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Medea – la tragedia di Euripide, il film di Pasolini, la cronaca nera

Il film completo

Da “Uccellacci e uccellini” un salto di tre anni al 1969 nel mio racconto della cinematografia di Pier Paolo Pasolini per arrivare direttamente alla sua “Medea” e farla scorrere in concomitanza alla cronaca nera che vede l’ennesima madre assassina rinominata Medea, appunto, perché pare che dietro il suo gesto estremo ci sia la gelosia. Ma così come è sempre riduttivo incorniciare un dramma umano dentro le etichette che viaggiano su quotidiani e social, lo è altrettanto – e soprattutto – per la tragedia di Euripide che Pasolini ha messo in film.

Ma cosa sappiamo davvero della tragedia? Μήδεια (Médeia) è andata in scena per la prima volta 2453 anni fa, nel 431 avanti Cristo ad Atene nel corso delle Grandi Dionisie, che erano delle celebrazioni dedicate al dio Dioniso durante le quali venivano rappresentate opere in competizione sia tragiche che comiche; Medea si classificò al terzo posto dietro opere oggi perdute, e se oggi la consideriamo un capolavoro chissà cosa devono essere stati gli altri due testi. Molto in sintesi la trama è questa: La maga Medea, originaria della Colchide (l’odierno stato della Georgia sulle rive del Mar Nero, quindi a nord della Grecia) aiuta con i suoi incanti il marito Giasone (figlio di re, ma in disgrazia perché lo zio gli ha usurpato il trono) a conquistare un prezioso vello d’oro, e poi si trasferisce con lui a Corinto; ma lì Giasone, sempre in cerca di riscatto, decide di ripudiare Medea, dalla quale ha avuto due figli, per sposare Glauce, la figlia di Creonte re di Corinto, e accedere alla successione del regno; il resto lo si legge in cronaca: Medea uccide i suoi due figli (oltre alla sposina) per gelosia e vendetta.

Medea è una figura mitica che appartiene all’antichissima cultura greca e pare che Euripide non fosse il primo né l’unico a drammatizzare sulla sua figura, così come mitici sono anche gli altri personaggi e le loro ascendenze che risalgono alle epoche misteriche in cui gli Dei dell’Olimpo si accoppiavano con gli umani. Miti che sono metafore di realtà più concrete: ad esempio pare che il vello d’oro, la sua ricerca e la sua conquista, racconti la più prosaica carenza di grano, oro vegetale, di quelle terre.

Nella tragedia di Medea c’è la particolarità, al contrario della tradizione scenica, che non ci sono Dei fra i personaggi: essi latitano, tacciono, tanto che Giasone inveisce contro di loro per la loro assenza nel tragico finale. L’altra particolarità, caratteristica di grande modernità, è che non ci sono i due classici personaggi a dibattere, a scontrarsi in un dualismo scenico, la tesi e l’antitesi, ma c’è la sola Medea che si dibatte nel dualismo dei suoi istinti: quello di madre e quello di assassina che si alternano, nevroticamente diremmo oggi, anche all’interno della stessa scena: una complessità emotiva che rende il personaggio drammaturgicamente sfaccettato e culturalmente esemplare, tanto da venire richiamato alla memoria nelle tristi cronache contemporanee e aver dato il nome alla Sindrome di Medea. Un’altra cosa da considerare del personaggio è la sua alterità, la sua estraneità al luogo di azione e ai comprimari: è una maga, quindi cultrice di oscuri misteri, ed è straniera, quindi portatrice di tradizioni sconosciute: 2453 anni fa un personaggio – o persona – del genere, innescava paure ancestrali che ancora oggi non sono sopite, purtroppo: la paura dello straniero e del diverso da noi, con l’incapacità colpevole del rifiuto alla comprensione e alla conoscenza, e alla serena accoglienza. Inoltre c’è già all’interno della tragedia l’espressione di un preciso modello familiare: quello greco e moderno (di Euripide) che contrasta con quello antico e barbaro di Medea; Giasone spiega la sua necessità di dare nuovi figli alla patria (Mussolini ribadirà il concetto) e ottenere per sé un’emancipazione, un riscatto sociale, rinfacciando alla donna di averla portata via da un mondo barbaro onorandola col matrimonio; è uno scontro di culture che oggi (e dalle nostre parti) si complica dell’emancipazione della donna (a volte più teorica che pratica) dove la donna non è più la custode del focolare domestico intanto che l’uomo va alla conquista del mondo: entrambi hanno pari incarichi ed opportunità, entrambi possono tradire e farsi nuove famiglie – e se oggi una donna si fa Medea sta anche portando indietro di migliaia di anni il suo e il nostro calendario. Questo sul piano sociale. Ma sul piano strettamente umano, sentimentale, non si può che fare i conti con la natura umana, gli istinti – l’amore, l’odio, la paura, la fame, il bisogno di riprodursi – che sono identici nei millenni a prescindere dall’evoluzione sociale e tecnologica.

Altri autori hanno scritto del mito di Medea: Seneca, Ovidio, Quinto Ennio, e dall’Ottocento in poi: l’austriaco Franz Grillparzer, il francese Jean Anouilh, il nostro Corrado Alvaro, la tedesca Christa Wolf. E il film di Pasolini può anch’esso essere considerato una riscrittura: in un periodo in cui il teatro classico veniva (e tutt’oggi viene) modernizzato, lui ne fa un’opera assolutamente antimoderna; asciuga all’estremo i versi e l’azione parlata per ricollocare la sua Medea in un mondo premoderno, con azioni e riti di natura arcaica come i sacrifici umani, e una ritualità tanto affascinante quanto per noi spettatori intellettivamente incomprensibile, perché misterica; cui hanno contribuito in modo determinante gli straordinari costumi di Piero Tosi (Gabriella Pescucci futuro premio Oscar ne è assistente al suo debutto) e la scenografia di Dante Ferretti qui al suo primo lavoro da titolare dopo essere stato assistente sugli altri set di Pasolini “Il vangelo secondo Matteo” “Uccellacci e uccellini” ed “Edipo Re”, in location di straordinario fascino e alterità, dove anche Pisa sembra un misterioso altrove.

Pasolini compone dunque un film più visivo che parlato, con lunghe sequenze certo frutto di minuziosissime ricerche in cui racconta e rende reale sullo schermo un’arcaicità che realmente possiamo però solo immaginare, ed è talmente ben riuscita e affascinante che non ci resta che prenderla per buona. Sulla stessa linea è il commento musicale con brani etnici alla cui ricerca e selezione ha contribuito l’amica Elsa Morante. E il film si presenta come un percorso immersivo in quell’arcaicità in cui lui colloca la vicenda della sua Medea, più fruibile sul piano sensoriale che su quello prosaicamente narrativo. Pasolini apre il film con un lungo monologo filosofeggiante che il centauro Chirone – personaggio inesistente nella tragedia di Euripide – fa al piccolo Giasone mentre scorrono gli anni e il bambino diventa uomo: testo tutto in linea con la visione pasoliniana del mondo e poco appetibile dal punto di vista spettacolare; è il suo “teatro di parola” dove le idee hanno più importanza dell’azione: una sua intellettualistica teorizzazione del teatro che però non ha fatto scuola e nella quale i suoi testi teatrali rimangono congelati. Nel film ne consegue che se non si conosce alla perfezione la storia narrata, la banale trama, ci si perde, anche perché gli altri personaggi, muti o comunque molto silenziosi, non sono neanche nominati e non ci resta che intuirne identità e relazioni. Un’estremizzazione tipica di un Pasolini idealista che nell’assoluta certezza del suo punto di vista non concede nulla allo spettatore, così come all’interlocutore nelle dispute intellettuali sulle pagine stampate.

Giuseppe Gentile, Maria Callas e Pasolini in uno degli assolati set sparsi fra Turchia e Siria

A interpretare l’ingombrante personaggio Pasolini chiama Maria Callas, che non ha bisogno di presentazioni; si può solo contestualizzare che la soprano aveva reso famosa nel mondo l’opera omonima di Luigi Cherubini già legando a sé, così, il nome di Medea; ma sono anche gli anni del suo declino e accetta il ruolo cinematografico come una forma di riscatto dalle tante cocenti delusioni, non ultima quella di Aristotele Onassis che la lascia per sposare Jacqueline Bouvier vedova Kennedy.

E Maria Callas, nell’interpretare questa Medea pasoliniana, è statuaria, magnificamente vestita e truccata come si evince dai titoli di testa: “Il trucco della Sig.ra Callas è stato curato da GOFFREDO ROCCHETTI e la pettinatura da MARIA TERESA CORRIDONI”; e nell’essere statuaria, oltre a dare importanza fisica e morale al suo personaggio, è anche apparentemente inespressiva proprio perché asciuga, cinematograficamente, gli eccessi espressionistici tipici del teatro d’opera dove pure brillava come interprete oltre che come cantante, e calibra espressioni e sguardi furenti quasi da diva del cinema muto – che è un po’ l’impostazione di Pasolini. Anche la sua recitazione, pur nel doppiaggio di Rita Savagnone che ne segue le cadenze, è di alto livello ed esiste un’altra versione del film in cui è lei stessa a doppiarsi.

Per il ruolo di Giasone viene scelto un aitante sportivo con una bella faccia da cinema, l’olimpionico (due medaglie d’argento e due di bronzo) triplista e lunghista Giuseppe Gentile, un metro e novanta di corpo asciutto e tornito che Pasolini adocchiò sui rotocalchi, allorché l’atleta se la spassava sulla Spider donatagli dalla Fiat per le sue imprese alle Olimpiadi del 1968 di Città del Messico, dove aveva segnato due record mondiali, durati però solo 26 ore. Anche Mario Monicelli gli aveva proposto il cinema ma lui aveva rifiutato spiegando che preferiva saltare, ma quando Pasolini si fece avanti con la sua proposta, e con la produzione di Franco Rossellini che gli offriva 10 milioni di lire, accettò di recitare; sentendo però sul set il peso della sua inesperienza e ritrovandosi non più campione da podio ma matricola che doveva ricorrere ai suggerimenti dei professioni del set; e per la scena del bacio con la Callas, il regista perse pure la pazienza: “Se io piegavo il volto a destra – ha ricordato l’atleta – Maria Callas lo girava a sinistra, e viceversa. Fu allora che Pasolini, dopo sei o sette tentativi, si alterò: Vi volete baciare sí o no?” e allora il bacio divenne giocoforza appassionato e fu finalmente “buono” per l’autore. In seguito a questa sua interpretazione gli arrivarono altre offerte che lui rifiutò tutte perché non le riteneva all’altezza dell’esperienza fatta con Pasolini. È doppiato da Pino Colizzi. L’atleta prestato al cinema negli anni a seguire scrisse un libro di memorie, “La medaglia (con)divisa, il triplo, Pasolini e Maria Callas” in cui ricorda erroneamente che a doppiarlo fu Nino Castelnuovo perché a Pasolini non piaceva la sua parlata romanesca, e confessa che con la paga del film si comprò un appartamento, lui che da atleta prendeva dal Coni 140mila lire al mese; e comunque era benestante per nascita essendo figlio del questore di Roma e pronipote del filosofo Giovanni Gentile che fu ministro dell’istruzione per Mussolini; in seguito gli furono offerti altri film, soprattutto spaghetti-western, in uno dei quali doveva sculacciare una donna e lui da gentiluomo rifiutò; ma racconta soprattutto che la sua scrittura doveva essere approvata dalla divina Callas che volle incontrarlo preventivamente, e valutarlo; valutazioni artistiche che lo stesso Pier Paolo le chiedeva sul set, riconoscendole un’esperienza artistica lunga decenni e di vastità mondiale, una condiscendenza che non aveva per nessun altro, ed era con tutti rigido e intransigente.

Anche il resto del cast è nello stile pasoliniano che mischia la manovalanza locale ad attori professionisti, e professioni in altri campi che diventano attori occasionali. Dal mondo sportivo arriva anche un carissimo amico di Giuseppe Gentile, il discobolo Gianni Brandizzi che con i suoi quasi due metri d’altezza è Ercole negli Argonauti guidati da Giasone; lo studente Luigi Barbini, già apostolo in “Il Vangelo secondo Matteo” è un altro degli Argonauti; il francese Laurent Terzieff è il centauro Chirone doppiato da Enrico Maria Salerno; e Massimo Girotti, che l’anno prima era stato nel cast di “Teorema” torna a lavorare con Pasolini nel ruolo di Creonte; un’altra francese, Margareth Clémenti, moglie di Pierre Clémenti, è Glauce; Annamaria Chio è la nutrice, Sergio Tramonti debutta come Apsirto, il fratello che Medea uccide e fa a pezzi al fine di rallentare suo padre Eete che la sta inseguendo dopo che lei ha aiutato Giasone a trafugare il vello d’oro – e già lì Medea promette male; Maria Cumani Quasimodo, moglie del poeta, è una sacerdotessa; il cantautore americano Paul Jabara è Pelia, lo zio cattivo di Giasone; e c’è anche una quasi debuttante Piera Degli Esposti che si fa fatica a riconoscere nella corte di donne che accudisce la protagonista.

Il film, apprezzato dai critici, fu snobbato dal pubblico come fin qui tutti i film di Pasolini. Nel 1988 il danese Lars Von Trier realizza una Medea per la televisione basata sulla sceneggiatura di Carl Theodor Dreyer che era già stata offerta a Maria Callas.

Massimo Girotti
Laurent Terzieff con Pasolini
Piera Degli Esposti
Sergio Tramonti

Luigi Barbini
Margareth Clémenti

Il Vangelo secondo Matteo

1964. Dopo le aspre polemiche e la denuncia per vilipendio alla religione del suo cortometraggio “La ricotta” che compone il film “Ro.Go.Pa.G.”, Pier Paolo Pasolini torna nelle sale con un film intensamente religioso, frutto di meditazioni personali che risalgono a quando adolescente era stato tentato dalla via ecclesiale – segno di una tormentata e intensa vita interiore – poi dirazzata nel comunismo più spinto nella sua presa di coscienza sociale secondo la quale metteva gli ultimi al centro del suo pensiero speculativo: dirazzata perché era un’epoca in cui dichiararsi comunisti significava automaticamente dirsi anche atei. Era l’epoca delle barricate ideologiche perché ancora bruciavano le ferite del fascismo che i quarantenni come Pasolini avevano vissuto sulla loro pelle, un fascismo nero e cattivo che era stato rimpiazzato dal totalitarismo del fascismo bianco accogliente e rassicurante della Democrazia Cristiana, una democrazia che ispirata appunto al cristianesimo metteva al bando e perseguitava anche con l’uso della forza qualsiasi pensiero che avesse radici a oriente, nel comunismo russo e cinese: erano gli anni in cui si temeva che i cosacchi venissero ad abbeverare i loro cavalli in San Pietro, il libero stato del Vaticano che eterodirigeva (e ancora lo fa, anche se a fatica) lo stato italiano.

Ma va considerato che la Democrazia sedicente Cristiana era in realtà soltanto cattolica, sapendo che fra cristianesimo e cattolicesimo ci sono delle sostanziali differenze che non sfuggivano certo all’attenzione di Pasolini che, da questo punto di vista, si poteva definire più cristiano dei sedicenti cristiani di fede cattolica: Cristiano è colui che segue gli insegnamenti del Cristo e sono Cristiani anche i Protestanti e gli Ortodossi che non riconoscono l’autorità del Papa cattolico dato che il Cattolicesimo è una delle tante confessioni che sono nate nel nome di Cristo, la più pervasiva ma non l’unica e assoluta; e laddove il Cattolicesimo si è imposto come una sovrastruttura politica con le sue classi dirigenti con propri palazzi del potere che nulla hanno da invidiare ai palazzi reali – il Cristianesimo, quello puro, si può vedere come la religione dei poveri e degli ultimi a cui il Cristo ha dato attenzione e voce: quel Cristo che ha cacciato i mercanti dal tempio è qui Pasolini che mette i cattolici di fronte a quella stessa scomodissima realtà.

Elsa Morante, Pasolini, Bini e Margherita Caruso e Marcello Morante come Maria e Giuseppe

Pasolini aveva dichiarato: “La mia idea è questa: seguire punto per punto il Vangelo secondo Matteo, senza farne una sceneggiatura o riduzione. Tradurlo fedelmente in immagini, seguendone senza una omissione o un’aggiunta il racconto. Anche i dialoghi dovrebbero essere rigorosamente quelli di San Matteo, senza nemmeno una frase di spiegazione o di raccordo: perché nessuna immagine o nessuna parola inserita potrà mai essere all’altezza poetica del testo. E’ quest’altezza poetica che così ansiosamente mi ispira. Ed è un’opera di poesia che io voglio fare. Non un’opera religiosa nel senso corrente del termine, né un’opera in qualche modo ideologica. In parole molto semplici e povere: io non credo che Cristo sia figlio di Dio, perché non sono credente, almeno nella coscienza. Ma credo che Cristo sia divino: credo cioè che in lui l’umanità sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di là dei comuni termini dell’umanità. Per questo dico ‘poesia’: strumento irrazionale per esprimere questo mio sentimento irrazionale per Cristo.”

Enrique Irazoqui, Pasolini e accovacciato sul fondo l’aiuto regista Maurizio Lucidi

Secondo il suo stile compone un film scarno con la fotografia in bianco e nero del fidato Tonino Delli Colli, fatto di molti primi piani che si alternano a campi lunghi e lunghissimi, e occasionali carrellate a scoprire i soggetti fermi e fissi come in posa per dei ritratti o a seguire i movimenti lunghi delle processioni. Scrive da solo la sceneggiatura dal Vangelo di Matteo senza aggiungere nulla, e da quel punto di vista è inattaccabile; però non sa rinunciare alla sua visione delle cose e nel primo film che consegna al produttore Alfredo Bini non ci sono i miracoli né la resurrezione perché il suo film intendeva raccontare solo un uomo, l’uomo Gesù, che spogliato dai fenomeni soprannaturali è soltanto trascinatore di quelle masse cui raccontava una nuova verità: per Pasolini il cosiddetto Verbo di Cristo aveva più valore della parte più fantastica e accattivante del racconto. Il produttore invitò alla visione privata il suo amico Monsignor Francesco Angelicchio, che da Giovanni XXIII era stato messo a dirigere il Centro Cattolico Cinematografico, ruolo che lui svolgeva senza piglio censorio ma in modo amichevole ascoltava le persone per meglio aiutarle a indirizzare i loro messaggi, e per questo era diventato intimo di molte personalità del mondo cinematografico fra cui Fellini, Rossellini, Olmi oltre ai più barricadieri Liliana Cavani e Pasolini appunto. Qui di seguito l’intervista Rai su quell’incontro.

Pasolini aveva scelto come set naturali la Basilicata e la Calabria, come anche le desertiche pendici sassose dell’Etna per la sequenza della tentazione del demonio, perché la Palestina, dove aveva fatto un sopralluogo, si era troppo occidentalizzata e lì anche le eventuali comparse non erano più credibili, lui che cercava l’arcaicità e riusciva a trovarla solo nel sottoproletariato, la bassa manovalanza, gli analfabeti, e trova volti segnati, di grande efficacia espressiva anche laddove non esprimono nulla perché il segno è nelle rughe, nei denti poco curati, negli sguardi attoniti e inconsapevoli, e a tutti lui dedica un primo piano. In questo senso è magistrale la sua ricerca dei volti, come lo fu quella di Fellini, ma Fellini truccava e vestiva i suoi figuranti per farli diventare grottescamente simili ai pupazzi che disegnava mentre Pasolini li lascia tragicamente integri.

Così, dopo la chiacchierata con Checco Angelicchio, tornò ai Sassi di Matera e rimise in piedi i set, cercando fra i locali dei veri storpi: anche i miracoli sono quanto di più scarno si possa cinematograficamente immaginare ma sono in linea, e dunque efficaci, col racconto fortemente voluto dall’autore che, va svelato, aveva raggelato i primi entusiasmi del produttore che si era immaginato un kolossal in Technicolor addirittura con Burt Lancaster protagonista, una roba hollywoodiana insomma, che l’anno dopo sarebbe arrivata puntuale con “La più grande storia mai raccontata” di George Stevens. E nonostante il beneplacito del monsignore e dunque del Vaticano, siccome c’erano e sempre ci sono quelli più realisti del re, il film scatenò sulle pagine dei giornali aspri confronti fra sostenitori e detrattori fra i quali si riaffacciarono quelli che ancora gridavano allo scandalo e di nuovo invocavano il vilipendio: l’animosità non era contro il film ma contro Pasolini in quanto scomodissimo intellettuale. Ambiguo fu il giudizio dell’Unità: “Il nostro cineasta ha soltanto composto il più bel film su Cristo che sia stato fatto finora, e probabilmente il più sincero che egli potesse concepire. Di entrambe le cose gli va dato obiettivamente, ma non entusiasticamente atto”: da notare il riduttivo soltanto e la formale e obiettiva mancanza di entusiasmo. Misurato fu il giudizio dell’organo di stampa vaticano, l’Osservatore Romano: “Fedele al racconto non all’ispirazione del Vangelo” che però alla fine chiosa: “Il più bel film su Gesù di tutti i tempi” consegnando ai posteri ma soprattutto ai contemporanei un giudizio positivo che varrà al film il Leone d’Argento Gran Premio della Giuria a Venezia, i Nastri d’Argento alla regia, alla fotografia e ai costumi davvero molto belli di Danilo Donati, e le candidature all’Oscar sempre per i costumi, la scenografia di Dante Ferretti e Luigi Scaccianoce e la colonna sonora con le musiche originali di Luis Bacalov oltre al repertorio classico tanto caro a Pasolini.

Il ruolo di Gesù lo offre a un diciannovenne catalano, Enrique Irazoqui, che per le sue origini italiane dal lato materno, era stato mandato dal sindacato universitario clandestino di Barcellona presso un’organizzazione di studenti fiorentini in cerca di aiuti economici per coprire un grosso debito che gli studenti antifranchisti avevano accumulato con i tipografi della loro città. Da Firenze la raccolta fondi universitaria si spostò a Roma e lì Enrique conobbe Pasolini e la Morante in casa di lui che fu subito intrigato dal suo viso e gli propose il ruolo, telefonando di corsa al produttore: “Ho trovato Gesù! Gesù è in casa mia!” Lo studente però aveva rifiutato l’offerta perché in contrasto con la sua ideologia, ma fu convinto da Elsa Morante e dal produttore Alfredo Bini che gli indicarono la via: interpretare un Gesù gramsciano, politicamente vicino agli ultimi – ma anche l’entità del compenso fu determinante all’accettazione del ruolo, compenso che versò interamente nelle casse del movimento studentesco antifranchista. Rientrato in patria fu punito dal regime per avere interpretato un film di “propaganda comunista” col ritiro del passaporto e l’espulsione dall’università. Divenuto a suo modo una estrella del cine girò altri due lungometraggi della scuola oggi detta barcellonese, entrambi con l’italiana in trasferta Serena Vergano già interprete di “Una vita violenta” di Heusch-Rondi e dunque appartenente a quella che oggi possiamo definire la factory di Pasolini per parafrasare quella newyorkese di Andy Warhol. Poi Enrique si spostò a Parigi per laurearsi in economia e successivamente andò negli Stati Uniti dove conseguì una seconda laurea in letteratura spagnola, materia che insegnò nelle università statunitensi. Ma sin da bambino era stato anche un appassionato di scacchi, tanto che nel 1968 era riuscito a battere il numero tre della squadra olimpica francese, e in seguito, non trovando degni avversari nelle università, cominciò a giocare contro un computer – era l’epoca in cui quelle macchine cominciavano a diffondersi nelle università americane – ma non ritenendolo all’altezza predispose partite fra due pc, apportando così importanti migliorie alle capacità del dispositivo. Nel 2011 è tornato in Italia per una mostra dedicata a Pasolini e in quell’occasione ha ricevuto la cittadinanza onoraria di Matera; ha dichiarato che Pasolini avrebbe voluto fare un film da un suo testo intitolato “Il padre selvaggio” solo a condizione di averlo ancora come protagonista, ma Irazoqui aveva rifiutato dicendosi ormai più interessato a fare la rivoluzione che il cinema. Negli ultimi anni è tornato però davanti alla macchina da presa, prima nel video musicale di Vinicio Capossela “Il povero Cristo” interpretato anche da Marcello Fonte e Rossella Brescia, e poi nel progetto multimediale materano, film più performance dal vivo, di Milo Rau “Il nuovo vangelo”. È morto 76enne nel 2020 ed è ancora inedito il suo ultimo film, “Cenestesia” di Joan Vall Karsunke, ispirato all’omonimo e semi-autobiografico libro di José María Nunes.

L’interpretazione del ragazzo è intensa e convincente ma necessitando di essere doppiato viene chiamato a dargli voce Enrico Maria Salerno che è di 22 anni più anziano e questo si sente, la voce non corrisponde al volto in quello che in gergo si dice voce scollata; ma c’è di buono che stavolta il lavoro del professionista svolto nel buio della saletta di registrazione viene riconosciuto sin nei titoli di testa. Il resto del cast, come detto, è formato dalla manovalanza locale e dagli intellettuali amici di Pasolini che ormai fanno la fila per apparire nei suoi film. In testa c’è la maschera tragica di Susanna Pasolini, madre dell’autore nel ruolo della vecchia dolente Maria.

La giovane Maria è interpretata dalla studentessa 14enne Margherita Caruso, che subito dopo avere preso parte al film ricevette una proposta dal già hollywoodiano Dino De Laurentiis per interpretare una nuora di Noè in “La Bibbia” di John Huston; Margherita, che nel frattempo è divenuta perito chimico e vive a Milano, racconta 50 anni dopo che a scattarle alcune fotografie ai giardini comunali fu il padre, ma non era il book professionale che avevano richiesto gli americani e la cosa finì lì. L’ex ragazzina racconta che Pasolini era giunto da quelle parti accompagnato dal 16enne Ninetto Davoli: i due già si frequentavano a Roma ma Ninetto era nativo proprio della Calabria e gli avrebbe fatto da gancio con i locali; nello specifico si era avvicinato alla ragazzina guardandola con fare ammiccante e lei, abbassando lo sguardo intimidita era tornata nella comitiva dei suoi amici: quello era stato il primo provino. Subito dopo si sentì bussare su una spalla: era lui, Pasolini, che le dice: “Mi conosci?”. “No”, aveva risposto lei. “Sono Pasolini, ti piacerebbe fare un film?”. Ci fu un boato tra gli amici, più per la parola film che per il nome Pasolini. I provini lui li aveva fatti così, per strada: mandava Ninetto Davoli a fare domande provocatorie a quelli che aveva puntato e se ne stava in disparte a guardare come reagivano, come si muovevano: li sceglieva per l’espressività e poi sul set si lavorava senza copione, diceva all’ultimo momento quello che bisognava fare. “Ma io ho fatto un provino anche a casa sua; c’erano Morante, Moravia, Siciliano, Maraini.” Anche suo padre fece il figurante e interpretò il fariseo che dice del Cristo: “Dobbiamo trovare un modo per farlo morire”.

L’importante ruolo di Giuseppe va invece allo scrittore Marcello Morante fratello della più nota Elsa Morante già carcerata in “Accattone”, e padre dell’attrice Laura Morante, qui doppiato da Gianni Bonagura. Un altro scrittore e poeta, Mario Socrate, interpreta il Battista doppiato da Pino Locchi e a discesa tutti gli altri ruoli, grandi e piccoli, interpretati da intellettuali e affini: Natalia Ginzburg è Maria di Betania e Enzo Siciliano è Simone; Giacomo Morante, figlio di Marcello e fratello di Laura, interpreta Giovanni l’Apostolo; il filosofo Giorgio Agamben è Filippo; lo scrittore e giornalista Francesco Leonetti è Erode Antipa; il poeta scrittore pittore Alfonso Gatto è Andrea; il principe palermitano Alessandro Tasca di Cutò è Ponzio Pilato; il contadino partigiano e rivoluzionario intellettuale Rosario Migale è Tommaso; il poeta scrittore argentino naturalizzato italiano Rodolfo Wilcock è Caifa; gli attori professionisti Elio Spaziani e Renato Terra interpretano Taddeo e un fariseo; Amerigo Bevilacqua da borgataro di “Accattone” assurge al ruolo di Erode il Grande; lo studente 17enne Luigi Barbini è Giacomo di Zebedeo, e dopo quest’esperienza continua per altri pochi anni la carriera di attore girando anche una mezza dozzina di film di nuovo con Pasolini ma anche con un piccolo ruolo in “Giulietta degli spiriti” di Fellini e un paio di peplum, ma alla fine ha lasciato la carriera cinematografica per laurearsi in Teologia; la 12enne Paola Tedesco debutta come Salomè e la notorietà le arriva in tv come valletta di Pippo Baudo, cui seguirà una carriera di attrice in film di secondo piano; Rossana Di Rocco è l’angelo, e se lo aggiudicherà lei il ruolo della nuora di Noè in “La Bibbia” che era sfuggito a Margherita Caruso, e avrà anche una particina nel film di Alessandro Blasetti con Walter Chiari “Io… io… io… e gli altri” prima di tornare alla vita cosiddetta civile. Anche Ninetto Davoli debutta come pastorello e subito dopo sarà coprotagonista con Totò in “Uccellacci e uccellini”: da notare che fra i giovani proletari lanciati da Pasolini lui è l’unico che appare sempre apertamente sorridente, nelle fotografie in posa gli altri hanno molto più spesso uno sguardo sfuggente o un sorriso amaro o di sola circostanza: già in quello sguardo aperto e senza vergogna si vede che sarà vicino a Pier Paolo fino alla fine.

“Il miglior film su Cristo, per me, è Il Vangelo secondo Matteo, di Pasolini. Quando ero giovane, volevo fare una versione contemporanea della storia di Cristo ambientata nelle case popolari e per le strade del centro di New York. Ma quando ho visto il film di Pasolini, ho capito che quel film era già stato fatto.” Martin Scorsese. Su YouTube il film completo.