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Palazzina Laf – opera prima di Michele Riondino

Con l’opera prima di Michele Riondino ritorna il cinema di impegno civile, quello che negli anni Sessanta e Settanta vide dietro la macchina da presa autori come Francesco Rosi, Florestano Vancini, Giuliano Montaldo, per dire i primi che mi vengono in mente: cinematografia che aveva una sua ragione d’essere scoprendo come racconto la denuncia sociale e le malefatte del potere, cinema che in quegli anni si proponeva come alternativa alla commedia all’italiana; cinematografia che non ha mai smesso di esistere e che si è ravvivata in questi ultimi due decenni dei Duemila.

Il tarantino Riondino, trasferitosi a Roma per frequentare l’Accademia Nazionale di Arte Drammatica, è uno di quei fortunati che ce l’hanno fatta in un ambiente in cui la fortuna conta più del talento: e lui il talento ce l’ha, insieme a un suo discreto fascino che certo non guasta. Accumula candidature ai premi ma afferra solo il Premio Guglielmo Biraghi assegnato dai giornalisti per “Dieci inverni” del 2009 del debuttante Valerio Mieli. Fino a questi David di Donatello 2024 in cui è ovviamente candidato come regista debuttante accanto a Beppe Fiorello per “Stranizza d’amuri”, Micaela Ramazzotti per “Felicità” e Paola Cortellesi che con “C’è ancora domani” porta via il premio, come da previsioni; al suo film vengono però assegnati due premi di peso: quello per il miglior protagonista a lui personalmente e quello per il non protagonista a Elio Germano, oltre alla miglior canzone originale a Diodato (Antonio) anche lui tarantino benché nato ad Aosta, ma si sa che la gente del sud si sposta molto.

Non sorprende il debutto socialmente impegnato di Riondino: a Taranto è nel “Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti” nato nel 2012 per puntare l’attenzione pubblica sui problemi tarantini legati all’occupazione e all’Ilva nello specifico, comitato che organizza in città il concertone del 1° maggio chiamato “Uno maggio Taranto libero e pensante” di cui il nostro è da qualche anno anche direttore artistico insieme a Diodato, guarda un po’, e il trombettista siracusano (di Augusta) Roy Paci. La sceneggiatura che Riondino ha scritto insieme al napoletano Maurizio Braucci che non è l’ultimo arrivato: “Gomorra” e “Reality” di Matteo Garrone, “Pasolini” e “Padre Pio” di Abel Ferrara, “La paranza dei bambini” di Claudio Giovannesi, “Martin Eden” di Pietro Marcello, per ricordare i film più noti alla cui scrittura ha partecipato; “Palazzina Laf” dove il LAF e l’acronimo di “laminatoio a freddo” che è lo stabilimento accanto alla palazzina in questione, si ispira al romanzo di un altro tarantino, Alessandro Leogrande, giornalista e scrittore decisamente impegnato sul fronte sociale, che in “Fumo sulla città” ha raccontato le malefatte nell’Ilva del Gruppo Riva che l’aveva acquisita nel 1995 quando l’impresa parastatale fu privatizzata; disgraziatamente lo scrittore è morto all’improvviso poco prima di poter prendere parte alla scrittura del film, che nei titoli di coda gli è dedicato: aveva 40 anni.

Alessandro Leogrande

L’anno dopo la capitale albanese Tirana gli ha intitolato una via del centro riconoscendogli l’impegno che lo scrittore profuse a quella nazione col suo libro-inchiesta “Il naufragio” nel quale ha raccontato l’affondamento della Kater I Rades in cui perirono 81 persone dei 120 migranti, per lo più famiglie con bambini, che nel 1997 si erano imbarcati per raggiungere le coste pugliesi ma la nave fu speronata accidentalmente da una corvetta della nostra Marina Militare impegnata in una manovra di respingimento.

Il film, che non possiamo dire biografico perché è a tutti gli effetti un racconto di finzione, pone il punto di vista di un operaio (Riondino) cooptato da un dirigente (Germano) che in cambio di fittizie fugaci e ingannevoli regalie introduce come sua spia nella palazzina in cui venivano confinati gli impiegati di concetto che si erano opposti alla “novazione” del contratto, ovvero l’illegale declassamento a operai, pratica oltremodo pericolosa per persone che non avevano la preparazione specifica per stare ai macchinari: fatti reali, personaggi fittizi.

Film solido e decisamente diretto con mano ferma e felice, ma a tratti poco accattivante: senza voler diventare rigoroso documentario si fa veicolo per due belle interpretazioni ma la scrittura, scegliendo questa via, avrebbe dovuto essere più generosa con gli attori inserendo un paio di quelle necessarie (a mio avviso) scene madri, monologhi o scene forti, che gratificano gli interpreti e strizzano l’occhio al pubblico – che essendo il fruitore finale e principale va in qualche modo assecondato: a tal proposito basta fare il confronto con le altre opere prime in gara a cominciare dal furbissimo film della Cortellesi che giustamente trionfa. E difatti quest’opera prima di Riondino, rispettabilissima e molto apprezzata dalla critica, è stata praticamente ignorata dal pubblico: ha incassato 750 mila euro in tutto. E se da un lato mi viene da dire “peccato” dall’altro penso “che serva da lezione”. È sbagliato anche o soprattutto il titolo: “Palazzina Laf” dice il contenuto del film ma non è accattivante quanto “C’è ancora domani” che dice il film ma incuriosisce, o “Stranizza d’amuri” o, paradossalmente, “Felicità” che invita a comprare il biglietto ma non racconta assolutamente il film, tradendo poi le aspettative del pubblico: altra trappola in cui non cadere perché il passaparola è determinante. Gli editori, quelli che fanno i libri, sanno quanto siano importanti il titolo e la copertina, e si impongono sempre sulla visione ristretta degli autori. Tornando al film, il titolo del romanzo “Fumo sulla città” sarebbe stato senz’altro più vincente dato che richiama “Mani sulla città” glorioso film di Francesco Rosi del 1963 sulla speculazione edilizia dell’allora boom economico.

Il camaleontico Elio Germano, sempre un passo avanti, era stato chiamato da Riondino per il ruolo dell’operaio protagonista, ma l’attore romano che qui recita in perfetto tarantino, ha scelto il ruolo dell’antagonista perché ha anche il talento di chi sa scegliere i ruoli e ha fatto centro, lasciando all’autore la patata bollente del protagonista che altrettanto fa un ottimo lavoro aggiudicandosi anche lui il premio, ma schivando di un filino il centro: il personaggio è un operaio abbastanza ignorante e anche un po’ ottuso, tanto da lasciarsi infinocchiare dal padrone, ma a Michele Riondino che lo interpreta alla perfezione rimane però, nel suo personale sguardo umano, una luce di intelligenza che il personaggio non ha: sto cercando il pelo nell’uovo, lo so. E qui di seguito mi lancerò in una sterile provocazione, tanto per fare pettegolezzo.

C’è un altro attore pugliese cui il neo autore avrebbe potuto rivolgersi: Riccardo Scamarcio, che rispetto a Riondino (gli è una decina d’anni più anziano) vive su un altro pianeta e di certo i due non sono amici. Si erano ritrovati insieme sul set dell’inutile remake Mediaset del 2006 del glorioso sceneggiato Rai “La freccia nera” da Robert Luis Stevenson allora diretto da Anton Giulio Majano che nel 1968 aveva lanciato Loretta Goggi e Aldo Reggiani, e nel remake lanciando Scamarcio che ne era protagonista accanto a Martina Stella che fece parlare di sé solo per il seno nudo; mentre Riondino aveva un ruolo secondario. Sono poi stati di nuovo insieme nell’infelice fiction Rai “Il segreto dell’acqua” sempre protagonista Scamarcio, Riondino in un ruolo di supporto.

Riondino e Scamarcio si fronteggiano sul set

Diciamola tutta: i due non si sopportano. Avevano già fatto a botte, per finta sul set, beninteso, quando entrambi recitavano gli studenti nella serie Rai “Compagni di scuola” e su richiesta di Riondino la cosa si è ripetuta, sempre per finta, per carità, sul set di questo “Il segreto dell’acqua”, come lo stesso attore ha raccontato a Vanity Fair, e anche lì c’è da capire quanto ci sia di giornalisticamente vero e quanto di ulteriormente fiction: “Quando ho letto la sceneggiatura per la prima volta, Riccardo mi è stato subito sul c…! Ma come, io ho una storia idilliaca con la Lodovini (Valentina, n.d.r.) e basta che arrivi uno Scamarcio qualsiasi per rompere tutto? Per di più, il mio personaggio non doveva mai reagire, ma io ho protestato” e ha ottenuto quello che voleva: fare a botte con lo Scamarcio qualsiasi.

Diversità, fra i due, fondamentali. Scamarcio è intemperante, da ragazzo ha cambiato diverse scuole fino a ritirarsi definitivamente dagli studi probabilmente senza neanche conseguire legalmente il diploma; va a Roma a frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia e anche lì abbandona perché insofferente alle regole e all’autorità – al contrario del più ordinato Riondino che conclude il corso all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica e comincia a lavorare in teatro. Debuttano entrambi in tivù e il più anziano Scamarcio diventa fortunosamente un sex-symbol col giovanilistico “Tre metri sopra il cielo” diventando richiestissimo da registi e produttori: scegliendo accortamente, anche con l’illuminante guida della sua più anziana compagna (fino al 2018) Valeria Golino conosciuta nel 2004 sul set di “Texas” dell’esordiente Fausto Paravidino, si piazza nelle produzioni più interessanti lavorando anche all’estero e recitando in inglese e francese, e facendosi anche produttore oltre che occasionalmente sceneggiatore: insomma si dà da fare. Non ha (ancora) debuttato in regia.

Riondino, che ahilui non è mai assurto al ruolo di sex-symbol, tornando appena possibile al teatro (cosa che Scamarcio ha frequentato da guest star) come già detto resta culturalmente e politicamente legato alla sua terra, segno di una coscienza sociale che in un mestiere che si fa col coltello fra i denti può essere a volte un freno piuttosto che uno slancio – a meno di non farsi autori con una propria visione di cinema, che è quello che adesso ha fatto. Però non ha mai preso parte a produzioni internazionali né men che meno ha recitato in lingue straniere. È stato protagonista di “Il giovane Montalbano”, una produzione con la quale la Rai ha tentato il ringiovanimento del glorioso personaggio per liberarsi dall’ormai ingombrante Luca Zingaretti, che stanco di ripetere il personaggio non ne voleva più sapere, salvo poi accettare compensi stratosferici per continuare stancamente il suo “Montalbano sono”. Riondino è poi stato Pietro Mennea nella bio-fiction sempre Rai e al momento è protagonista della serie “I Leoni di Sicilia” su Disney+.

Dice il neo autore: “Il film racconta una storia vera che in pochi sapevano. La Palazzina Laf si chiama così per il nome di un reparto dell’acciaieria ex Ilva dove venivano reclusi, o condannati a stare in attesa, 79 operatori che non hanno accettato di firmare una clausola contrattuale che li avrebbe demansionati a operai. Ma quegli operatori erano altamente qualificati: ingegneri, geometri, informatici. Quando sono arrivati i Riva nel 1995 avevano subito detto di non aver bisogno di impiegati ma solo di operaiE, per una sorta di rimodulazione dell’assetto produttivo dell’azienda, avrebbero dovuto licenziare un certo numero di persone. In quei contratti però c’era l’art. 18, che impediva al proprietario di licenziare senza giusta causa. Il reparto lager è un reparto italiano e non solo di Taranto, ecco perché questo film non parla solo dell’ex Ilva. Veniva usato alla Fiat, nelle realtà industriali molto importanti per costringere i lavoratori, che si trovavano in quelle determinate condizioni, a licenziarsi o a commettere quell’errore che avrebbe prodotto la giusta causa.”

Gli altri interpreti del film sono tutti tarantini o pugliesi: Vanessa Scalera, Anna Ferruzzo, Domenico Fortunato, Marta Limosani, Michele Sinisi, con Eva Cela nel ruolo della fidanzata, che essendo per nascita albanese (è arrivata in Italia a due anni) il suo ruolo rende implicito omaggio all’autore del romanzo scomparso prematuramente e onorato in Albania.

Io capitano – l’Oscar che non c’è

Matteo Garrone non ce l’ha fatta agli Oscar 2024, come non ce l’ha fatta ai Golden Globe dove era altrettanto candidato, e a mio avviso non poteva farcela perché la concorrenza al Miglior Film Internazionale (ex Miglior Film Straniero) era di altissima qualità, nulla togliendo all’italiano. L’Italia, che in ogni caso mantiene il più alto numero di candidature in quella sezione, mancava esattamente da dieci anni quando nel 2014 fu presente con “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino che si portò a casa la statuetta insieme al Golden Globe: Sorrentino come nemesi di Garrone? andiamo con ordine.

I due astri nascenti, diversissimi, si ritrovano a confronto in quel di Cannes nel 2008, Garrone con “Gomorra” dal libro inchiesta Roberto Saviano che poi ha moltiplicato pani pesci puntate e pubblico con le 5 stagioni della serie tv Sky, e Sorrentino con “Il Divo” sul mefistofelico Giulio Andreotti; entrambi erano in concorso per la Palma d’Oro che però restò in casa andando a Laurent Cantet per “La classe – Entre le murs” ma i nostri vennero premiati con le pergamene del Grand Prix Speciale della Giuria (quell’anno presieduta da Sean Penn con Sergio Castellitto come italiano fra i giurati) a “Gomorra” e il Premio della Giuria per “Il Divo”, tenendo presente che i due riconoscimenti sono lo stesso premio con due diverse diciture ed è il più importante dopo la Palma d’Oro: insomma due premi apparentemente diversi per non assegnare un ex-aequo. Da lì in poi la stampa ha inventato, o chissà forse solo registrato, una concorrenza diretta fra i due – che non analizzerò per non dilungarmi come al mio solito.

Tornando a oggi, qualsiasi sia la concorrenza vera o presunta fra i due (per certo non sono amici), entrambi sono assai stilosi e di Matteo Garrone si può certo affermare che il tema sociale, insieme al tema del magico e del favoloso, sia parte integrante del suo cinema, con radici coltissime nel favolistico di casa nostra o comunque europeo in generale, e dunque quanto di più lontano dal fumettistico fantastico ed effettistico statunitense: cosa, questa, che lo allontana dal pubblico d’oltreoceano più abituato agli effetti speciali e ai trucchi prostetici che alle atmosfere conturbanti e noir della nostra narrativa fantastica.

Partito ai suoi esordi con stile e contenuti decisamente neo-realistici si fa notare da critica e pubblico con “L’imbalsamatore” (2002) che gli valse il David di Donatello per la sceneggiatura, ma il film collezionò molti altri premi fra attori e produzione: già in questo film usa per il ruolo del protagonista l’attore nano Ernesto Mahieux come elemento di collegamento alla sua visione fantastica della narrativa cinematografica.

Anche il successivo assai disturbante “Primo amore” (2004) liberamente ispirato al romanzo “Il cacciatore di anoressiche” di Marco Mariolini è una favola nera dove l’orco è uno psicopatico ossessionato dalle donne magrissime che spinge la protagonista alla fame in una relazione di amore malato. Segue il “Gomorra” del successo internazionale e dopo realizza “Reality” (2012) dove il protagonista si fa accecare dalle favole moderne e ingannatrici dei reality show, un film con cui torna all’indagine sociale e in cui scatena visivamente la sua vena surreale e grottesca.

Arriva il raffinatissimo, e per questo anche poco digeribile e poco digerito dal grande pubblico, “Il racconto dei racconti” (2015) che schierando un cast internazionale in una coproduzione con Francia e Regno Unito (per cui Garrone anche produttore ha messo un’ipoteca sulla sua casa) è stato distribuito anche col titolo “Tale of Tales”, dalla raccolta di fiabe seicentesche “Lo cunto de li cunti” di Giambattista Basile; il film si concentra su tre racconti la cui narrazione si incrocia e incastra, e nell’insieme è un materiale enorme che potrebbe essere raccontato meglio in una coraggiosa produzione televisiva se solo Garrone si lasciasse tentare dalla serialità, cosa che ha fatto Sorrentino in Sky con “The Young Pope” e “The New Pope”, così tanto per dire. Il film di due ore e un quarto lascia un retrogusto amaro in bocca: quello del non perfettamente riuscito – ma la visione fantastica di Matteo Garrone è al suo fulgore massimo.

Ancora con i debiti da pagare accantona il suo successivo grandioso film su Pinocchio e rispolvera un vecchio progetto più a basso costo (4 milioni di euro contro i 15 del precedente) col quale torna alle sue origini di noir metropolitano di indagine sociale: “Dogman” (2018) su un fatto di cronaca nera romana che ebbe come protagonista un uomo detto “er canaro”, altra figura da favola horror, ed è di nuovo amore col Festival di Cannes che premia il protagonista Marcello Fonte, e trionfa ai Nastri d’Argento e ai David di Donatello, fra gli altri premi. E qui vale la pena spendere una curiosità: all’epoca della prima stesura di una decina d’anni prima, Garrone aveva proposto il ruolo a Roberto Benigni che poi sarà Geppetto nel successivo “Pinocchio”, grande favola che stavolta piacerà anche agli americani, molti dei quali ancora credono che il burattino sia un’invenzione di Walt Disney, e difatti riceve due candidature tecniche per costumi e trucco agli Oscar.

È evidente che Garrone, concorrenza o no, punta all’Oscar; del resto ha già trionfato in casa e in Europa e impugnare quella statuetta lo farebbe assurgere all’empireo ultimo, e qui film torna alle origini della sua ispirazione narrativa. Aveva debuttato nel 1996 con “Terra di mezzo” dove ha raccontato in tre e episodi la realtà di differenti immigrati in Italia, opera prima che al Torino Film Festival gli sono valsi il Premi Speciali della Giuria e il Premio Cipputi per il miglior film sul mondo del lavoro, premio ispirato al personaggio del metalmeccanico comunista creato da Altan; e col successivo “Ospiti” si concentra sulla figura di due ragazzi albanesi immigrati a Roma; dunque il tema dell’immigrazione lo appassiona e con quello che continua a succedere nel Mediterraneo era solo questione di tempo prima che anche Garrone ne traesse ispirazione, avendo già due titoli in una filmografia che è già un genere nella cinematografia italiana ricchissima di titoli a partire dalla fine degli anni ’80 con “Il tempo dei gitani” (1988) di Emir Kusturica cui segue a tambur battente “Pummarò” (1990) di Michele Placido, per dire solo i titoli più importanti, cui seguono “Lamerica” (1994) di Gianni Amelio, “Vesna va veloce” (1996) di Carlo Mazzacurati, “La ballata dei lavavetri” di Peter Del Monte e “L’assedio” di Bernardo Bertolucci, entrambi del 1998 e fra i titoli che si fanno assai più numerosi nel nuovo millennio ricordiamo “Quando sei nato non puoi più nasconderti” di Marco Tullio Giordana, “Bianco e nero” di Cristina Comencini, “Terraferma” di Emanuele Crialese, “Alì ha gli occhi azzurri” di Claudio Giovannesi ispirato agli scritti di Pier Paolo Pasolini, “Razzabastarda” opera prima di Alessandro Gassmann, “Fuocoammmare” di Gianfranco Rosi e il recentissimo “Nour” del 2020 di Maurizio Zaccaro.

I film fin qui realizzati si fermano a raccontare l’incontro-scontro degli immigrati con la realtà italiana e solo in pochi casi raccontano la tragicità del mare attraversato e dei viaggi, mentre Garrone – col suo team di co-sceneggiatori composto da Massimo Gaudioso, Andrea Tagliaferri e dall’attore Massimo Ceccherini che avendo nel curriculum uno suo spettacolo teatrale su Pinocchio già aveva affiancato come sceneggiatore Garrone nel di lui “Pinocchio” dove anche interpretò la Volpe – va oltre, sbarca in Africa, si addentra oltre il deserto per giungere in Senegal, nei villaggi e nelle case dove una certa politica vorrebbe rispedire i migranti.

Il soggetto di Garrone si ispira direttamente alle storie vere raccontate da Fofana Amara, Mamadou Kouassi Pli Adama, Arnaud Zohin, Brhane Tareka e Siaka Doumbia, tutti ragazzi che hanno realmente compiuto il viaggio dei due protagonisti del film, accreditati nei titoli come collaboratori alla sceneggiatura insieme a Chiara Leonardi e Nicola Di Robilant.

Il casting venne fatto in loco sotto la direzione del camerunense Henri-Didier Njikam che è incorso in un incidente diplomatico allorché gli fu negato dall’Ambasciata d’Italia a Rabat, Marocco, il visto d’ingresso in Italia per presenziare al Festival di Venezia; tempestivamente intervistato da “The Hollywood Reporter Roma”, Njikam ha accusato i responsabili di razzismo: “L’ambasciata ha giustificato il rifiuto sostenendo che non c’erano garanzie che avrei abbandonato il territorio italiano una volta entrato a Venezia. In pratica mi hanno trattato come un migrante, come se volessi approfittare della situazione per scappare. Ma io ho un lavoro, una tessera professionale del Centro Marocchino del Cinema. E, sinceramente, se avessi voluto lavorare in Europa, lo avrei già fatto: l’ente non ha guardato il mio curriculum né i miei documenti, ma solo il colore della mia pelle. Questo problema esiste solo con l’ambasciata italiana in Marocco, perché i miei colleghi dal Ghana e dalla Costa d’Avorio sono riusciti a partire. Se fossi stato bianco, non credo che sarei stato trattato così.”

Seydou Sarr insieme a Moustapha Fall sono i due ragazzi che abbagliati da sogni di notorietà e ricchezza lasciano la certezza di una tranquilla miseria quotidiana per l’incertissimo viaggio dispensatore di sofferenze e morte che tutti sconsigliavano; e Seydou, vero protagonista del film, è stato insignito a Venezia del Premio Marcello Mastroianni come attore emergente, ma l’intero cast è di altissimo livello e tutte le interpretazioni concorrono all’intensità narrativa del film costruito da Garrone senza sbavature e senza retorica, sempre focalizzato sulla tragedia umana di ragazzi che sognano un mondo migliore ma che trovano squali anche nelle sabbie del deserto.

Gli unici fugaci momenti in cui si indebolisce il racconto, a mio avviso, sono le due sequenza oniriche del protagonista che sogna, prima di salvare una donna nel deserto e poi volare indietro fino a casa ad osservare sua madre che dorme: due brevi momenti di abbagliante bellezza cinematografica che proseguono nella linea stilistica dell’autore ma che in questo caso deviano dall’intensità tragica del racconto, intensità universalmente riconosciuta da critica e pubblico.

Le curiosità: 1. resterà negli annali l’imbarazzante ultim’ora del Televideo Rai in cui il film veniva raccontato come la vicenda del capitano Schettino che abbandonò il comando della Costa Concordia incagliatasi sugli scogli dell’Isola del Giglio in Toscana nel 2012. Non si sa com’è andato l’incidente telematico, c’è chi parla di uno scherzo certo per minimizzare, c’è chi parla di un complotto certo per massimizzare, ma l’ipotesi più credibile è quella dell’intelligenza artificiale che ha creato la notizia pescando nel suo database, notizia farlocca che però è stata pubblicata da qualche intelligenza naturale… naturalmente a riposo.

2. le ultimissime di cronaca riferiscono di Claudio Ceccherini che ospite del programma Rai “Da noi a ruota libera” certo ispirato dal titolo ha parlato a ruota libera: “Sono molto fiero di aver lavorato con Garrone che ha fatto un film favoloso. Sappiate che il film della cinquina è più bello solo che non vincerà perché vinceranno gli ebrei. Quelli vincono sempre.” Va da sé che l’attore sceneggiatore non ha tutti i torti, solo che poteva esprimersi in modo diverso: i membri dell’Academy sono da sempre molto sensibili ai temi della Shoah tant’è che nel 1999 premiò “La vita è bella” di Roberto Benigni, miglior film straniero, miglior protagonista e miglior musica a Nicola Piovani. Non si parla di corde in casa dell’impiccato, si tratta di buon senso ed educazione, e tanto più vanno ponderate le parole in questo periodo di feroce conflitto in Medio Oriente.

3. mia personale curiosità: leggo nella scheda tecnica del film i nomi dei doppiatori ma “Io capitano” è stato distribuito in originale, il wolof parlato in Senegal, il francese e l’inglese, e non c’è traccia di doppiaggio. Si tratta forse di un’altra versione che sarà distribuita nelle versioni Home e On demand?

Accantonata la delusione per non avere afferrato la statuetta dorata Matteo Garrone guarda già al futuro per il suo bellissimo film che proseguirà il viaggio tornando nei luoghi da cui è partito, con proiezioni nei villaggi del Senegal anche su tendoni improvvisati, per raccontare a chi resta che a volte è più coraggioso restare. Meglio che morire nel deserto o nel mare, meglio ancora che essere umiliati da società e apparati politici ciechi alle urgenze umane nel coltivare i loro minimi miserevoli giardinetti recintati e vietati agli estranei.

La Paranza dei Bambini, ovvero la Gomorra dei teenager

Il titolo è potente, la paranza è sia la pesca a strascico che il peschereccio. Nel gergo camorristico è il gruppo di fuoco. Nel suo ulteriore romanzo-inchiesta sulla camorra Saviano affronta il tema dei giovanissimi che si sostituiscono alle vecchie generazioni, i cui esponenti o sono morti o pentiti o in galera o ai domiciliari. Dunque una Gomorra di adolescenti. Qui l’occasione narrativa segue la vicenda di Nicolas, figlio di una lavandaia e del cui padre non è dato sapere. Ha 15 anni e tanta voglia di riscatto sociale nonché di soldi per potersi permettere le magliette da 150 euro e i 500 euro d’ingresso come vip in discoteca. In queste vite non c’è accenno di ricerca di altre opportunità: studio, lavoro, talento personale. L’ignoranza impera e l’oggetto del desiderio sono le armi sempre più potenti e i mobili neo-barocco dove anche gli sportelli in cucina sono filettati d’oro. Nicolas ha molta iniziativa e diventa un piccolo boss con una sua dirittura morale e sociale e una sua goffa storia d’amore propedeutica al racconto che si mischia all’inchiesta.

Ma la sensazione è quella del già visto. Gomorra ha fatto scuola: prima un film di successo e poi una acclamata serie tv dove la narrazione da un lato si fa via via più complessa, necessariamente, siamo alla quarta stagione in uscita, ma dall’altro gira su se stessa fra alleanze e tradimenti e attentati e sparatorie che se ben orchestrate possono andare avanti all’infinito e da un romanzo-inchiesta di successo si passa alla telenovela internazionale: nell’ultima stagione vista si spaziava fino in Venezuela e nella prossima si annuncia Londra. La camorra va in giro per il mondo e il prodotto tv si adegua felicemente.

Questa “Paranza dei Bambini” non è altro che un sottoprodotto ed è un peccato perché Saviano è un eccellente narratore di inchieste e anche le sue incursioni televisive in prima persona sono sempre assai argute e significative. Ma qui la sensazione è che stia raschiando il fondo del barile e l’unica nota positiva è il ricco apporto alla cinematografia partenopea trovando occasionale lavoro agli scugnizzi che per una stagione possono sognare altre glorie che non quelle della vera paranza.

Fra gli interpreti un solo professionista di lungo corso nel ruolo del vecchio boss in pantofole: Renato Carpentieri. Come boss all’opera ritroviamo l’Aniello Arena già protagonista di “Reality” di Matteo Garrono che gli è valso il Nastro d’Argento: girava quel film durante i permessi dalla detenzione. Valentina Vannino, che qui è la madre di Nicolas, è l’altra attrice di breve corso che ha debuttato un paio d’anni fa come protagonista di “L’intrusa” di Leonardo Di Costanzo. Nicolas e Letizia, i due protagonisti innamorati sono i debuttanti Francesco Di Napoli e Viviana Aprea, credibili e centrati nei loro ruoli: se son fiori, o se sono veri attori, fioriranno.

Il film ha appena vinto l’Orso d’Argento a Berlino per la sceneggiatura scritta da Saviano con Maurizio Braucci e il regista Claudio Giovannesi che lo stesso scrittore ha voluto come regista del film per la sua capacità di vedere del buono laddove nella sua stessa scrittura non c’è. Giovannesi si è fatto notare, e premiare, con “Alì ha gli occhi azzurri” e “Fiore”. E personalmente mi pongo in attesa di ulteriori necessari sviluppi: sia della narrativa camorristica di Saviano che delle carriere di tutti gli altri.