Archivi tag: charlton heston

I magnifici sette – con un ritratto di Yul Brynner

All’inizio c’è “I sette samurai” del 1954 di Akira Kurosawa con Toshiro Mifune che fu un successo internazionale candidato ai BAFTA nel 1956 e agli Oscar nel 1957 ma già vincitore del Leone d’Argento al Festival di Venezia del 1954. Poi ci fu Yul Brynner.

Yul Brynner in una foto del 1943

Julij Borisovič Briner all’epoca era già la star Yul Brynner ma vediamone un ritrattino, a cominciare dalla data della sua nascita sulla quale ha inspiegabilmente mentito invecchiandosi, forse per darsi più autorevolezza e restiamo nell’ambito delle ipotesi perché le sue motivazioni non sono mai state chiarite; sulla sua tomba è riportato come anno di nascita il 1920 ma lui aveva dichiarato alla stampa di essere nato nel 1915 sull’isola russa di Sachalin col nome di Tadje Khan cercando di vantare una discendenza da Gengis Khan: nulla di strano in un ambiente, Hollywood, dove le biografie s’inventavano a tavolino, solo che lui non lasciò che altri lo facessero per lui. In realtà era nato a Vladivostok da padre russo ingegnere minerario di origine svizzera e da madre con ascendenze nomadi Buriati e Rom, tanto che lui fu sempre molto vicino a quei popoli fino a diventare presidente onorario dell’Unione Mondiale Rom. Quando Julij aveva sette anni la madre si separò dal marito fedifrago e se lo portò in Manciuria, Cina, all’epoca sotto il controllo giapponese dove, avviando un fiorente commercio internazionale, iscrisse lui e la sorella maggiore Vera alla sede locale della londinese YMCA, Young Men’s Christian Association, sigla che fu un grande successo dei Village People del 1978 che hanno ironizzato sullo stare in una scuola cattolica e che ancora oggi fa ballare chiunque, cattolici e non.

Julij e Vera studiarono anche musica e canto e impararono il cinese, ma temendo l’aggravarsi delle tensioni col Giappone la madre ritrasferì la famiglia, stavolta a Parigi, dove tutti impararono anche il francese, e dove il ragazzo esercitò vari mestieri, debuttando quattordicenne come chitarrista al cabaret “Hermitage” cantando canzoni russe e rom: la conoscenza della musica che aveva studiato con la sorella sarà fondamentale nella sua carriera.

Fu anche eccezionalmente trapezista nel “Cirque d’Hiver”, a riprova delle sue capacità ginniche, dove però in seguito a una caduta, ancora 17enne divenne dipendente da oppioidi per sedare il dolore costante alla spina dorsale. Ma non tutti i mali vengono per nuocere se si è nati sotto una buona stella: una sera mentre acquistava oppio da uno spacciatore conobbe un altro consumatore abituale, il poeta scrittore drammaturgo e artista visuale Jean Cocteau che lo introdusse nel bel mondo bohemien facendogli conoscere Pablo Picasso, Salvador Dalì, Marcel Marceau e il giovane bell’attore Jean Marais con cui Cocteau aveva una relazione, frequentazioni che lo incuriosirono al mondo dell’arte recitativa, e non si esclude che anche il giovanissimo aitante Julij abbia sperimentato all’epoca l’omoerotismo; di fatto lui e Cocteau restarono amici per la vita e nel 1960 parteciperà al film sperimentale e autobiografico dell’autore francese “Il testamento di Orfeo”. Intanto, per la sua dipendenza il giovanotto fu mandato in Svizzera dove guarì definitivamente dagli oppioidi, che però sostituì col vizio del fumo che lo condurrà alla morte per un cancro ai polmoni.

Il futuro divo hollywoodiano tornò a Parigi riprendendo a frequentare i bohemien fra i quali conobbe un amico americano di Cocteau, il fotografo George Platt Lynes che ritroverà a New York quando a vent’anni raggiunse, insieme alla madre, la sorella che si era già trasferita negli USA per inseguire la carriera di cantante lirica: nel 1950 Vera fu nel cast dell’opera “Il Console” di Gian Carlo Menotti e fu anche la protagonista della “Carmen” di Georges Bizet in una produzione tv: la loro madre che da giovane aveva studiato come attrice e cantante si realizzò attraverso i figli.

Erano gli anni in cui gli Stati Uniti furono coinvolti dal Giappone nella Seconda Guerra Mondiale, e i timori di quel conflitto avevano fatto arrivare in America, insieme a tantissimi altri artisti europei, anche un altro russo, l’attore regista Michail Čechov, nipote del drammaturgo Anton Čechov, nella cui compagnia Brynner iniziò a studiare recitazione mentre lavorava come speaker in francese per le trasmissioni dell’esercito USA alla Resistenza europea. Alla fine della guerra, mentre il suo maestro veniva candidato all’Oscar come non protagonista per “Io ti salverò” di Alfred Hitchcock, Julij, che ancora parlava uno scarso inglese con forte accento russo, in cerca di soldi facili poserà per la collezione privata di nudi maschili del fotografo Platt Lynes – all’epoca gli omosessuali danarosi andavano spesso in giro armati di macchine fotografiche… – foto che poi verranno pubblicate solo dopo la morte dell’attore e che ancora oggi sono oggetto di collezionismo. Cominciò a calcare le scene a Broadway finché nel 1949 debuttò nel poliziesco “Il porto di New York” noto da noi anche come “La belva di New York” dell’ungherese László Benedek. Nel 1951 arriva il momento di svolta: è protagonista del musical “The King and I” musicato da Richard Rodgers su libretto di Oscar Hammerstein II, dove per interpretare il Re del Siam si rasò a zero la testa, dato che peraltro stava già perdendo i capelli, e per la sua interpretazione vinse il Tony Award.

Arrivarono anche i produttori cinematografici sempre alla ricerca di successi e macchine per far soldi: Charles Brackett Darryl F. Zanuck acquisirono i diritti della pièce per trarne un film, affidando la regia a Walter Lang e confermando nel ruolo del protagonista maschile l’ancora sconosciuto ma già premiato Brynner, anche insostituibile per la sua specificità. “Il re ed io” fu un altro grande successo e lanciò l’attore fra le stelle del cinema procurandogli l’Oscar nel 1957 per la migliore interpretazione maschile, battendo calibri come James Dean e Rock Hudson per “Il gigante” diretto da George Stevens, Kirk Douglas che era stato Vincent Van Gogh in “Brama di vivere” diretto da Vincent Minnelli, e Laurence Olivier anche regista di “Riccardo III” da William Shakespeare. Nel ricevere la statuetta dalle mani di Anna Magnani, che aveva vinto l’anno prima con “La Rosa Tatuata” di Daniel Mann, Brynner pronunciò una battuta che diverrà famosa: “Spero non sia un errore, perché non lo darò indietro per nulla al mondo”. Fu anche il primo divo a sfoggiare la testa pelata e anche per questa novità, oltre al suo indubbio fascino, divenne un sex symbol e molti altri uomini rinunciarono a toupet e parrucchini sfoggiando orgogliosi la pelata “alla Yul Brynner”: aveva lanciato non una moda ma uno stile di vita, e anche se per esigenze produttive in alcuni film sfoggiò di nuovo la chioma, personalmente mantenne lo stile per il resto della vita. Il film ispirò anche una serie televisiva del 1972 intitolata “Anna ed io” in cui Brynner riprese il suo ruolo.

Quel 1956 fu per l’ormai 36enne attore un anno magico perché interpretò altri due grandi successi: nel congeniale ruolo di un russo in “Anastasia” dell’ucraino Anatole Litvak accanto a una Ingrid Bergman in gran spolvero per il suo ritorno a Hollywood dopo la pausa italiana col marito Roberto Rossellini che ne aveva appannato l’immagine internazionale, film che le fece vincere l’Oscar lo stesso anno in cui lo vinse Brynner; ma soprattutto lui fu il crudele faraone Ramses nel kolossal “I dieci comandamenti” di Cecil B. De Mille starring Charlton Heston nel ruolo di Mosè, un ruolo e un film che lo confermarono come star internazionale.

E di film in film duetta anche con la nostra Gina Lollobrigida sostituendo in corsa Tyrone Power che era morto durante le riprese in “Salomone e la Regina di Saba” diretto da King Vidor che dopo questo film abbandonerà il cinema, salvo dirigere un documentario nel 1980; l’improvviso coinvolgimento in quel film fece posticipare all’attore il suo progetto di un film su Spartacus, e se ne avvantaggiò Kirk Douglas che a sua volta c’era rimasto malissimo perché William Wyler gli aveva preferito Charlton Heston per “Ben-Hur”, e accelerando i tempi Douglas interpretò il suo “Spartacus” con la veloce sceneggiatura di Dalton Trumbo e la regia di Stanley Kubrick: in quei giochi di potere fra star Yul Brynner, che era l’ultimo arrivato, restò col cerino più corto in mano, ma lui non era tipo da cerino corto.

I magnifici sette in una foto promozionale: Yul Brynner, Steve McQueen, Horst Buchholz, Charles Bronson, Robert Vaughn, Brad Dexter, e James Coburn.

Poco male. L’attore, che aveva già messo su una propria casa di produzioni, stava già lavorando a un altro progetto: “I magnifici sette” come remake di “I sette samurai”. L’attore aveva acquisito i diritti di una sceneggiatura con la quale aveva deciso di debuttare come regista avendo Anthony Quinn come protagonista; erano amici sin da quando Quinn aveva debuttato come regista in “I bucanieri” e ora progettavano uno scambio di ruoli e di cortesie: Brynner alla regia con Quinn protagonista: troppo bello per essere vero, perché il nostro decise di prendersi il ruolo del protagonista abbandonando la regia per la quale non si sentiva pronto – e non fu mai regista – affidandola a Martin Ritt dal quale era già stato diretto l’anno prima in “L’urlo e la furia”. Questo improvviso cambio di programma mandò su tutte le furie Anthony Quinn che citò in giudizio l’amico Brynner asserendo che loro due insieme avevano sviluppato il progetto ed elaborato molti dettagli del film, ma poiché non c’era nulla di scritto il querelante perse la causa: fine di un’amicizia. Nel frattempo “L’urlo e la furia” si era rivelato un fiasco al botteghino e questo raffreddò i rapporti fra il regista e l’attore-produttore che affidò la regia a John Sturges, il quale aveva infilato una serie di successi a cominciare dal western “Sfida all’O.K. Corral”. Anche la sceneggiatura fu oggetto di contese ma tralasciamo i dettagli tecnici per andare diretti a un’altra ben più sostanziosa contesa: quella con Steve McQueen.

Sturges lo voleva nel cast essendo rimasto entusiasta della sua performance in un ruolo secondario nel suo precedente film bellico “Sacro e profano” con Frank Sinatra e Gina Lollobrigida; l’attore era un nome emergente che da protagonista al cinema aveva solo interpretato l’horror fantascientifico di serie B “Blob, fluido mortale” perché al momento era sotto contratto come protagonista per la serie tv “Ricercato vivo o morto”, 1958-1961, prodotta da Dick Powell che aveva lasciato la carriera di attore cinematografico per passare alla regia e alla produzione televisiva dove era al momento impegnato con l’ultima sua prova d’attore “I racconti del west”, 1956-1961, e alla morte di Powell nel ’61 le serie vennero chiuse; ma intanto, poiché la lavorazione del western si sarebbe accavallata con le riprese televisive, Powell non volle liberare McQueen dall’impegno; ma lui, che era già noto per le sue intemperanze, essendo notoriamente anche un provetto pilota, su consiglio del suo agente inscenò un finto incidente automobilistico per il quale si fece rilasciare un finto referto medico secondo il quale avrebbe dovuto indossare un tutore cervicale: la lavorazione della serie fu messa in pausa e nel suo periodo “di recupero” McQueen fu libero di girare con Sturges e Brynner, tanto il film sarebbe stato girato in Messico lontano da occhi indiscreti: allora non c’erano gli smartphone e i social a sputtanarci.

Durante le riprese, però, si creò una notevole tensione tra lui e Yul Brynner che era di fatto l’unico vero protagonista, e a McQueen non andava giù che il suo personaggio avesse solo sette battute nella sceneggiatura originale e a nulla era valsa la rassicurazione del regista che gli aveva promesso di inserirlo il più possibile in ogni inquadratura anche se non aveva battute: e infatti nel film lo vediamo che gigioneggia di lato o appena dietro mentre il protagonista fa la sua scena; come i peggiori guitti del palcoscenico fece di tutto per disturbare il protagonista e attirare l’attenzione su di sé, come lanciare una moneta durante uno dei discorsi di Brynner o facendo tintinnare le cartucce del suo fucile; c’era poi che Brynner, essendo più basso di lui, costruiva un piccolo cumulo di terra per sembrare alto quanto lui, dandogli l’opportunità di scalciare via quel cumulo di terra quando gli passava accanto. Finché Brynner esasperato una volta non lo afferrò per le spalle e da qui in poi si riconosce lo stile dei due: Brynner disse alla stampa, che era venuta a conoscenza delle tensioni, che lui non aveva mai litigato con i colleghi ma semmai con le produzioni. Mentre McQueen non si trattenne e dichiarò: “Non andavamo d’accordo. Una volta mi è venuto contro, davanti a tante altre persone, e mi ha afferrato per le spalle. Era arrabbiato per qualcosa. Lui non cavalca bene e non sa niente di armi, quindi deve aver pensato che io rappresentassi per lui una minaccia. Io ero nel mio elemento, lui no. Quando lavori in una scena con Yul, dovresti stare assolutamente immobile e a tre metri di distanza… beh io non lavoro così.” Era evidente che non lavorasse così. La parola definitiva la appose Robert Vaughn nella sua autobiografia del 2008, allorquando era l’ultimo superstite di quei magnifici sette: “Steve era estremamente competitivo. Non gli bastava avere solo successo: doveva avere più successo di chiunque altro.”

Robert Vaughn festeggia col suo amico James Coburn il riconoscimento della stella sulla Hollywood Walk of Fame nel 1998.

Robert Vaughn fu scritturato per il ruolo del pistolero tormentato che indossa sempre i guanti come simbolo del distacco che vuole mettere fra sé e quello che fa; fin lì era stato un attore con molta televisione nel curriculum e che era stato appena candidato a Oscar e Golden Globe per il suo primo ruolo importante accanto a Paul Newman in “I segreti di Filadelfia” diretto da Vincent Sherman, e come l’attore dichiarerà l’aiuto del più importante collega era stato determinante: i due frequentavano la stessa palestra e Vaughn, che aveva appena ricevuto la proposta per un provino, gliene parlò sapendolo scritturato come protagonista; Newman si disse entusiasta, lo vedeva perfettamente nel ruolo, e si offrì di fargli da spalla al provino: cosa inaudita dato che i provini si facevano e si fanno con qualcuno dello staff che legge fuori campo, e ovviamente il sostegno del divo fu determinante. Sturges lo aveva scelto proprio per quella sua interpretazione e al colloquio gli disse: “Non abbiamo una sceneggiatura, solo il film di Kurosawa su cui lavorare. Ti dovrai fidare. Ma gireremo a Cuernavaca, ci sei mai stato? la adorerai: è la Palm Springs del Messico.” Ovviamente l’attore ci stava e il regista continuò: “Ottima scelta, giovanotto. E conosci altri bravi giovani attori? ho altri quattro posti da riempire.” Vaughn suggerì l’amico ed ex compagno di studi James Coburn che venne scritturato come l’esperto lanciatore di coltelli, ma essendo praticamente uno sconosciuto avrà il nome per ultimo e in piccolo sul cartellone. In ogni caso il tormentato ruolo di Robert Vaughn, dopo quello del protagonista è il più definito e interessante, e l’attore ha reso magnificamente la lotta interiore del personaggio in tensione fra la codardia e l’eroismo. Per Coburn, invece, che era un fan accanito di “I sette samurai” avendolo già visto per ben 15 volte, essere dentro il remake era per lui come realizzare un sogno e avrebbe accettato qualsiasi ruolo, e gli toccò quello che era stato rifiutato dal più anziano e già protagonista di altri western Sterling Hayden.

Charles Bronson e Brad Dexter

Anche per Charles Bronson il film fu una svolta: faccia da duro ma dall’atteggiamento mite aveva avuto numerosi ruoli secondari in decine film fra cinema e televisione compreso quel “Sacro e profano” da cui il regista avrebbe cooptato anche McQueen, e da “I magnifici sette” in poi fu considerato una star. Anche Brad Dexter aveva alle spalle decine di partecipazioni con ruoli secondari ma al contrario degli altri “magnifici” rimase un caratterista generico oggi dimenticato, qui alla sua apparizione più significativa.

A completare il cast dei “sette” venne chiamato dalla vecchia Europa il giovane tedesco emergente Horst Buchholz su cui i produttori hollywoodiani avevano appuntato gli occhi dopo averlo apprezzato come protagonista del film “Le confessioni del filibustiere Felix Krull” tratto da un romanzo di Thomas Mann e diretto da Kurt Hoffmann, vincitore nel 1958 del Golden Globe come miglior film straniero. Dopo il ruolo del protagonista Chris Adams di Brynner e quello del tormentato Lee di Vaughn il suo Chico è il personaggio più accattivante, anche perché a lui sono assegnate – fra i vari siparietti che raccontano i diversi personaggi – le scene romantiche del nascente amore fra il giovane pistolero e la chicana Petra di Rosenda Monteros. E se Rosenda restò perlopiù a recitare in Messico film e telenovelas, Horst si avviò a una carriera internazionale che lo vide spesso anche sui set italiani.

Ma non dimentichiamo il cattivissimo contro cui si battono tutt’e sette gli eroi malgrado loro: il non più giovanissimo – ha 45 anni – Eli Wallach che all’epoca aveva nel curriculum solo tre film in cui si era messo benissimo in luce, e che avrà una lunghissima carriera come comprimario spesso in ruoli da cattivo e caratterista di lusso, anche lui spesso in Italia a cominciare dagli spaghetti-western di Sergio Leone. Nel ruolo del vecchio messicano saggio e filosofo Brynner ha voluto il già vecchio conterraneo Vladimir Sokoloff che da giovane aveva studiato recitazione a Mosca proprio insieme a quel Kostantin Stanislavskij il cui metodo diverrà il nuovo vangelo degli attori di qua e di là dell’Atlantico; fu un eccellente caratterista che per la sua maschera vagamente esotica ha interpretato nella sua carriera più di una trentina di etnie diverse.

Quando Akira Kurosawa vide questo remake del suo “I sette samurai” si complimentò con John Sturges che rimase assai impressionato e commosso per i complimenti del maestro giapponese. Ma in chiusura non dimentichiamo la musica di Elmer Bernstein che s’impone sin dalle prime note all’inizio del film e che oggi è diventata un classico da riascoltare fra le migliori colonne sonore: nel 2005 l’American Film Institute l’ha inserita all’ottavo posto fra le 25 migliori colonne sonore, così come il film stesso è divenuto un classico da vedere e rivedere, che ebbe tre sequel (1966-69-72) una serie televisiva (1998-2000) e il remake in chiave fantascientifica “I magnifici sette nello spazio” diretto da Jimmy T. Murakami e dal non accreditato Roger Corman, in realtà remake non ufficiale in quanto il titolo originale era “Battle Beyond the Stars”, esplicitato nella distribuzione italiana; in entrambe le produzioni c’è il ritorno di Robert Vaughn con differenti personaggi. Del 2016 è il remake col nero Denzel Washington nel ruolo del protagonista per quanto fosse assai improbabile che nell’epoca narrata un nero avesse un ruolo così di rilievo.

Di quei magnifici sette il primo a lasciarci fu Steve McQueen a 50 anni nel 1980, a causa di un tumore da esposizione all’amianto, materiale che era impiegato negli ambienti da lui frequentati: studi cinematografici, navi, ambienti motoristici. Era scampato a morte violenta quando l’8 agosto del 1969, invitato dall’amico Jay Sebring sarebbe dovuto andare a casa della comune amica Sharon Tate la notte in cui furono uccisi dagli hippies psicopatici della cosiddetta Manson Family di Charles Manson che non partecipò all’agguato in quanto solo mandante. L’attore ne rimase così scosso che da quel momento in poi portò sempre con sé una pistola. Le sue ceneri sono state disperse nell’Oceano Pacifico.

Il 10 ottobre 1985 a 65 anni morì Yul Brynner per cancro ai polmoni e alcuni mesi prima volle registrare un breve video da rendere pubblico dopo la sua morte in cui esortava a non fumare: “Adesso che non ci sono più ti dico: non fumare. Qualunque cosa tu faccia, non fumare.” E’ sepolto in Francia e a Vladivostok la sua casa natale è stata trasformata in museo e gli è stata eretta una sua statua a grandezza naturale, che lo ritrae con i costumi del Re del Siam, nella classica posa più volte assunta nel film: gomiti larghi, pugni chiusi sui fianchi. Il suo stesso giorno morì anche Orson Welles con cui aveva recitato nel 1969 in “La battaglia della Neretva” diretto dal montenegrino Veljko Bulajić.

Nel 2002 se ne sono andati in tre: l’82enne Charles Bronson per una polmonite, benché negli ultimi anni la sua salute andasse peggiorando velocemente su più fronti: prima aveva subito un intervento per una protesi all’anca e alla fine gli erano stati diagnosticati l’Alzheimer e un carcinoma del polmone. È sepolto in un cimitero nel Vermont, vicino a casa sua. il 74enne James Coburn se n’è andato a causa di un arresto cardiaco, e le sue sue ceneri sono state interrate in un cimitero di Los Angeles. E Brad Dexter, morto a causa di un enfisema, all’età di 85 anni. Il 2003 è l’anno di Horst Buchholz che morì 69enne a causa di una polmonite contratta dopo un intervento chirurgico all’anca in un ospedale di Berlino. L’ultimo ad andarsene è stato l’84enne Robert Vaughn per leucemia nel 2016. Ma il bello del cinema è che saranno sempre vivi.

La Battaglia di Alamo – opera prima di John Wayne

Non ho mai amato John Wayne e da quando ho potuto scegliere (da adolescente) non ho più visto un suo film, ed estensivamente tutti i film western e di guerra, perché nel mio immaginario portavano tutti il marchio di John Wayne, che da bambino non mi piaceva per istinto e solo da adulto ho saputo trovare le parole per spiegare la mia antipatia: non mi piaceva il suo atteggiamento da super uomo, quello del “so tutto io” e, peggio, da suprematista bianco; ma i miei non erano precoci ragionamenti politici quanto piuttosto, sempre, il mio istinto, la mia natura, il mio personale sentire che mi faceva dubitare che gli indiani fossero così gratuitamente cattivi e feroci, tanto quanto non riuscivo a capire perché i negri dovessero fare gli schiavi. Solo con i film degli anni ’70 – “Corvo rosso non avrai il mio scalpo” “Soldato blu” “Un uomo chiamato cavallo” – per citare i primi tre titoli che mi vengono in mente, film che hanno cominciato a raccontare in modo diverso ragionato revisionista i conflitti con i pellerossa, ho fatto pace con il genere western perché finalmente trovavo alcune risposte ai miei dubbi, e potevo tornare a guardare i vecchi classici sospendendo il mio spirito critico e apprezzandoli per ciò che erano e sono: film spettacolari che raccontano dal punto di vista dei conquistatori l’America da conquistare.

La Battaglia di Alamo sta alla storia degli Stati Uniti d’America come da noi sarebbe, ad esempio, la Battaglia del Piave: una sconfitta territoriale nel percorso bellico di formazione di un’intera nazione. Gli Stati Uniti d’America all’inizio erano 13 colonie inglesi situate sulla costa atlantica, che avevano conquistato l’indipendenza dalla Corona Britannica nel 1776, e non furono tutte rose e fiori dato che i 13 già litigavano fra loro sulla schiavitù dei neri, dividendosi fra abolizionisti a nord e schiavisti a sud. Successivamente si pensò bene di ampliare i territori verso ovest, il selvaggio west, entrando in conflitto con gli abitanti autoctoni che via via gli americani incontravano, ovvero le popolazioni native, che sterminarono in una sorta di vera e propria pulizia etnica che durò fino al 1830, anno in cui fu varata una legge che regolamentava la deportazione dei nativi sopravvissuti in determinate aree di confinamento, dette riserve, e anche quegli stessi territori divennero campi di battaglia per le ricchezze minerarie che nascondevano e perché agli americani sembrava non bastare mai lo spazio conquistato: si sarebbero fermati solo sull’altra sponda, sull’oceano Pacifico.

In questo percorso di conquista, nel 1835 i nostri misero gli occhi sul territorio del Texas che solo pochi anni prima, il 1821, aveva conquistato la sua indipendenza dagli Spagnoli che a loro volta l’avevano strappato ai Francesi, e non dimentichiamo che Francesi e Spagnoli erano anche loro dei conquistatori venuti dall’Europa a soppiantare i nativi. Il Texas faceva gola perché vi erano ricchi giacimenti di argento – il petrolio era di là da venire – e a prescindere dal governo in carica vi si installavano genti di ogni nazionalità europea, compresi i nuovi coloni sedicenti Americani, molti dei quali erano ricchi commercianti possidenti di schiavi che vivevano chiusi nei loro ranch senza rispettare le leggi dello stato che aveva abolito la schiavitù su tutto il territorio messicano. Per contrastarli il presidente Anastasio Bustamante minacciò interventi militari nelle enclave anglo-americane, e per evitare ulteriori colonizzazioni di territori texani da parte dei confederati ne proibì l’immigrazione e, ulteriormente, fece costruire delle fortificazioni lungo il confine: il muro che avrebbe voluto Donald Trump lo avevano già pensato i messicani per difendersi dall’invasione americana. Questo però non fermò l’immigrazione fino al punto che contro 7800 residenti texani si contavano 30000 americani e a quel punto la questione si fece assai spinosa: gli speculatori americani non volevano più dover rendere conto al governo texano e il governo americano già pensava a un’annessione, anche per dare altro spazio a sud agli schiavisti e tenere buoni gli abolizionisti nordisti. Così fra manovre politiche e varie battaglie si giunse ad Alamo.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è image.jpeg

La missione di Alamo presso cui si svolse la famosa battaglia raccontata nel film, prima era la missione religiosa di San Antonio de Valero e prese il nuovo nome dalla città Alamo de Parras da cui provenivano le truppe che la trasformarono in presidio militare, poi abbandonato in rovina. All’interno di quelle rovine si erano installati meno di duecento di quelli che la storia chiamerà eroi texani, ma in realtà i veri nativi texani erano solo 13 di cui 11 con ascendenze messicane; 41 combattenti erano di provenienza europea e il restante centinaio o poco più erano coloni americani che provenivano da altri stati dell’unione, e con loro due neri schiavi. Il film ricorda che erano 185 americani che si sono battuti con forze messicane che li superavano in un numero dieci volte superiore. Nel tempo l’evento si è caricato di enfasi e retorica nella memoria statunitense alimentata dalla fiction cine-televisiva, mentre i messicani la ricordano appena come un episodio secondario di tutto il conflitto con gli Stati Uniti.

Il film fortemente voluto da John Wayne tace tutti i retroscena che metterebbero in ombra il fulgido esempio di patriottismo americano, a cominciare dalla realtà dello schiavismo che fu fra le cause principali del conflitto e, in questo senso, l’opera è un classico della cinematografia dell’epoca con i buoni e i cattivi nettamente schierati su fronti opposti. Ma non del tutto perché Wayne (col suo sceneggiatore James Edward Grant) trova il modo di far dire a uno dei personaggi che i messicani sono brave persone che combattono per le loro idee, mentre dopo la battaglia mostra anche i morti sul campo messicano con un primo piano a una donna anziana che piange, in un apprezzabile tentativo di visione totale sul conflitto. Per il resto John Wayne è il John Wayne che ricordavo, quello “so tutto io” che non disdegna a donne e bambini messicani i suoi sorrisi di amabile superiorità.

John Wayne e Richard Widmark

Erano anni che il divo – al tredicesimo posto fra le più grandi star americane, che per un trentennio,1940-1970, è stato fra gli attori più famosi nel mondo ma che aveva già cominciato a recitare nel cinema muto degli anni ’20 – voleva fare questo film, una storia carica di spirito eroico con protagonisti mitici, a cominciare dall’avventuriero Davy Crockett divenuto eroe popolare protagonista di molta letteratura. E poiché nessuna major era interessata a realizzare il suo film, decide di metterci soldi di tasca sua appoggiandosi alla Republic Pictures che fino ad allora aveva prodotto western di serie B; a quel punto va da sé che sarà anche regista oltre che protagonista. Ma il film costò talmente tanto che il grande successo al botteghino gli fece solo recuperare i soldi spesi e per vedere un po’ di guadagno dovette attendere gli introiti dai passaggi televisivi. Vinse un solo Oscar tecnico per il Miglior Sonoro nonostante fosse candidato anche come Miglior Film, premio che quell’anno, il 1961, andò a “L’appartamento” di Billy Wilder. Non fu candidato come Miglior Regia dato che nell’ambiente era noto a tutti, benché non ufficialmente dichiarato, che l’amico John Ford regista di tanti film di Wayne gli aveva dato più di una mano durante le riprese. Il film che circola in tv è la versione corta di quasi tre ore a fronte di quella originale di ben quattro ore che meglio spiegherebbe gli attriti fra i personaggi di Bowie e Travis, nonché l’avventura romantica di Davy Crockett e, in ogni caso, le tre ore di film scorrono velocemente, ancora oggi, a riprova della sua validità anche a sessant’anni di distanza.

Chill Wills

Il film non gli portò neanche la candidatura come Attore Protagonista ma solo quella al Non Protagonista Chill Wills, un vecchio caratterista canterino che nel film ha il compito di alleggerire la vicenda. Nel ruolo dell’altro eroe Jim Bowie a capo di un drappello di volontari irregolari, Wayne avrebbe voluto Charlton Heston che invece rifiutò proprio perché non voleva essere diretto dal collega e, diciamola tutta, in un ruolo secondario rispetto a quello di Wayne, così la parte andò a Richard Widmark, ottimo attore che passava dai protagonisti agli antagonisti e che diede al personaggio quel tono un po’ canagliesco che l’aureo Charlton Heston non avrebbe potuto dare: non dimentichiamo che Jim Bowie fu anche un attivo schiavista. L’altro protagonista, il colonnello dell’esercito regolare William Travis, è interpretato dal meno noto Lawrence Harvey, in quegli anni apprezzato interprete di personaggi freddi e apparentemente senz’anima, dunque un’altra ottima scelta nel terzetto dei protagonisti, fra i quali gigioneggia al suo solito modo il solito John Wayne, quanto mai intriso di tutta la sua retorica, che qui sfoggia il famoso cappello di pelliccia di opossum alla Davy Crockett con tanto di testa dell’animale sulla fronte a mo’ di stemma.

LAURENCE HARVEY & PATRICK WAYNE in "The Alamo" Original
Richard Boone, Lawrence Harvey e Patrick Wayne

Fra gli altri personaggi realmente esistiti Richard Boone interpreta il Generale Sam Houston che non riuscì a inviare gli aiuti per tempo ma sconfisse il generale messicano Antonio López de Santa Anna in una successiva battaglia e poi eletto primo presidente del Texas americanizzato; mentre il Capitano James Butler Bonham lo interpreta il primogenito Patrick Wayne, che dal padre aveva ereditato altezza e fascino ma non a sufficienza da farlo emergere come stella di prima grandezza.

Aissa Wayne e Joan O’Brien

Nel resto del cast il giovane cantant’attore Frankie Avalon (all’anagrafe Francis Avallone) immaginato come unico superstite maschio adulto della battaglia perché inviato a chiedere aiuto al Generale Houston. L’argentina Linda Cristal (Marta Victoria Moya Burges) e l’americana Joan O’Brien hanno il compiuto di alleggerire il film con la loro femminilità, la prima facendo intuire una storia d’amore con Davy Crokett, la seconda come superstite al massacro insieme a uno schiavetto nero e alla bionda figlioletta interpretata da Aissa Wayne, figlia di terzo letto del patriarca John.

La quale, proseguendo negli ideali politici del padre, da anziana bella signora bionda ha appoggiato un altro patriarca della destra americana, Donald Trump, fino a dichiarare che gli attivisti progressisti americani odiano la figura di suo padre perché fu un uomo forte e indipendente, un odio che si estende a tutto il cinema western considerato veicolo di razzismo e suprematismo bianco. E probabilmente ha pure ragione dato che da quelle parti il revisionismo ad alzo zero del politically correct è una piaga che non conosce mezze misure né contestualizzazione dei fatti e dei personaggi nel loro tempo. Di fatto, the Duke, come veniva rispettosamente chiamato John Wayne, era talmente di destra da fondare la “Società Cinematografica per la Salvaguardia degli Ideali Americani” che si poneva lo scopo di difendere l’industria del cinema, e attraverso essa l’intera società, dalla perniciosa infiltrazione del pensiero comunista e, sulla carta, anche fascista. Nel loro statuto, fra le altre cose, si leggeva: “Nel nostro speciale campo della cinematografia, siamo allarmati dalla crescente impressione che questa industria sia composta e dominata da comunisti, radicali e pazzi. Noi crediamo di rappresentare la stragrande maggioranza delle persone che servono in questo grande mezzo di comunicazione. Ma purtroppo essa è stata una maggioranza disorganizzata…” Può sorprendere che vi aderirono beniamini del nostro immaginario cinematografico come Walt Disney, Gary Cooper, Clark Gable, Barbara Stanwyck, Ginger Rogers e, ma lui non sorprende, Ronald Reagan. La società ebbe vita fino al 1974.

The Duke era nato come Marion Robert Morrison e aveva all’incirca quattro anni quando i vicini di casa cominciarono a chiamarlo Big Duke perché andava sempre in giro col suo cagnolino Little Duke, e poiché quel soprannome gli piaceva più del nome Marion, se lo tenne e così si fece conoscere crescendo. Ma il completo nome d’arte John Wayne gli venne dalla casa di produzioni dove aveva cominciato con piccoli ruoli nei film della star del muto Tom Mix. Al suo primo ruolo da protagonista in “Il grande sentiero” del 1930, il regista Raoul Walsh gli suggerì il nome d’arte Anthony Wayne in onore al generale che aveva combattuto nella Guerra d’Indipendenza dall’Inghilterra, e se ne deduce che i due si fossero già riconosciuti come osservanti patrioti; ma poiché al boss dello studio il nome Anthony suonava troppo italiano alla fine scelsero John, John Wayne. Peccato che l’interessato non fosse presente alla scelta del nome che lo avrebbe consacrato star internazionale per i successivi quarant’anni!

La più grande storia mai raccontata – omaggio a Max Von Sydow

Nell’occasione della morte del 90enne grande attore svedese, Sky lo ricorda mandando in onda, piuttosto che uno dei suoi tanti film girati con Ingman Bergman, di cui è stato attore feticcio, il suo grandioso debutto a Hollywood nel ruolo di Gesù, e dunque il primo film in cui recita in inglese. Il film è la versione di 3 ore e 25 minuti, quella media, dato che ne esiste una ridotta di 2,35 e una originale di 4,30. Un pomeriggio davanti la tv che sarà il cinema da vedere nelle prossime settimane di cautela da coronavirus.

1965. Max Von Sydow è già un attore affermato in patria: ha girato nove film sette dei quali con Bergman. E George Stevens, il potente produttore regista hollywoodiano lo sceglie per dare al suo Gesù un volto nuovo, non noto, slegato da inevitabili rimandi ad altri ruoli e pettegolezzi privati.

Bisogna ricordare che a Hollywood erano gli anni dei kolossal epici e biblici: è del 1956 “I Dieci Comandamenti” di Cecil B. De Mille a produzione Paramount, e gli altri studios cercavano progetti simili. Le radici di questo film sono in una produzione radiofonica che con lo stesso titolo mandava in onda puntate di mezz’ora ispirate ai Vangeli, nel già lontano 1947. Il successo della trasmissione fu tale che ne venne ricavato un libro di cui Darryl F. Zanuck, produttore della 20Th Century Fox, acquisì i diritti cinematografici, senza però mai avviare il progetto. Nel frattempo “I Dieci Comandamenti” ha già spopolato in sala, ha ricevuto 7 nomination agli Oscar, e stupito il mondo intero coi suoi originalissimi effetti speciali. E dobbiamo arrivare al 1958, l’anno in cui George Stevens, mentre stava producendo e dirigendo “Il diario di Anna Frank”, si rese conto che lo studio possedeva quei diritti e finalmente avviò il progetto. Passarono altri due anni per la stesura della sceneggiatura e, più o meno in contemporanea, lo studio rivale Metro Goldwyn Mayer, stava lavorando al “Re dei Re” che uscì in sala nel 1961. Questo non scoraggiò George Stevens, certo della maggiore grandiosità del suo film, talmente grandioso che la Metro Goldwyn Mayer si sfilò dal progetto in quanto erano già stati spesi più di due milioni di dollari senza che fosse stato girato un solo metro di pellicola. In effetti il regista-produttore si era fatto prendere la mano dalla sua grandiosa visione e aveva ingaggiato Carl Sandburg, poeta Premio Pulitzer, per collaborare alla sceneggiatura, e l’illustratore-pittore francese André Girard perché realizzasse 352 dipinti a olio da usare come storyboard. Inoltre pare che volò fino a Roma, per andare in Vaticano a chiedere consigli a papa Giovanni XXIII.

In effetti la grandiosità del film, oltre che nella durata e nel cast che annovera numerose star in ruoli secondari se non addirittura figurazioni mute, sta proprio nella sua statica struttura a quadri che sembrano vere e proprie pitture, con una magistrale disposizione delle figure nello spazio e una superba illuminazione, con la scena finale del Monte Calvario che sembra una composizione degna di Bruegel. Questa staticità, però, insieme alla ieraticità del Gesù che per lo più parla secondo le parole attribuitegli nei vangeli, dà al film una solennità lenta, in alcuni casi eccessiva, e anche le scene in movimento come la Via Crucis risultano statiche: ma è evidente che si tratta di una scelta stilistica ben precisa, certamente ispirata dal prezioso storyboard a olio, da apprezzare o meno secondo la personale disposizione dello spettatore. C’è da segnalare che George Stevens si è avvalso del sostanziale aiuto di due altri quotati registi, però non accreditati: David Lean (che aveva già all’attivo “Il ponte sul fiume Kwai” e “Lawrence d’Arabia”) girò il lungo prologo con Erode il Grande (Claude Rains) e il figlio Erode Antipa (José Ferrer); mentre Jean Negulesco, regista di un “Titanic” del 1953 ma più attivo nella commedia, girò le sequenze “mobili” per le vie di Gerusalemme. Alla fine, con 20 milioni di dollari al netto delle spese di edizione e promozione, è il più costoso film girato negli Stati Uniti fino a quel momento. Il piano di lavorazione prevedeva tre mesi di riprese ma alla fine ne occorsero nove, e nel frattempo morì il vecchio attore Joseph Schildkraut, qui nel ruolo di Nicodemo, che con Stevens era stato il papà di Anna Frank, così che alcune scene dovettero essere riscritte; mentre Joanna Dunham, nel ruolo di Maria di Magdala qui unificato con l’Adultera che Gesù salva dalla lapidazione, rimase incinta e i costumi dovettero essere riprogettati così come le inquadrature.

Il resto del cast è spettacolare, proprio da più grande storia mai raccontata. Nei ruoli principali Charlton Heston è Giovanni il Battista e Telly (Aristotelis) Savalas è Ponzio Pilato; Martin Landau è Caifa mentre Giuda, che in questo film ha grande spazio e si suicida buttandosi nel fuoco sacro dei sacrifici, anziché impiccarsi come da Scritture, è interpretato dal giovane scozzese David McCallum arrivato alla fama con la serie tv “Organizzazione U.N.C.L.E.” e che non ha proseguito con una grande carriera cinematografica, per poi tornare alla fama in tempi recenti come l’anziano dottor Ducky Mallard nella longeva serie tv “N.C.I.S.”. Poi ci sono: Donald Pleasence come Diavolo tentatore nel deserto e che continua la sua attività in città; Sal Mineo come storpio risanato, Gary Raymond come Pietro e Roddy McDowall come Matteo; e in ruoli via via sempre più piccoli: Dorothy McGuire come Vergine Maria che nell’arco dei trentatré anni della vita di suo figlio non invecchia di un giorno, e Robert Loggia che come Giuseppe è poco più che un figurante; è ben più visibile la prima star nera di Hollywood, Sidney Poitier, come Simone di Cirene che per un tratto della via Crucis condivide con Gesù il peso della croce, e non dice una sola parola; mentre John Wayne, come centurione Longino, col suo vocione ben noto al grande pubblico, dice solo la celebre frase: “Quest’uomo era davvero il Figlio di Dio”; poco più che comparse sono Angela Lansbury come Claudia Procula moglie di Ponzio Pilato, Carrol Baker come Veronica e Shelley Winters come donna risanata – solo per ricordare i nomi più noti.

Di Max Von Sydow, il protagonista appena scomparso, rest da dire che dopo questo film, pur continuando a collaborare in patria con Bergman, divenne una star holliwoodiana, e vale la pena ricordare la sua partecipazione a “L’Esorcista” 1973, “I tre giorni del Condor” 1975, il fantasy “Flash Gordon” del 1980 dove c’erano anche le nostre Ornella Muti e Mariangela Melato, e in tempi più recenti “Star Wars, il risveglio della forza” 2015 e una partecipazione nella serie tv “Il Trono di Spade”. Negli anni ’70 ha lavorato in Italia in film importanti di importanti registi: “Cuore di cane” di Alberto Lattuada, “Cadaveri eccellenti” di Francesco Rosi e “Il Deserto dei Tartari” di Valerio Zurlini, e conclude l’avventura italiana con il curioso film di Mauro Bolognini “Gran bollito” che ripercorre la vicenda reale della serial killer detta “la saponificatrice di Correggio” per avere sciolto nella soda caustica tre donne; del film era protagonista Shelley Winters e Max Von Sydow vi interpretava il doppio ruolo di una delle tre vittime e del capo della polizia; gli altri due attori en travesti erano Renato Pozzetto e Alberto Lionello, in doppio ruolo come carabiniere e bancario. Della sua tranquilla vita privata non c’è molto da dire: è morto a Parigi accudito dalla seconda moglie francese, matrimonio in seguito al quale ottenne la cittadinanza francese. Come dire: per essere dei grandi artisti non è necessaria la sregolatezza. Rimane di lui un Gesù che coi suoi intensi occhi azzurri ha pervaso l’immaginario americano, come è evidente nelle tre seguenti immagini: nella prima Max Von Sydow, nella seconda il Gesù dell’iconografia popolare, nella terza il Gesù interpretato da Robert Powell nel film del 1977 di Franco Zeffirelli, regista sempre attento al mercato americano.

Exodus, Dei e Re – ovvero il misticismo cede il passo al fantasy

Inevitabilmente nella memoria rimane e rimarrà sempre “I Dieci Comandamenti” di Cecil B. De Mille con Charlton Heston e Yul Brinner. Sarà perché era uno dei primi colossal pieno di sorprendenti effetti speciali oppure sarà perché eravamo bambini, sia in senso anagrafico che per cultura cinematografica, e quel capolavoro rimane un pilastro della nostra formazione. E si va a vedere questo “Exodus” anche orecchiando le polemiche sull’etnicità degli interpreti (il faraone ha gli occhi azzurri) e sul misticismo rivisitato in chiave logica e moderna. Comunque sia il film mantiene ciò che promette: grande spettacolarità e altissimo senso visivo ed estetico, a cominciare dal primissimo quadro d’apertura con gli schiavi ebrei al lavoro nei cantieri per la costruzione dei monumenti e poi le scenografie, i costumi, le battaglie e tutto quel che segue non fa che riempire gli occhi di meraviglie. Del resto Ridley Scott sa quello che fa e qui ricordo alcuni dei suoi successi: “Alien”, “Blade Runner”, “Black Hawk Down”, “Thelma e Louise”, “Il Gladiatore”. E proprio del Gladiatore riprende i protagonisti antagonisti e li trasferisce, con medesimi motivazioni e turbamenti, nella storia dell’esodo biblico degli Ebrei dall’Egitto. Il gladiatore era un uomo che lottava per la sua libertà qui Mosè è un uomo che lotta per la libertà del suo popolo; l’antagonista era l’imperatore Commodo e qui è il faraone Ramses con medesima ferocia mista a inettitudine ed egocentrismo venato di dubbi esistenziali: un personaggio ricco di sfumature che offre al suo interprete oggi, Joel Edgerton, come a quello di Commodo, Joaquin Phoenix, un copione su cui mostrare grandi capacità interpretative. Peccato solo, come è stato detto, che questo faraone abbia gli occhi azzurri e che la sua abbronzatura sia troppo evidentemente momentanea. Al suo contrario, questo Mosè, è interpretato da Christian Bale con l’aplomb che ha fatto di lui un interprete sempre lucido e profondo da premio Oscar e che sia il tormentato Batman dei fumetti o il Mosè della Bibbia poco cambia, dato che oggi Bibbia e fumetti sembrano diventati interscambiabili. Mi spiego: assodato che nel suo film Ridley Scott riporta in scena la sua epica battaglia fra due diverse e interdipendenti forti personalità, la preoccupazione è quella di tenere il piano mistico e il sentimento religioso prudentemente sullo sfondo, e non solo perché è tempo di integralismi e suscettibilità religiose ma proprio in quanto tutti quanti noi, occidentali e disincantati, abbiamo sostituito nel nostro immaginario la fede nella religione (qualunque essa sia) con la fede nella fantasia: oggi siamo più disposti a credere ad alieni, zombi, vampiri, lupi mannari, elfi, hobbit, fate e angeli di ogni tipo che non a un solo dio (qualunque esso sia). Sarà che le storie che le nostre religioni ci raccontano sono troppo vecchie e risentite e non ci affascinano più. Sarà che abbiamo imparato a mettere in discussione qualsiasi cosa e di qualsiasi cosa facciamo sempre un’analisi logica: così in questo film tutto ciò che è mistico viene messo sotto la lente della logica e si cerca di darne una spiegazione razionale: Mosè parla con Dio perché ha preso una botta in testa e quindi il Mosè di Christian Bale non ha il misticismo di quello di Charlton Heston che aveva il volto illuminato da Dio, né tanto meno si ha il coraggio di farne un invasato che ha preso un colpo in testa, ma è soltanto un uomo razionale che in modo altrettanto razionale cerca di spiegare a sé e agli altri la sua conversione. Un personaggio deludente e piccino piccino. Così le tavole dei dieci comandamenti non vengono scolpite dal fuoco divino ma da lui stesso sotto dettatura del dio che gli appare in sembianze di bambino: invenzione interessante ma non originalissima. Altrettanto sarà delle piaghe che sconvolgeranno l’Egitto e si cercherà di spiegarle secondo logica razionale anche se questa logica, a un certo punto, dovrà fare i conti col racconto biblico e farsi da parte nella notte in cui moriranno tutti i primogeniti: nel film del 1956 era un misterioso fumo verde che passava per i vicoli della città andando oltre le soglie segnate col sangue di agnello sacrificato e soffocando nel sonno tutti i primogeniti egiziani, qui è un’immane ombra che si stende sulla città e che fa pensare – perché già visto in altri film – all’ombra di un’enorme astronave aliena che però non c’è: la città cade semplicemente nel buio, tutti i fuochi e tutte le lucerne si spengono e i primogeniti smettono semplicemente di respirare. La stessa razionalità è stata applicata all’apertura delle acque del Mar Rosso: l’affascinante e mistica oltreché mitica sequenza de “I Dieci Comandamenti” qui è soltanto una lenta marea che scopre il fondo su cui si riversano torme di gabbiani per poi tornare improvvisa come l’enorme onda anomala di uno tsunami. Il film dunque, cercando di dare una logica a eventi inspiegabili e mitici, non fa che impoverirne la portata immaginifica, e la grandiosità delle scene e degli effetti speciali risulta gradevole alla vista ma totalmente vuota di emozioni.

Altre curiosità: nel 1956 i faraoni non avevano gli occhi dipinti perché a parere del regista il pubblico dell’epoca non avrebbe apprezzato; nel film odierno tutti gli egiziani a palazzo hanno gli occhi dipinti ma non Mosè, e chissà perché, dato che è cresciuto a palazzo come figlio adottivo del faraone Seti, oggi interpretato da John Turturro con autorevolezza e misura e che muore dopo dieci minuti di film lasciando al figlio Ramses regno e tormenti. Sua moglie Tuya, perfida madre di Ramses, la vediamo per altri dieci minuti ma frammentati in due ore e mezza di film, poco più che una comparsata per la Sigourney Weaver che per Ridley Scott è stata l’eroina di “Alien”. Sempre nel film del ’56 Nefertari, la bellissima moglie di Ramses, era Anne Baxter in un ruolo più corposo (era segretamente innamorata di Mosè) rispetto a quello odierno al quale presta il volto Golshifiteh Farahani. Séfora, la moglie di Mosè, oggi è la giovane e palpitante attrice emergente spagnola Marìa Valverde mentre all’epoca era l’avvenente bellona Yvonne De Carlo molto attiva nei peplum per la sua procacità. Completano il cast odierno: Ben Kingsley come vecchio saggio ebreo, Ben Mendelshon come vicerè infido, Aaron Paul come giovane ebreo che spia Mosè mentre parla da solo dato che per lui il dio-bambino è invisibile. Ultima chicca: Charlton Heston propose al regista De Mille che la voce di Dio fosse la sua dato che era come se Mosè sentisse quella voce nella sua mente, e così fu. Oggi Christian Bale battibecca con un bambino ed è tutto un altro cinema.

Apes Revolution, il Pianeta delle Scimmie

Il Pianeta delle Scimmie, 1968
Il Pianeta delle Scimmie, 1968

Prima di perdermi in tecnicismi e divagazioni dico subito che il film mi è piaciuto molto e che se dovessi dargli un voto gli darei un bel sette, anzi sette e mezzo va’. Dura due ore abbondanti, 130 minuti per l’esattezza, e non cala mai la tensione su questo racconto fantascientifico in cui ritorna la paura degli uomini che i loro cugini più prossimi e meno evoluti, le scimmie, possano un giorno superarli in intelligenza e potenza. E’ figlio di quel PIANETA DELLE SCIMMIE del 1968 con Charlton Heston tratto dal romanzo del francese Pierre Boulle e che generò ben quattro sequel: L’ALTRA FACCIA DEL PIANETA DELLE SCIMMIE del 1970, FUGA DAL PIANETA DELLE SCIMMIE del 1971, 1999 CONQUISTA DELLA TERRA del 1972 e ANNO 2670 ULTIMO ATTO del 1973. Come si vede dalle date un film dietro l’altro ogni anno a tambur battente. E per spremere il limone fino alla fine ci furono anche una serie tv del 1974 e un’altra animata del 1975.

Planet of the Apes, 2001
Planet of the Apes, 2001

Una decina di anni dopo, e siamo alla metà degli anni ottanta, da più parti fu ripresa l’idea di un remake o di altri sequel e si ebbero vari progetti con differenti sceneggiature e diverse ipotesi di regia, non ultima quella dell’allora sconosciuto Peter Jackson che sarà l’autore della grandiosa saga de IL SIGNORE DEGLI ANELLI e che lancerà nello star system Andy Serkis, acclamato interprete della motion capture su cui tornerò più avanti. Dobbiamo arrivare al 2001 perché Tim Burton si presti a fare un suo remake con Mark Wahlberg, Tim Roth e Helena Bonham-Carter che però non ha avuto il successo auspicato.

Passano altri dieci anni e nel 2011 esce il cosiddetto “reboot” che consiste nel fare piazza pulita dei precedenti film per ricominciare dall’inizio: L’ALBA DEL PIANETA DELLE SCIMMIE che scrive il prequel e racconta come tutto ebbe inizio: un farmaco sperimentale studiato per curare l’Alzheimer e testato sui primati, a causa di un incidente viene inalato da un tecnico di laboratorio sul quale ha però effetti letali e che sarà il “paziente zero” di un’epidemia che, come i grafici raccontano nei titoli di coda, infetterà l’intero pianeta.

L'Alba del Pianeta delle Scimmie, 2011
L’Alba del Pianeta delle Scimmie, 2011

Contemporaneamente all’uscita in sala di APES REVOLUTION Sky lo ha rimesso tempestivamente in onda fornendo un servizio, eccellente e non dovuto, ai suoi abbonati: l’ho dunque rivisto per rinfrescarmi la memoria. Diretto da Rupert Wyatt è protagonista James Franco che interpreta il ricercatore farmaceutico e che testa il prototipo del farmaco sperimentale sul padre affetto d’Alzheimer (John Lithgow) mentre si prende cura di un neonato scimpanzé per sottrarlo all’abbattimento dopo che tutti i test sono stati cancellati a causa dell’incidente in cui è morta sua madre, la quale gli ha però passato gli effetti del farmaco del quale era cavia: una straordinaria intelligenza. Il piccolo cresce amorevolmente accudito nella famiglia cui si è unita la fidanzata del ricercatore (Freida Pinto) imparando il linguaggio dei segni e molte altre cose… ma ben presto è evidente che il mondo degli umani non è fatto per lui e lo scontro con la conseguente fuga è inevitabile, proprio mentre comincia a diffondersi il virus fra gli umani e Cesare (nome che proviene dai sequel degli anni settanta) pronuncia la sua prima parola: No.

The Hobbit: An Unexpected Journey - Portraits
Andy Serkis

Tre anni dopo esce, dunque, la seconda parte di RISE OF THE PLANET OF THE APES col titolo DOWN OF THE PLANET OF THE APES contrapponendo all’alba il tramonto, che però la Fox ha cambiato per il mercato italiano in “Apes revolution”… misteri della distribuzione. E se Andy Serkis lì era citato solo alla fine dei titoli ancorché nobilitato da un “con” qui si accaparra addirittura il primo nome. E direi meritatamente. La sua strana carriera cinematografica comincia quando Peter Jackson cercava un attore-mimo per mettergli addosso e sulla faccia dei sensori che trasferissero alla computer grafica i suoi movimenti e le sue espressioni, per rendere umano e credibile il personaggio che si andava a creare: il Gollum/Smeagol del quale Serkis diventò via via interprete-creatore assoluto dandogli anche la voce sullo schermo. Il personaggio creato con questo nuovo sistema, il “motion capture”, fu talmente straordinario e impossibile da disgiungere dall’interpretazione dell’attore-mimo che ci fu una campagna trasversale, fatta di fans e addetti ai lavori e critici cinematografici, affinché Andy Serkis potesse essere nominato agli Oscar… ma la cosa non avvenne in quanto la faccia non era la sua, benché costruita sulla sua interpretazione. In seguito Jackson si avvalse di Serkis anche per dare vita al suo remake di “King Kong” dove premiò l’attore affidandogli anche un ruolo secondario in cui potesse recitare coi suoi connotati. Dell’attore Andy Serkis c’è da dire che purtroppo la sua faccia non corrisponde al suo talento: capace di spaziare dal brillante al drammatico, dal buono al cattivo in tutte le sfumature, ha però una faccia che lo inchioda al carattere brillante e neanche tanto simpatico, e su questo versante si possono contare le sue interpretazioni cinematografiche “dal vero”.

Apes Revolution, 2014
Apes Revolution, 2014

APES REVOLUTION si apre e si chiude con un primissimo piano degli occhi di Cesare ed è chiaro che ci sarà un altro seguito. Sono passati dieci anni dal capitolo precedente e la Terra, annientata dal virus scatenato dieci anni prima, è uno scenario post-apocalittico in cui gli umani sopravvivono a stento nei fortini ricavati dalla macerie delle città mentre le scimmie prosperano libere in natura, intelligenti forti e bene organizzate. Causa una spedizione umana in cerca di soluzioni energetiche le due popolazioni entrano di nuovo in contatto ma Cesare, kaiser della comunità quadrumane, non ha dimenticato di essere stato cresciuto da un uomo buono ed ora è un capo equilibrato ancorché attento e severo: rintuzza i tentativi e le tentazioni di scendere in guerra con gli umani ma, come dimostrano i fatti, non ci sono umani cattivi e scimmie buone, bensì buoni e cattivi da entrambe le parti e lo scontro diventa inevitabile in un film affascinante per gli effetti speciali e la trama ricca di tensioni drammatiche e anche intimistiche.

Fatto fuori dalla produzione il regista Rupert Wyatt che aveva da ridire sulla sceneggiatura, si chiama fuori anche James Franco che qui compare solo come cartolina memoria. Chiamato alla regia Matt Reeves la superproduzione fa fuori anche ogni altra ipotesi di star dato che questo genere di film si regge da sé sull’evento che crea. Tolta l’intensa partecipazione di Gary Oldman nel ruolo secondario del capo della comunità umana – e spendo poche parole per elogiare la sua interpretazione: quando chiamato a fare un discorso alla sua gente per sostenerla e incoraggiarla lo fa con parole inevitabilmente retoriche che lui riesce però a far filtrare attraverso la sua personale angoscia e il suo sperdimento: in questo sta la grandezza di un interprete, quando trova la via per emozioni che nel copione non erano previste. Un altro sarebbe stato solo tronfio e banale. A fronteggiare il Cesare di Andy Serkis stavolta c’è il semisconosciuto ancorché bravo attore australiano Jason Clarke, uno di quei volti che dici: dove l’ho visto? dato che si è visto in ruoli secondari in decine di film ma anche come protagonista di serie televisive. Dalla televisione provengono anche la sua compagna, Keri Russell che in tv è stata recentemente protagonista di “The Americans”, Kirk Acevedo che interpreta il violento perché stupido ed Enrique Murciano che qui quasi neanche parla. La regola data è dunque chiara: non c’è spazio per divi sul pianeta delle scimmie.

E per finire una breve carrellata sui veri volti degli altri interpreti che hanno prestato il loro talento al motion capture per creare le altre creature coprotagoniste del film.

Toby Kebbell / Koba
Toby Kebbell / Koba
Nick Thurston / Occhi Blu
Nick Thurston / Occhi Blu
Karin Konoval / Maurice
Karin Konoval / Maurice
Judy Greer / Cornelia
Judy Greer / Cornelia