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“Lo Stato dell’Unione”, e lo stato della scrittura

LaF, canale tv della Feltrinelli che meritevolmente fa cultura perché specializzata in palinsesti che parlano di libri e non solo, manda in onda preziose serie tv con sceneggiature tratte da romanzi, com’è nel DNA di una casa editrice, dai rarefatti gialli scandinavi ai palpitanti classici della letteratura britannica. Nella settimana del devastante (sociologicamente ed economicamente) San Valentino, LaF manda in onda una miniserie: due puntate, dieci dialoghi, ognuno di dieci minuti, di una coppia di quarantenni in crisi, che si vedono al pub di fronte allo studio della terapista cui si sono affidati, per fare il punto del loro percorso: la serie, con tutti i suoi credits, è un successo annunciato, e a tambur battente, l’autore, l’acclamato Nick Hornby, ripubblica i dialoghi in libro e continua a battere cassa. Se non fosse che…

Sin dalle primissime battute è chiaro che si tratta di un esercizio di stile autoriale molto auto celebrativo: dialoghi brillanti che non perdono mai il ritmo, qua e là addirittura scoppiettanti, recitati con grande naturalezza da una coppia di attori in stato di grazia… ma quella naturalezza mal si addice allo stile della scrittura che non ha nulla di naturale: ammirevole, di nuovo, per il brio e lo humour, ma assolutamente artefatto perché nessuna coppia parlerebbe così dello stato della propria unione. Che, con questo titolo (niente a che vedere col film omonimo del 1948 con Spencer Tracy e Katharine Hepburn a regia di Frank Capra) si fa addirittura metafora dello stato dell’unione del Regno Unito a due passi dalla brexit: la coppia è in procinto di separarsi come tutti gli inglesi dal resto degli europei. In questo senso la sceneggiatura è proprio british e l’autore lo conferma: non c’è conversazione fra due inglesi in cui non si parli di brexit. Resta il fatto che i dialoghi sono artefatti, con l’aggravante della banalità: nell’esplorare l’intimità di una coppia in crisi Nick Hornby non affonda mai il bisturi e si limita a ripetere banalità da rotocalco e da social media; la metà delle conversazioni è spesa addirittura in ipotesi e scenari immaginifici, come se due coniugi in crisi non avessero di meglio da dire e, più realisticamente, da rinfacciarsi. E’ l’apoteosi dell’esercizio di stile di uno che sa scrivere molto bene ma che non sa cosa accade all’interno di una vera coppia sull’orlo del divorzio.

Mi sorprende tanto successo, anche della ripubblicazione in libro, o forse no: la banalità esibita come forma d’arte rassicura le persone banali, che sono la maggioranza, e che decretano il successo col loro consenso.

Anche da cotanto regista, Stephen Frears, (“My Beautiful Laundrette”, “Le Relazioni Pericolose”, “The Queen” per citare solo tre dei suoi migliori film) mi sarei aspettato molto di più: qui si limita a filmare i due interpreti – che fanno tutto il lavoro – in modo pulito e scolastico, come avrebbe potuto fare qualsiasi giovane regista appena uscito da una scuola di cinematografia: non mette un segno d’autore, non firma con un’idea specifica, come avrebbe potuto essere una serie di dieci riprese in piano sequenza senza stacchi, dando al lavoro degli interpreti un vero respiro in tempo reale, teatrale, come del resto è la scrittura.

I lodevolissimi interpreti che hanno davvero dato il meglio sono Rosamund Pike, più attiva al cinema che in tv, e Chris O’Dowd, più attivo in tv che al cinema (ma nell’entourage del regista): si intendono talmente bene da rappresentare una credibilissima coppia in crisi, se non fosse per gli scarsamente credibili dialoghi cui però loro prestano grande naturalezza e fluidità. Fanno da contorno come altri clienti della terapeuta che si affacciano nel pub teatro degli incontri: l’anziana coppia Aisling Bea e Sope Dirisu, e il disperato Elliot Levey.

Per l’Italia “Lo Stato dell’Unione” è stato sottotitolato “Scene da un Matrimonio”, decisamente esplicativo ma anche inopportuno dato che richiama alla mente il film omonimo del 1973 di Ingmar Bergman con Liv Ullmann e Erland Josephson, discusso capolavoro del maestro svedese: lunghissime scene, dialoghi intensi che esplorano fin nei più reconditi dettagli la vita coniugale, niente musica, movimenti della camera minimi ed essenziali: film non facile ma che oggi è una pietra miliare del cinema che verrà ancora ricordata quando della coppia in crisi di Nick Hornby non resterà più traccia.

Resta il merito de LaF, che opportunamente sta diversificando le sue competenze: è di quest’inizio dell’anno 2020 la chiusura di due librerie Feltrinelli a Roma, oltre ad altre storiche su tutto il territorio nazionale: il futuro è qui, in digitale.

Loving Vincent, Van Gogh rivive

Per chi ama Vincent Van Gogh e l’arte in genere un’occasione più unica che rara: un film di animazione che ha impiegato più di cento artisti che hanno dipinto manualmente, uno per uno, i fotogrammi del film, più di 65.000 – come si faceva una volta quando i cartoni animati venivano disegnati a mano. Qui però i fotogrammi ridisegnano e dipingono i fotogrammi di un film girato con veri attori in scenari che riprendono e rielaborano i dipinti e lo stile e le atmosfere dell’artista che è una gioia ritrovare in movimento, quando sulle tele originali c’è già un’idea di movimento: i vortici nel cielo, le stelle pulsanti, i campi di grano mossi dal vento, i voli dei corvi…

Un film che riprende l’ipotesi secondo cui quello di Van Gogh non sia stato un suicidio ma un omicidio, quindi è anche un piccolo giallo che indaga dettagli, sugli ultimi giorni di vita dell’artista, sconosciuti ai più. Operazione anomala ma assai interessante e sicuramente vincente. E’ anche divertente cercare di riconoscere gli attori che hanno fatto da modelli ai personaggi, benché interpreti non di fama mondiale ma certamente noti a cinefili e teledipendenti: Saoirse Ronan è la più nota, ex adolescente prodigio del cinema inglese; Aidan Turner e Eleanor Tomlinson li si è visti protagonisti della bella serie tv “Poldark”; Douglas Booth, che interpreta il protagonista alla ricerca della verità, è davvero un volto emergente della tv e del cinema inglese. Altri interpreti: Helen McCrory, Chris O’Dowd, Jerome Flynn, John Sessions, tutti attori britannici dato che la produzione è anglo-polacca, come la regia a quattro mani di Dorota Kobiela e Hugh Welchman. Il polacco Robert Gulaczkyk interpreta Vincent nei flashback dipinti in un morbido bianco e nero molto più vicino al realismo delle immagini cinematografiche: bella trovata stilistica che ci aiuta a distinguere il presente narrativo dal passato fatto di colori brillanti e pennellate vive, narrato dai testimoni che il protagonista via via incontra in questo suo viaggio formativo, secondo i canoni classici della narrativa.

Loving Vincent è la firma di Van Gogh alle sue lettere al fratello Theo, Con affetto Vincent. Ma oggi è anche un atto d’amore verso l’artista incompreso e geniale.