografici tutti concentrati negli anni ’70 del secolo scorso.

Una delle ultime foto di Ryan con il terzogenito Patrick (cronista sportivo) avuto con l’attrice Leigh Taylor-Young

Sotto con la figlia Tatum sul set di “Paper Moon” e ancora con lei adulta

Con le colleghe Ali McGrow, Mariangela Melato e Barbra Streisand

Il cast della soap opera che lo rese famoso insieme a Mia Farrow l’ultima a destra e sul set di “Quell’ultimo ponte” secondo da sinistra dopo Gene Hackman, seguono Michael Caine, Edward Fox e Dirk Bogarde

con Farrah Fawcett nel momento del massimo splendore

I nuovi mostri – con gli episodi censurati dalla Rai qui recuperati

1977. Sono passati quindici anni dall’originale e molta acqua è passata sotto i ponti: sono finiti i tempi spensierati del boom economico sull’onda del quale cinematograficamente si è passati dal neorealismo del dopoguerra alla spensieratezza della commedia all’italiana che nei suoi esempi migliori era anche critica sociale con venature di un umorismo graffiante che non risparmiava niente e nessuno. Il 1977 è nel mezzo di un decennio nero di terrorismo, nazionale e internazionale, una narrativa che drammaticamente entra anche in questo film in cui i toni grotteschi e graffianti si fanno ancora più incisivi, e anche violenti come la società che li esprime.

Gli episodi che prima erano 20 qui sono 14 e a Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi si aggiunge un Alberto Sordi in gran spolvero, di suo già campione di maschere grottesche dell’italiano medio, con l’aggiunta della stella in ascesa Ornella Muti che aveva debuttato solo sette anni prima con “La moglie più bella” di Damiano Damiani. Un’altra novità è che in alcuni episodi i quattro nomi dei titoli di testa cedono il passo ad altri validi interpreti che a loro volta diventano protagonisti. Tognazzi e Gassman recitano insieme in un solo episodio. Degli sceneggiatori originali rimane Ruggero Maccari che scrive il film con Age & Scarpelli e Bernardino Zapponi; mentre Ettore Scola che lì era sceneggiatore qui è regista e insieme a Mario Monicelli si aggiunge a Dino Risi che fu regista unico del primo film. Suo figlio Claudio Risi è l’aiuto regista. Armando Trovajoli che qui è Trovaioli torna a firmare la colonna sonora. Dei tre registi, all’uscita del film non si sapeva chi avesse diretto cosa perché di comune accordo avevano deciso di non firmare i loro episodi, e pare che i tre si siano impegnati a sostenere con i loro guadagni l’amico sceneggiatore Ugo Guerra gravemente malato e da diversi anni paralizzato, che sarebbe morto cinque anni dopo. Oggi siamo in grado di abbinare i registi agli episodi. Alla produzione Pio Angeletti e Adriano De Micheli della Dean Film prendono il posto di Mario Cecchi Gori. Come film straniero fu candidato all’Oscar nel 1979 ma quell’anno vinse il francese “Preparate i fazzoletti” di Bertrand Blier. Fu anche candidato ai David di Donatello ma vinse solo l’Alloro d’Oro alla miglior sceneggiatura al Festival di Taormina.

La versione presente su YouTube è quella ridotta negli anni Ottanta per la Rai in cui vengono tagliati cinque dei quattordici episodi rimescolando l’ordine di quelli rimasti. In questa censura sono saltati quelli meno edificanti ritenuti non adatti alle famiglie, ovvero: “Il sospetto”“Sequestro di persona cara”, “Mammina e mammone”“Cittadino esemplare” e “Pornodiva”; questi ultimi tre però sono stati reintegrati in una versione trasmessa su Rai Movie a partire dal 2014, però con l’amputazione del finale di “Pornodiva” che, come vedremo, cambia completamente il senso del racconto.

Tantum Ergo di Dino Risi

Gassman è un cardinale che causa guasto alla sua auto si ferma in una chiesa di periferia dove è in corso un acceso dibattito di borgatari guidato dal prete Luigi Diberti. Il cardinale improvvisa un sermone che acquieta gli animi, dimostrando al prete-operaio che faticosamente guidava da pari a pari il dibattito, che la retorica e l’eloquenza con l’aggiunta degli effetti speciali di sempre – luci, campane e musica d’organo – sono la vera via del Signore. Paolo Baroni efficacissima spalla in una regia molto arguta è il pretino che come da tradizione, vedi “La giornata dell’onorevole” in “I mostri”, è sempre omosessuale.

Auto stop di Mario Monicelli

Oggi lo scriviamo in un’unica parola ma all’epoca erano ancora due parole staccate. Partendo dal dettaglio del magnete sul cruscotto “vai piano e pensa a noi” con foto dei familiari, scopriamo che alla guida dell’auto Eros Pagni (raffinato interprete teatrale che al cinema è un caratterista di lusso) va oltre un autostoppista commentando “Sì, col cazzo!” per poi fermarsi immediatamente quando sul ciglio della strada gli compare la “gnocca” Ornella Muti che carica in macchina facendo sparire il magnete, e ovviamente mettendo in campo tutti i luoghi comuni dell’automobilista con fantasie erotiche, e tutti noi spettatori conosciamo i luoghi comuni sulla pericolosità degli autostoppisti ma anche degli automobilisti…

Con i saluti degli amici di Dino Risi

Segue uno dei due soli episodi non ambientati nell’area romana: breve come uno sketch televisivo. In un paesino dell’entroterra siciliano, un notabile mafioso passeggia per le vie assolate accompagnato dal suono del sempre classico marranzano, finché viene steso a colpi di lupara da due ragazzotti in vespa “Con i saluti degli amici”, ed è comune fra i siciliani il detto “Amici, e guàrdati!”. Battuta folgorante finale del mafioso morente interpretato dal romano Gianfranco Barra unico protagonista.

Hostaria! di Ettore Scola

Col punto esclamativo che subito mette in evidenza la tipicità dell’osteria della tradizione romana. Gassman e Tognazzi, l’uno cameriere l’altro cuoco, nel loro unico incontro del film fanno dell’osteria il loro personale ring con divertimento reciproco: sono quella che oggi diremmo una coppia di fatto, litigiosa e di mezza età, che con i tempi e i modi e la musichetta delle comiche d’antan si tirano addosso di tutto distruggendo la cucina salvo poi fare pace con un bacetto. I borghesissimi commensali apprezzano le vivande che dopo la lite contengono di tutto. E non è chiaro se i mostri sono la litigiosa coppia o i commensali, che di passaggio citano e omaggiano Indro Montanelli come caro amico: messaggio ambiguamente trasversale al giornalista.

Pronto soccorso di Mario Monicelli

Un affettatissimo Alberto Sordi, come Principe Giovan Maria Catalan Belmonte è un esponente della nobiltà nera romana, quella papalina sempre nostalgica del Papa-Re, lascia un’amica al Jackie O’, esclusivo locale romano che a partire dagli anni ’70 ereditò quello che restava della dolce vita romana dei tardi anni ’50. Con la sua Rolls Royce bianca (la Land Rover la prende solo per le uscite sportive) deve raggiungere la residenza della Principessa Aldobrandi dove fra nobili si discuterà lo scisma del Cardinale Marcel Lefebvre. Sordi si esibisce in un monologo un po’ troppo lungo e un po’ troppo indugiando, a mio avviso, su alcune volgarità che pur caratteristiche del “nobile” personaggio non necessitavano di sottolineature. Raccoglie la vittima di un incidente stradale e tenta inutilmente di portarlo in tre ospedali che per un motivo o un altro rifiutano l’urgente ricovero: questa è un’altra delle mostruosità sociali. Alla fine lo abbandona lì dove l’aveva trovato, sotto il monumento a Mazzini che lui crede Mussolini. Luciano Bonanni interpreta l’uomo ferito mentre l’amica di passaggio all’inizio altri non è che la ballerina del ventre Aïché Nana che sul finire degli anni ’50 si era resa famosa per uno spogliarello al ristorante Rugantino, immortalata dal fotografo Tazio Secchiaroli. In coda il titolo “Pronto soccorso” diventa inglese: “First Aid” e vai a capire perché.

L’uccellino della Val Padana di Ettore Scola

Questo è il secondo episodio non ambientato a Roma. La moda dell’epoca nominava le cantanti in un bestiario tutto italiano: Mina era la Tigre di Cremona, Iva Zanicchi era l’Aquila di Ligonchio e Orietta Berti che aveva addirittura due nomignoli – l’Usignolo di Cavriago e la Capinera dell’Emilia – qui diventa Fiorella l’Uccellino della Val Padana gestita dal totalizzante marito-impresario Tognazzi che nel privato se la deve vedere con le tante bambole che invadono la loro camera da letto, autocitazione per la Berti che è realmente collezionista di bambole. La poverina incorre in un problema alle corde vocali e il solerte marito le procura un incidente domestico dopo la quale potrà esibirla come caso umano su una sedia a rotelle. Molto brava lei che da cantante professionista si mette in gioco e nel finale stona con grande maestria.

Come un regina di Ettore Scola

Sordi asciuga i toni e condivide lo schermo con una dolce vecchina che interpreta la madre. Che lui, all’insaputa di lei, sta portando in in ospizio. L’interpretazione più convincente dell’attore è tutta negli sguardi che spaziano dall’apprensione all’esasperazione, dall’amore alla malsopportazione e al senso di colpa. Per Sordi è un bagno di verità: è noto che fosse morbosamente legato alla madre e ancora si racconta di quando, alla morte di lei, per vent’quattr’ore si chiuse in camera col cadavere rifiutandosi anche di aprire agli impiegati delle pompe funebri. La vecchina è l’attrice di un solo film Emilia Fabi. “Trattatela come una regina!” è l’invocazione finale del figlio mentre va via. Come una regina in esilio, dolorosa condizione di molti nostri vecchi che non hanno più spazio nella frenetica quotidianità che ci stritola.

Senza parole di Dino Risi

Il breve incontro d’amore fra una hostess poliglotta e un affascinante mediorientale che non parla nessuna delle lingue che lei conosce – e qui tocca dire che la Muti non parlava bene nemmeno l’italiano dato che per tutto l’arco crescente della sua carriera è stata sempre doppiata. Nel romantico episodio senza parole la musica è padrona con due successi dell’epoca: “Ti amo” di Umberto Tozzi e “All by myself” nella versione originale di Eric Carmen. Episodio volutamente zuccheroso dove non tutto è come sembra. Con il greco Yorgo Voyagis inspiegabilmente col trattino nei titoli, Yorgo-Voyagis, volto nuovo sugli schermi italiani come Giuseppe nel televisivo “Gesù di Nazareth” di Franco Zeffirelli, in onda quello stesso 1977.

L’elogio funebre di Ettore Scola

Il funerale comincia con l’accompagnamento di una musichetta sgangherata di una piccola banda che dà subito il tono all’episodio. Fra i quattro che portano a spalla la bara ecco Alberto Sordi. Si seppellisce un comico d’avanspettacolo e i convenuti sono il variopinto bestiario di amici e colleghi. Sordi, come storica spalla del vecchio comico Formichella, comincia l’elogio funebre che presto si trasforma in rievocazione di gloriose scenette e sagaci battute: il funerale diventa un’allegra rivisitazione della rivista d’antan in cui Sordi stesso mosse i primi passi, e alle lacrime si sostituiscono risate canti e applausi con tanto di passerella finale attorno alla fossa e sipario calato dai muratori retrostanti che calano una rete di protezione. Nel sentire comune di quell’Italietta democristiana forse questi teatranti erano dei mostri ma è evidente che a un attore comico quel funerale sarebbe piaciuto assai. Per non dire che oggi è ormai prassi comune, questa sì tristemente comune, l’abitudine di applaudire ai funerali, gesto privo di senso traslato dalla gente di spettacolo che di quegli applausi era vissuta, tanto che alcuni preti cominciano ad avvertire che gli applausi non sono consentiti. Per l’intero film questo episodio è un delizioso e degno finale. E poi con una ricerca mirata ho trovato i singoli episodi tagliati dalla Rai.

Mammina e mammone di Dino Risi

La giornata di due eccentrici barboni in un episodio davvero inconsistente che probabilmente avrà avuto un senso per i suoi creatori se ispirato a personaggi reali: la morale è che fra i barboni che si aggirano nelle nostre città ci sono anche nobili decaduti e personalità esemplari. Con Tognazzi che come dolce bambinone si accompagna all’ottantenne Nerina Montagnani, una caratterista che dopo aver lavorato come cameriera per tutta la vita ha esordito a settant’anni costruendosi una carriera di tutto rispetto.

Cittadino esemplare di Ettore Scola

Il mostro siamo noi. Gassman rientrando a casa dal lavoro assiste all’aggressione e all’accoltellamento di un uomo. Come nulla fosse raggiunge la famiglia per cena e si rilassa davanti a un programma Rai: ovvio che la Rai lo abbia tagliato. Dal programma sentiamo la voce di Pippo Franco nel varietà “Bambole, non c’è una lira” diretto da Antonello Falqui.

Il sospetto di Ettore Scola

Episodio decisamente politico, dunque indigesto alla finta ecumenica mamma Rai. Gassman commissario di polizia dall’accento napoletano fa una paternale a un gruppo di giovani sovversivi arrestati, e dal mucchio gli arriva una pernacchia. Fatta da un brigadiere infiltrato per meglio mimetizzarsi. Con Francesco Crescimone da Caltagirone che sarà anche sceneggiatore e regista.

Sequestro di persona cara di Ettore Scola

Cinema che racconta la televisione-verità: diretta televisiva dal salotto di un uomo distrutto dal dolore al quale hanno rapito la moglie e che si rivolge ai sequestratori implorando almeno una telefonata per averne notizie. Andata via la troupe televisiva l’uomo mostra che aveva tagliato il filo del telefono. Altro episodio scomodo da mostrare in tv perché un mostro si fa gioco della tv. Oltre che dell’opinione pubblica.

Pornodiva di Dino Risi

In effetti l’episodio, senza voler svelare nulla a chi non l’avesse ancora visto, è davvero forte, non per il contenuto ma per il concetto che veicola. Eros Pagni è di nuovo protagonista con la procace moglie interpretata da Fiona Florence che all’anagrafe è Luisa Alcini, una coppia di burini che prima di firmare il contratto che prevede scene di nudo e di sesso con una scimmia vogliono capire i dettagli e alzare il compenso. Nel ruolo dell’anziano produttore il caratterista settantenne Vittorio Zarfati che con Risi aveva debuttato l’anno prima, e che aveva una tragica storia alle spalle: di religione ebraica sfuggì al rastrellamento nazi-fascista dell’ottobre 1943 perché si trovava poco fuori Roma e perse la moglie e tre figli deportati e soppressi a Auschwitz-Birkenau. come figlia della coppia di burini la decenne Simona Patitucci che da adulta farà poco cinema ma tanto teatro musicale e molto doppiaggio.

E per finire un po’ di numeri. Nella versione integrale di 14 episodi Ugo Tognazzi è presente in 3, Vittorio Gassman in 5, insieme solo in uno; 3 per Alberto Sordi, 2 per Ornella Muti e 2 anche per Eros Pagni che di fatto si colloca fra i protagonisti. Nella versione ridotta Tognazzi perde un episodio e Gassman addirittura 3 restando entrambi a pari merito con 2 episodi, cedendo il passo a Sordi che li porta avanti tutti e tre mentre Pagni ne perde uno dei due. Come anticipato Rai Movie ha trasmesso una versione allungata ma continuano a mancare “Sequestro di persona cara” e “Il sospetto” entrambi con Gassman. L’ultima volta in cui il film è stato trasmesso in televisione è stato nell’agosto 2022 su Rai 3. Anche nelle versioni home prima in VHS e poi in DVD c’è la versione ridotta a 9 episodi, la stessa disponibile attualmente su Netflix: non credo che si tratti più di censura per argomenti ritenuti scabrosi o antisociali ma sono incuria da pigrizia intellettuale e commerciale.

Casablanca, Casablanca – opera prima di Francesco Nuti per ricordare la sua scomparsa

Il mio sincero omaggio a Francesco Nuti scomparso dopo un’agonia durata esattamente vent’anni. E ribadisco sincero perché non ero un suo fan, non ho mai visto prima nessuno dei suoi film, né al cinema né nei successivi passaggi televisivi: i personaggi che nascono dal cabaret, e parlo di questa forma di cabaret piacione e onnicomprensivo che si è sviluppata in Italia, restano per me marchiati e macchiati per sempre, a meno che poi non producano cinematograficamente qualcosa di veramente eccezionale, ma il più delle volte si limitano a riprodurre gli stessi modelli narrativi ed espressivi dilatati dal più consono quarto d’ora televisivo all’inutile ora e mezza cinematografica. E Francesco Nuti non è sfuggito al cliché.

Fiorentino dop ha cominciato a calcare le ribalte amatoriali ancora studente scrivendosi da sé i suoi monologhi finché poco più che ventenne (intanto aveva cominciato a lavorare come operaio in un’industria tessile di Prato) entra a far parte del preesistente gruppo toscano dei Giancattivi formato da Athina Cenci e Alessandro Benvenuti con un terzo elemento sempre in entrata e uscita fino all’arrivo del nostro; il trio aveva già un proprio pubblico grazie anche a dei programmi locali di Radio Rai e l’ingresso di Nuti coincide con il programma televisivo Rai1 “Non Stop” degli anni 1977-78 che aumenterà esponenzialmente la loro popolarità; nel 1981 esordiscono al cinema con l’opera prima di Benvenuti che scrive e dirige “Ad ovest di Paperino” che riproponendo il repertorio cabarettistico è molto apprezzato dal pubblico e frutta al suo autore il Nastro d’Argento come miglior regista esordiente e le candidature ai David di Donatello sempre come regista esordiente, oltre alle candidature come miglior attore esordiente insieme alla Cenci candidata miglior attrice esordiente.

Nessun premio e nessuna candidature per Francesco Nuti che dev’esserci rimasto malissimo se già durante la lavorazione del film aveva discusso aspramente coi colleghi, e non era la prima volta: anche in lui covava la creatività e la velleità dell’autore, o comunque la forza espressiva del solista che aveva già sperimentato nei suoi esordi amatoriali, e le dinamiche del trio gli stavano strette: dopo cinque anni di collaborazione lascia il gruppo che sostituendolo sopravvive solo altri tre anni. Francesco comincia la sua collaborazione cinematografica col regista romano Maurizio Ponzi che fino a quel momento aveva all’attivo tre film drammatici poco visti, e insieme arrivano al successo girando tre commedie in due anni: “Madonna che silenzio c’è stasera” “Io, Chiara e lo Scuro” col quale Nuti si aggiudica sia il David di Donatello che il Nastro d’Argento, finalmente, come miglior protagonista e “Son contento”; tre film di cui è anche co-autore delle sceneggiature, ma anche con Ponzi qualcosa ha smesso di funzionare: di fatto l’attore vuol fare tutto da sé, è il momento di passare alla regia.

Esordisce nel 1985 con questo “Casablanca, Casablanca” che è il seguito del fortunato “Io, Chiara e lo Scuro” che gli erano valsi i desiderati riconoscimenti e in cui mantiene il suo personaggio di giovane stralunato e un po’ disadattato: tanto simpatico al pubblico femminile in cui suscita istinti materni, come altrettanto simpatico è al pubblico maschile perché per metà vi si riconosce e per l’altra metà è rassicurante perché non è un maschio alfa; ma soprattutto Nuti continua la narrativa sull’interessante spaccato sul mondo del biliardo che poco viene raccontato al cinema: ci sono molti film con scene di biliardo ma pochi sono incentrati su questa specialità e non si può non ricordare “Lo spaccone” con Paul Newman diretto da Robert Rossen nel 1961, film che ebbe anche un tardivo sequel nel 1986 con un anziano Newman che se la vedrà col giovane rampante Tom Cruise in “Il colore dei soldi” di Martin Scorsese. I film di Francesco Nuti sul biliardo, ne farà un terzo nel 1998, “Il signor Quindicipalle”, hanno il merito di aprire il sipario su un mondo sconosciuto ai più.

La sua è una davvero triste scomparsa: triste per le circostanze e tristissima per l’intempestività dato che è passata totalmente ignorata da tutte le tv che a rete unificata hanno raccontato – fino all’esaurimento degli argomenti e della pazienza dei telespettatori – la dipartita di Silvio Berlusconi avvenuta lo stesso 12 giugno 2023: vale sempre l’amaro adagio latino “ubi maior minor cessat”.

Questo è il primo suo film (e forse anche l’ultimo) che vedo, confermando il mio personale gusto: Francesco Nuti ha messo in scena la sua malinconica simpatia, da interprete maturo, con guizzi di profondità espressiva che arricchiscono la leggerezza di un racconto che arriva a sfiorare l’incongruenza: il suo film sorvola sulla logica per mettere insieme ispirazioni diverse, e inzeppa di bischerate toscane un’esile trama sempre prevedibile fra schermaglie amorose e voglia di riscatto, una trama che si fa ancora più incredibile quando s’invola nell’onirico: anche la narrazione surreale deve avere una sua logica interna, altrimenti è fine a sé stessa. Non bastano i bravi interpreti né la naturale simpatia a dare spessore e credibilità alla storia che si fa interessante e ritmicamente emozionante solo nel raccontare la tesa partita a biliardo nella finale del campionato che si svolge a Casablanca, Marocco, dove il racconto si sposta e dà all’autore l’opportunità, un po’ scontata a dire il vero, di proiettarsi nella Casablanca del 1942 ricostruita all’epoca negli studi della Warner Bros. Con la citazione il film si fa favola e diventa ancor più, semmai è possibile, accattivante, e per i miei gusti anche stucchevole: è un film rassicurante, per le grandi platee, che nel suo tempo ha colto nel segno: grandi incassi al botteghino, secondo David di Donatello come attore e miglior regista esordiente al Festival internazionale del cinema di San Sebastián. Nel resto del cast si porta dietro dal primo film la protagonista Giuliana De Sio; lo Scuro del primo titolo che è anche il vero soprannome del campione di biliardo fiorentino Marcello Lotti che nei due film è sé stesso, qui doppiato da Franco Odoardi; e l’anziano amico Novelli Novelli; all’attore polacco allora di gran moda perché reduce da grandi successi internazionali, Daniel Olbrychski, doppiato da Ennio Coltorti, affida il ruolo dell’antagonista in amore.

La seconda metà degli anni Ottanta sono per lui all’insegna del successo. Realizza altri 5 film e si concede anche il lusso della canzone: nel 1988 partecipa al Festival di Sanremo con la canzone “Sarà per te” con la quale si piazza dodicesimo, e poi nel ’92 duetterà con Mietta nella canzone “Lasciami respirare” scritta da Biagio Antonacci.

Nel 1994 finalmente esce, dopo vari disguidi e ritardi, l’ambizioso e travagliatissimo “OcchioPinocchio” per il quale i Cecchi Gori, padre e figlio, che avevano stanziato 30 miliardi di lire, un budget già spropositato e anche poco accorto per una bislacca commedia italiana con un protagonista sconosciuto all’estero, ché solo con una distribuzione internazionale avrebbero potuto recuperare le spese e sperare anche in un guadagno; non basterà neanche l’ambientazione statunitense, e sforarono pure di altri 13 miliardi: la pressione sanguigna era alle stelle; il film sarebbe dovuto uscire nel Natale 1993 ma la lavorazione era in clamoroso ritardo e a complicare le cose avvenne anche la morte del patron Mario Cecchi Gori nel novembre del ’93. Il figlio Vittorio Cecchi Gori si fece prendere dal panico – come dargli torto avendo ereditato quella patata bollente? – e appoggiato dall’allora socio in affari Berlusconi nella Penta Film ruppe ogni rapporto con Nuti e smantellò i set di Cinecittà. Nuti avviò un’azione legale per poter proseguire la lavorazione e i due addivennero a un accordo: montaggio del girato senza ulteriori indugi e altre riprese se strettamente necessarie; l’autore Francesco Nuti sborsò di tasca propria ben due miliardi per poter concludere il film, che si rivelò un fiasco clamoroso: incassò in tutto solo 4 miliardi degli oltre 30 spesi e anche il giudizio della critica non fu lusinghiero. Solo guardando il manifesto, bello in sé, è evidente che non è più il Francesco Nuti un po’ romantico un po’ bischero e molto rassicurante di tutti i suoi precedenti film.

Va da sé che scottatissimo dal clamoroso insuccesso tenta di rimettersi sulla via maestra e quattro anni dopo torna al biliardo con “Il signor Quindicipalle”, concludendo un trittico, ma il film non incontra il favore dei precedenti. C’era un quarto film in cui avrebbe voluto tornare a impugnare la stecca da biliardo: un post-apocalittico da girare nelle campagne fiorentine in coppia con l’altro toscano Roberto Benigni come fratelli che gestiscono l’unico casello ferroviario rimasto, titolo “I casellanti”. Non sapremo mai quanto Benigni, diversissimo da Nuti, fosse interessato al progetto che per il suo autore avrebbe significato un nuovo punto di partenza mentre per l’acclamatissimo già premio Oscar Benigni, si sarebbe trattato di cosa?

Al volgere del nuovo millennio, che per lui sono la seconda metà dei quarant’anni, gira altri due film con esito altrettanto tiepido al botteghino: il suo pubblico – che non era il suo ma era ed è di chiunque lo faccia sorridere senza troppi pensieri – lo ha abbandonato: lo ha sostituito con un altro bischero fiorentino, Leonardo Pieraccioni, suo amico ed epigono di dieci anni più giovane, altro campione di commedie sentimentali, anch’egli con film exploit campioni d’incassi, ma che dopo quei primi fuochi d’artificio è stato anche lui ridimensionato dalle durissime logiche del mercato.

Arriviamo al 2003, esattamente vent’anni fa. Francesco è caduto in una profonda depressione, è alcolista, e finisce col tentare il suicidio aprendo il gas ma viene salvato in extremis dai pompieri. Si parlerà di incidente domestico ma poco prima aveva telefonato a un amico dicendogli che voleva farla finita, e l’amico ha allertato i vigili del fuoco che l’hanno trovato a letto, in stato confusionale per abuso di alcol, e il gas aperto in cucina: più che un tentato suicidio una disperata ed estrema richiesta di aiuto. Senza considerare che nell’appartamento con lui c’era l’ignara madre. All’ospedale decide di sottoporsi a cure psichiatriche: “Sto male. – dichiarerà – Ho 48 anni e siccome ho una malattia, che è l’alcolismo e che sto ormai superando, non mi fanno più lavorare. Ma io sono stato un uomo d’oro del cinema italiano”.

Nel 2005, a cinquant’anni, gira il suo ultimo film in un ruolo per lui inconsueto e finalmente maturo diretto da Claudio Fragasso nel thriller poliziesco “Concorso di colpa” dove è un ispettore di polizia che alla fine degli anni ’70 indaga su un delitto che l’omicidio di Aldo Moro ha messo in ombra: uno di quei ruoli in cui avrebbe potuto spaziare ed eccellere se avesse avuto l’umiltà di affidare il suo indiscusso talento di attore ad altri registi e sceneggiatori. Un ruolo da protagonista assoluto, anche sulla locandina, perché ne ha umanamente bisogno, con l’antico amico e compagno d’avventure Alessandro Benvenuti a fargli da discreta spalla e garanzia per un ritorno al botteghino. E c’è da dire che Benvenuti nel frattempo si è accreditato come autore cinematografico in grado di spaziare affrontando temi svariati e seri in chiave brillante e in film corali: la famiglia, la politica, la prostituzione, l’autismo, l’industria, l’avvento dei reality show. Attualmente impegnato a teatro Benvenuti dice di non avere altro da dire al cinema e con la scomparsa di Nuti rivela un sogno ormai per sempre irrealizzabile: recitare insieme a teatro “Aspettando Godot” di Samuel Beckett.

Purtroppo l’ultimo film girato è brutto, stroncato dalla critica e ignorato dal pubblico. Francesco non uscirà più dalla sua nuvola nera. L’anno dopo, una sua intervista a Radio 24 viene interrotta a causa del suo forte stato di alterazione. Ai primi del settembre 2006 un vero incidente domestico: cade dalle scale procurandosi un ematoma che lo condurrà al coma dal quale uscirà dopo un intervento d’urgenza alla testa, segue un lungo periodo di riabilitazione neuromotoria: dal giorno di quell’incidente è costretto su una sedia a rotelle e ha perso l’uso della parola. La figlia Ginevra lo assiste, il fratello Giovanni, medico, che si era pubblicamente preso l’impossibile e amoroso incarico di rimetterlo in piedi e ridargli la parola, intanto gli fa da portavoce: “Francesco aveva scritto due sceneggiature: le racconterà lui quando sarà pronto. Con Francesco abbiamo iniziato a scrivere a quattro mani un libro di poesie: c’è già il titolo, ‘Poesie raccolte’. Ha anche iniziato a dipingere. Per me è guarito e sul suo futuro deciderà lui. Se qualcuno si chiede come mai non è qui stasera (si presentava in una discoteca di Firenze il libro di Matteo Norcini ‘Francesco Nuti. La vera storia di un grande talento’ edito da Ibiskos) dico che Francesco è un narcisista e un perfezionista: verrà davanti ai giornalisti quando si sentirà di farlo”.

Riapparirà in in pubblico nel 2010 al cinema Eden di Prato in occasione della presentazione del CD “Le note di Cecco” realizzato dal fratello Giovanni con Marco Baracchino che raccoglie le colonne sonore dei film di Cecco-Francesco alcune delle quali scritte da Giovanni che è anche musicista. Torna anche su Rai2 ospite a “I fatti vostri” dove mostrò all’Italia intera i danni neurologici conseguenti all’incidente: l’incapacità di parlare e di muoversi; portò una lettera scritta dal fratello Giovanni che idealmente dava voce ai suoi pensieri e in cui affermava la sua tenacia nel continuare a vivere. A seguire fu ospite di Barbara D’Urso a Canale 5 in “Stasera che sera!” dove la conduttrice ex attrice che negli anni si era già trovata al centro di disparate controversie, senza andare troppo per il sottile non esitò a fare televisione spazzatura spettacolarizzando la grave disabilità di Nuti: il programma fu chiuso.

Sempre Giovanni Nuti cura la sua autobiografia edita da Rizzoli “Sono un bravo ragazzo – Andata, caduta e ritorno”, 2011. Tre anni dopo partecipò ad una festa organizzata per il suo 59º compleanno dagli amici di sempre Carlo Conti, Giorgio Panariello, Leonardo Pieraccioni e Marco Masini, al Mandela Forum di Firenze alla quale parteciparono circa 7000 persone: un bagno di affettuosa folla che deve avergli molto scaldato il cuore. Nel 2016 l’ennesima caduta e il ricovero in gravissime condizioni al CTO di Firenze. Nel 2019 gli è stato conferito il Premio Artistico Internazionale e cinematografico Vincenzo Crocitti “alla carriera”, ritirato per lui dalla figlia che aveva precedentemente dichiarato: “Francesco è e sarà sempre il mio papà anche se non può più parlare, muovere le mani e camminare ed è giusto che mi occupi di lui.” Va ricordato che il riconoscimento alla carriera, l’unico assegnatogli, è intitolato a un grande caratterista romano morto 61enne dopo una lunga malattia.

All’epoca del suo primo incidente domestico Francesco aveva detto alla madre: “Portami via da Roma quando muoio, così nessuno mi potrà vedere.” Poi la vita ha preso naturalmente il sopravvento e si è fatto vedere: muore a 61 anni con il corpo e il volto stravolti dal tempo e dalla lunga agonia. Non pubblico le sue ultime immagini perché credo sia doveroso ricordarlo col suo sorriso che gli arricciava il viso, triste e impertinente insieme.

Gli occhiali d’oro – Fascismo e Resistenza nel cinema d’autore

Dopo “La lunga notte del ’43” e “Il giardino dei Finzi Contini” terzo e a tutt’oggi ultimo film dalla narrativa che Giorgio Bassani dedicò alla sua Ferrara e contestualmente al periodo fascista della città, essendo egli stesso uno di quegli ebrei che vissero sulla propria pelle le leggi razziali emanate nel 1938. Il giovane Bassani era all’epoca studente universitario a Bologna e gli fu concesso di proseguire gli studi, si sarebbe laureato l’anno dopo, mentre non erano più consentite le nuove iscrizioni agli ebrei, di pari passo all’epurazione del corpo docenti. L’io narrante, un universitario ebreo che è chiaramente l’alter ego dello scrittore, nel romanzo non ha un nome e nel film, scritto dallo stesso regista Giuliano Montaldo con Nicola Badalucco e Antonella Grassi, viene chiamato Davide Lattes, figlio di Bruno Lattes che a sua volta è il nome di uno dei personaggi che frequentano il giardino dei Finzi-Contini, romanzo dove a sua volta si cita la vicenda che viene raccontata in questo romanzo: se nel Bassani scrittore i rimandi e le autocitazioni sono frequenti, gli sceneggiatori ne prendono atto e proseguono sulla strada tracciata per restare fedeli allo spirito che anima quelle narrazioni: Ferrara come luogo eletto di una comunità che si autodefinisce “popolo eletto”. Nel romanzo e nel film procedono di pari passo le vicende dell’io narrante e del medico narrato: un omosessuale di mezza età che innamorandosi di un giovane arrivista crea scandalo e viene emarginato dalla benpensante società dell’epoca, emarginazione che procede specularmente a quella che lo studente subisce a causa della sua religione.

Nicola Farron e Philippe Noiret

Vidi il film al cinema alla sua uscita nel 1987 e già allora non mi convinse del tutto benché all’epoca non sapessi motivare chiaramente le mie impressioni: riferivo al mio gusto personale; rivisto oggi confermo e specifico: manca di pathos, è ben confezionato ma calligrafico. Manca l’atmosfera cupa dei tempi bui cui ci si avviava in quegli anni, che il debuttante Florestano Vancini aveva saputo infondere alla sua lunga notte del ’43, e soffre di quel patinato manierismo che si respirava nel giardino dei Finzi-Contini filmato da Vittorio De Sica. Detto ciò il film ebbe successo e si aggiudicò alcuni premi tecnici: a Venezia l’Osella d’Oro per i costumi di Nanà Cecchi e le scenografie di Luciano Ricceri, e poi David di Donatello alla musica di Ennio Morricone che comunque non è fra quelle che continuiamo ad ascoltare. Il cast, come nella migliore tradizione italiana dei decenni passati, è un’insalata di interpreti stranieri e italiani, qui giustificata dal fatto che si tratta di una coproduzione Italia Francia Jugoslavia; insalate per fortuna non più consentite alle produzioni italiane odierne in cui c’è l’obbligo della presa diretta dove gli eventuali interpreti stranieri devono recitare in italiano o fare ciò che sono, gli stranieri, e in cui all’eventuale necessario doppiaggio saranno gli stessi attori a usare la propria voce, a meno che non rinuncino personalmente; una battaglia, quella della voce-volto lanciata dall’impegnatissimo Gian Maria Volonté già alla fine degli anni ’70: un complesso argomento che meriterebbe un approfondimento a parte.

Rupert Everett e Valeria Golino

Davide Lattes, con la voce di Tonino Accolla, ha il volto di Rupert Everett fresco del successo del britannico “Another Country: la scelta” diretto dal polacco Marek Kanievska nel 1984; va da sé che viene scritturato dai nostri produttori e in quel 1987 è protagonista per Francesco Rosi in “Cronaca di una morte annunciata” e di questo film di Montaldo. L’anziano medico, doppiato da Sergio Rossi, è impersonato dal francese di casa in Italia Philippe Noiret, che in quella pratica di coproduzioni e finte produzioni italiane con attori stranieri, si accaparrò molti ruoli assai interessanti che sarebbero potuti andare ai nostri colonnelli: Gassman, Mastroianni, Manfredi, Sordi, Tognazzi. Protagonista femminile è l’emergente Valeria Golino che recita con la sua voce ingolata non del tutto gradevole all’epoca, viziati com’eravamo dalle voci perfette del doppiaggio, migliore attrice rivelazione l’anno prima premiata col Globo d’Oro per “Piccoli fuochi” di Peter Del Monte, e qui candidata inopinatamente (a mio avviso brava ma non da premio) come protagonista ai David di Donatello, insieme a Noiret: entrambi restarono a bocca asciutta perché i premi agli attori protagonisti andarono a Marcello Mastroianni e Elena Safonova per “Oci ciornie” di Nikita Sergeevič Michalkov. Il bel mascalzone di cui s’innamora il medico è impersonato da un altro emergente che poi non rispettò la promessa di una brillante carriera, Nicola Farron, che si esibisce in un nudo integrale sotto la doccia che ancora vale il limite di età alla visione del film su YouTube, anch’egli doppiato da Fabio Boccanera.

Il professor Amos Perugia di Roberto Herlitzka accompagnato all’uscita dall’ateneo dai suoi studenti mentre sullo sfondo si grida “Ebreo! ebreo!” e “Eia eia alalà”.

Altri nomi di spicco sono la centratissima Stefania Sandrelli come malefica pettegola e soprattutto Roberto Herlitzka perfettamente in ruolo essendo egli stesso un ebreo che bambino sfuggì al nazi-fascismo col padre che riparò in Argentina: qui nei primi dieci minuti del film interpreta il professore universitario epurato. I genitori del protagonista sono interpretati dal serbo Rade Markovic e dalla romana di nobili origini Esmeralda Ruspoli. Nel ruolo di uno studente universitario un giovane Luca Zingaretti. Il film, che di diritto si inserisce sotto l’etichetta Fascismo e Resistenza, è oggi considerato un caposaldo anche del filone film LGBT.

Di Giuliano Montaldo bisogna ricordare che come tanti dei suoi coetanei debuttò con un film legato al racconto del fascismo, “Tiro al piccione”, tema che continuerà ad esplorare in altri suoi riusciti lavori come “Gott Mit Uns” e “L’Agnese va a morire”. Nel 2007 è stato insignito del David di Donatello alla Carriera e nel 2018 vinse il David come attore non protagonista per “Tutto quello che vuoi” di Francesco Bruni. Mentre il suo ultimo film da regista è “L’industriale” del 2011 con Pierfrancesco Favino. Oggi ha 93 anni.

Il giardino dei Finzi Contini – Fascismo e Resistenza nel cinema d’autore

Sarò controcorrente: secondo me questo film non è fra i migliori di Vittorio De Sica. Tratta un argomento importante, è vero, è tratto da un importante romanzo, è altrettanto vero, ed ebbe grande successo anche oltreoceano dove notoriamente sono assai sensibili riguardo al tema dell’ebraismo: il film negli Stati Uniti si aggiudicò l’Oscar come miglior film straniero ed ebbero la candidatura per la miglior sceneggiatura non originale Ugo Pirro e Vittorio Bonicelli; e poi candidatura al Grammy per la musica di Manuel De Sica, figlio maggiore del regista, qui alla sua terza colonna sonora; Vittorio De Sica vinse anche l’Orso d’Oro a Berlino e il britannico BAFTA dove ci fu la candidatura di Ennio Guarnieri per la miglior fotografia. Premi in Italia: David di Donatello come miglior film e David Speciale al protagonista Lino Capolicchio; Nastro d’Argento a Romolo Valli come miglior attore non protagonista e a Giancarlo Bartolini Salimbeni per la miglior scenografia; e per finire Globo d’Oro a Fabio Testi come miglior attore rivelazione. Elencati per dovere di cronaca premi e riconoscimenti specifico che nel mio essere controcorrente sono in buona compagnia perché all’epoca non tutta la critica fu d’accordo nell’elogiare il film e Morando Morandini sul quotidiano milanese “Il Giorno” scrisse che era eccessivamente melenso. Be’ lo è.

Secondo me questo stile, melenso per Morandini, eccessivamente patinato aggiungo io, non è in linea con la miglior produzione di De Sica che nasce nel neorealismo e anche quando si trasforma in commedia mantiene certe radici veristiche e veraci, popolari e popolane, mentre la vita agiata di questa oziosa famiglia altoborghese, tutti leccati in abiti fra il bianco e il color crema, non appartiene al regista e dunque la racconta per luoghi comuni dove la quotidianità si fa cicaleccio e birignao: una leggiadria certo necessaria a far risaltare la tragedia incombente delle persecuzioni nazi-fasciste, ma non fosse stato per il risvolto drammatico questo ritratto di famiglia in un esterno sarebbe potuto diventare parodia: i Finzi-Contini, con trattino come nel romanzo di Giorgio Bassani, che sono “altro” nella comunità ebraica della Ferrara dell’epoca, restano “altro” anche nella cinematografia di De Sica.

Già l’inizio è imbarazzante dal punto di vista sonoro: Livia Giampalmo, che effettivamente era agli inizi in sala di doppiaggio, doppia Dominique Sanda quasi facendo il verso alle querule doppiatrici d’antan delle sofisticated comedies hollywoodiane, come dandosi un tono perché sta dando voce a una signorina di buonissima famiglia: stonatissima e fasulla; più avanti ci si fa l’orecchio, giocoforza, ma arriva subito anche il doppiaggio altrettanto stonato di Roberto Del Giudice che dà voce a Helmut Berger: l’atmosfera generale è che stiano giocando a fare le persone fini.

Alessandro D’Alatri, recentissimamente morto 68enne dopo una lunga malattia, recita nel film il ruolo del protagonista da adolescente, ma aveva debuttato 14enne l’anno prima da protagonista nel piccolo film di avventura e formazione (di cui non rimane traccia) “Il ragazzo dagli occhi chiari” di Emilio Marsili (due soli film nel portfolio e anch’egli sparito senza lasciare traccia) e poi in Rai con un piccolo ruolo nella miniserie “I fratelli Karamazov” diretta da Sandro Bolchi, dopodiché smette di recitare e da giovane adulto negli anni ’80 è al top come regista di pubblicità, debuttando come regista cinematografico solo nel 1991, 36enne, con “Americano Rosso” che gli varrà il David di Donatello come miglior regista esordiente; era una commedia sentimentale guarda caso ambientata nel 1934 con lo stesso entroterra fascista di questo film di De Sica cui resta legato il suo nome come giovane attore. Nel ruolo di Micol da giovane c’è l’ex attrice bambina Cinzia Bruno che aveva debuttato a tre anni proseguendo la carriera di giovane attrice anche in radio e nel doppiaggio ma per un problema alle corde vocali ha dovuto abbandonare la carriera artistica ed ha aperto un’agenzia di viaggi.

Proprio per il ruolo di Micol, De Sica aveva seriamente considerato Patty Pravo ma non se ne fece niente perché Patty era troppo impegnata, era appena arrivata al successo con “La bambola” (canzone che odiava perché dava l’immagine di una donna totalmente dipendente dall’uomo), inoltre la sua casa discografica stava battendo il ferro ben caldo: in quel 1970 era al successo con “La spada nel cuore” e poiché stava costruendosi una brillante carriera come cantante non volle distrarsi col cinema, tanto che in seguito rifiutò anche “Professione: reporter” di Michelangelo Antonioni: oggi se ne dice pentita. Però l’anno prima aveva doppiato Jacqueline Kennedy nel documentario di Gianni Bisiach “I due Kennedy”.

Alla sceneggiatura del film, come detto firmata da Bonicelli e Pirro, inizialmente partecipa anche l’autore del romanzo, Giorgio Bassani, che però abbandona il progetto per insanabili divergenze col regista, tanto da chiedere, e ottenere, che il suo nome venisse tolto dai titoli. Pare che il punto di rottura fu l’esplicitazione nel film della relazione fra Micol e il comunista milanese Malnati, che nel romanzo è solo accennata da Giorgio che è l’io narrante. E non si può dire che per lo scrittore sia stato il capriccio autorale di uno che non comprende le esigenze cinematografiche, perché egli stesso era da tempo attivo sia come soggettista che sceneggiatore, per non dire che aveva anche doppiato Orson Welles diretto da Pier Paolo Pasolini nell’episodio “la ricotta” del film “Ro.Go.Pa.G.”.

Lino Capolicchio è il protagonista Giorgio, nome autobiografico dell’autore che in qualche modo si rispecchia nel personaggio, ebreo come lui, che narra le vicende reali di una famiglia ferrarese cui nel romanzo sono stati cambiati i nomi (tranne quello del cane Jor) e alcuni dettagli: da qui forse il suo attaccamento a certi passaggi della sua narrativa che nel film non sono stati rispettati. Micol è interpretata dall’ex modella francese Dominique Sanda che dopo un’intenso debutto il patria con Robert Bresson che la diresse in “Così bella, così dolce”, subito viene adottata dai cineasti italiani a quell’epoca sempre affascinati dalle bellezze straniere, tanto c’era il doppiaggio: lo stesso anno gira con Bernardo Bertolucci “Il conformista” e si avvia a una carriera in film d’autore con personaggi tormentati e ambigui. Oggi è una bella signora 71enne che si dedica principalmente al teatro. Mentre ricordiamo che Capolicchio è morto 79enne lo scorso anno: la sua scomparsa ha creato un’impennata di visioni di questo film che fino a quel momento era in chiaro su Sky Cinema e che dopo la sua morte è passato a pagamento su Sky Primafila per sfruttare commercialmente la grande richiesta, e infine scompare del tutto; oggi è visibile a pagamento su Prime Video. Restaurato nel 2015 è reperibile in chiaro su YouTube una vecchia versione per il mercato anglofono con titolo e sottotitoli in inglese.

Ferrara, con Roma e Venezia, era una delle città con maggiore popolazione ebraica, e anche dopo la chiusura del ghetto in epoca fascista rimase un importante centro per la comunità, tanto che alle prime restrizioni vi confluirono ebrei da altre province pensando di trovare un ambiente più favorevole grazie alla presenza del deputato fascista ferrarese Italo Balbo e del suo amico Renzo Ravenna che fu uno dei due soli ebrei (l’altro fu il triestino Enrico Paolo Salem) a ricoprire il ruolo di podestà, fino all’emanazione delle leggi razziali che non risparmiò neanche loro. Ferrara dunque fu un centro nevralgico che anche il regista ferrarese Florestano Vancini racconterà nei suoi film.

Il giardino del titolo è quello della villa che realmente a Ferrara, e poi nel romanzo e infine del film, divenne ritrovo e porto franco per tutti gli ebrei e chiunque altro fosse inviso al regime fascista che aveva cominciato le persecuzioni e le restrizioni sociali; metafora di un sogno bello e impossibile che la realtà andrà a dissacrare. Romanzo e film raccontano come la comunità ebraica non si rese conto di quanto stava accadendo; ci fu chi reagì cercando di mimetizzarsi e si iscrisse al Fascismo, come il suddetto podestà della città e come il padre del protagonista interpretato da Romolo Valli, chi davvero senza poter comprendere, perché si era tutti italiani e da secoli, a memoria umana, non c’erano più state divisioni per ragioni religiose e men che meno razziali. Come detto a Romolo Valli, gran signore del teatro sempre in ruoli di supporto al cinema, è andato il riconoscimento del Nastro d’Argento. A Fabio Testi nel ruolo di Malnate è andato il Globo d’Oro come unico premio in una lunga carriera iniziata appena quattro prima come controfigura sul set di “Il buono, il brutto, il cattivo” di Sergio Leone che in seguito gli affida un ruolo in “C’era una volta il west” che però taglia in post-produzione perché non ottimale; ma è un aitante belloccio e dopo una serie di piccoli ruoli è protagonista in un paio di film di serie B; è qui alla sua prima occasione in un film importante e l’industria cinematografica che sta puntando su di lui lo premia per sdoganarlo fra quelli che contano. Conclude il cast dei ruoli principali l’altro bello e possibile già ex modello austriaco Helmut Berger che Luchino Visconti aveva diretto proprio come ragazzaccio austriaco in un episodio del film “Le streghe” e che lancerà come protagonista in “Ludwig” un paio d’anni dopo.

Curiosità letteraria, nel romanzo c’è un prossimamente: Giorgio racconta a Malnate di un’episodio accaduto in città poco tempo prima, che riguarda un otorinolaringoiatra coinvolto in uno scandalo omosessuale per il quale si tolse la vita; nomina il personaggio come Athos Fadigati, personaggio protagonista di un altro romanzo al quale stava lavorando: “Gli occhiali d’oro” che con la regia di Giuliano Montaldo diverrà film nel 1987. Una lettura integrale del romanzo “Il Giardino dei Finzi-Contini” a più voci, è stata realizzata dalla Rai di Torino, e poi una riduzione radiofonica e andata in onda su Radio 3. La New York City Opera e il National Yiddish Theatre Folksbiene ne hanno realizzato lo scorso anno un adattamento operistico presso il Museo del Patrimonio Ebraico di Manhattan.

Stranizza d’amuri – opera prima di Giuseppe Fiorello

Lo dico subito e senza indugi: non ho mai amato Beppe Fiorello, ma per onestà devo dire che il suo debutto come regista mi ha più che convinto. Considero altri, gli attori, e senza andare all’estero o scomodare la vecchia guardia o addirittura i morti, mi basta citare Elio Germano, Pierfrancesco Favino, Alessandro Gassmann, Kim Rossi Stuart, Claudio Santamaria… di certo ne dimentico qualcuno e certamente ne tralascio qualcun altro, i gusti sono gusti. Beppe Fiorello appartiene a quella categoria di attori che non hanno fatto scuole o seri apprendistati e ha solo avuto ottime frequentazioni ed eccellenti opportunità, dunque fortuna. In questo senso uno che si è inventato dal nulla ma che è cresciuto bene come attore è Valerio Mastandrea. Beppe da ragazzo faceva da tecnico nei villaggi turistici al fratello maggiore Rosario che era lo sfacciato simpatico intrattenitore e che tale è intelligentemente e prudentemente rimasto, sviluppando un personaggio arguto e incisivo; di certo a Rosario Fiorello non saranno mancate le occasione e le succulente offerte per farsi attore ma evidentemente è ben conscio dell’ambito in cui riesce meglio.

Fiorellino, è questo l’ambiguo nomignolo che si è scelto per debuttare ai microfoni di Radio Deejay, e subito a seguire debutta anche in tv sostituendo il fratello alla conduzione del programma “Karaoke” che importò da noi l’orrida esperienza d’intrattenimento sociale che da lì è dilagata anche nei bar e nei ristoranti, e che come “La corrida” ha riempito il piccolo schermo di dilettanti allo sbaraglio, aprendo un terribile Vaso di Pandora. Da buon dilettante allo sbaraglio co’ bullu (col bollo statale, patentato) – e qui sto facendo un richiamo al film dove il ragazzo gay è apostrofato puppu co’ bullo – Fiorellino portò allo sbaraglio il programma che chiuse i battenti. Ma ormai il ragazzo aveva assaggiato le lusinghe della facile fama costruita sul nulla e tentò la carriera musicale come frontman del gruppo pop Patti Chiari che nel 1997 si esibirono al Festibalbar per poi essere subito dimenticati, anche dal web che conserva tutto. Ma il seme del Fiorello attore era già stato seminato l’anno prima: Niccolò Ammaniti ce l’ha sulla coscienza. Si erano conosciuti a Riccione e lo scrittore gli propose di sottoporsi a un provino con Marco Risi che stava preparando il film “L’ultimo capodanno” dal suo libro “L’ultimo capodanno dell’umanità”, film che fu un fiasco, ma l’eroico Beppe aveva trovato la cornice adatta alla sua arte informale.

Fra gli attori teatrali di vecchia scuola si racconta questa parabola: C’era un ragazzo che non sapeva fare nulla ma era ricco di sogni di gloria; in tv vede i trionfi del pugile Nino Benvenuti e decide di farsi pugile ma dopo aver preso i primi pugni decide che non fa per lui. Poi vede i successi del motociclista Giacomo Agostini e decide di darsi al motociclismo ma cade malamente e si frattura varie ossa, e di nuovo decide che non fa per lui. Poi qualcuno lo porta a teatro e lì resta estasiato dagli scroscianti applausi con cui il pubblico omaggia gli attori e allora decide di diventare attore. Anche quel mestiere non fa per lui ma nel bene e nel male il pubblico applaude sempre e oggi quel ragazzo fa ancora l’attore.

Giuseppe Fiorello passa dal grande al piccolo schermo con “Ultimo – il capitano che arrestò Totò Riina” che aveva nel ruolo di protagonista un altro infiltrato nella recitazione, Raul Bova, che però di suo aveva un’indiscutibile avvenenza. L’anno dopo si e ci concede un cameo, nell’hollywoodiano girato in Italia “Il Talento di Mr. Ripley” di Anthony Minghella dove compare fra gli altri italiani anche il fratello Rosario. A quel punto non lo ferma più nessuno e si darà anche al teatro ma sulla sua pagina Wikipedia alla voce “Premi e Riconoscimenti”… no pardon, non c’è questa sezione sulla sua pagina.

Però il regista di oggi gli cresceva dentro. Nel 2007 dirige il video musicale della siciliana Silvia Salemi “Il mutevole abitante del mio solito involucro” e nel 2010 fonda la sua casa di produzione “Ibla Film” mentre Rosario fonda “R.O.S.A.” e insieme producono per i 150 anni dell’unità d’Italia il cortometraggio “Domani” dove fa recitare i suoi figli Anita e Nicola. Si fa dunque produttore e anche sceneggiatore dei progetti in cui recita e a quel punto arriva lo speciale tv autocelebrativo “Il racconto di Beppe Fiorello” firmato dal Vincenzo Mollica per Rai1: l’ego, si sa, va nutrito, e lui a 44 anni ha molto da raccontare di sé e della vita.

Nel 2016, Beppe con la sua casa di produzione opziona i diritti del romanzo del romano Valerio La Martire “Stranizza” che dopo essere uscito nel 2013 edito da “Bakemono Lab.” riceve il patrocinio di Amnesty International per essere rieditato da “David and Matthaus”, dunque sono passati sette anni perché il film prendesse forma, sette anni assai ben spesi. Il romanzo si ispira a una vicenda realmente accaduta nel 1980 nota alle cronache come delitto di Giarre, in provincia di Catania, un duplice delitto di matrice omofoba: le vittime erano Giorgio 25enne dichiaratamente gay e già vittima di bullismo omofobo e Antonio il suo ragazzo 15enne, entrambi uccisi con un colpo di pistola alla testa e ritrovati ancora mano nella mano, che è l’immagine idilliaca sulla quale si chiude il film.

Oggi la vicenda più che per l’amore omosessuale sarebbe stigmatizzata per l’età dei due e si parlerebbe di pedofilia ma quarant’anni fa il crimine era l’omosessualità, in una terra e in un’epoca in cui peraltro erano ancora normali le fuitine con le spose-bambine, quelle che oggi condanniamo in altre culture. L’esecutore del duplice omicidio non fu mai legalmente individuato anche se le indagini condussero al nipote 12enne quasi coetaneo di Antonio, che sarebbe stato incaricato dalle famiglie di compiere il delitto d’onore; interrogato dai carabinieri il bambino, cicciottello e sempliciotto, le cronache diranno che era un po’ ritardato, sostenne che invece erano stati i due innamorati a chiedergli di essere uccisi per l’impossibilità di vivere apertamente la loro relazione, salvo poi ritrattare adducendo che era stato costretto a suon di ceffoni dai carabinieri a dare quella confessione; di fatto non fu mai perseguito per la sua giovane età. Giornalisti e televisioni si affollarono a Giarre da tutta Italia scontrandosi però con l’omertà della comunità locale che non voleva essere associata a una storia di puppi, mentre l’intera opinione pubblica italiana cominciò a fare i conti col problema della discriminazione omofoba, termine che all’epoca neanche esisteva. Il Corriere della Sera titolò: “Derisi da tutto il paese due omosessuali siciliani si fanno uccidere da un ragazzo di 12 anni abbracciati” che è un po’ quello che fecero tutti i quotidiani italiani. Immediatamente il “F.U.O.R.I!”, Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario italiano attivo da Roma in su sin dagli anni ’70 che con quel punto esclamativo fa dell’acronimo una parola di senso compiuto che si associa all’inglese coming out, apre una sede in loco per far sentire la loro voce sul territorio, ma serve a poco: passata l’emergenza i giornalisti se ne vanno e la pace ritorna in provincia.

Marco Bisceglia

Ma se la stampa si distrae così non è per gli omosessuali militanti: dall’altro lato dell’Isola, a Palermo, c’era un prete dichiaratamente omosessuale e sostenitore dei diritti per le persone omo-affettive, Marco Bisceglia; egli era incorso nella sospensione a divinis per essere caduto nella trappola tesagli da due giornalisti del settimanale di destra “Il Borghese”, che fingendosi due cattolici omosessuali gli si rivolsero chiedendogli un “matrimonio di coscienza”; il prete, già sotto i riflettori della Chiesa per le sue posizioni non ortodosse, era divenuto assai cauto nelle manifestazioni pubbliche e acconsentì a una benedizione privata; venne fuori la cronaca dei due solerti giornalisti che nel loro brillante articolo misero insieme le parole “omosessuale” e “ripugnante” e lo scandalo fu servito; Bisceglia li querelò ma i due furono assolti in virtù del diritto di cronaca. Sospeso dal servizio attivo ma ancora religioso e combattente, cominciò a collaborare con l’ARCI, Associazione Ricreativa e Culturale Italiana, fondata nel 1957 a Firenze con l’intento di creare sul territorio, in quel dopoguerra della ricostruzione, dei circoli o case del popolo, di fede comunista e socialista, dunque antigovernativa. Il prete, con la collaborazione del 22enne Nichi Vendola, fondò l’ARCIGAY, la prima sezione dell’ARCI dedicata esclusivamente alla cultura omosessuale, che da Palermo si diffonderà prestissimo in tutta Italia. Anche le femministe lesbiche diedero vita al primo collettivo lesbico siciliano, “Le Papesse”. Per concludere la vicenda di Marco Bisceglia: negli ultimi anni si ammalò di AIDS e, allontanatosi dalle barricate della cultura progressista e omosessuale, fu reintegrato nelle funzioni presbiteriali dall’allora cardinale Joseph Ratzinger e nominato Vicario Coadiutore della Parrocchia di San Cleto a Roma, dove morì nel 2001. Di lui resta, come messaggio laico, la sua rivoluzione per la rivalutazione del corpo, per la liberazione della vita sessuale di ciascuno dalle catene di una morale sessuofobica, colpevolizzante, repressiva, causa di tanta infelicità, che non contraddice la portata positiva del Cristianesimo: il senso del “sacro”, il senso dell’amore. Sacro tra virgolette, a significare dignità, nobiltà, rispetto.

Giuseppe Fiorello con Samuele Segreto.

Digressione dal film molto ampia e particolareggiata, come sempre del resto in questo blog, perché parlando di cinema mi piace contestualizzare i fatti e le persone per una lettura più sociale e umana che strettamente critica. Giuseppe Fiorello realizzando il suo primo film vola alto, come già da attore e produttore dei suoi progetti cine-televisivi aveva mostrato di prediligere un certo impegno, politico e morale. La storia che racconta il film non è la storia vera, ma solo una riuscitissima ispirazione. Così come il romanzo si prendeva delle libertà narrative rispetto alla vicenda reale, altrettanto Giuseppe Fiorello, con i suoi co-sceneggiatori Andrea Cedrola e Carlo Salsa, sviluppa una storia più personale così densa di dettagli e portatrice di emozioni così sincere da sembrare autobiografica, e sappiamo che non lo è; Beppe all’epoca del delitto di Giarre era un undicenne presumibilmente senza dubbi sulla sua identità sessuale, solo di un anno più piccolo del bambino accusato del duplice omicidio, e lui è venuto a conoscenza della vicenda solo in anni recenti, leggendo un articolo di cronaca che parlava del trentennale del delitto e che lo colpì moltissimo, e in quanto siciliano si è sentito co-responsabile del fattaccio e non lo ha più dimenticato, fino ad acquisire i diritti del romanzo che poi romanza e, come dice lui stesso: “Non si è mai scoperta la verità e allora mi sono affidato alla mia immaginazione. Ho immaginato un’estate di due ragazzi che si incontrano e fanno un percorso di vita insieme.”

Gabriele Pizzurro e Samuele Segreto

Colloca la vicenda nel 1982 dei mondiali di calcio, anno calcisticamente vittorioso per l’Italia che utilmente fa da sfondo a molti film che raccontano quegli anni, dando spessore a vicende umane e tensioni narrative; conoscendo bene i luoghi della sua giovinezza compone nel suo film una geografia fantastica che mettendo insieme diversi luoghi reali diventa narrativamente irreale, magica: si tiene lontano da Giarre per non turbare animi ancora dolenti, come ha spiegato, e mette insieme differenti periferie semi-rurali e paesini dove il folclore gioioso fa da contraltare a lavori duri e pericolosi: la cava di pietre e i fuochi d’artificio, con l’impressione sempre sospesa che qualcosa di brutto accadrà in quei luoghi e con quei lavori, ma nulla accade e la vita scorre tranquilla pur nei disagi interiori che non hanno voce. Se qualcosa di brutto deve accadere verrà fuori da quegli animi inquieti.

Gabriele Pizzurro, Simone Raffaele Cordiano e Antonio De Matteo, padre e figli.

E c’è Totò, il fratello piccolo di Nino, intorno al quale il neo-regista tesse una sapientissima tela di sguardi cinematografici che non raccontano nulla di specifico ma che ci insinua sensazioni e dubbi: ammira il fratello maggiore, gli vuole bene? o ne invidioso, e lo odia perché gli ruba attenzioni? e non dimentichiamo che il film si apre con lui che aiutato dallo zio spara a una lepre: il regista segna quel bambino con un battesimo alla polvere da sparo. Così, altrettanto, tutto il film, raccontando la specifica storia di un’amicizia che è anche la scoperta dell’amore adolescenziale, ha sguardi acuti su tutti i personaggi che racconta, scavando nelle loro espressioni, raccontando gesti minimi che hanno il sapore di un antico vissuto e danno spessore e controluce a un film dagli scenari luminosi in cui le ombre si stagliano più nette. Riguardo all’amore adolescenziale omo-affettivo il regista ha dichiarato: “L’adolescenza è quel tratto di vita che trovo divino, in cui ci si ama tra amici pur non essendo omosessuali. Io ho amato il mio amico Carmine, il mio amico Gianni, il mio amico Salvo, il mio amico Emanuele. Ci amavamo, veramente. L’amore adolescenziale va al di là di tutti i discorsi politici. Noi siamo veramente arretratissimi rispetto agli adolescenti. I miei figli si chiedono perché, quando si parla di omosessualità in tv, si usa un tono ‘diverso’. Per loro non è così… Anche del mio film hanno detto è una storia di coraggio. Ma è un peccato pensare che per amarsi ci voglia coraggio.”

La scena dello sberleffo omofobo.

Il neoregista non sbaglia neanche il cast, per comporre il quale guarda senza timore anche fuori dalla Sicilia; un cast da cui tiene fuori nomi e volti più o meno noti e ai debuttanti affianca eccellenti professionisti non ancora “bruciati” da troppe presenze cinematografiche: sono tutti bravissimi, quanto effettivamente lui non è mai stato nella sua carriera di attore. Come regista è bravissimo nel farli esprimere tutti in un credibile siciliano, tenendosi lontano dal finto “sicilianese” di tanti film e interpreti che non sanno cosa sia la lingua siciliana; qua e là affiorano accenti palermitani ma nell’insieme il dialetto di questo film è una sorta di lingua franca in assoluta armonia con le ambientazioni altrettanto di confine.

Luca Pizzurro

Gianni è interpretato dal 19enne palermitano Samuele Segreto che a otto anni ha cominciato a studiare danza e 12enne debutta come attore nel film di Pif “In guerra per amore” e da lì in poi alterna la danza e la recitazione fra programmi e serie tv con una partecipazione ad “Amici” di Maria De Filippi; qui è al suo primo ruolo da protagonista. Nino, l’altro coprotagonista, è il coetaneo romano Gabriele Pizzurro, figlio di Luca Pizzurro attore autore e regista che a Roma dirige il Teatro del Torrino dove a tre anni ha avviato il piccolo Gabriele in laboratori di recitazione per bambini: comprendo il desiderio genitoriale di trasmettere ai figli le proprie passioni ma sono più per il libero arbitrio e lasciare che un bambino sviluppi i suoi propri interessi… magari abbiamo perso un fisico nucleare o un eccellente artigiano ma non lo sapremo mai perché è stato plasmato un altro attore; di fatto il bambino a otto anni va in tournée con Alessia Fabiani nel musical “La bella e la bestia” dove interpreta il candelabro Lumière, quindi sempre bambino va avanti a musical e tournée e viene da chiedersi quando abbia trovato il tempo di andare anche a scuola; passa pure da una masterclass di recitazione all’altra fino a questo suo debutto assoluto nel cinema.

Bellissimi i ruoli delle due madri, magistralmente scritti e magistralmente interpretati: la consapevole e dolente Lina, interpretata dall’ericina (da Erice, Trapani) Simona Malato, che abbiamo già visto in “Le sorelle Macaluso” di Emma Dante, e la napoletana Fabrizia Sacchi, già con una lunga carriera di attrice teatrale televisiva e cinematografica, che interpreta Carmela, donna gioiosa che ama riamata, ma che sprofonda in una cupezza furente e feroce.

I ruoli maschili adulti vanno al casertano Antonio De Matteo, intensissimo padre di Nino, recentemente noto per un ruolo nel televisivo “Mare Fuori”; suo fratello, l’affettuoso zio Pietro, è interpretato con dosatissima ambiguità dal palermitano Roberto Salemi, anch’egli con una lunga carriera sui vari media; Franco, il patrigno di Gianni, è interpretato con la giusta ottusa durezza, e insieme ansia, dal palermitano Enrico Roccaforte, attore e regista che ha partecipato a diversi stage internazionali e ha all’attivo diverse serie tv: qui è cinematograficamente nel suo ruolo più di rilievo.

Il piccolo Totò è l’undicenne messinese Simone Raffaele Cordiano che già lo scorso anno aveva debuttato con “I racconti della domenica” di Giovanni Virgilio e ha all’attivo anche una partecipazione nel televisivo “Buongiorno mamma!”. La palermitana Giuditta Vasile interpreta la sorella maggiore e il ragusano Giuseppe Spata interpreta il suo giovane marito che al dolore del giovane cognato ferito dallo scandalo omofobo confida e consiglia un illuminante: “Quello che fai di nascosto lo puoi fare per cent’anni”. Fra gli altri ruoli di rilievo vanno annoverati gli omofobi tormentatori di Gianni: il palermitano Giuseppe Lo Piccolo, che è il più feroce, e il torinese Alessio Simonetti che è il bello capobranco con una segreta passione omoerotica per la vittima. La ragusana Anita Pomario, anche lei vista in “Le sorelle Macaluso”, interpreta la dolente ragazza in vendita davanti al bar. Divertente il personaggio muto dell’americano con tanto di cappello da cowboy e super-stereo in spalla, figura che appartiene alla memoria collettiva di tanti siciliani di provincia, forse vero americano immigrato per amore oppure paesano di ritorno che fa l’americano; è l’ultima interpretazione di Orazio Alba, amico e attore catanese prematuramente e improvvisamente scomparso in concomitanza all’uscita del film.

Nell’insieme un cast di attori per i quali vedrei bene un premio collettivo in qualche festival, e nello specifico il mio cuore batte per Simona Malato e Antonio De Matteo. Prevedo in ogni caso premi e riconoscimenti anche al regista esordiente, ma per Nastri d’Argento e David di Donatello se ne parla il prossimo anno, dato che i primi sono stati già assegnati e dei secondi sono già stati dati i candidati.

Di stranezza in stranezza il titolo del romanzo conduce Beppe al titolo di una canzone, “Stranizza d’amuri” di Franco Battiato, sul quale non è necessario spendere parole; la canzone parla della capacità dell’amore di sopravvivere in qualsiasi contesto, anche il più difficile, e racconta di una coppia di innamorati in mezzo a una guerra ma che, “nonostante l’orrore che li circonda, sentono che il loro sentimento non cede, non muore, rimane puro e stabile”. Beppe racconta che Battiato è stato la colonna sonora della sua giovinezze e va da sé che la canzone diventi la colonna sonora del film che prende il medesimo titolo, e di Battiato c’è anche “Cucuruccucù” a sottolineare il momento gioioso della relazione fra i due ragazzi. Mentre le musiche originali sono del modicano Giovanni Caccamo già collaboratore di Battiato, e del romano Leonardo Milani. E di stranezza in stranezza mi viene da considerare che quest’anno ben due film ne parlano: prima di questa “Stranizza d’amuri” c’è stato “La stranezza” di Roberto Andò a sottolineare il fatto che la stranezza, come sentimento e come modo di essere, appartiene ai siciliani.

Giuseppe Fiorello fra Giovanni Caccamo e Leonardo Milani.

Tornando al duplice delitto del 1980: Il 9 maggio 2022 il Comune di Giarre ha apposto una targa commemorativa dedicata alle due vittime all’ingresso della biblioteca comunale “Domenico Cucinotta”, e mi sono voluto chiedere che fine avesse fatto Francesco Messina, quel bambino cicciottello forse un po’ ritardato che le famiglie hanno mandato a compiere il delitto d’onore: oggi è in carcere per estorsione e ha all’attivo una lunga lista di precedenti penali: quel duplice omicidio ha fatto tre vittime, perché forse il bambino spinto all’omicidio dall’orgoglio omofobo di due famiglie avrebbe potuto avere altre occasioni di vita.