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Io capitano – l’Oscar che non c’è

Matteo Garrone non ce l’ha fatta agli Oscar 2024, come non ce l’ha fatta ai Golden Globe dove era altrettanto candidato, e a mio avviso non poteva farcela perché la concorrenza al Miglior Film Internazionale (ex Miglior Film Straniero) era di altissima qualità, nulla togliendo all’italiano. L’Italia, che in ogni caso mantiene il più alto numero di candidature in quella sezione, mancava esattamente da dieci anni quando nel 2014 fu presente con “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino che si portò a casa la statuetta insieme al Golden Globe: Sorrentino come nemesi di Garrone? andiamo con ordine.

I due astri nascenti, diversissimi, si ritrovano a confronto in quel di Cannes nel 2008, Garrone con “Gomorra” dal libro inchiesta Roberto Saviano che poi ha moltiplicato pani pesci puntate e pubblico con le 5 stagioni della serie tv Sky, e Sorrentino con “Il Divo” sul mefistofelico Giulio Andreotti; entrambi erano in concorso per la Palma d’Oro che però restò in casa andando a Laurent Cantet per “La classe – Entre le murs” ma i nostri vennero premiati con le pergamene del Grand Prix Speciale della Giuria (quell’anno presieduta da Sean Penn con Sergio Castellitto come italiano fra i giurati) a “Gomorra” e il Premio della Giuria per “Il Divo”, tenendo presente che i due riconoscimenti sono lo stesso premio con due diverse diciture ed è il più importante dopo la Palma d’Oro: insomma due premi apparentemente diversi per non assegnare un ex-aequo. Da lì in poi la stampa ha inventato, o chissà forse solo registrato, una concorrenza diretta fra i due – che non analizzerò per non dilungarmi come al mio solito.

Tornando a oggi, qualsiasi sia la concorrenza vera o presunta fra i due (per certo non sono amici), entrambi sono assai stilosi e di Matteo Garrone si può certo affermare che il tema sociale, insieme al tema del magico e del favoloso, sia parte integrante del suo cinema, con radici coltissime nel favolistico di casa nostra o comunque europeo in generale, e dunque quanto di più lontano dal fumettistico fantastico ed effettistico statunitense: cosa, questa, che lo allontana dal pubblico d’oltreoceano più abituato agli effetti speciali e ai trucchi prostetici che alle atmosfere conturbanti e noir della nostra narrativa fantastica.

Partito ai suoi esordi con stile e contenuti decisamente neo-realistici si fa notare da critica e pubblico con “L’imbalsamatore” (2002) che gli valse il David di Donatello per la sceneggiatura, ma il film collezionò molti altri premi fra attori e produzione: già in questo film usa per il ruolo del protagonista l’attore nano Ernesto Mahieux come elemento di collegamento alla sua visione fantastica della narrativa cinematografica.

Anche il successivo assai disturbante “Primo amore” (2004) liberamente ispirato al romanzo “Il cacciatore di anoressiche” di Marco Mariolini è una favola nera dove l’orco è uno psicopatico ossessionato dalle donne magrissime che spinge la protagonista alla fame in una relazione di amore malato. Segue il “Gomorra” del successo internazionale e dopo realizza “Reality” (2012) dove il protagonista si fa accecare dalle favole moderne e ingannatrici dei reality show, un film con cui torna all’indagine sociale e in cui scatena visivamente la sua vena surreale e grottesca.

Arriva il raffinatissimo, e per questo anche poco digeribile e poco digerito dal grande pubblico, “Il racconto dei racconti” (2015) che schierando un cast internazionale in una coproduzione con Francia e Regno Unito (per cui Garrone anche produttore ha messo un’ipoteca sulla sua casa) è stato distribuito anche col titolo “Tale of Tales”, dalla raccolta di fiabe seicentesche “Lo cunto de li cunti” di Giambattista Basile; il film si concentra su tre racconti la cui narrazione si incrocia e incastra, e nell’insieme è un materiale enorme che potrebbe essere raccontato meglio in una coraggiosa produzione televisiva se solo Garrone si lasciasse tentare dalla serialità, cosa che ha fatto Sorrentino in Sky con “The Young Pope” e “The New Pope”, così tanto per dire. Il film di due ore e un quarto lascia un retrogusto amaro in bocca: quello del non perfettamente riuscito – ma la visione fantastica di Matteo Garrone è al suo fulgore massimo.

Ancora con i debiti da pagare accantona il suo successivo grandioso film su Pinocchio e rispolvera un vecchio progetto più a basso costo (4 milioni di euro contro i 15 del precedente) col quale torna alle sue origini di noir metropolitano di indagine sociale: “Dogman” (2018) su un fatto di cronaca nera romana che ebbe come protagonista un uomo detto “er canaro”, altra figura da favola horror, ed è di nuovo amore col Festival di Cannes che premia il protagonista Marcello Fonte, e trionfa ai Nastri d’Argento e ai David di Donatello, fra gli altri premi. E qui vale la pena spendere una curiosità: all’epoca della prima stesura di una decina d’anni prima, Garrone aveva proposto il ruolo a Roberto Benigni che poi sarà Geppetto nel successivo “Pinocchio”, grande favola che stavolta piacerà anche agli americani, molti dei quali ancora credono che il burattino sia un’invenzione di Walt Disney, e difatti riceve due candidature tecniche per costumi e trucco agli Oscar.

È evidente che Garrone, concorrenza o no, punta all’Oscar; del resto ha già trionfato in casa e in Europa e impugnare quella statuetta lo farebbe assurgere all’empireo ultimo, e qui film torna alle origini della sua ispirazione narrativa. Aveva debuttato nel 1996 con “Terra di mezzo” dove ha raccontato in tre e episodi la realtà di differenti immigrati in Italia, opera prima che al Torino Film Festival gli sono valsi il Premi Speciali della Giuria e il Premio Cipputi per il miglior film sul mondo del lavoro, premio ispirato al personaggio del metalmeccanico comunista creato da Altan; e col successivo “Ospiti” si concentra sulla figura di due ragazzi albanesi immigrati a Roma; dunque il tema dell’immigrazione lo appassiona e con quello che continua a succedere nel Mediterraneo era solo questione di tempo prima che anche Garrone ne traesse ispirazione, avendo già due titoli in una filmografia che è già un genere nella cinematografia italiana ricchissima di titoli a partire dalla fine degli anni ’80 con “Il tempo dei gitani” (1988) di Emir Kusturica cui segue a tambur battente “Pummarò” (1990) di Michele Placido, per dire solo i titoli più importanti, cui seguono “Lamerica” (1994) di Gianni Amelio, “Vesna va veloce” (1996) di Carlo Mazzacurati, “La ballata dei lavavetri” di Peter Del Monte e “L’assedio” di Bernardo Bertolucci, entrambi del 1998 e fra i titoli che si fanno assai più numerosi nel nuovo millennio ricordiamo “Quando sei nato non puoi più nasconderti” di Marco Tullio Giordana, “Bianco e nero” di Cristina Comencini, “Terraferma” di Emanuele Crialese, “Alì ha gli occhi azzurri” di Claudio Giovannesi ispirato agli scritti di Pier Paolo Pasolini, “Razzabastarda” opera prima di Alessandro Gassmann, “Fuocoammmare” di Gianfranco Rosi e il recentissimo “Nour” del 2020 di Maurizio Zaccaro.

I film fin qui realizzati si fermano a raccontare l’incontro-scontro degli immigrati con la realtà italiana e solo in pochi casi raccontano la tragicità del mare attraversato e dei viaggi, mentre Garrone – col suo team di co-sceneggiatori composto da Massimo Gaudioso, Andrea Tagliaferri e dall’attore Massimo Ceccherini che avendo nel curriculum uno suo spettacolo teatrale su Pinocchio già aveva affiancato come sceneggiatore Garrone nel di lui “Pinocchio” dove anche interpretò la Volpe – va oltre, sbarca in Africa, si addentra oltre il deserto per giungere in Senegal, nei villaggi e nelle case dove una certa politica vorrebbe rispedire i migranti.

Il soggetto di Garrone si ispira direttamente alle storie vere raccontate da Fofana Amara, Mamadou Kouassi Pli Adama, Arnaud Zohin, Brhane Tareka e Siaka Doumbia, tutti ragazzi che hanno realmente compiuto il viaggio dei due protagonisti del film, accreditati nei titoli come collaboratori alla sceneggiatura insieme a Chiara Leonardi e Nicola Di Robilant.

Il casting venne fatto in loco sotto la direzione del camerunense Henri-Didier Njikam che è incorso in un incidente diplomatico allorché gli fu negato dall’Ambasciata d’Italia a Rabat, Marocco, il visto d’ingresso in Italia per presenziare al Festival di Venezia; tempestivamente intervistato da “The Hollywood Reporter Roma”, Njikam ha accusato i responsabili di razzismo: “L’ambasciata ha giustificato il rifiuto sostenendo che non c’erano garanzie che avrei abbandonato il territorio italiano una volta entrato a Venezia. In pratica mi hanno trattato come un migrante, come se volessi approfittare della situazione per scappare. Ma io ho un lavoro, una tessera professionale del Centro Marocchino del Cinema. E, sinceramente, se avessi voluto lavorare in Europa, lo avrei già fatto: l’ente non ha guardato il mio curriculum né i miei documenti, ma solo il colore della mia pelle. Questo problema esiste solo con l’ambasciata italiana in Marocco, perché i miei colleghi dal Ghana e dalla Costa d’Avorio sono riusciti a partire. Se fossi stato bianco, non credo che sarei stato trattato così.”

Seydou Sarr insieme a Moustapha Fall sono i due ragazzi che abbagliati da sogni di notorietà e ricchezza lasciano la certezza di una tranquilla miseria quotidiana per l’incertissimo viaggio dispensatore di sofferenze e morte che tutti sconsigliavano; e Seydou, vero protagonista del film, è stato insignito a Venezia del Premio Marcello Mastroianni come attore emergente, ma l’intero cast è di altissimo livello e tutte le interpretazioni concorrono all’intensità narrativa del film costruito da Garrone senza sbavature e senza retorica, sempre focalizzato sulla tragedia umana di ragazzi che sognano un mondo migliore ma che trovano squali anche nelle sabbie del deserto.

Gli unici fugaci momenti in cui si indebolisce il racconto, a mio avviso, sono le due sequenza oniriche del protagonista che sogna, prima di salvare una donna nel deserto e poi volare indietro fino a casa ad osservare sua madre che dorme: due brevi momenti di abbagliante bellezza cinematografica che proseguono nella linea stilistica dell’autore ma che in questo caso deviano dall’intensità tragica del racconto, intensità universalmente riconosciuta da critica e pubblico.

Le curiosità: 1. resterà negli annali l’imbarazzante ultim’ora del Televideo Rai in cui il film veniva raccontato come la vicenda del capitano Schettino che abbandonò il comando della Costa Concordia incagliatasi sugli scogli dell’Isola del Giglio in Toscana nel 2012. Non si sa com’è andato l’incidente telematico, c’è chi parla di uno scherzo certo per minimizzare, c’è chi parla di un complotto certo per massimizzare, ma l’ipotesi più credibile è quella dell’intelligenza artificiale che ha creato la notizia pescando nel suo database, notizia farlocca che però è stata pubblicata da qualche intelligenza naturale… naturalmente a riposo.

2. le ultimissime di cronaca riferiscono di Claudio Ceccherini che ospite del programma Rai “Da noi a ruota libera” certo ispirato dal titolo ha parlato a ruota libera: “Sono molto fiero di aver lavorato con Garrone che ha fatto un film favoloso. Sappiate che il film della cinquina è più bello solo che non vincerà perché vinceranno gli ebrei. Quelli vincono sempre.” Va da sé che l’attore sceneggiatore non ha tutti i torti, solo che poteva esprimersi in modo diverso: i membri dell’Academy sono da sempre molto sensibili ai temi della Shoah tant’è che nel 1999 premiò “La vita è bella” di Roberto Benigni, miglior film straniero, miglior protagonista e miglior musica a Nicola Piovani. Non si parla di corde in casa dell’impiccato, si tratta di buon senso ed educazione, e tanto più vanno ponderate le parole in questo periodo di feroce conflitto in Medio Oriente.

3. mia personale curiosità: leggo nella scheda tecnica del film i nomi dei doppiatori ma “Io capitano” è stato distribuito in originale, il wolof parlato in Senegal, il francese e l’inglese, e non c’è traccia di doppiaggio. Si tratta forse di un’altra versione che sarà distribuita nelle versioni Home e On demand?

Accantonata la delusione per non avere afferrato la statuetta dorata Matteo Garrone guarda già al futuro per il suo bellissimo film che proseguirà il viaggio tornando nei luoghi da cui è partito, con proiezioni nei villaggi del Senegal anche su tendoni improvvisati, per raccontare a chi resta che a volte è più coraggioso restare. Meglio che morire nel deserto o nel mare, meglio ancora che essere umiliati da società e apparati politici ciechi alle urgenze umane nel coltivare i loro minimi miserevoli giardinetti recintati e vietati agli estranei.

C’è ancora domani – opera prima di Paola Cortellesi

Opera prima col botto grazie al concorso di diversi elementi: la popolarità dell’autrice già attrice acclamata in commedie di grande successo dove era giunta con la fama acquisita sul piccolo schermo come tuttofare di talento: ironica conduttrice, camaleontica imitatrice ed eccellente cantante: Mina l’ha definita come delle più belle voci italiane. Poi quasi a sorpresa la svolta drammatica, perlomeno per il pubblico televisivo perché al cinema si era già cimentata benché per un pubblico di nicchia, come interprete di Maria Montessori nella miniserie omonima del 2007 su Canale 5.

Altro elemento che contribuisce al successo del film è l’argomento drammaticamente attuale della violenza sulle donne, rivisto in chiave di commedia però, perché al cinema ci si va per rilassarsi e sognare e perché quello è il terreno su cui la nostra si è meglio espressa; e da questo punto di vista il film è molto furbo, laddove la furbizia è segno di intelligenza, e l’intelligenza segno di sensibilità. Poi c’è l’inattesa svolta politica e sociale che eleva il film a un livello decisamente superiore, sorprendendo ed emozionando le platee che col passaparola fanno la fila al botteghino facendo guadagnare all’opera prima diversi record: con un incasso di un milione e 600mila euro si è dapprima piazzato nella prima posizione del box office nel week end di fine ottobre, guadagnandosi anche il record di migliore esordio dell’anno; al momento con 25 milioni di euro oscilla fra il primo e il terzo posto giocandosela con “Napoleon” di Ridley Scott starring l’amatissimo Joaquin Phoenix post-Joker, e “La ballata dell’usignolo e del serpente” che è il prequel della saga fantasy “Hunger Games”: due blockbuster americani messi nell’angolo da una debuttante italiana. Inoltre è il film col più alto incasso degli ultimi tre anni scalzando dal podio Aldo Giovanni e Giacomo di “Il grande giorno” che fu il primo grande successo post Covid; e notizia del 28 novembre scorso, è al 31º posto dei film con maggiori incassi in Italia di sempre. Alla Festa del Cinema di Roma, dove il film è stato presentato, ha vinto il Premio Speciale della Giuria, quello come Migliore Opera Prima e i premio del pubblico. Insomma, Paola Cortellesi, secondo le regole del mercato è diventata un’intoccabile di cui tutti vorrebbero toccare il lembo del mantello da super-eroina.

Girato in bianco e nero con la fotografia di Davide Leone si apre con il formato 4:3 dei film del dopoguerra cui dichiaratamente si ispira omaggiando il neorealismo; ma l’omaggio dura cinque minuti perché poi lo schermo si allarga nel moderno 16:9 mentre la camminata della protagonista va in ralenti e la canzonetta d’epoca viene sostituita da musica attuale e da “Aprite le finestre” cantata da Fiorella Bini si passa a Daniele Silvestri, Fabio Concato, Lucio Dalla e altri con le musiche originali di Lele Marchitelli. Da qui in poi, pur mantenendo col montaggio secco e pulito di Valentina Mariani lo stile retrò, cui contribuiscono appieno i costumi di Alberto Moretti, il trucco di Ermanno Spera e le scenografie di Massimiliano Paonessa e Lorenzo Lasi, il neorealismo resta formalmente nello stile visivo mentre il film diventa commedia moderna che nulla ha però a che vedere con la commedia italiana di genere, la stessa che l’attrice frequenta con successo, perché l’autrice non è di quella sui generis: la sua commedia passa dal grottesco dello schiaffo di prima mattina senza ragione al surreale della coreografia che stempera nel fantastico la violenza domestica – bellissima intuizione – momenti che la critica ufficiale ha stigmatizzato come ingenuità narrative ma che per me sono segni precisi dello stile della neo-autrice che li maneggia con grande maestria senza farli percepire come corpi estranei alla sua commedia grottesca che ha il momento clou nel funerale del patriarca: grottesco e surreale che con grandissimo equilibrio narrativo e interpretativo di tutto il cast si ferma un attimo prima di diventare il troppo che storpia: segno di una maturità artistica che inscrive la Cortellesi già fra i maestri della commedia italiana: c’è Ettore Scola, c’è Luigi Comencini, c’è  Lina Wertmüller.

“La storia del film è inventata, ma c’è moltissimo dei racconti della mia famiglia. Molte delle storie da cui ho tratto ispirazione sono di mia nonna. È anche il motivo per cui ho immaginato l’opera in bianco e nero. Quando ti tornano in mente le immagini del passato a Roma non sono mai a colori. I cortili romani in cui tutto veniva messo in piazza. Si viveva insieme, non c’era discrezione, però era bello. La Roma di “C’è ancora domani” è molto lontana dalla Roma di oggi. La vita sociale era diversa.” Già sceneggiatrice – ha cominciato collaborando col marito regista Riccardo Milani – ha scritto questo suo primo film con l’amico di lunga data Furio Andreotti che conobbe ai corsi di recitazione di Beatrice Bracco (corsi frequentati anche da Kim Rossi Stuart, Claudio Santamaria e Claudia Gerini fra tanti altri) e Giulia Calenda, figlia di Cristina Comencini per il ramo cinema e del gionalista-scrittore Fabio Calenda per il ramo scrittura.

E da qui in poi siamo a rischio spoiler – che in italiano dicevamo anticipazione o rivelazione. Nella storia immaginata dall’autrice coi suoi due sceneggiatori, sono in primo piano la violenza domestica e il patriarcato, con un’attenzione quasi maniacale ai dettagli per collocare il film nell’immediato dopoguerra: c’è la polizia militare americana a pattugliare le strade e ci sono i mutilati, che furono tanti e per i quali sorsero nelle nostre città fra la fine della Prima Guerra Mondiale fino a tutto il ventennio fascista le Case del Mutilato, enti a sostegno dei soggetti e delle loro famiglia, spazi oggi riconvertiti ad altro uso. C’è un amore di gioventù della protagonista che porta la nostra attenzione volutamente fuori strada, e c’è il militare americano nero che viene da chiedersi dove conduca quel personaggio, e presto lo scopriremo.

Ma soprattutto c’è una lettera che la protagonista riceve a suo nome, una lettera da tenere segreta e da nascondere, e che l’astuzia narrativa ci fa credere una lettera d’amore per la quale Delia prepara la fuga insieme alla vecchia fiamma. Ma a sorpresa la lettera si rivela essere la sua prima carta elettorale perché siamo alla vigilia del suffragio universale, il voto alle donne in Italia per il referendum del 2-3 giugno 1946 che sancì il passaggio dalla monarchia alla repubblica. E la fuga della nostra donna verso il suo primo voto diventa in parallelo la liberazione dal patriarcato e dalla violenza domestica – e anche se sappiamo che nella realtà ciò non è mai avvenuto e le donne continuano a morire per mano degli uomini che dicono di amarle, il film ci regala nel finale la sua bella dose di speranza che fa partire nella platea cinematografica timidi applausi.

Paola Cortellesi, altrimenti molto espressiva, sceglie per la sua Delia una maschera sospesa con le sopracciglia sempre un po’ alzate con l’espressione di una che sembra voler dire: ma che ci faccio qui? e di maschera in maschera anche Valerio Mastrandrea tratteggia il suo marito violento un po’ credendoci e un po’ no anche lui sempre in bilico sul baratro del troppo che storpia. Centratissima la giovane figlia adulta di Romana Maggiora Vergano che dopo un po’ di sana gavetta si è fatta notare nel televisivo “Christian” su Sky e qui tratteggia con grande partecipazione emotiva la figlia che vorrebbe ribellarsi al patriarcato ma che accecata dall’amore non vede il suo personale pericolo dietro l’angolo. Il vecchio patriarca allettato, ferocemente proattivo, è il sempre ottimo Giorgio Colangeli che qui fa scuola di romanesco sboccato ai due nipoti minorenni e incontenibili resi dai debuttanti Gianmarco Filippini e Mattia Baldo. Vinicio Marchioni è l’amore di gioventù, Emanuela Fanelli è la sincera amica del cuore, Gabriele Paolocà il fruttivendolo suo marito, il militare americano è il nero Yonv Joseph che si è fermato a Roma per studiare musica al Conservatorio di Santa Cecilia e alla Scuola di Musica Popolare di Testaccio e va da sé è diventato anche attore; il caratterista Lele Vannoli è il soccorrevole (anche troppo) vicino di casa e la professionista di lungo corso Paola Tiziana Cruciani presta la sua maschera sempre più intensa, col passare degli anni, alla merciaia; Francesco Centorame è il fidanzato della figlia che si rivelerà anch’egli frutto di lombi patriarcali: il padre lo interpreta Federico Tocci e la madre borghesuccia snob ma anch’ella vittima è Alessia Barela; le vicine di casa, in un contesto sociale in cui non esisteva il concetto di privacy, sono Priscilla Micol Marino, Maria Chiara Orti e Silvia Salvatori che è quella più avvelenata, che in romanesco sta per velenosa, e che solo per questo si distingue sulle altre.

Paola Cortellesi dedica questo suo primo film a Lauretta, la sua bambina di dieci anni, che quasi casualmente ha fatto la comparsa nel film lamentandosi di star perdendo un giorno di scuola perché del cinema, come ha detto sua madre, non gliene frega un granché. Staremo a vedere, se ci saremo ancora.

Latin Lover – che è l’amore per il cinema italiano

In un casale della Puglia (regione encomiasticamente molto attiva politicamente ed economicamente sulla promozione del territorio) si riuniscono un gruppo eterogeneo di donne, italiane e straniere, e mi torna in mente il casale in Toscana di “Speriamo che sia femmina” di Mario Monicelli del 1986 con Liv Ullman, Catherine Deneuve, Giuliana De Sio, Stefania Sandrelli, Athina Cenci… ma le similitudini finiscono qua e rimarcare le differenze è anche un modo per parlare dell’uno e ricordare l’altro, che all’epoca fece il pieno di premi: era un film drammatico che metabolizzava l’ondata del recente passato femminismo e ne raccontava il riflusso nel mondo borghese di un gruppo di donne antropologicamente e idealmente contrapposto al mondo maschile che al loro confronto veniva ora dipinto come malato, perdente e inaffidabile; nel cast c’erano poi attrici straniere perché all’epoca si usava così e per assecondare le coproduzioni internazionali molti stranieri recitavano in ruoli italiani diligentemente doppiati dai nostri professionisti.

Oggi, nel film di Cristina Comencini, che è una bella commedia tragicomica e riprende le fila di quel genere di film denominato “commedia all’italiana” che suo padre Luigi inaugurò firmando “Pane, Amore e Fantasia” negli anni ’50, le attrici sono straniere perché finalmente lo richiede il copione che racconta, nel decennale della morte del divo del cinema Saverio Crispo cui presta il suo volto antico e mobile Francesco Scianna, la riunione di famiglia molto allargata che vede la prima moglie italiana, Virna Lisi al suo ultimo film, con la primogenita Angela Finocchiaro, la seconda moglie spagnola, Marisa Paredes, con la terzogenita Candela Peña, dato che la secondogenita è Valeria Bruni Tedeschi figlia di un’amante francese invisa a entrambe le mogli ufficiali, e l’ultima è la svedese Pihla Vitala figlia del periodo “bergmaniano” del grande attore italiano che, idealmente ed affettuosamente ricalcato sulle figure di Gian Maria Volontè, Marcello Mastroianni e Vittorio Gassman, nella sua carriera ha percorso tutti i generi cinematografici, da quello politico agli spagnetti western, dalla commedia all’italiana, appunto, al cinema esistenzialista, che come spettatori ripercorriamo in un collage memoire molto divertente e divertito alla serata commemorativa del divo scomparso in cui Saverio Crispo/Francesco Scianna veste i panni del Brancaleone di Monicelli e dei protagonisti de “Il sorpasso” di Dino Risi e di “Matrimonio all’Italiana” di Vittorio De Sica, così che la serata immaginaria diventa un immaginifico omaggio al cinema italiano e ai suoi autori: Pietro Germi, Michelangelo Antonioni, Sergio Leone, Federico Fellini, Elio Petri…

Il merito di “Latin Lover” è di essere un film ben scritto da chi conosce quel mondo dal di dentro, Cristina figlia di Luigi Comencini e Giulia Calenda madre della prima e moglie del secondo, e di essere appunto un omaggio al cinema italiano del periodo d’oro degli anni Sessanta e Settanta. Poi, come film “di riunione di famiglia” non sfugge ai canoni classici delle rivelazioni di antichi segreti e delle frecciate incrociate che scaturiscono da vecchi rancori e incomprensioni: nulla di nuovo sul grande schermo ma il pregio è quello non di voler essere originali quanto invece affettuosi, e in questo senso il film è un vero atto d’amore oltre che per il nostro cinema anche per le attrici che vi prendono parte, tutte servite molto bene e tutte a loro agio e assai divertite e divertenti. E se gli uomini sono di contorno non è più perché il femminismo c’è stato l’altro ieri ma perché le donne, che continuano naturalmente ad inter-dipendere dagli uomini, adesso possono essere vere protagoniste perché i film se li scrivono e se li dirigono.

Ma le figlie non sono finite: nel finale canterino in omaggio alla commedia musicale c’è anche l’americana Nadeah Miranda riconosciuta con l’esame del DNA e quella di cui non si dice nulla ma che porta lo stesso nome del divo: Saveria, la figlia della serva, interpretata da Cecilia Zingaro. Gli attori sono: Jordi Mollà, il marito fedifrago della figlia spagnola, Luis Homar, controfigura e discusso amico del latin lover, Claudio Gioè come giornalista in cerca di segreti da svelare, Neri Marcorè come trentennale amore pseudo-segreto della primogenita e Toni Bertorelli amico critico cinematografico e narratore ufficiale del divo che, rimasto senza parole, è costretto a cedere il microfono a un narratore non autorizzato che fino all’ultimo tiene sulle spine le donne del divo…

Per chi ha amato il cinema italiano della seconda metà del Novecento, per chi ama i film sulle riunioni di famiglia dove se ne dicono e se ne fanno di ogni, e per chi ama il cinema al femminile dove non ci sono più le dive alla Bette Davis o alla Sofia Loren ma amabili e nevrotiche vicine di casa, ancorché irraggiungibili perché altrettanto divine. Per me, senz’altro.