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Falling, storia di un padre – opera prima di Viggo Mortensen

Curioso debutto in regia questo di Viggo Mortensen, anche autore della sceneggiatura e dunque autore a tutto tondo; curioso perché l’attore si è profilato una carriera assai interessante in film che lo hanno impegnato anche in una proficua collaborazione con il mai banale David Cronenberg, ed è dunque curioso che il suo film di debutto come autore sia alquanto banale, duole dirlo, visto che il personaggio stesso non lo è: l’artista è anche poeta, fotografo, pittore, musicista e per non farsi mancare niente anche editore.

Nato a Manhattan da madre statunitense con ascendenze canadesi e padre danese che a sua volta aveva una madre norvegese, Viggo Peter Mortensen Jr. è cresciuto in giro per il mondo poiché la famiglia seguiva il padre Viggo Sr. nei suoi impegni di lavoro legati alla gestione di imprese agricole, e vivendo per diversi anni in Argentina il ragazzo ebbe l’opportunità di imparare fluentemente lo spagnolo, oltre al danese paterno che fra le lingue scandinave è quella che meglio riesce a padroneggiare le altre: il norvegese e lo svedese; e allora perché fermarsi lì? così ha studiato anche francese, italiano, catalano e arabo. Dopo la laurea in scienze politiche e letteratura spagnola trovò un occasionale bell’impiego come traduttore per la squadra svedese di hockey su ghiaccio alle Olimpiadi invernali di Lake Placid nel 1980; e a seguire tornò in Danimarca, dove da ragazzo aveva vissuto col padre appena separato dalla madre, e per un po’ fece vari lavoretti come cameriere, camionista, barista e anche fioraio: il classico periodo sabbatico per chiarirsi le idee sul futuro, quindi si spostò in Canada per frequentare una scuola di teatro e dopo avere lì calcato le scene si trasferisce a Los Angeles per tentare il grande salto nel cinema, che non fu facile; passò attraverso varie comparsate e molte delusioni finché otterrà il ruolo di protagonista nel debutto alla regia di Sean Penn “Lupo solitario” del 1991 e da lì in poi la sua carriera è tutta in crescita fino alla consacrazione internazionale come Aragorn nella trilogia del “Signore degli Anelli” di Peter Jackson all’inizio degli anni duemila.

Per il suo debutto autorale Viggo sceglie il tema della demenza senile, argomento che insieme allo più specifico Alzheimer è ormai anche troppo frequentato: Anthony Hopkins in “The Father” del medesimo 2020 e dell’altrettanto debuttante Florian Zeller, Oscar al protagonista e alla sceneggiatura; ancora del 2020 “Supernova” con Stanley Tucci e Colin Firth, entrambi premiati con i BAFTA, come anziana coppia gay diretti da Harry Mcqueen; andando qualche anno più indietro nel 2014 c’è stato “Still Alice” di Richard Glatzer e Wash Westmoreland con Julianne Moore premiata con Oscar e Golden Globe solo per citare i primi due riconoscimenti; del 2012 è “Amour” di Michael Haneke, Oscar e Golden Globe come miglior film straniero, con Emmanuelle Riva, premiata col BAFTA, e Jean-Louis Trintignant che si aggiudicato l’European Film Awards; nel 2006 Sarah Polley ha diretto Julie Christie premiata con l’Oscar in “Lontano da lei”; del 2001 è “Iris – un amore vero” di Richard Eyre con Jim Broadbent premiato con Oscar e Golden Globe nel ruolo dell’anziano che si prende cura della moglie Judi Dench, solo candidata – solo per citare fin qui i titoli più noti. Dunque, se un attore quotato passa alla regia autorale con un tema così tanto frequentato, ci si aspetta che abbia qualcosa di molto personale da dire o di veramente artistico da mostrare: uno stile, un punto di vista. E Viggo ha avuto modo di spiegarlo, solo che nella realizzazione ha mancato il bersaglio.

L’ispirazione arriva da lontano e nel contempo anche da troppo vicino: entrambi i suoi genitori hanno sofferto di demenza senile, così come tre dei suoi nonni, e anche zie e zii, ma il film non è biografico: “È proprio mia madre che mi ha dato l’ispirazione per il film: rimane la persona più importante per me e ho scritto questa storia subito dopo il suo funerale. Il personaggio dello schermo è però frutto della mia immaginazione o, appunto, di fiction: nasce dall’idea e dai ricordi che ho di lei, e i ricordi sono sempre personali, alterati. La memoria è una collezione di emozioni che si evolvono e che noi modifichiamo in continuazione. Ci sono forme diverse di demenza: c’è chi perde la memoria, chi modifica i ricordi e chi invece trattiene solo quelli lontani, del passato. Spesso, nei film e nei lavori teatrali che ho visto, si rappresenta chi soffre di demenza come una persona confusa: nella mia esperienza – e volevo mostrarlo in ‘Falling’ – questa persona vede, sente e prova emozioni reali, chiare, non necessariamente confuse. Possono essere memorie felici o tristi, ma sono presenti, vivide. il personaggio interpretato da Henriksen, non è certo mio padre, ma è un dato di fatto che in passato gli uomini lavoravano fuori casa e non si occupavano dei figli, erano le donne a crescerli ed educarli. Ci sono poche relazioni fondamentali e complesse come quelle tra padre e figlio e pochi eventi sono destabilizzanti come la perdita di un genitore, quel momento in cui vengono tagliati quei legami che ti collegano con la terra. L’idea di ‘Falling’ mi è venuta mentre attraversavo l’Atlantico in aereo dopo il funerale di mia madre. Non riuscivo a dormire, la mia mente era invasa da ricordi e immagini di lei e della nostra famiglia nelle diverse fasi di vita condivisa. Sentendo il bisogno di descriverli, ho iniziato a scrivere una serie di episodi e frammenti di dialogo che ricordavo dalla mia infanzia. Più scrivevo su mia madre, più pensavo a mio padre. Durante quel volo notturno, le impressioni che appuntavo si erano trasformate in una storia composta principalmente da conversazioni e momenti che non erano mai realmente accaduti, linee parallele e divergenti che in qualche modo si incastravano allargando la prospettiva dei ricordi reali che avevo costruito intorno alla mia famiglia. Sembrava che le sequenze inventate mi permettessero di avvicinarmi alla verità dei miei sentimenti verso mia madre e mio padre piuttosto che un semplice elenco di ricordi specifici. Il risultato ha dato vita a una storia padre-figlio intitolata ‘Falling’ su una famiglia immaginaria che condivide alcuni tratti con la mia”.

L’autore mentre dirige Sverrir Gudnason e Hanna Gross nel ruolo dei suoi genitori quando lui era bambino rappresentato dal bambino biondo seduto a tavola

Ma “Falling” non è il primo film col quale pensava di debuttare in regia, è solo quello per il quale ha trovato più facilmente i finanziamenti, segno che i produttori credono molto nella demenza senile cinematografica: è da ben venticinque anni che Viggo scrive sceneggiature e, nello specifico, qui non pensava di interpretare un ruolo ma è stato spinto a recitare proprio dai produttori che volevano nel cast un nome di spicco. Con una coproduzione di Canada, Regno Unito e Danimarca, l’attore inserisce nel cast altri due interpreti dell’area scandinava: lo svedese-islandese Sverrir Gudnason nel ruolo del padre da giovane, e l’americano di genitori norvegesi Lance Henriksen come padre vecchio, il protagonista del film: qui l’ottantenne è nel suo ruolo probabilmente più impegnativo dato che in una carriera interamente di caratterista è giunto alla notorietà interpretando l’androide Bishop nel secondo Alien “Alien, scontro finale” (che non fu finale, anzi) diretto da James Cameron nel 1989, regista che lo avrebbe voluto come protagonista del suo “Terminator” che ha invece lanciato Arnold Schwarzenner; Henriksen è poi stato protagonista della serie tv fantasy “Millennium”. Completano il cast la supporter di lusso Laura Linney, l’ancora poco nota canadese Hannah Gross e il cino-canadese Terry Chen. Altra presenza di lusso è l’amico regista David Cronenberg nel ruolo del proctologo. In apertura dei titoli di coda l’autore dedica il film ai suoi fratelli. Girato nel 2019 è stato presentato in anteprima al Sundance Film Festival nel gennaio 2020 a ridosso della pandemia che nessuno poteva immaginare, ma in pieno lockdown il film è stato presentato a settembre al Toronto International Film Festival e a dicembre è poi uscito nel Regno Unito, mentre negli USA è andato nelle sale nel febbraio 2021: va da sé che ha incassato meno di mille dollari, solo restando negli Stati Uniti.

L’episodio del bambino che spara a un’anatra e poi da morta se la tiene come fosse un peluche prima che la mamma la cucini per cena, ripropone un episodio reale dell’infanzia dell’autore.

Al di là del tragico inconveniente del lockdown, il lavoro rimane un piccolo film molto ben confezionato che impropriamente alcuni hanno comparato alle regie di Clint Eastwood – che, per inciso, sarebbe stato perfetto nel ruolo del vecchio padre se non fosse che il vecchio Clint sta lasciando di sé l’immagine di un vecchio saggio ispirato e ispiratore di buoni sentimenti, ancorché sempre ribelle – dimenticando che il debutto cinematografico di Eastwood è stato di un altro tenore e che le sue successive regie apparentemente romantiche e melodrammatiche riescono sempre a graffiare lo smalto del perbenismo sociale, di cui il film di Mortensen è invece intriso insieme alle ambizioni filosofiche con le quali intendeva ridisegnare i rapporti, disagiatissimi, fra la persona malata e i suoi congiunti: materiale che il neo-autore non riesce a comporre e nel film manca sempre qualcosa o c’è qualcosa di troppo e i personaggi, a cominciare dal protagonista, non sono empatici e si fatica a entrarci in sintonia e farseli piacere: il vecchio affetto da demenza è violentemente scurrile, razzista, sessista, omofobo – tutti aspetti che coinvolgono la personalità di chi perde l’autocontrollo (so di anziani d’ambo i sessi che si masturbano davanti a figli nipoti e badanti, cosa che non si può raccontare neanche nella vita reale) e la lucida interpretazione di Lance Henriksen, benché interessante poiché non ordinaria, non riesce a diventare straordinaria. Anche la controllata e pacata condiscendenza del figlio interpretato dall’autore – irrita perché arriva come rinunciataria e ipocrita: una filosofia comportamentale molto politically correct o new age ma poco realistica. L’interpretazione più centrata appare quella di Sverrir Gudnason, che nel ruolo del contadino assai brusco con moglie e figlio, riesce a infondere al personaggio inattese e delicate sfumature che rendono appieno l’umanità di un uomo ancorché antipatico; è questo il talento degli interpreti: rendere umani e addirittura affascinanti i personaggi negativi. Jago ringrazia quanti lo hanno interpretato, ricordando che dietro c’era un signor autore.

The Happy Prince – opera prima di Rupert Everett

Rupert Everett: Una vita anti-Brit - Amica

2018. Il 59enne Rupert Everett è alla sua prima regia cinematografica ma ha faticato non poco a trovare i soldi per realizzarla, tanto che la BBC, coproduttrice, ha anche girato un documentario sulla lunga e difficile ricerca dei fondi: una storia nella storia; alla fine insieme al Regno Unito producono USA, Italia che è anche location, e Belgio. Una scelta quasi scontata per l’attore, omosessuale orgoglioso di esserlo, che scrive la sceneggiatura e poi la interpreta e la dirige mostrando grande padronanza del linguaggio cinematografico, conoscenza della figura di Wilde nonché adesione pressoché totale. Rupert Everett, di buonissima famiglia, a 15 anni lascia i normali corsi di studio nel natio Hampshire, o meglio scappa dal rigoroso collegio benedettino dove la famiglia lo aveva relegato, per iscriversi alla Central School of Speech and Drama di Londra, dove però resiste un paio d’anni e poi viene espulso per i suoi vivaci disaccordi col corpo docente. In rottura con la famiglia vive in miseria e di espedienti e per sopravvivere si prostituisce; riprende gli studi alla Royal Shakespeare Company e da lì in poi comincia la sua carriera di attore e raggiunge la fama con il protagonista omosessuale di “Another Country” che impressiona positivamente pubblico e critica. Nel 2002 il suo primo incontro professionale con Oscar Wilde, come protagonista insieme a Colin Firth, di “L’importanza di chiamarsi Ernest” diretto da Oliver Parker, dalla commedia “The Importance of Being Earnest” dove c’è un gioco di parole intraducibile poiché earnest sta per onesto, serio, irreprensibile oltre che come nome proprio. Nel 2012 torna in scena a Londra con il dramma “The Judas Kiss” in cui interpreta Oscar Wilde ancora con grande successo di pubblico e critica. Dunque possiamo immaginare che da lì in poi abbia lavorato a questo film.

Bosie e Oscar

“Nel 1895, Oscar Wilde era l’uomo più noto di Londra. Bosie Douglas, figlio del famoso Marchese di Queensberry, era il suo amante. Furioso per la loro relazione, Queensberry, lasciò un biglietto al club di Wilde: A Oscar Wilde che si atteggia a sodomita. Su istigazione di Douglas, Wilde lo querelò per diffamazione, finendo poi sul banco degli imputati con l’accusa di oscena indecenza. Fu condannato a due anni di carcere e lavori forzati.” Questa la scritta esplicativa all’apertura del film, a ricordarci le circostanze che conducono agli ultimi anni di vita del discusso artista qui ritratto subito dopo l’uscita di prigione e in miseria. Morirà nel 1900 appena 46enne.

Oscar Wilde è una figura enorme di cui si possono raccontare solo pochi dettagli in una sola opera, proprio come ebbe a dire il suo amico Reggie Turner affermando che secondo lui “mai si sarebbe scritto un libro che potesse essere considerato tanto soddisfacente da contenere un personaggio così grande come Oscar Wilde”. Su di lui e sulle sue opere c’è molto e vale la pena considerare anche il film del 1997 diretto da Brian Gilbert “Wilde” interpretato da Stephen Fry con Jude Law come Alfred “Bosie” Douglas, un ruolo che lo lancerà nell’empireo delle star.

Ma Wilde, probabilmente più grazie ai suoi pungenti aforismi che alla sua intera opera, si è conquistato suo malgrado un posto di rilievo nella cultura di massa. I suoi aforismi sono estrapolati dalle sue opere e in una battuta rappresentano la quintessenza del suo spirito, del suo stile di vita, la sua critica sociale. Nel film, moribondo, Rupert Everett gli fa dire il famoso: “Muoio al di sopra delle mie possibilità”. Wilde ebbe l’idea di farne una raccolta ma non vi diede seguito e, proprio perché probabilmente ne aveva parlato agli amici, venne dato alle stampe un “Phrases and Philosophies for the use of the Young” che è possibile scaricare in PDF da questo link: https://www.sas.upenn.edu/~cavitch/pdf-library/Wilde_Phrases_and_Philosophies.pdf; e anche la prefazione alla prima edizione del romanzo “The Picture of Dorian Gray” era interamente composta da aforismi. Mentre era in prigione il suo amico e curatore letterario Robbie Ross per sostenerlo economicamente pubblicò “Sebastian Melmoth Aphorisms” che è possibile scaricare in PDF da qui: http://mgtundoedu.altervista.org/Sebastian%20Melmoth%20Aphorisms%20GAME.pdf; ricordando che Sebastian Melmoth è uno pseudonimo che Wilde aveva usato e sotto il quale si nasconderà una volta uscito di prigione e andato in esilio in Francia, dalla quale si sposterà in Italia e non farà più ritorno nell’isola natia.

Del Wilde nella cultura di massa c’è da ricordare che a un secolo dalla morte si organizzano ancora conferenze internazionali su di lui, mentre a Londra esistono agenzie turistiche che organizzano tour nei luoghi dell’autore, per non dire dell’enorme merchandising che sfrutta le sue celebri frasi. Come fatto curioso c’è da riferire che nel tempo numerose sue estimatrici sono andate sulla sua tomba monumentale nel cimitero parigino di Père-Lachaise lasciandovi, come traccia del loro passaggio, impronte di baci, ma questa romantica tradizione finì quando nel 2011 fu eretta una barriera di vetro per proteggere la scultura dalle tracce degli innumerevoli rossetti: avrebbe mai immaginato Oscar Wilde di suscitare tanta passione postuma nelle donne? La sua prima tomba fu però nel cimitero di Bagneaux, nella Borgogna, dove i pochi amici rimastigli avevano fatto erigere un modesto monumento funerario. Solo successivamente, nel 1909, le sue spoglie furono trasferite nel cimitero parigino dove poi venne sepolto anche il fedelissimo Robert Ross. Come dice una seconda scritta alla fine del film: “Robbie pagò i debiti di Oscar e dedicò il resto della vita a risollevare l’opera e la reputazione dell’amico. Morì nel 1918. Le sue ceneri sono sepolte insieme a Oscar. Bosie morì povero e solo nel 1945. Insieme ad altri 75.000 uomini condannati per omosessualità, Oscar è stato riabilitato nel 2017.”

Ma già nel 1995 nella cattedrale di Westminster a Londra era stata installata nel cosiddetto “angolo dei poeti” una vetrata a lui dedicata come simbolica riabilitazione da parte del governo inglese che solo negli anni ’60 del Novecento aveva depenalizzato l’omosessualità, che però nei fatti è stata ancora perseguita dai giudici preposti che hanno applicato la legge in modo assai restrittivo e arbitrario fino a una nuova regolamentazione del 2000.

Il film che Rupert Everett ha reallizato si inserisce nella tradizione celebrativa di questo genio come un’opera molto ben riuscita, apprezzata dalla critica ma scarsamente considerata dal pubblico se si considera che fra Canada e USA insieme ha incassato solo 464.495 dollari, come dire che la stessa comunità gay lo ha ignorato. Per noi italiani degna di nota la vacanza napoletana che Wilde trascorse col ritrovato amato Bosie, soggiornando a Villa Del Giudice in via Posillipo 27. In quel periodo, ma non ce n’è traccia nel film, conobbe Eleonora Duse e subito le fece avere una estemporanea traduzione italiana della sua “Salomè”, un’opera mai rappresentata in patria dato che il Lord Ciambellano l’aveva considerata scandalosa per quella scena biblica rappresentata in modo così sfrenatamente lascivo. L’unica messa in scena in vita dell’opera era avvenuta nella più liberale Francia ma lui non aveva potuto assistervi perché in prigione. Wilde sperò molto nell’interesse della Duse, poiché necessitava di un rilancio artistico ed economico, ma la diva italiana restò sconcertata dalla pièce e la rifiutò categoricamente. Anche la scrittrice Matilde Serao non era una fan del discusso inglese tanto da scrivere sul “Mattino”: “Come? Oscar Wilde a Napoli? Ma sarebbe una calamità la presenza tra noi dell’esteta britannico”.

Oltre a Rupert Everett che presta a Oscar Wilde anche il suo corpo inevitabilmente appesantito dagli anni insieme al suo vissuto e alla sua consapevolezza di omosessuale, nel cast altri nomi di spicco della cinematografia britannica, che l’attore regista, da gran signore, nei titoli di coda mette tutti prima di sé: Colin Firth è l’amico Reggie Turner e Emily Watson interpreta la scrittrice irlandese Constance Lloyd che fu moglie, infelice va da sé, di Wilde. Tom Wilkinson interpreta il prete che Wilde vedrà alla fine dei suoi giorni, con la curiosità che l’attore aveva interpretato il Marchese di Queensberry nel film “Wilde” del 1997. Alfred “Bosie” Douglas lo interpreta un irriconoscibile Colin Morgan biondo e con le lentine azzurre, per chi l’ha conosciuto come protagonista del giovane mago Merlino nella fortunata serie tv “Merlin”, e ne fa un marchettaro d’alto bordo davvero inquietante, con quello sguardo penetrante di giovane omosessuale sfacciato pericoloso e sgradevole. Edwin Thomas, qui al suo debutto cinematografico, è l’amico e fedele innamorato Robbie Ross. Nel quadro napoletano ci sono Franca Abategiovanni e Antonio Spagnuolo. Nel piccolo ruolo della proprietaria del caffè francese ritroviamo Béatrice Dalle, una modella che debuttò con grande successo nel 1986 in “Betty Blue” dell’allora fidanzato Jean-Jacques Beineix, ma il suo carattere a dir poco esplosivo e le sue cattive abitudini hanno fatto della sua carriera un percorso assai accidentato tutto in discesa. E’ stata anche una delle fidanzate di Rupert Everett, che come Oscar Wilde si è concesso frequentazioni eterosessuali: le altre fidanzate di cui si ha notizia sono la conduttrice tv Paula Yates e la star americana Uma Thurman. In conclusione: un ottimo film che coi suoi scarsi incassi difficilmente darà al suo autore l’opportunità di una seconda regia, sempre che Rupert Everett ce l’abbia in mente.

1917, sorprendente macchina ad orologeria

All’inizio non ci si fa caso. Ma dopo il primo raccordo, nel rifugio dove il generale dà l’incarico ai due soldati, comincia la corsa claustrofobica dentro la tortuosa trincea ed è subito chiaro che si tratta di un lunghissimo sofisticatissimo piano sequenza che coinvolge centinaia di uomini fra comparse figuranti e attori, senza contare la troupe tecnica che non si vede ma c’è, lì, dietro e intorno la macchina da presa che non si ferma un attimo: un solo errore di uno fra i tanti e bisogna ricominciare tutto daccapo. Fino al prossimo raccordo che è un’esplosione, e così di seguito tutto il film è costruito cucendo insieme lunghi e difficilissimi piani sequenza fitti di azione: corse, scoppi, sparatorie, dialoghi… Il pericolo poteva essere quello di rallentare l’azione ma, al contrario, la esalta, introiettando lo spettatore in un’unica sequenza, un’azione che si svolge in tempo reale (apparentemente). Solo per questo il film vale il prezzo del biglietto.

Da spettatore mi viene in mente solo un altro film girato in un unico piano sequenza, vero, senza raccordi artificiali, di 96 minuti, del 2002: “Arca Russa” di Aleksandr Sokurov. Un film in qualche modo sperimentale, girato dentro quel Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo in cui abitavano gli zar e che oggi è un museo; una lunga sequenza onirica in cui un visitatore, che è la soggettiva dello spettatore, vaga per le sale vedendo i fantasmi del passato: sicuramente affascinante ma anche, a dire il vero, soporifero. Sokurov riuscì a girare l’intera sequenza solo al quarto tentativo, proprio per gli errori che capitavano, e Mendes ha provato le sue sequenze per sei mesi prima di girarle, e il risultato si vede.

Bisogna ricordare che il primo a usare all’interno di un film un “piano sequenza” – fra le altre innovazioni – fu un geniale venticinquenne che nel 1941 scrisse produsse diresse e interpretò il suo primo lungometraggio: lui era Orson Welles e il film “Quarto Potere”, un’opera arrogante e geniale che rifondò il cosiddetto “cinema delle origini” e che merita un approfondimento a parte.

Fatte le dovute ricognizioni sulla tecnica e lo stile, veniamo alla storia, al genere del film, che è un film di guerra, ma di una guerra poco rivisitata nei recenti decenni, la Prima Guerra Mondiale: un cardine nello svolgimento delle battaglie, perché è l’ultima guerra combattuta muovendo le armate in campo secondo il metodo ottocentesco, con le trincee in campo aperto e i corpo a corpo, con i fucili innestati di baionetta, armi e da tiro e insieme armi da taglio. E’ anche l’ultima guerra in cui vengono impiegati i cavalli e all’inizio del film ne vediamo un paio di carcasse. Ma è anche la prima guerra moderna per il gran numero di innovazioni tecnologiche: a cominciare dal filo spinato e per finire coi carri armati, sono stati impiegati per la prima volta la mitragliatrice leggera e il lanciafiamme, le maschere antigas e i primi aerei bombardieri: un nuovo genere di battaglia che ha portato il conflitto nei centri abitati coinvolgendo, per la prima volta massicciamente, i civili, e lasciando sul campo, insieme ai morti, una impressionante quantità di feriti, mutilati e sfregiati: sono di quel primo dopo guerra le fondazioni, nelle nostre città, delle “case del mutilato”, oggi archeologia architettonica, a significare di come la nuova guerra abbia cambiato la civiltà a venire.

Tutti i film di guerra raccontano grandi battaglie o piccoli episodi realmente accaduti. Fra i più recenti ricordiamo il pluripremiato “Dunkirk”, del 2017, anche quello molto interessante per il montaggio ellittico di scene che si svolgono in contemporanea ma da diversi punti di vista; e poi il più lineare “Midway”, dello scorso anno, dove si racconta la riscossa che gli americani si sono presi sull’atollo di Midway dopo l’attacco giapponese subìto a “Pearl Harbor”, altro gran film del 2001. E poi ci sono i film di guerra che raccontano storie private, di persone realmente esistite come anche di personaggi immaginari, letterari, la cui vita viene stravolta dal conflitto. Questo “1917” è un’ambigua sintesi fra i due generi perché, ispirato dai racconti reali del nonno del regista, è una fiction che racconta un evento verosimile in un contesto vero, ed è anche la storia privata di personaggi che vivono e muoiono nella guerra del loro tempo.

I protagonisti sono due ex attori bambini, inglesi come il regista e il resto del cast in una produzione anglo-americana che schiera grandi interpreti in camei di una sola scena. il 28enne George MacKay, che praticamente ha sulle spalle l’intero film, fra i due è quello che ha il curriculum più lungo, e che ha avuto un ruolo da coprotagonista in un altro interessante film bellico, “Defiance – I giorni del coraggio” del 2008. Il 23enne Dean-Charles Chapman, invece, qui è al suo primo ruolo adulto: ha recitato ballato e cantato in teatro in “Billy Elliot the Musical” ed è poi stato un re adolescente della famiglia Baratheon nella saga tv “Il Trono di Spade”; serie da cui proviene anche Richard Madden, lì della famiglia degli Stark, famiglie in sanguinari conflitti, e qui – curiosità per cinefili – fratello maggiore assai somigliante del giovane coprotagonista: fratello da ritrovare alla fine del film un po’ come accade nell’Oscar 1998 “Salvate il soldato Ryan” di Steven Spielberg di cui rimane indimenticabile la sequenza d’apertura con lo sbarco in Normandia.

Gli altri camei nel cast sono di Colin Firth, Benedict Cumberbatch, Mark Strong, Andrew Scott e la francese Claire Duburcq. Di Sam Mendes, il regista co-sceneggiatore, va ricordato che viene dal teatro e ha debuttato in cinema facendo subito centro con “American Beauty”; ha poi fatto a tempo a dirigere, prima di separarsi un paio d’anni dopo, la moglie Kate Winslet in “Revolutionary Road” con Leonardo DiCaprio, rimettendo insieme la mitica coppia cinematografica del “Titanic”. “1917” mi sembra il suo film più personale, oltre a essere quello più rivoluzionario dai tempi del suo debutto cinematografico. Ha già vinto il Golden Globe come miglior film drammatico e miglior regista ma altri premi sono sicuramente in arrivo.