Archivi tag: critics choise awards

Oppenheimer – Miglior Tutto (o quasi) Oscar 2024

7 premi su 13 nomination sia agli Oscar che ai BAFTA per le medesime categorie, 5 Golden Globe, 4 Critics Choise Awards, 3 SAG-AFTRA, un Grammy Award alla colonna sonora di Ludwig Göransson, e l’inserimento nel National Board Rewiew fra i 10 migliori film dell’anno. Per non dire degli incassi record, anzi lo stiamo dicendo. Tutto questo nonostante il film sia sostanzialmente ostico trattando di materie astratte come la fisica e la quantistica e raccontando un protagonista non particolarmente simpatico in un contesto storico e accademico fatto di nomi e circostanze che dicono poco o nulla al grande pubblico: tolti i rassicuranti (perché conosciuti) Albert Einstein e il presidente Harry Truman, sono tutti personaggi alcuni dei quali Premi Nobel che fanno solo girare la testa. Ma la forza del film, scritto dallo stesso regista dalla biografia “Robert Oppenheimer, il padre della bomba atomica” di Kai Bird e Martin J. Sherwin che già vinse il Premio Pulitzer, sta nella sua struttura che mescola i generi spy thriller e legal drama interpuntati da accattivanti veloci effetti che visualizzano l’astrusità (per noi comuni spettatori) della materia quanto mai oscura, e la confezione è talmente perfetta che ci tiene incollati allo schermo nonostante le tre ore di visione. Gli Oscar vinti sono Miglior Film, Miglior Regista, Miglior Protagonista, Miglior non Protagonista, Miglior Fotografia a Hoyte Van Hoytema e Miglior Montaggio a Jennifer Lame.

Ma c’è da aggiungere che molto del merito va anche alle superlative interpretazioni dell’insieme, sin nei ruoli più piccoli dove spesso ritroviamo nomi di prim’ordine, e questo fa la differenza: la grandezza di un film, e conseguentemente del suo autore, si vede anche dall’adesione che al progetto viene da conclamati protagonisti che pur di esserci si accontentano di ruoli secondari: ci sono i già premi Oscar Matt Damon (miglior sceneggiatura originale nel 1998 insieme all’amico Ben Affleck per “Will Hunting – Genio Ribelle”) il quale non ha mai disdegnato i ruoli da comprimario se ne vale la pena e che qui ha uno dei ruoli più corposi, il fratello del suo amico Casey Affleck (miglior non protagonista nel 2017 per “Manchester by the Sea”) ed entrambi già con ruoli secondari nel cast di “Interstellar” sempre di Christopher Nolan.

Gary Oldman

In ruoli davvero minori Rami Malek (miglior protagonista nel 2019 per “Bohemian Rhapsody” dove ha impersonato Freddy Mercury), Sir Kenneth Branagh (7 candidature e un solo Oscar nel 2022 per la miglior sceneggiatura originale del biografico “Belfast”) e Gary Oldman (miglior attore nel 2018 per “L’ora più buia” dove è stato Winston Churchill) che qui con una sola scena lascia la sua impronta come presidente Truman il quale pensa basti pulirsi le mani con un fazzoletto di seta dal sangue versato dalla bomba atomica che rivendica come sua.

Ci sono poi i già candidati all’Oscar Florence Pugh (nel 2020 per “Piccole Donne”) che qui pervade la prima parte del film come tormentata amante segreta di Oppenheimer, e soprattutto Robert Downey Jr. che come vero antagonista complottista si aggiudica l’Oscar best supporting actor dopo aver ricevuto le candidature per “Charlot” nel 1993 e “Tropic Thunder” nel 2009.

Robert Downey Jr.

E ci sono a vario titolo i già protagonisti o noti comprimari sia di film che di serie tv: Emily Blunt nel ruolo della moglie del fisico che qui si aggiudica la sua prima nomination all’Oscar come best supporting actress; Josh Hartnett, Jason Clarke, James D’Arcy, Dane DeHaan, Alden Herenreich, Tony Goldwin, David Krumholz, Scott Grimes, Gregory Jbara, Tim DeKay, Jeff Hephner, James Remar, Gustaf Skarsgård, James Urbaniak, Josh Zuckerman e per ultimo, anche nei titoli, il quasi irriconoscibile Matthew Modine che fu giovane promessa hollywoodiana: Coppa Volpi al Festival di Venezia per “Streamers” (1983) di Robert Altman e poi protagonista assieme a Nicholas Cage (che al contrario ha saputo mantenersi sulla breccia) dello struggente “Birdy” (1984) di Alan Parker e in “Full Metal Jacket” (1987) di Stanley Kubrick; ma dopo qualche altro film la sua carriera è tutta in discesa fino a venire quasi del tutto dimenticato.

Come generosamente ha titolato MoviePlayer

Chiudo l’elenco del fitto cast con gli ex attori bambini ormai divenuti interpreti di rango Alex Wolff, Michael Angarano e Josh Peck; ci sono poi il figlio d’arte Jack Quaid (di Dennis Quaid e Meg Ryan) e i meno noti al grande pubblico Dylan Arnold come fratello del protagonista, Tom Conti che veste i panni di Einstein, Danny Deferrari come Enrico Fermi e Benny Safdie che è principalmente regista indipendente in coppia col fratello Josh.

Cillian Murphy a confronto con il vero Robert Oppenheimer

Protagonista assoluto l’intenso Cillian Murphy premiato con la statuetta più ambita alla sua prima candidatura. Ricordando che ha già lavorato con Nolan in “Il Cavaliere Oscuro – Il Ritorno” e in “Dunkirk”, bisogna notare che il regista londinese preferisce lavorare con interpreti britannici suoi conterranei: qui oltre a Murphy, Emily Blunt, Florence Pugh, Kenneth Branagh, James D’Arcy e Tom Conti oltre ad altri, non dimenticando anche il Christian Bale della trilogia sul Cavaliere Oscuro. Ma se l’autore è riconoscibile nella composizione del casting lo è soprattutto per il suo stile: ama raccontare i tormenti interiori passando per le ossessioni e gli inganni – in quest’ottica è davvero magistrale l’interpretazione di Robert Downey Jr. – e i confini della realtà anche solo come percezione interiore dei suoi personaggi – qui ben esplicitati nella figura di Oppenheimer con le sue visioni e i suoi tormenti.

Christopher Nolan sul set

Da ricordare anche la polemica dell’autore con la Warner Bros. che aveva prodotto i suoi precedenti film: “Alcuni dei più grandi registi e delle star più importanti della nostra industria sono andati a dormire pensando di lavorare per lo studio più prestigioso e si sono svegliati scoprendo di lavorare per il peggior servizio streaming.” aveva dichiarato polemicamente Nolan allorché la major aveva deciso di distribuire tutto il suo catalogo 2021 (la pandemia ha rilanciato l’home video) in contemporanea sia nelle sale che in streaming su tv e pc; e difatti, passato con questo film alla Universal, si legge nei titoli che il film è scritto e diretto “per il cinema”. E la Warner Bros. per fargli dispetto fece uscire il suo blockbuster su “Barbie” proprio in contemporanea all’uscita di “Oppenheimer”, ma gli attori di entrambi i cast, più lungimiranti e accoglienti delle case produttrici, invitarono il pubblico ad andare a vedere i due film in un solo pomeriggio come un doppio spettacolo, l’evasione e l’impegno, e tra le celebrity a fare da apripista seguendo il consiglio e fare da traino al grosso del pubblico ci sono stati Tom Cruise, che era già nelle sale con “Mission: Impossible – Dead Reckoning – Parte uno” e che non ha perso l’occasione per parlare anche del suo film, e lo sfaccendato cineamatore Quentin Tarantino; e a quel punto si è creato un altro dibattito: in che ordine vederli? la stampa chiamò il fenomeno Barbernheimer e il merchandising si buttò a capofitto nell’impresa creando magliette e ogni altra sorta di gadget… che poi uno dice: le americanate!

The Whale – nel riscatto del personaggio il riscatto dell’attore

Confessiamocelo, Brendan Fraser per noi è sempre stato solo il simpatico ragazzone protagonista della trilogia “La Mummia” anche se per altre interpretazioni drammatiche è stato lodato, come ad esempio in “Demoni e Dei” del 1998 regia di Bill Condon o “The Quiet American” del 2002 di Phillip Noyce. Ma fondamentalmente la sua carriera è tutta spesa in commedie, film d’azione e giocattoloni vari: si fa quel che si può e si prende quel che passa il convento e, come ha specificato l’attore nel suo discorso di accettazione dell’Oscar, la sua carriera è stata fatta di alti e bassi. Va anche detto che la percezione che abbiamo noi europei, e italiani nello specifico, degli attori stranieri, manca di molti dettagli e sfumature che possono avere senso solo in patria; ad esempio per Brendan Fraser a Hollywood è stato coniato il termine “Brenaissance” che lega insieme Brendan a Renaissance, dopo la sua profonda crisi dei primi anni Duemila in cui pensò addirittura di ritirarsi. Ma cos’era successo?

Brendan Fraser al meglio della prestanza fisica nel film “George Re della Giungla…? sul finire degli anni Novanta. Dirà di quel periodo da “bisteccone” che effettivamente si sentiva come una “bistecca ambulante”, per dire della vacuità che gli veniva intorno a causa del suo aspetto.
Philip Berk

Si parla esattamente di venti anni fa, il 2003, quando l’attore era al culmine della sua carriera. Accadde che a un pranzo in un hotel di Beverly Hills, Philip Berk, che all’epoca era uno dei più influenti elettori dell’HFPA, Hollywood Foreign Press Association di cui in seguito divenne anche presidente, palpasse pesantemente l’attore. Va ricordato che l’associazione ha fondato nel 1944 i Golden Globe Awards con l’intento di assegnare premi e riconoscimenti a produzioni cinematografiche e televisive di tutto il globo terraqueo (sic! ma anche sigh!), in pratica il secondo premio statunitense per importanza dopo l’Oscar; l’attore, ancora astro nascente senza statuette importanti in bacheca, aveva tre opzioni: gradire, fingere che fosse uno scherzo e farsi una finta risata, o restarci male. Brendan ci restò malissimo tanto da mettere in discussione la sua permanenza nello show business. Solo nel 2018, incoraggiato dai movimenti anti abuso Mee Too ebbe il coraggio di raccontare pubblicamente la sua esperienza. Nel 2003 Fraser, attraverso i suoi avvocati chiese e ottenne da Berk e dall’HFPA scuse private, ricevendo una lettera il cui tono era il classico: se ho fatto qualcosa che ha turbato il signor Fraser non era intenzionale e me ne scuso – di fatto non ammettendo alcun illecito. E nei fatti facendogli terra bruciata intorno: la carriera dell’attore subì una grave flessione che lo portò a una crisi personale che coinvolse anche la tenuta del suo matrimonio.

Nel 2018 Brendan si è confidato alla rivista GQ che già altre volte aveva avuto attenzioni per lui: “Ho parlato perché ho visto così tanti dei miei amici e colleghi che in quel momento stavano coraggiosamente venendo allo scoperto per dare forza alla loro verità. Avevo anch’io qualcosa da dire. Si possono mettere gli attori su piedistalli e poi buttarli giù rapidamente e facilmente: è quasi come se fosse il gioco. Così io mi sono appena liberato del piedistallo. Voglio solo essere me stesso”. E raccontando in dettaglio quanto è accaduto: “La sua mano sinistra si è allungata ad afferrare la mia chiappa e poi con un dito mi ha toccato nella zona anale (qui l’attore usa un termine gergale intraducibile: taint) cominciando a muoverlo girandolo. Mi sono sentito male, mi sono sentito come se qualcuno mi avesse gettato addosso della vernice invisibile. Ero come un ragazzino che stava per scoppiare a piangere…”. A questa tardiva denuncia pubblica la HFPA ha avviato un’indagine interna che ha concluso che Berk stava solo scherzando e, rifiutando di condividere con l’attore i dettagli emersi nell’indagine, gli è stato chiesto di firmare una dichiarazione congiunta in cui “con lungimiranza” tutte le parti, l’attore l’assalitore e l’associazione, consideravano conclusa la vicenda e che auspicavano una rinnovata collaborazione, mentre Philip Berk sarebbe rimasto membro attivo dell’HFPA. Brendan Fraser ha rifiutato di firmare, rilanciando: “Io sono l’unico che sa dove e come è stato toccato”: le intenzioni di Berk – che stesse scherzando o ci stesse pesantemente provando – rimangono per lui irrilevanti: lui era stato abusato. “Sono come lupi travestiti da agnelli” ha concluso.

Per completare la triste vicenda del tristo figuro: Nel 2014 pubblicò un libro di memorie – in cui fra l’altro finalmente ammetteva di aver “scherzato” con l’attore mentre per anni aveva sempre negato – che fece arrabbiare non poco i membri della HFPA perché svelava retroscena sul funzionamento interno dell’organizzazione, e altri ameni pettegolezzi su alcuni dei suoi colleghi, col risultato che fu costretto a prendersi un congedo di sei mesi dall’associazione; ma finì con l’essere definitivamente espulso nel 2021, dopo che Berk – di nazionalità sudafricana e di origini olandesi, ed evidentemente sostenitore dell’apartheid – inviò una mail ad altri membri dell’associazione in cui citava un articolo che descriveva Black Lives Matter come un “movimento di odio razzista”: il classico bue che dà del cornuto all’asino. A quel punto l’emittente televisiva NBC che trasmette il gala dei Golden Globe, chiese l’espulsione immediata di Berk per andare avanti con la collaborazione: detto, fatto; e a seguire il consiglio dell’associazione ha dichiarato che “condanna tutte le forme di razzismo, discriminazione e incitamento all’odio e trova inaccettabili tali linguaggio e contenuti.”

Brendan Fraser con “The Whale” è stato candidato nella sezione miglior attore in un film drammatico ai Golden Globe 2022, ma per coerenza l’attore si è rifiutato di presenziare alla serata dicendo solo: “Non sono un ipocrita”; vinse Austin Butler per “Elvis” che altrettanto concorreva per quest’Oscar 2023 e sperava di fare la doppietta: sorry, è l’anno della Brenaissance!

Veniamo al film. Darren Aronofsky è un regista raffinato che dal suo debutto nel 1998 ha realizzato otto film, sparsi però in una lunga sequenza di progetti irrealizzati che di numero superano quelli realizzati; fra i film che hanno visto la luce vale la pena ricordare “The Wrestler” (2008) che ha rilanciato la carriera dell’appesantito Mickey Rourke che però per la sua imprevedibilità e il discutibile gusto nella scelta dei copioni, pare destinato a un secondo declino; segue “Il Cigno Nero” (2010) che è valso Oscar e Golden Globe a Natalie Portman; poi viene il biblico e non del tutto riuscito “Noah” (2014) con Russell Crowe; quindi passa all’horror d’autore con “Madre!” (2017) starring Jennifer Lawrence e Javier Bardem, che tanto per cominciare è stato fischiato al Festival di Venezia. Per riuscire a realizzare quest’ultimo film, Il regista ha impiegato più di dieci anni perché non trovava il giusto interprete, ma ebbe una folgorazione quando vide Fraser in alcuni spezzoni di “Journey to the End of the Night” del 2006 mai distribuito in Italia.

All’origine del film c’è il dramma teatrale omonimo del 2011 di Samuel D. Hunter che qui debutta come sceneggiatore adattando la sua pièce per lo schermo. L’autore, quotato e premiato in patria, esplora nei suoi lavori la religiosità con particolare attenzione a mormoni ed evangelici: presumo – del tutto liberamente e senza pezze d’appoggio – che data la sua dichiarata omosessualità e la sua provenienza dall’Idaho che è uno degli stati dove sono insediati i mormoni, che sia lui stesso un mormone fuoriuscito che ancora cerca il senso di un sano rapporto con Dio.

Il 55enne Brendan Fraser naturalmente appesantito dagli anni fra regista e autore.

La storia, apparentemente piana, è molto complessa e si presta a diversi livelli di lettura: oltre all’omosessualità del protagonista e alle dispute religiose col giovane missionario della New Life Church, ci sono il passato in cui conserva la memoria di un compagno morto e da cui irrompe nel presente una figlia adolescente che non vede da otto anni, frutto di un errato matrimonio, cui segue anche la visita dell’ex moglie; ma soprattutto c’è il rapporto con l’insegnamento: Charlie, il protagonista, è un professore di lettere che tiene lezioni online e, come ha dichiarato Hunter, proprio da lì parte l’ispirazione del dramma; l’obesità del personaggio è venuta dopo, per dare al personaggio una caratteristica che gli facesse tenere la distanza dal mondo; e ancora spiega che il personaggio del giovane missionario è un modo per “proteggersi e allontanarsi” dalla religione e di “scrivere sulla religione ma in modo che non si sentisse troppo vicino a casa”. Più chiaro di così.

Nell’adattare per lo schermo la sua storia che si svolge tutta all’interno di un appartamento, l’ha voluta ambientare in un’epoca recente ma pre-pandemia affinché non si facesse confusione fra l’auto-reclusione del protagonista con un forzato lockdown. La derivazione teatrale è evidente e, come suppongo sia a teatro, la tensione drammatica non viene mai meno perché risvolti narrativi e ingresso degli altri personaggi sono equilibratissimi: la vietnamita-statunitense Hong Chau, candidata all’Oscar, è l’amica infermiera; la ventenne Sadie Sink che si è meritata la candidatura Critics’ Choice Awards come miglior giovane interprete, è la figlia adolescente; l’ex attore bambino Ty Simpkins, che a tre anni ha debuttato in tv e a quattro al cinema, è il giovane missionario; la britannica Samantha Morton, eccellentissima attrice mai abbastanza valutata nei casting, è l’ex moglie. Si intravede il fattorino delle pizze e, grave lacuna in un’attenta drammaturgia che si fa poetica attraverso l’iperrealismo, non c’è traccia di qualcuno che venga a fare le pulizie.

Laddove il dramma presta il fianco alla retorica, l’autore non indulge nel melodrammatico e taglia sempre corto dove il rischio è dietro l’angolo. Ciò non toglie che il film sia veramente coinvolgente sul piano emotivo grazie all’interpretazione del gigantesco (gioco col termine intendendolo in senso figurato) Brendan Fraser, che sotto il make up premiato con l’Oscar a Adrien Morot, Judy Chin e Anne Marie Bradley (ci sono anche i cuscinetti ad acqua che fanno pulsare le tempie!) è veramente commovente nel personaggio; e anche se noi sentiamo il doppiaggio con l’interpretazione di Fabrizio Pucci, gli occhi di Brendan non lasciano dubbi.

Il finale non è a sorpresa, sappiamo sin dall’inizio come andrà a finire. Ma è consolatorio che il buon grasso Charlie trovi il suo riscatto in un guizzo di lucido arrabbiato sacrosanto orgoglio. Ed è consolatorio e davvero commovente che Brendan Fraser, altrettanto, trovi nel film e nel successo un riscatto che attendeva da vent’anni.

Fuori contesto lancio una scommessa: che presto vedremo in scena uno dei nostri quotati attori teatrali portare in scena questo dramma.

La figlia oscura – opera prima di Maggie Gyllenhaal

Sono di quelli che pensano che se il mondo fosse governato dalle donne sarebbe un posto migliore… beh sto entrando nell’argomento per la via più lunga: Maggie Gyllenhaal, sorella di poco maggiore di Jake Gyllenhaal, debutta alla regia con un lungometraggio di gran classe, in linea con tutta la sua carriera, al contrario del fratello che si è ritagliato un profilo di star per tutte le stagioni, bravo e prestante giovanotto socialmente e politicamente impegnato, come la sorella, ma che artisticamente non ha ancora dato il suo colpo di coda.

Maggie e Jake sono gli ultimi rampolli di un’antica importante famiglia di origini svedesi. Il padre Stephen Gyllenhaal è un regista cinematografico non di prima grandezza che ha diretto entrambi i figli all’inizio delle loro carriere. Poi mentre Jake assurge alla fama nel 2001 come protagonista del cult fantasy “Donnie Darko” in cui Maggie recita in un ruolo minore, lei sarà protagonista l’anno dopo di un altro cult “Secretary”, per il quale riceverà candidature ai premi maggiori vincendo nelle sezioni dei premi minori, e da lì in poi, pur diversificando come il fratello, si ritaglia il ruolo di attrice più in linea col cinema di qualità che coi blockbusters, nulla togliendo alla qualità di questi. Poi nel 2015 vince il Golden Globe per la miniserie britannica “The Honourable Woman” e ancora, pur essendo ormai una punta di diamante nella cinematografia internazionale, continua a mancarle l’attenzione di quella grande fetta di pubblico che incorona le star. Fra il 2017 e il 2019 cop-roduce e co-interpreta con James Franco l’acclamata serie tv “The Deuce” sul mondo del porno negli anni ’70, riconfermandosi una cineasta di classe volta alla ricerca di produzioni non banali, e anche rischiose. Nel 2018 Maggie produce e interpreta “Lontano da qui”, remake di un film franco-israeliano incentrato sulla figura di una donna banale che cerca una via di fuga e di compensazione nella poesia. Il 2021 è l’anno di questo suo debutto di cui, oltre a essere regista, è anche produttrice e sceneggiatrice, e proprio con la sceneggiatura ha vinta il Premio Osella alla Mostra del Cinema di Venezia.

Il film è un adattamento del romanzo omonimo del 2006 dell’italiana Elena Ferrante, nom de plume di una scrittrice, certamente partenopea, che nonostante le indagini e le speculazioni, rimane anonima. Detto ciò il nome è stato inserito dal settimanale statunitense Time fra le cento persone più influenti al mondo, a dimostrazione del fatto che i suoi libri hanno larga diffusione oltreoceano. Il suo primo romanzo “L’amore molesto” già presenta le tematiche dell’autrice: l’indagine psicologica della mente femminile, senza compiacimenti e scudi morali o sociali, e il collasso psicologico delle protagoniste. Quel romanzo è diventato subito uno spiazzante film di Mario Martone, e anche il secondo romanzo “I giorni dell’abbandono” diventa un meno riuscito film diretto da Roberto Faenza. Segue “La figlia oscura” che diventa questo film, e poi inizia la serie di quattro romanzi di “L’amica geniale” opportunamente messa in cantiere come serie tv dall’americana HBO e poi coprodotta con l’italiana Fandango e con Rai Cinema, con la regia di Saverio Costanzo.

Maggie Gyllenhaal, pur avendo l’età giusta per interpretare la protagonista, preferisce restare dietro la macchina da presa e farsi regista pura, senza il fraintendimento dell’attrice che vuole mettersi al centro della scena, e offre il ruolo alla premio Oscar britannica Olivia Colman, che a sua volta in questo progetto che sia avvia a basso costo, si coinvolge anche come produttore esecutivo, che è colui o colei che ha la parola finale su tutto il progetto – probabilmente riducendo il suo compenso, il cui mancato introito va considerato come contributo economico alla produzione.

Nell’adattare il romanzo, Maggie, mantenendo il nome italiano della protagonista, Leda Caruso, che nella multietnicità americana ben si colloca, sposta dapprima l’azione dall’Italia – nel romanzo la protagonista è una professoressa in vacanza su una spiaggia dello Jonio – alla costa atlantica del New Jersey. Ma è già il 2020 e la pandemia Covid chiude tutti a casa, con l’aggravante che gli Stati Uniti saranno il territorio più colpito al mondo per la leggerezza e il ritardo con i quali vengono adottati i provvedimenti, dunque la produzione si blocca e l’autrice rischia di perdere i finanziamenti. Col virus in piena diffusione decide di spostare il set sull’isola greca di Spetses, che essendo a 35 miglia nautiche dalla terraferma era ancora abbastanza al riparo dai contagi e, come ha dichiarato lei stessa, non poteva permettersi di interrompere le riprese in caso qualcuno fosse risultato positivo, e che quindi ha girato il più velocemente possibile e in assoluta economia di mezzi, usando gli isolani al posto di figuranti e comparse professionisti. Di conseguenza anche i flashback, ambientati nel New Jersey, sono stati girati sull’isola.

Dakota Johnson, Maggie Gyllenhaal e Olivia Colman a Venezia

Il film, che ha un andamento lento e avvolgente è diretto con sicurezza dall’autrice esordiente, e vanno annotate le scene di intimità di coppia e di sesso che non sono mai banali quando sono dirette da una donna. E se da un lato il film si regge tutto sull’intensità di Olivia Colman, che riceve la candidatura all’Oscar nel 2022 (ha vinto Jessica Chastain per “Gli occhi di Tammy Faye“) per il resto ha lo spessore che gli conferiscono tutti gli altri interpreti di rango, a cominciare dalla protagonista Leda Caruso di vent’anni prima interpretata dall’irlandese Jessie Buckley, attrice talentuosa e pluripremiata non ancora nota al grande pubblico, anche lei candidata come non protagonista (ha vinto Ariana DeBose per il “West Side Story” di Steven Spielberg). Nel cast anche il veterano di lusso Ed Harris e il marito di Maggie, Peter Sarsgaard, anche grande amico del cognato Jake. L’ex modella Dakota Johnson, assurta a discusso sex symbol cinematografica con la trilogia delle “Cinquanta Sfumature di…” grigio rosso e nero, impersona la giovane madre nonché donna inquieta in cui la protagonista si identifica e che ne scatena il crollo psicologico. Completano il cast i britannici Oliver Jackson-Cohen, Paul Mescal e Jack Farthing (chi se lo ricorda come cattivissimo George Warleggan nella serie tv “Poldark”?). Chiudono il cast principale la polacca naturalizzata statunitense Dagmara Domińczyk e l’italiana Alba Rohrwacher già legata al mondo di Elena Ferrante per essere stata la voce narrante delle prime stagioni di “L’amica geniale” come voce matura della protagonista Elena, detta Lenù, e che vedremo in video nella quarta e ultima stagione.

Atri riconoscimenti andati al film: candidatura a Maggie Gyllenhaal per la migliore sceneggiatura non originale agli Oscar; candidatura ai Golden Globe per regista e protagonista, e a seguire altre candidature ai Critics’ Choice Awards, ai BAFTA e Screen Actors Guild Award. Al botteghino non ha avuto il riscontro meritato confermandosi per quello che è: un film di nicchia e d’autore; e Maggie, debuttando come autrice senza volersi mettere dentro anche attrice, merita tutta l’attenzione.