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Omaggio a Donald Sutherland

L’attore riceve la statuetta da Jennifer Lawrence

Donald Sutherland se n’è andato 88enne il 20 giugno scorso: un attore enorme che ha ricevuto solo un Oscar alla carriera nel 2017, premio per il quale non è mai stato neanche nominato nonostante abbia lavorato in film rimasti nella storia del cinema con interpretazioni oggi ancora memorabili.

Terzo da destra

Donald McNichol Sutherland, canadese di origini scozzesi, sul piano medico da bambino non si fece mancare nulla: soffrì di febbre reumatica, epatite e poliomielite; ma secondo l’adagio “quello che non ti uccide ti rafforza” superò brillantemente le malattie. Si hanno notizie di lui che al liceo aveva intrapreso l’arte della marionettistica, e poi ancora 14enne fu anche corrispondente esterno di una radio locale. 19enne andò per quattro mesi in Finlandia con uno scambio studentesco e quando tornò in patria ottenne una doppia laurea – “dual degree”, che da noi non esiste come programma formativo – in ingegneria e drammaturgia. Durante gli anni dell’università si legò alla studentessa Lois Hardwick, sua futura prima moglie.

Ma prima di laurearsi si era coinvolto in una compagnia di comici di Toronto, la UC Follies, e finalmente e totalmente preso dal fuoco dell’arte recitativa, decise che non sarebbe mai stato un ingegnere e partì per Londra dove si iscrisse alla London Academy of Music and Dramatic Art (LAMDA) e tornò a casa solo per prendersi i pezzi di carta. A Londra mosse i primi passi sui palcoscenici del West End e poi si avviò verso la Scozia, terra originaria dei suoi avi, dove per un anno e mezzo lavorò al Perth Repertory Theatre. Nei primi anni ’60 ottenne piccoli ruoli nella tivù britannica e finalmente recitò a teatro in una produzione di primo livello, “Antologia di Spoon River” dal poema di Edgar Lee Masters con la regia di Lindsay Anderson che al cinema sarà uno degli esponenti della nuova cinematografia inglese.

In quella produzione dove il non ancora trentenne attore recitava come gli altri più ruoli, fu notato da un suo coetaneo americano che voleva fare il produttore, Paul Maslansky, il quale stava mettendo su il suo primo progetto a bassissimo costo ma non per questo poco ambizioso, uno di quegli horror di serie B tanto in voga: “Il castello dei morti vivi” per il quale stava cercando di convincere la star Christopher Lee a farsi scritturare per pochi spiccioli. Per quanto riguardava Donald gli vennero offerti 40 dollari a settimana per recitare in tre diversi ruoli: la parte principale era un militare napoleonico (era l’epoca di ambientazione del film) ma debitamente truccato sarebbe stato anche un vecchio e una strega! Per dormire si sarebbe dovuto accontentare del divano del regista Warren Kiefer e per mangiare ci si arrangiava tutti insieme, ma ci si arrangiava bene dato che il film si girava a Cinecittà dove Donald Sutherland venne per la prima volta in Italia.

Ci sarebbe tornato protagonista nel 1970 per un film di Paul Mazurski, “Il mondo di Alex” dove era un regista che veniva in Italia a incontrare il suo mito, Federico Fellini che all’epoca si concesse in un cameo; tornò nel 1973 con “A Venezia… un dicembre rosso shocking” coproduzione italo-americana diretta da Nicolas Roeg e poi ancora nel 1976 girò uno di seguito all’altro “Novecento” di Bernardo Bertolucci e “Il Casanova di Federico Fellini”. Sarebbe tornato anziano nel 2003 per girare “Piazza delle Cinque Lune” di Renzo Martinelli e poi di nuovo dieci anni dopo per “La migliore offerta” di Giuseppe Tornatore. Nel 2017 gira il film americano ma di coproduzione italo-francese “Ella & John – The Leisure Seeker” diretto da Paolo Virzì e conclude le sue frequentazioni italiane nel 2019 nella coproduzione italo-inglese “La tela dell’inganno” diretto da Giuseppe Capotondi. Il suo ultimo film è del 2022, la produzione Netflix da un racconto horror di Stephen King, “Mr. Harrigan’s Phone” diretto da John Lee Hancock. La sua ultima volta su un set è nella serie tv western “Lawnmen – La Storia di Bass Reeves” dove interpreta il ruolo secondario di un giudice.

Fra i registi con cui ha lavorato ne ha voluto onorare qualcuno in modo speciale. Usa nel mondo anglosassone dare come primo nome i cognomi, per onorare persone care o inserire il cognome materno come primo nome. Da Warren Kiefer, regista del suo horror di debutto e sul cui divano soggiornò, viene il nome del suo primo figlio maschio: Kiefer, gemello di Rachel, nati dal suo secondo matrimonio con l’attrice e attivista Shirley Douglas.

Shirley Douglas con i suoi gemelli Kiefer e Rachel

Allorquando ebbe altri tre maschi da un terzo matrimonio con l’attrice Francine Racette, li chiamò Roeg dal regista Nicolas Roeg, Rossif dal regista documentarista francese Frédéric Rossif del quale fu amico, mentre il terzo e ultimo figlio lo chiamò banalmente Angus riservandogli il cognome illustre che aveva pensato, troppo riconoscibile come cognome, come secondo nome: Redford per omaggiare Robert Redford che lo aveva diretto nel suo debutto come regista “Gente Comune”, 1980.


Angus Redford con la fidanzata, Roeg, Donald con la sua stella da inserire sulla Walk of Fame, Rachel e Rossif.

Dei cinque figli gli unici a non recitare sono Rachel che è produttrice televisiva, e Roeg che lavora nel settore finanza di un’agenzia di talenti sportivi. Nel ricevere la sua stella, come nella foto in cui posa con quattro dei suoi cinque figli (Kiefer era impegnato a teatro a Broadway) Donald ha dichiarato commosso: “Ho fatto 160 film e li sto vedendo tutti in questa pietra. Una sensazione fantastica: le persone si ergevano come ologrammi nella mia mente. Richard Marquand (“La cruna dell’ago” 1981) si è levato. Federico Fellini si è tolto il suo cappello: Oh cavolo, l’ho amato così tanto. Bob Aldrich (“Quella sporca dozzina” 1967) era seduto lì, Bernardo era lì sulla sua sedia a rotelle. E io ero paralizzato… è stato emozionante.”

Fra gli altri impegni artistici ma anche sociali e politici, va ricordato che Donald Sutherland è stato un attivo antimilitarista che nei primi anni ’70 – l’epoca del Vietnam – ha fondato insieme ad altre celebrità – Jane Fonda, con la quale ebbe un affair, Elliot Gould, Peter Boyle, Mike Nichols, Nina Simone – il “Free Theatre Associates” noto anche come “Free The Army” che organizzava esibizioni per raccogliere fondi e per promuovere la libertà di parola all’interno delle forze armate statunitensi, finanziando e sostenendo giornali e caffetterie indipendenti, sostenendo economicamente la difesa e i diritti legali dei soldati.

Bob Hope

L’associazione è nata direttamente come risposta al Bob Hope Pro-War Tour, col quale l’anziano comico organizzava spettacoli d’intrattenimento per le truppe, che però risultarono agli stessi giovani militari come banali nella migliore delle ipotesi e offensive nella peggiore, con battute reazionarie sessiste e razziste: durante uno spettacolo ha scherzato tristemente dicendo che il bombardamento del Vietnam è stato “il miglior progetto di bonifica delle baraccopoli che ci sia mai stato” insultando sia l’umanità dei vietnamiti che le minoranze americane che ancora vivevano nelle cosiddette baraccopoli.

Per i suoi impegni sinistrorsi degli anni ’70 è stato un sorvegliato speciale della CIA. Ovviamente nel 2003 levò la sua voce anche in opposizione alla guerra in Iraq, e nel 2008 si inventò blogger per “The Huffington Post” in sostegno della campagna elettorale di Barak Obama. Ma è rimasto orgogliosamente canadese decorato con la medaglia dell’Order of Canada (Ordre du Canada). Nel 2010 è stato portatore della bandiera alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi Invernali di Vancouver oltre a dare la sua voce come narratore, ricevendo scroscianti e grati applausi.

Personalmente posso dire che è uno di quegli attori che ha accompagnato e stimolato la mia giovinezza col suo camaleontico talento e rassicurato la mia maturità – con la sua sempre camaleontica bianca età.

Il Dottor Zivago

La Russia è di nuovo nelle prime pagine di tutto il mondo con il colpo di coda delle mai sopite e anacronistiche velleità imperiali del suo ennesimo oligarca. Parlando qui di cinema mi viene spontaneo tornare a vedere il cinema internazionale derivato dalla letteratura russa, che esprime una creatività sempre fuori dagli schemi che le si vogliono imporre in patria, perché si sa che nei Paesi in cui impera la censura – la creatività è sempre all’avanguardia perché deve trovare vie alternative alla propria espressione.

IL LIBRO

È del 1965 questo glorioso film di 3 ore e mezza, uno di quelli che una volta si dicevano film di grande respiro per dire in positivo una durata che toglie il respiro. Il romanzo omonimo, altrettanto corposo, è l’unico romanzo di Boris Pasternak, un intellettuale moscovita nato alla fine dell’Ottocento da madre pianista e padre pittore che fu anche illustratore dei libri di Lev Tolstoj, il quale frequentava la casa dei Pasternak, ebrei laici; Boris apparteneva dunque a quella classe sociale, l’alta borghesia che viaggiava in Europa e in casa parlava il francese tanto di moda, con la sotterranea aspirazione a sentirsi europei; alta borghesia che è al centro di questo suo romanzo, autobiografico nell’ispirazione; una classe sociale che, come lui nella vita, nel suo romanzo fa i conti con le rivoluzioni sociali che scuotono la Russia dell’epoca.

Il giovane Boris è dapprima convinto di diventare musicista, come la madre, ma poi scopre la poesia e vi si dedica pubblicando nel 1914, a 24 anni, il primo volume di versi, anche quello in linea con il gusto dell’epoca: astrattismo e futurismo. Mette mano al romanzo dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, e va ricordato che la Russia dell’epoca è considerata la principale nazione artefice della sconfitta del nazismo tedesco e come tale gode di un prestigio mai goduto prima, e che sperpererà dopo; il suo esercito, l’Armata Rossa, era al momento il più potente in campo e il comandante in capo, ovvero Segretario Generale del PCUS (Partito Comunista dell’Unione Sovietica) era Iosif Vissarionovič Džugašvili, noto a tutti come Josif Stalin, con un nomignolo che significa uomo d’acciaio, soprannome che si era guadagnato sul campo.

Boris Pasternak

Il romanzo, 800 pagine dattiloscritte completate nel 1955, raccontando senza censure i lati oscuri della storia russa e delle sue rivoluzioni, viene rifiutato dall’Unione degli Scrittori Sovietici creata dal Partito Comunista per meglio controllare la creatività degli autori, dato che la dirigenza considerava la letteratura, e tutte le arti in genere, armi potenti che potevano funzionare sia a favore che contro il sistema; un’Unione che si è retta per quasi sessant’anni, impiegando da un lato proposte allettanti per cooptare gli scrittori e dall’altra mettendo in atto punizioni e censure per disciplinare i trasgressori, o presunti tali.

Feltrinelli alla presentazione del libro

Dunque “Il dottor Živago” non venne pubblicato in patria e anzi Boris Pasternak fu oggetto di indagini e persecuzioni che lo costrinsero nell’isolamento sociale, nonché alla povertà, fino alla sua morte. L’autore, però, aveva clandestinamente inviato alcune copie del suo manoscritto ad amici all’estero. Sono tante, avventurose e fantasiose, le storie che si raccontano intorno a questa fuga all’estero del manoscritto, e un importante ruolo lo ebbe il giornalista Sergio D’Angelo, consulente editoriale del PCI inviato a Mosca per la gestione della redazione dei servizi italiani della radio sovietica; in breve, poiché privatamente incaricato dall’editore Giangiacomo Feltrinelli nella ricerca di nuovi autori russi, D’Angelo incontrò Pasternak che gli consegnò il suo manoscritto dicendogli: “Con il presente sei invitato a guardarmi mentre affronto il plotone di esecuzione”, consapevole che era il primo autore russo in oltre trent’anni a tentare un approccio con l’Occidente. Il passamano fra il giornalista e l’editore avvenne a Berlino e da lì Feltrinelli portò il testo in Italia consegnandolo a Pietro Zveteremich, un critico e traduttore italiano di origini russe impegnato di suo nella divulgazione degli scritti russi che il regime sovietico censurava; che dopo averlo tradotto lo riportò a Feltrinelli con queste parole: “È un capolavoro e sarebbe un delitto non pubblicarlo”.

Feltrinelli, che da comunista puro e duro nonché neo editore era in cerca di testi sovietici che esaltassero, anche criticamente, il comunismo, ebbe la lucidità imprenditoriale di capire che quel testo che demoliva totalmente il sistema sovietico poteva essere un clamoroso successo, e non se lo fece scappare. La pubblicazione nel 1957 provocò un caso diplomatico con l’Unione Sovietica che mise in campo, oltre al Partito Sovietico ai massimi livelli, nientemeno che il KGB, riuscendo a rallentare per mesi l’uscita italiana in prima mondiale con la scusa di volere uscire in contemporanea con una fantomatica edizione russa. Anche il Partito Comunista Italiano fece pressioni all’editore perché non pubblicasse il libro, Ma Giangi Feltrinelli era un combattente e non si fece intimorire, anzi. La prima edizione, italiana e mondiale, fece storia e da lì in poi Živago o Zhivago o Schiwago o Jivago diverrà un successo planetario.

Pasternak posa fra amici, secondo da sinistra; il terzo è Sergei Eisenstein, l’autore di “La corazzata Potemkin”; al centro giganteggia Vladimir Majakovskij, poeta drammaturgo e attore

Nel 1958 il romanzo valse all’autore il Premio Nobel per la letteratura, assegnazione che scatenò un ulteriore putiferio perché da regolamento il Nobel può essere assegnato solo ad autori che hanno pubblicato la loro opera in lingua originale nel loro Paese, cosa che per Pasternak e il suo Živago non era avvenuta; si misero in moto i servizi segreti occidentali, CIA e intelligence britannica, che a pochi giorni dall’assegnazione del premio riuscirono a intercettare un manoscritto in lingua russa a bordo di un aereo in volo dalla Russia a Malta, probabilmente spedito da Pasternak, ma siamo nell’ambito della speculazione pura; l’aereo fu dirottato e il manoscritto fu microfilmato, ovvero fotografato pagina per pagina e precipitosamente pubblicato su una carta con intestazione russa e con le tecniche tipografiche tipiche delle edizioni russe, al fine di conformarsi alle regole per il conferimento del premio Nobel. Una storia che di per sé varrebbe un altro film. Al conferimento del premio, Pasternak inviò un telegramma a Stoccolma per esprimere una gratitudine piena di incredulità, ma il KGB minacciò l’autore di espulsione e confisca di tutti i suoi rimanenti beni qualora fosse andato a ritirarlo, e Pasternak riscrive all’Accademia Svedese che è costretto a rinunciare a causa dell’ostilità del suo Paese, rinunciando anche al sostanzioso e quanto mai utile premio di denaro. Morirà in miseria due anni dopo. Solo nel 1988, durante il governo di Gorbaciov, il romanzo venne pubblicato in Russia e suo figlio Evghenij poté accettare il Premio Nobel in suo nome. Dal 2003, era Putin, “Il Dottor Zivago” è inserito fra le principali letture scolastiche russe.

Pasternak con la prima moglie Evgeniya Lurye e il loro figlio Evgenij

Benché il valore dei romanzo sia notevole, tuttavia lo stesso Pasternak espresse qualche dubbio: “Non ho scritto al mio meglio” ammise in una lettera, suggerendo che l’urgenza del messaggio aveva qua e là avuto il sopravvento sullo stile e sulla coerenza delle forma. Il russo naturalizzato statunitense Vladimir Nabokov, che pochi anni prima aveva pubblicato un altro controverso successo planetario, “Lolita”, lo stroncò dichiarandolo “una cosa modesta, pasticciato trito e melodrammatico”, ma il suo era un giudizio di parte perché notoriamente Nabokov apprezzava essenzialmente solo sé stesso, per non dire che Živago, oltretutto, stava anche scacciando la sua “Lolita” dalla prima posizione dei bestseller. Il critico Edmund Wilson, che per questo ruppe con l’amico Nabokov, ebbe un giudizio più lucido: “Živago rimarrà, credo, uno dei grandi eventi nella storia letteraria e morale dell’umanità. Per scriverlo in uno Stato totalitario e offrirlo al mondo occorreva davvero la statura del genio”.

Sul fronte italiano resta solo da ricordare che Giangiacomo Feltrinelli, giovane editore di successo che nel 1958 pubblicherà anche l’opera postuma di Giuseppe Tomasi di Lampedusa “Il Gattopardo”, oltre ad aver fondato nel 1954 la sua casa editrice ancora oggi in vita, essendo un attivista di sinistra già in campo nella resistenza antifascista, si dette all’attività clandestina e nel 1970 fondò anche i GAP, Gruppi d’Azione Partigiana, che si imposero fra i primi gruppi armati di sinistra durante gli anni di piombo, ed ebbe contatti personali coi fondatori delle Brigate Rosse. Il suo cadavere fu trovato una mattina del 1972 ai piedi di un traliccio dell’alta tensione presso Segrate, morto fulminato, pare, mentre tentava di far saltare il traliccio, ma le cose sono sicuramente più complicate e sull’accaduto non fu mai fatta luce completa.

IL FILM

Dato il successo del romanzo la produzione di un film apparve subito ovvia, e in seguito allo scoop letterario tutto italiano, il produttore Carlo Ponti scese in campo pensando ovviamente alla sua Sophia Loren come Lara. Sul fronte anglofono si era attivato David Lean, che dopo l’enorme successo di “Lawrence d’Arabia” era giustamente considerato uno dei migliori registi del momento, e fu messa in piedi una coproduzione Metro-Goldwin-Mayer e Carlo Ponti Production, per la quale il regista dovette convincere Ponti che la Loren non era adatta perché troppo alta, e soprattutto perché coi suoi 33 anni era anche troppo matura per impersonare la vergine 17enne a inizio del film; il regista confidò poi in privato al suo sceneggiatore Robert Bolt che la diva italiana non era credibile perché troppo mediterranea formosa e sensuale. Un paio d’anni dopo Carlo Ponti riuscì a formare l’agognata coppia Loren-Sharif producendo il favolistico “C’era una volta”, e mal gliene incolse perché si chiacchierò di una liaison fra i due protagonisti. Robert Bolt a sua volta, quando Lean gli chiese cosa ne pensasse della loro conterranea inglese, l’astro nascente Sarah Miles come Lara, ebbe parole di fuoco dicendo che non era altro che una puttanella del nord, salvo poi sposarsela un paio d’anni dopo: evidentemente c’era un rugginoso trascorso tra i due. David Lean dirigerà la Miles come protagonista in “La figlia di Ryan”, 1970. Al ruolo di Lara era interessata l’americana dal nome francese Yvette Mimieux ma non fu neanche presa in considerazione; considerazione che però andò alla francese Jeanne Moreau, ma non se ne fece niente; il ruolo fu anche proposto a Jane Fonda che rifiutò perché non voleva andare in Spagna per nove mesi, salvo poi pentirsi del rifiuto quando alla fine fu scritturata la bionda diafana 25enne Julie Christie.

Per il ruolo dell’altra coprotagonista, Tonja, ci voleva dunque un’attrice bruna ma la prima scelta Audrey Hepburn rifiutò il ruolo che alla fine andò alla figlia e nipote d’arte Geraldine Chaplin (il padre di sua madre Oona era il drammaturgo Eugene O’Neill) che col suo provino impressionò davvero il regista; Geraldine, che per la sua interpretazione prese a modello sua madre, con il successo che le derivò da questo film decise definitivamente di abbandonare il suo primo amore, la danza, per il cinema; aveva debuttato 12enne con il padre in un piccolo ruolo in “Luci della ribalta” e da quel film sul mondo del circo successivamente fece anche la clown nel circo Medrano a Parigi. Questo fu per lei il primo film in lingua inglese dopo averne girati due in francese.

Per la parte del protagonista la prima scelta del regista fu ovviamente Peter O’Toole, che declinò l’offerta a causa dell’estenuante lavoro cui l’aveva sottoposto il regista durante la lavorazione di “Lawrence d’Arabia”, e questo causò una rottura fra i due che non si ricompose più. Mentre Omar Sharif che in quel film era stato il braccio destro di Lawrence, avendo letto il romanzo si era proposto per il ruolo di Pasha, il rivoluzionario marito di Lara. Per quel ruolo lo sceneggiatore Robert Bolt caldeggiava però la presenza di Albert Finney, al quale scrisse anche una lettera molto affettuosa per chiedergli di accettare il ruolo; ma ci fu la censura del regista che non aveva mandato giù il rifiuto dell’attore per Lawrence d’Arabia. Così l’appetibile ruolo del rivoluzionario, prima integralmente puro poi crudelmente feroce, andò all’esponente del free cinema inglese Tom Courtney. Come Jurij Živago furono considerati anche il divo Paul Newman e lo svedese Max Von Sydow star in ascesa dopo essere stato Gesù in “La più grande storia mai raccontata”, oltre a Burt Lancaster e Dirk Bogarde; Michael Caine, che non ha mai girato un film con David Lean, racconta nella sua autobiografia che di avere girato delle scene di prova come Živago ma che dopo aver visto il materiale girato si defilò suggerendo al regista di scritturare Omar Sharif, il quale rimase non poco sorpreso quando alla fine gli fu offerto il ruolo di protagonista assoluto al quale non credeva di potere ambire, e per il quale vinse il Golden Globe.

Rod Steiger

Il ruolo dell’ambiguo Viktor Komarovskij fu offerto prima a Marlon Brando, a cui Lean aveva già offerto il ruolo di Lawrence d’Arabia che il divo aveva rifiutato scherzando che non voleva andare ad arrostirsi nel deserto; Marlon Brando era talmente divo che neanche rispose alle lettere d’invito per quest’altro ruolo, di supporto peraltro: stiamo scherzando? Ruolo che a seguire fu offerto a James Mason, il quale prima accettò ma poi ci ripensò quando capì che l’impegno lo avrebbe bloccato per mesi, e alla fine la parte andò a Rod Steiger, il quale in seguito dichiarò che essendo praticamente l’unico americano fra tanti grandi interpreti inglesi, si era soltanto augurato di essere all’altezza. Alec Guinness è qui al suo quinto film con David Lean, e si può dire che fossero amici, ma in quell’occasione litigarono spesso sul set, il regista dicendo all’attore che era pessimo e l’attore dicendo al regista che si era montato la testa dopo “Lawrence d’Arabia”; Guinness interpreta il fratellastro del protagonista che è anche voce narrante della storia che viene raccontata alla figlia perduta di Lara e Jurij, Tonja, ruolo che andò a un’altra esponente del free cinema inglese, Rita Tushingham. Completano il cast Ralph Richardson e Siobhán McKenna come zii nonché genitori adottivi di Jurij e veri genitori della di lui cugina-moglie Tonja. In un piccolo ma significativo ruolo di rivoluzionario deportato il già irruento polacco Klaus Kinski. All’inizio del film il piccolo Jurij Živago è interpretato da un somigliantissimo bambino che altri non è che il figlio di Omar, Tarek Sharif, a cui il padre volle dedicarsi come coach di recitazione anche per avvicinarsi egli stesso, attraverso il suo personaggio da bambino, all’esplorazione della natura di Živago.

Padre e figlio addormentati sul set dopo avere studiato il copione

David Lean, dopo l’avventuroso “Lawrence d’Arabia” pieno di scene di azione, per non lasciarsi imprigionare in quello stile volle che il film avesse scene molto intime e romantiche, col risultato che il film risulta oggi datato, proprio perché troppo melodrammatico; anche appesantito, per il gusto odierno, da quella voce fuori campo che racconta e sintetizza una storia davvero troppo ampia e complessa. Difatti la critica notò l’eccessivo tono romantico spalmato sui tragici eventi delle rivoluzioni, al plurale, perché si passa dalla prima rivoluzione del 1917 che sovvertì l’impero e impose la repubblica socialista, alla guerra civile che portò alla formazione dell’Unione Sovietica. Questi fatti, benché fondamentali nel racconto, nel film costruito da Lean restano sullo sfondo, riducendosi a brevi quadretti, a volte così semplificati da apparire quasi ridicoli; di fatto a una rivoluzione si contrappose una contro-rivoluzione, rossi che combattono i bianchi senza poter davvero capire, noi spettatori, le dinamiche e le istanze, anche per la mancanza di riferimenti precisi come date e periodi: se ne deduce soltanto, e il ragionamento vale anche per l’attualità, che un popolo che passa da una rivoluzione a un’altra non è un popolo sereno perché sempre mal governato dai suoi oligarchi tutti sempre troppo auto referenziali. Il film è stato proiettato in Russia solo nel 1994.

Le curiosità sul film. Il regista disse a Sharif: “Ti chiedo di fare qualcosa di estremamente difficile per un attore: voglio che tu non faccia nulla. Nessuna emozione, nessuna reazione“. Di fatto l’interpretazione, senza sbavature, è molto intensa quanto contenuta. L’attore confessò in seguito di essere stato molte volte lì lì per crollare a causa dello stress che gli procuravano l’altro profilo del personaggio e le incessanti sollecitazioni del regista. Inoltre dovette sottoporsi a delle torture estetiche per mascherare il suo aspetto troppo egiziano o comunque mediterraneo dato che la famiglia era di origini libanesi; i capelli ricci gli venivano stirati e ogni tre giorni circa veniva rasato di diversi centimetri all’attaccatura per rendergli la fronte più ampia, prima di fargli indossare una parrucca rossiccia.

Dato che non si poteva girare in Russia, il regista scelse di girare negli ampi spazi spagnoli, augurandosi di avere uno di quegli inverni freddi e nevosi come capitano su quegli altipiani, ma quell’anno si ebbe un inverno estremamente caldo e si dovette rimediare con la finta neve fatta di polvere di marmo.

Inoltre, la Spagna era sotto il regime fascista del generale Francisco Franco, così mentre si girava la scena in cui la folla marcia cantando l’inno marxista, intervenne la polizia credendo che si trattasse di una vera rivoluzione. Parzialmente rassicurati che si stava girando un film, i poliziotti restarono a controllare la folla durante le riprese e molti figuranti, intimoriti da eventuali rappresaglie, finsero di non conoscere le parole mentre in realtà erano state fatte molte prove. D’altro canto, i residenti delle vicinanze che nulla sapevano del set, sentendo in lontananza il canto comunista pensarono che Franco fosse stato deposto o fosse morto, e molti stapparono bottiglie di champagne.

Immediatamente le critiche al film furono molto negative; fra l’altro definirono il Tema di Lara sciropposo, e definirono pallida la fotografia di Freddie Young che però, come la musica, vinse l’Oscar; ma soprattutto dissero che il film era troppo inglese, oltre a essere un ammasso di asinità; David Lean restò così scioccato da decidere che non avrebbe mai più diretto un film. Nei fatti il pervasivo marketing e il convincente passaparola del pubblico decretarono l’enorme successo al botteghino, che però non raggiunse le vette di “Lawrence d’Arabia” nonostante il regista, in seguito, favoleggiasse il contrario.

Durante le prime tre settimane di proiezioni le sale erano talmente vuote che il regista commentò con amarezza che vi si potevano anche scagliare pietre senza colpire nessuno. Solo il passaparola, appunto, e il successo commerciale della musica, portarono il pubblico nelle sale.

Per la musica, David Lean aveva sentito un brano russo che riteneva perfetto ma dati i problemi politici era certo che non se ne sarebbe potuto procurare i diritti, così si rivolse di nuovo al compositore Maurice Jarre che per il precedente successo gli aveva già confezionato una musica da Oscar; ma stavolta le composizioni che Jarre gli sottoponeva non lo convincevano, perché aveva sempre in mente il brano russo, così suggerì al musicista di andarsi a rintanare in un casolare in montagna con la sua ragazza a fare l’amore per un intero fine settimana, e il musicista obbedì, tornando con il famoso Tema di Lara. Potenza dell’amore.

Per dire quanto ottusi possano alle volte essere i produttori: quando il regista chiese di avere di nuovo Maurice Jarre come compositore, gli risposero che Jarre era andato bene per le musiche da deserto mentre ora ci voleva uno per musiche da neve.

Sempre sull’ottusità dei produttori: la Metro-Goldwyn-Mayer aveva proposto Paul Newman come protagonista non perché fosse adatto al ruolo ma perché aveva interpretato il vincitore di un Nobel nella commedia “Intrigo a Stoccolma”; alla domanda del regista “E allora?” la risposta fu che dato che anche Pasternak aveva vinto il Nobel…

Nella scena in cui Lara schiaffeggia Viktor Komarovskij non era previsto che lui le restituisse lo schiaffo e l’improvvisazione di Rod Steiger lasciò di stucco Julie Christie ed entusiasmò il regista.

La carica dei partigiani sul lago ghiacciato, una delle pochissime scene d’azione ben riuscite che però scarseggiano per la scelta romantica del regista, è stata girata a 30 grandi sotto zero, ma mettendo una lastra di spessa ghisa sotto il finto ghiaccio per creare il letto del fiume ghiacciato.

I costumi di Phyllis Dalton premiata con l’Oscar fecero tendenza e stilisti come Christian Dior e Yves St. Laurent crearono le loro collezioni in quello stile riportando in auge finiture in pelliccia, ricami di seta e stivali. Per gli uomini tornarono di moda barba e baffi, giusto in tempo per la rivoluzione sessantottina.

Già nel 1958, subito dopo il Nobel e la fortunosa pubblicazione del romanzo in occidente, Kirk Douglas e Stanley Kubrick si erano messi in contatto con Boris Pasternak per acquisire il diritti cinematografici del romanzo, che però come sappiamo si aggiudicò Carlo Ponti.

La storia raccontata nel romanzo è talmente ampia che può trovare una vera narrazione filmica in una miniserie tv come quella realizzata nel 2002, la cui regia è andata all’italiano Giacomo Campiotti, in quegli anni sulla cresta dell’onda nella cinematografia internazionale. Nel cast Keira Knightley e Sam Neill come Lara e Komarovskij mentre il ruolo del protagonista è stato affidato all’attore-cantante Hans Matheson. La serie è andata in onda su Canale5 e oggi è di nuovo visibile su Iris, altro canale Mediaset. Ottimo prodotto da non confrontare col film originale.

Il film in Italia incassò più di “La Bibbia” di John Huston e di “Il buono, il brutto, il cattivo” di Sergio Leone. Negli USA si piazzò secondo dopo il musical “Tutti insieme appassionatamente” di Robert Wise. A tutt’oggi, fatti i dovuti aggiustamenti con l’inflazione, si piazza all’ottavo posto fra i maggiori incassi di tutti i tempi. Vinse in totale 5 Golden Globe e 5 Oscar tecnici fra cui quello alla miglior colonna sonora di Maurice Jarre, che già aveva vinto con “Lawrence d’Arabia”; il Tema di Lara col suo cantabile entrava nella testa, e davvero per anni si è sentito nelle radio, ma era anche un’epoca in cui le canzoni restavano mesi e mesi in quelle che allora si chiamavano hit-parade; una musica di tale successo che fu anche usata come base per testi, sia in inglese che in italiano e francese, oltre alle varie versioni di musicisti e performers più o meno famosi.