Archivi tag: carlo buccirosso

I soliti ignoti vent’anni dopo

1985, esattamente 27 anni dopo arriva il secondo sequel di cui nessuno sentiva la necessità. L’anno prima c’era stato il non riuscito remake americano “Crackers” a firma del francese americanizzato Louis Malle e il sequel tutto italiano lo ha forse voluto solo il non più giovanissimo regista esordiente Amanzio Todini che per anni è stato assistente di Mario Monicelli e finalmente vuole fare qualcosa di suo, solo che invece di fare qualcosa di veramente suo si immette nel solco del suo maestro. Perché evidentemente sa vivere solo di luce riflessa e come autore non ha niente da dire: firma il secondo sequel – dopo “Audace colpo dei soliti ignoti” che Nanni Loy diresse l’anno dopo il capostipite capolavoro – senza infamia e senza lode. Semmai l’infamia gli viene dall’essersi voluto cimentare nell’impresa e la mancanza di lode proprio nell’aver fallito clamorosamente: non che il film sia brutto ma è semplicemente banale, una commedia di genere senza una precisa identità.

Ma vediamo chi è rimasto nell’impresa. Alla sceneggiatura resta solo Age che da qui in poi si firmerà col nome completo Agenore Incrocci, perché il suo sodalizio con Furio Scarpelli si è concluso a metà anni Sessanta. Torna Suso Cecchi D’Amico che aveva saltato l’appuntamento col secondo sequel e completa il terzetto lo stesso regista debuttante, già co-sceneggiatore per il suo maestro Monicelli nel film “Le due vite di Mattia Pascal” dello stesso anno con Marcello Mastroianni che in quel 1985 esce anche con “Maccheroni” di Ettore Scola e “Ginger e Fred” di Federico Fellini. Il produttore dei primi due film Franco Cristaldi, ormai accasato con Zeudi Araya, si tira fuori e produce la non meglio identificata Excelsior Film.

A quel punto bisognava fare i conti col cast: chi c’era, chi non c’era e chi non era più interessato – fermo restando che per suscitare l’interesse degli interpreti a volte basta l’entità del compenso. Le riconferme più entusiaste arrivano da coprotagonisti e generici: Tiberio Murgia è della partita e lo segue Gina Rovere che fu la moglie di Mastroianni nel primo film; da qui in poi bisognava convincere i big. Si lascia convincere Vittorio Gassman che quell’anno esce con un solo altro film di produzione internazionale, poco visto: “Il potere del male” di Krzysztof Zanussi, e non è improbabile che sia stato lui a chiedere agli sceneggiatori di farlo morire alla fine del film per evitare ulteriori tentazioni. Un no secco deve essere arrivato da Nino Manfredi che si era unito al cast del secondo capitolo riempiendo il vuoto lasciato da Mastroianni che a sorpresa torna nell’impresa, stavolta da protagonista assoluto con l’unico nome sopra il titolo: Gassman si fa collocare alla fine “con la partecipazione di”. Carlo Pisacane era morto dieci anni prima di beata vecchiaia e Renato Salvatori ha lasciato il cinema da alcuni anni, “un mondo che non gli apparteneva più” come dichiarò in un’intervista, ma da almeno un decennio soffriva di alcolismo e morirà 54enne di cirrosi epatica nel 1988. Anche Claudia Cardinale si sfila dall’impresa: con tutta la buona volontà non c’era modo di offrirle un ruolo appetibile e ormai è una diva inarrivabile per certe produzioni e questo secondo sequel del film che l’ha lanciata si prospetta come una commedia di genere, forse anche di serie B; quell’anno lei esce con due film, “La donna delle meraviglie” di Alberto Bevilacqua e il francese “L’estate prossima” di Nadine Trintignant. Dunque agli sceneggiatori tocca giocare con le carte rimaste pescandone di nuove, e di nuovo ci sono due figli che nel primo capitolo erano bambini e oggi sono adulti, nel segno della continuità generazionale.

Il ruolo più importante va al romano Giorgio Gobbi come figlio di Marcello Mastroianni e Gina Rovere che gli sceneggiatori fanno venire giù da Milano dove il giovanotto vive e lavora; l’attore, che aveva debuttato accanto ad Alberto Sordi in “Il Marchese del Grillo” di Mario Monicelli (il maestro torna sempre nella narrazione) fa bene, recita con accento milanese anche se non si capisce – e questa è un’altra delle tante lacune della sceneggiatura – perché un giovanotto nato e cresciuto a Roma improvvisamente cominci a parlare con forte accento meneghino dopo qualche anno in trasferta: la spiegazione forse sta nella debolissima gag con cui chiama papi suo padre che da buon romano non apprezza; c’è poi che il ragazzo dichiara al padre di essere diverso: siamo in un’epoca che, benché sfrondata dai tanti tabù dei decenni precedenti, l’omosessuale al cinema è ancora raccontato come macchietta da deridere o dramma individuale: in questo caso il giovane non è mai stato con una donna ma non ha ancora fatto il grande salto perché non è andato neanche con gli uomini: nella narrazione dell’epoca c’è speranza che “guarisca”, come il padre auspica, cosa che puntualmente avviene dopo un accidentale bacio con la bella di turno: scivoloni della scrittura oggi non più tollerabili che in ogni caso segnano le mancanza di idee davvero vincenti.

Francesco De Rosa primo a destra con Enrico Montesano e Gigi Proietti in “Febbre da cavallo”

L’altro figlio porta il cognome di Cruciani ed è l’erede narrativo del Dante Cruciani di Totò, ruolo che è andato al napoletano Francesco De Rosa che anche artisticamente si era proposto come erede di Totò, se non altro per la faccia che ne ricordava la maschera e anche il timbro vocale, tanto che esordì sui palcoscenici partenopei con delle macchiette in cui imitava o omaggiava il Principe della Risata. Gli si aprirono le porte del cinema e debuttò diretto da Steno in “Piedone a Hong Kong” con Bud Spencer, e l’anno dopo, sempre diretto da Steno, fu nel cast di “Febbre da cavallo” con il suo ruolo più importante che gli fece raggiungere la massima notorietà e per il quale viene ancora oggi ricordato. Fra un film e l’altro torna a omaggiare Totò in questo film ma la svolta drammatica arriva nei primi anni Duemila con la produzione di “La mandrakata” come seguito di “Febbre da cavallo”, diretto da Carlo Vanzina figlio del fu Steno. Incomprensibilmente, contrariamente agli altri interpreti, non viene riconfermato nel cast, e nel ruolo del napoletano fu scritturato l’emergente Carlo Buccirosso cambiando alcune caratteristiche del personaggio; questo grave smacco fece scivolare De Rosa in una profonda depressione che lo condusse al suicidio per impiccagione un paio d’anni dopo.

Per quanto la Cardinale non fosse più disponibile non si poteva rimettere in scena il Ferribotte di Tiberio Murgia senza la sorella Carmelina, dato che la coppia degli allora debuttanti formava un unicum narrativo assai riuscito che vent’anni dopo ribalta i ruoli in un buon sviluppo narrativo: Carmelina ha oggi preso le redini della conduzione domestica, lavora e mantiene l’inutile fratello, tanto che si stenta a riconoscerla sul piano caratteriale, mentre sul piano fisiognomico è interpretata dalla credibilissima e somigliante Rita Savagnone, che essendo più attiva nel doppiaggio è già stata più volte la voce di Claudia Cardinale che qui stavolta sostituisce fisicamente; il personaggio è ben riuscito e gradevole ma gli sceneggiatori, sbagliando ancora una volta, preferiscono non svilupparlo avendo a che fare con una sostituzione. Sviluppano invece il non riuscito personaggio della madre di Cruciani come vecchia al seguito della banda nell’odierna disavventura: la interpreta la non troppo vecchia napoletana Concetta Barra, madre di Peppe Barra, che fa quello che può col poco materiale narrativo che le è stato dato in carico, dimostrando ancora una volta che gli sceneggiatori hanno lavorato davvero male sprecando occasioni su occasioni; eppure, tolto il regista Todini che ha sempre arrancato dietro agli altri, i primi due erano due vecchie volpi del mestiere. Mah.

La bella di turno che guarisce il diverso è, in linea coi tempi, una ragazza madre che fugge da un fidanzato violento. La interpreta la napoletana Clelia Rondinella mentre il violento che la insegue è l’ancora sconosciuto Ennio Fantastichini che nei decenni a venire sarà uno dei protagonisti di qualità del cinema italiano: morto 63enne nel 2018 per cause naturali. Completano il cast come trafficanti Giovanni Lombardo Radice, mio amico personale recentemente scomparso, attore e regista teatrale che era divenuto famoso, per gli appassionati, come iconico interprete di alcuni film horror di serie B, anche in lingua inglese che parlava fluentemente, e per i quali ebbe un suo proprio fan club internazionale; come suoi scagnozzi Pasquale Africano che divenne famoso in tv come guardia giurata del giudiziario “Forum” di Canale 5, e un giovanissimo quasi irriconoscibile Alessandro Gassmann (che ha recuperato nel cognome tedesco la seconda N che Vittorio aveva fatto cadere) che il padre sta avviando alla carriera artistica ma qui è doppiato da Roberto Chevalier. Vanno ricordati anche il caratterista romano dal fisico imponente specializzato in ruoli di rude e violento Natale Tulli, doppiato da Enzo Liberti, qui come nuovo compagno della moglie di Tiberio-Mastroianni, e in un piccolo ruolo la doppia figlia d’arte Alessandra Panelli (di Paolo Panelli e Bice Valori) come moglie dell’erede Cruciani, e nella vita reale moglie a scadenza di Lombardo Radice.

Nell’insieme il film si lascia seguire piacevolmente e recuperarlo non è tempo perso, se non altro per rivedere duettare Gassman e Mastroianni, ma resta un’occasione sprecata sin dalla sua genesi: l’intento è nostalgico ma anche commerciale e viene confezionato un film di genere che nulla ha dei punti di forza del capostipite che fondò la commedia all’italiana. Non si trattava di rifondare il genere ormai sepolto dalla commedia sexy all’italiana ma se non altro mantenerne l’idea, l’ideale, e a nulla valgono gli inserti in bianco e nero del film capostipite concessi dal primo produttore che viene ringraziato nei titoli di coda: “La produzione e gli autori ringraziano FRANCO CRISTALDI per gli inserti da I SOLITI IGNOTI di MARIO MONICELLI”.

Monicelli che in apertura dei titoli di testa viene citato con “Mario Monicelli presenta”, una sorta di viatico e lasciapassare per il discepolo dotato di poco talento. Marcello Mastroianni è l’unico nome prima del titolo: uscendo dal carcere all’inizio del film si ritrova in una Roma sconosciuta e anche incattivita, ma ancora una volta la sceneggiatura non graffia laddove spunti ce ne sarebbero a decine, e la recitazione dell’attore ha lo spessore dell’interprete maturo, ma non avendo spunti brillanti a cui aggrapparsi – se non trite gag da avanspettacolo, quello che Monicelli aveva mandato in soffitta – il suo personaggio risulta più cupo che brillante, da commedia amara, e sarebbe stato un punto a favore se il film avesse seguito questa traccia, ma in realtà in film non ha nessuna traccia.

Segue nei titoli, al secondo posto, Tiberio Murgia “nel ruolo di Ferribotte”, che non essendo un vero interprete rifà sé stesso senza sbagliare; vengono poi Rita Savagnone “nel ruolo della sorella di Ferribotte”, Concetta Barra “nel ruolo della signora Italia” e infine arriva “con la partecipazione diVittorio Gassman che pur continuando a balbettare si è liberato di quel trucco e parrucco che lo avevano aiutato a diventare maschera brillante quasi trent’anni prima. Amanzio Todini dopo questo debutto-flop firmerà due anni dopo solo un’altra regia, il televisivo Fininvest “Non tutto rosa” con Marisa Laurito e Andy Luotto; è morto 48enne nel 1995 ma non mi è stato possibile rintracciare ulteriori dettagli. Il film è disponibile su YouTube.

I mostri oggi

1962, Dino Risi dirige Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi nel film a episodi “I mostri”: è l’inizio del boom economico, è l’inizio della commedia all’italiana, è un film da salvare fra i 100 migliori. 1977, Risi torna a dirigere Gassman e Tognazzi in “I nuovi mostri” e alla regia si aggiungono Mario Monicelli e Ettore Scola, mentre nel cast entrano Alberto Sordi e Ornella Muti: siamo negli anni di piombo e i mostri si fanno anche più sanguinari, e il film concorre agli Oscar. 2009, nessuno dei registi e dei protagonisti originali è più fra noi – c’è solo la 68enne Ornella Muti che però non conta dato che era solo una bella presenza. I due film ogni tanto tornano in tv e si sono radicati nel nostro immaginario collettivo: nessuno più pensava a un altro seguito. Ma non si può stare mai tranquilli: il cinepanettonaro Enrico Oldoini aveva un’alta opinione di sé.

Enrico Oldoini con Terence Hill sul set di “Don Matteo”

Diplomatosi attore all’Accademia Nazionale di Arte Drammatica fu poi soggettista e sceneggiatore collaborando con molti bei nomi: Marco Ferreri, Pasquale Festa Campanile, Alberto Lattuada, Nanni Loy, Lina Wertmüller… ma deve essersi sentito più in sintonia con Sergio e Bruno Corbucci di cui ha seguito le orme sfornando film di cassetta. Passato al piccolo schermo lì ha avuto il merito di ideare il personaggio e la serie di “Don Matteo”, uno dei pochi format non traslati da adattamenti esteri. Questo suo “I mostri oggi” è la sua ultima regia cinematografica. È morto 77enne nel 2022 per una sclerosi laterale amiotrofica che l’aveva colpito cinque anni prima.

Questo suo ultimo film è nelle intenzioni (anche) un sincero omaggio, e partendo da un suo soggetto coinvolge nella sceneggiatura i figli d’arte Silvia Scola e Giacomo Scarpelli; assicuratosi l’eredità dei nomi coinvolge nel pacchetto l’amico sceneggiatore di genere Franco Ferrini, e Marco Tiberi già sceneggiatore nella squadra di “Don Matteo”: non esattamente il meglio delle penne cinematografiche in circolazione. Alla produzione tornano Pio Angeletti e Adriano De Micheli con la loro Dean Film insieme a Maurizio Totti (nessuna parentela col pupone Francesco Totti) della Colorado Film fondata insieme a Gabriele Salvatores e Diego Abatantuono (che dunque ha avuto il privilegio della prima scelta sui ruoli) e alla Mari Film di Massimo Boldi che però si tiene fuori dal cast. Vedo adesso per la prima volta questo film di 14 anni fa perché sin dallo stile del manifesto puzzava già di cinepanettone: tutti insieme i bei volti della commedia all’italiana più o meno intelligente o più o meno scollacciata, niente a che vedere coi manifesti dei mostri originali di cui pretende di essere sia omaggio che seguito. D’altro canto ogni film coi propri mostri è specchio del suo tempo: negli anni ’60 gli italiani scoprivano di non essere brave persone e nei ’70 ebbero la conferma di essere pessimi; cosa resta da scoprire agli italiani del nuovo millennio?

Ferro 6

C’è di nuovo che il film si apre con una carrellata su alcuni dei personaggi che vedremo e gli episodi si raccordano l’un l’altro senza più la distinzione netta dei cartelli coi titoli: narrazione più fluida e moderna. Nel primo episodio facciamo la conoscenza di alcuni personaggi del jet-set capitolino in un golf-club fra cui spiccano il Diego di Diego Abantantuono che fa il piacione con la bella di turno, la spagnola Pilar Abella, praticamente rifacendo sé stesso; e c’è il sofisticato Gino di Giorgio Panariello che davvero si sforza, sostenuto anche dal trucco, di creare uno di quei mostri che sappiamo: meno originale perché in pratica li abbiamo già visti tutti e meno originale perché le stesse maschere del pur volenteroso Panariello le abbiamo già viste tutte in tv. Sul green una sciroccata Angela Finocchiaro, che rifà anche lei una delle sue solite maschere da “La TV delle ragazze” di Rai 3 1988-89; non accreditato il suo istruttore dal volto rotondo incorniciato da folta chioma che nasconde Marco D’Amore, futura star del televisivo “Gomorra”, Sky 2014-2021. I mostri sono ancora i ricchi che parlano con la erre moscia: tutto qui?

Unico grande amore

La forzatura è che i due che si incontrano per caso si chiamano Romeo e Giulietta, ma vabbè: genialità e originalità non abitano questo film. Lei è disabile, lui la corteggia, la mette su una giostra e le ruba la carrozzella per accedere gratis allo stadio nel settore riservato ai disabili, per poi saltare in piedi al gol d’a Roma. Il mostro suburbano c’è, nipote di quello che interpretò Gassman in “Che vitaccia!” nel 1962. Aderenti i due protagonisti, Mauro Meconi e Susy Laude, che sono interpreti generici senza maschera grottesca perché ormai la mostruosità è interiorizzata e metabolizzata. Sarebbe stato più divertente e meno ordinario se nei due ruoli ci fossero stati due nomi di prima grandezza a misurarsi con l’ordinarietà.

Il malconcio

La premessa è arguta: partendo dall’episodio “Pronto soccorso” del 1977 con Sordi unico monologante, indaga sul pirata della strada – figura peraltro accennata da Gassman in “La strada è di tutti” nel 1962 – mostrandoci il ritrattino grottesco di un mostro che al volante sniffa cocaina e fa scommesse al telefono, nell’esecuzione di Diego Abatantuono che non è Gassman né Tognazzi né Sordi. L’altra buona trovata è l’aver dato un carattere e una maschera alla vittima del pirata, che con Sordi era un attore generico perché Sordi non dava spazio a nessuno, e qui c’è invece Giorgio Panariello che fa tutte le facce possibili per prendersi il suo spazio. Terza buona trovata è che non avendo più un Alberto Sordi la figura del soccorritore si sdoppia in una coppia con problemi di coppia, Claudio Bisio e Sabrina Ferilli, e qui casca l’asino perché la sceneggiatura si fa più che banale, servita da una recitazione più che ordinaria. L’ultima buona trovata è il malconcio che si va a cercare da sé un pronto soccorso, sfuggendo alla litigiosa coppia che fa pace pomiciando sul cofano dell’auto, con l’improvvido Bisio che davvero fa guizzare la lingua sulle labbra della collega – scherzo da guitto che avrebbe dovuto essere cestinato al montaggio, ma non in un film e in una compagine che esalta – non il sopra – ma il fuori le righe. Soggetto con buone trovate però mal sviluppate in scrittura.

Il vecchio e il cane

Veloce e riuscito episodio sui mostri contemporanei che si apre con un tizio che abbandona il cane per strada. Si ferma un’altra auto con famigliola in partenza per le vacanze estive: genitori con due ragazzi più nonno e cane. Si discute sull’abbandono degli animali e sul costo della vita, poi il capofamiglia invita il vecchio padre a far scendere il cane per i bisogni – e sgomma via abbandonandoli entrambi. Giorgio Panariello al naturale con la sua parlata toscana, così come l’anziano Sergio Forconi che interpreta suo padre; la milanese Angela Finocchiaro si adegua e parla anche lei toscano. Finora l’unico episodio pienamente riuscito.

Padri e figli

Abatantuono e Panariello duettano nella riscrittura di “Come un padre” del 1962 con Ugo Tognazzi e Lando Buzzanca, e l’aggiornamento sta nel fatto che il questuante non è un ansioso uomo tradito ma un meditabondo padre che ha scoperto l’omosessualità del figlio, di cui il professore è l’insegnante; avendo rassicurato il padre, l’anziano docente torna a letto dove ad attenderlo c’è il ragazzo, e il rimando all’altro episodio c’è tutto. La trasposizione con le tematiche del nuovo millennio funziona, quello che non funziona è sempre la sciatteria della sceneggiatura che non sa rinunciare a battute banali, però con Panariello sempre un passo avanti rispetto al bolso Abatantuono. Ma non finisce qui e l’episodio continua con uno sviluppo tutto originale: con l’invito a pranzo che nel ’62 chiudeva l’episodio mentre qui apre un nuovo arguto scenario in cui il padre spinge al confronto con rottura fra il figlio e il professore. Panariello con la sua toscanità pervade l’intero episodio che come nel precedente prevede una moglie conterranea, qui l’imitatrice umbra Emanuela Aureli, mentre il figlio è il debuttante Rocco Giusti con quest’unico film nel curriculum visto che essendo già star di “CentoVetrine” resta a fare la star nelle soap tv. Secondo episodio promosso.

La testa a posto

Dalla toscanità alla napoletanità. Anna Foglietta ha lasciato il lavoro per amore del fidanzato musulmano Alì, interpretato dal tunisino Mohamed Zouaoui, qui al suo secondo film in un carriera che lo porterà a vincere il Globo d’Oro nel 2011 (Golden Globe italiano dalla stampa estera) al miglior attore rivelazione per “I fiori di Kirkuk” dell’iraniano Fariborz Kamkari. Senza più gli introiti del suo lavoro la ragazza non potrà più aiutare la famiglia in ristrettezze economiche, col capofamiglia Carlo Buccirosso che qui non fa rimpiangere i mostri d’antan, la cabarettista Rosalia Porcaro come madre e l’ottantunenne Enzo Cannavale come nonno, qui al suo ultimo film. Ma l’aver lasciato il lavoro non basta e il fidanzato musulmano rompe con la ragazza, che dunque può riprendere il suo lavoro di prostituta per aiutare la famiglia, col padre che esulta perché la figlia ha rimesso la testa a posto. Paola Lavini come amica e collega della protagonista. Un altro episodio completamente riuscito se non fosse per le solite sciatterie nella scrittura più da serie tv che da cinema di serie A.

La fine del mondo

La fine del mondo è il buco nell’ozono che porta un caldo innaturale (e in questi giorni tutti ne abbiamo esperienza) ma sulla spiaggia sono tutti inconsapevoli e contenti – non abbastanza mostri dentro, però: sono caratteri banali. Veloce episodio corale dove ci sono tutti quelli visti fin qui: Anna Foglietta, Sabrina Ferilli, Carlo Buccirosso, Giorgio Panariello, Susy Laude e Mauro Meconi di nuovo in coppia, Diego Abantatuono che si auto-cita rifacendo il suo terrunciello, maschera con la quale fece ben 17 film in 3 anni, Angela Finocchiaro e Claudio Bisio. Nella foto di gruppo manca l’intervistatore tv, attore non accreditato che risponde al nome di Antonio Friello.

Povero Ghigo

Entra in scena la scuola milanese. Abatantuono duetta con Bisio, poi si aggiunge Ugo Conti. Ex attori cabaret i due vanno al funerale del compagno di scena Ghigo, ma il primo che nel frattempo è divenuto un divo di fiction tv dirotta il secondo verso un altro funerale dove fa l’ospite a pagamento. All’inizio dell’episodio altri due comici milanesi, Enzo Polidoro e Stefano Vogogna, come funzionari televisivi. Luciano Manzalini, in solitaria dal duo Gemelli Ruggeri, è il prete officiante. Altro degno episodio di mostri da nuovo millennio.

Razza superiore

Episodio che graffia più in profondità mettendo in scena gli argomenti sensibili del razzismo e del classismo. La vecchia nobildonna nostalgica del regime fascista e amica di gioventù di Edda Mussolini, la primogenita del Duce, costretta in carrozzella si fa accompagnare dal badante immigrato il quale, non appena la vecchia si addormenta, la traveste da mendicante e la lascia all’ingresso di una chiesa dove i parrocchiani in uscita le lasceranno molti oboli. Una trentina di euro che il badante si dividerà col maggiordomo perché la nobildonna sono anni che non paga gli stipendi. Protagonista la vera nobildonna Valeria De Franciscis che dopo una figurazione nel 2000 in “Estate romana” di Matteo Garrone debutta 93enne da protagonista in “Pranzo di Ferragosto” dell’altrettanto debuttante alla regia Gianni Di Gregorio; riprenderà il suo ruolo di vecchia madre nel 2011 in “Gianni e le donne” sempre di Di Gregorio per andarsene 99enne nel 2014. Il badante Tushar, attore non professionista ma efficace, si esibisce col suo vero nome.

Euro più, euro meno

La coppia di camerieri di un grande albergo romano, lui in sala lei alle camere, a fine giornata torna a casa sognando un futuro radioso nel presente ad ostacoli fra buffi e cravattari. A far coppia con la Ferilli la new entry nel cast del film Neri Marcorè. Dopo una velocissima carrellata dei soliti ricchi al buffet in albergo (già visti nel golf club del primo episodio) e un gratuito riferimento a Lilli Gruber“a roscia che sta de sguincio” – resta da chiedersi: dove sono i mostri? questi sono solo du’ poveri disgraziati, per dirla col loro gergo romanesco, che lecitamente sognano un futuro migliore, euro più euro meno. Episodio assolutamente inconcludente.

Fanciulle in fiore

Le tre fanciulle ironicamente in fiore sono tre borgatare romane calate in centro a far danno, sono dunque i mostri di questo brutto episodio scritto malissimo. Le tre fanciulle vogliono fare shopping ma non ci hanno gli euri, sempre al plurale in tutto il film quando sarebbe bastato una sola volta scegliendo di caratterizzare con questo idiotismo uno solo dei tanti personaggi. Le tre prendono di mira un Panariello ancora una volta formato famiglia, per circuirlo, scattargli delle foto e ricattarlo perché minorenni. I mostri ci sono e sono attuali ma sono scritti male perché svelando le intenzioni delle tre sin dall’inizio non lasciano nulla allo spettatore, né sorpresa né suspense, e il racconto si svolge tutto sulle smorfie dell’attore agganciato nella sala cinematografica dove ha portato la famiglia; a peggiorare l’intera struttura ci sono le risate del pubblico aggiunte in post-produzione, che dovrebbero essere rivolte al film sullo schermo ma sono sfacciatamente sincronizzate con le smorfie del disgraziato proprio come se l’episodio cinematografico non fosse altro che uno sketch tv, che sembra essere l’unico riferimento di regista e autori. Buggerato e derubato Panariello torna a sedere in sala e piangendo davanti al film comico dice alla moglie: “Piango dal ridere!”: battutona profonda che fa traboccare il vaso del brutto. Le tre adolescenti sono come da foto da sinistra a destra: Veronica Corsi, Cristel Checca e Chiara Gensini che è quella che si dà da fare in sala; la barese Elena Cantarone nel ruolo della moglie.

Terapia d’urto e L’insano gesto

A seguire due episodi che si intrecciano. Abatantuono come alto prelato in limousine con autista si dimostra banalmente poco caritatevole con un ragazzo africano che vorrebbe lavare il parabrezza. Poi passiamo nello studio dell’analista Finocchiaro in seduta con l’assistito Bisio, e si vede che i due amici milanesi si divertono a duettare – senza però divertire noi spettatori: la terapia d’urto consisterebbe in un grottesco e mal riuscito capovolgimento della deontologica professionale, che non è arriva ad essere un paradosso da mostro del terzo millennio ma ancora una volta solo trita comicità televisiva; sia come sia l’analista induce il paziente depresso al suicidio confermando il “buon” esito della seduta alla di lui moglie: c’è molto materiale per mettere in scena dei veri mostri ma gli sceneggiatori sono troppo presi dai loro moduli televisivi e dall’incapacità di graffiare. Si passa dunque all’insano gesto: il povero Bisio guarda il Tevere da un ponte mentre il prelato nega l’elemosina a un altro questuante, un attimo prima di accorgersi che un ragazzo sta per buttarsi nel fiume e lo “salva”, solo che il ragazzo voleva buttarsi in soccorso all’altro che si era già buttato: un pasticcio senza capo né coda, e senza morale. Nel ruolo del giovane impossibilitato salvatore Rodolfo Castagna non accreditato.

La seconda casa

Con Buccirosso si va a Napoli. Fornito di parrucchino col ciuffo che non sa trattenersi dallo scostare graziosamente dalla fronte, manca solo il mignolo alzato, fa costruire la seconda casa, ovvero un bunker segreto, sotto la villa che abita. Indi accompagna in una visita guidata lo zio latitante e i suoi due complici che abiteranno il bunker, rivelando di avere ucciso e interrato il progettista e gli operai che vi hanno lavorato, perché restasse davvero segreto. Il mostro c’è, ma l’episodio è facile e scontato: nessuno si aspetta che un camorrista non lo sia. I veri mostri sono quelli che sorprendono. Nel ruolo della moglie l’attrice teatrale Antonella Morea, nipote di Renato Carosone.

Cuore di mamma

Episodio da protagonista assoluta per la Ferilli in un episodio che è figlio di “Sequestro di persona” del 1977: lì a Vittorio Gassman avevano rapito la moglie, qui Sabrina si è persa la figlia in un supermercato; a entrambi viene data l’opportunità di una diretta televisiva per fare un appello, che si trasforma in manipolazione del mezzo pubblico. Come già detto altrove l’idea non è male ma è realizzata malissimo. La bella mamma è in cerca di attenzioni, e non c’è niente di male, mette gli occhi su un giovanotto che però è accompagnato dal suo fidanzato e lì, mentre la donna cambia espressione e parte la musica smaccatamente retorica e triste, in questo tripudio di banalità anche il fidanzato gay è eccessivamente effeminato come se non fosse bastato il bacio fra i due uomini a rendere il contesto. Di fatto la donna ha perso di vista la bambina. Anche nel cambio di prospettiva della protagonista non c’è progressione drammatica perché sceneggiatori e regista non sanno cosa sia la drammaturgia, e la donna passa da disperata a imbonitrice televisiva in un paio di fotogrammi. Di questa scrittura carentissima ne fa le spese Sabrina Ferilli che altrove e diretta da altri registi è anche brava. Massimo Giletti rifà sé stesso come intervistatore Rai.

Accogliamoli

E per finire in bellezza, si fa per dire, un episodio dedicato agli immigrati. Nel peggio del peggio di una Napoli-Milano, Buccirosso e Abatantuono duettano con battutacce da barzellette trite e ritrite che neanche da cabaret, ormai, forse solo da villaggi vacanza. I due sono due mostri reali, quelli che sfruttano gli immigrati affittando abitazioni super affollate a prezzi esorbitanti, ne sono piene le cronache. Solo che la materia è trattata con grandissima superficialità e quello che avrebbe potuto essere grottesco si fa grossolanamente surreale, alla continua ricerca di effetti per i due protagonisti. Diego Abantuono continua a rifare il suo terrunciello mentre Carlo Buccirosso non può far altro che indossare la parrucca di Pappagone, la maschera televisiva creata da Peppino De Filippo nell’ormai lontanissimo 1966, personaggio di grandissimo successo che dall’anno successivo divenne anche fumetto. In conclusione “I mostri oggi” sono solo quelli che hanno realizzato il film.

Tornando ai mostri di oggi, ovvero di 14 anni fa, il film è nel complesso un clamoroso pasticcio. Non manca qualche episodio riuscito ma, come si dice, una rondine non fa primavera. Alla sua uscita fu massacrato dalla critica quasi all’unanimità ma ebbe successo al botteghino presso il cosiddetto pubblico di bocca buona. La debolezza del film è proprio strutturale: dovrebbe toccare argomenti per i quali ci si indigna e si tiene lontano da temi sensibili come la politica, la religione, il giornalismo e la televisione che anzi omaggia: i mostri sono cinematograficamente altrove anche se non direttamente citati: “Ferie d’agosto” e il più recente e meno riuscito “Siccità” di Paolo Virzì, ma anche l’Oscar “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino che ha saputo indagare su altri mostri moderni, così come pure Matteo Garrone la cui filmografia sembra interamente dedicata ai mostri troppo umani.

Col dovuto senso critico è un film in ogni caso da vedere per metterlo a confronto coi film del 1962 e 1977 coi quali ha cercato un confronto: se invece di intitolarsi ai mostri si fosse intitolato altrimenti oggi non sarei qui a parlarne. I titoli degli episodi li apprendiamo solo in coda, quando ormai stiamo lasciando la sala, se al cinema, o cambiando canale se in tv. I numeri: Diego Abantantuono, che onestamente è il peggio, la fa da padrone apparendo in 8 episodi che potrebbero essere 7 se si considera che come prelato compare in due; segue Giorgio Panariello che con le sue maschere alternatamente riuscite compare in 6; a quota 4 si piazzano a pari merito Carlo Buccirosso che è il più incisivo del terzetto, Claudio Bisio e Angela Finocchiaro che arrancano; 3 episodi per Sabrina Ferilli protagonista solo in uno è sempre troppo simpatica sopra le righe; due per Anna Foglietta e la coppia filmica Mauro Meconi e Susy Laude; un solo episodio per Neri Marcorè arrivato alla ribalta come imitatore concorrente di “La corrida” condotta da Corrado su Canale 5, vincendo nel 1988; in seguito partecipa anche a “Stasera mi butto”, Rai 2, arrivando in finale e da lì in poi la carriera televisiva è tutta in ascesa, studiando da professionista per prepararsi al doppiaggio, al cinema e al teatro; benché da più di un decennio anche protagonista al cinema, per quando in film secondari, qui con un solo episodio non merita neanche il nome in locandina. Su tutto il resto stendiamo veli pietosi.

5 è il numero pefetto – opera prima di Igort

Il fumettista Igort, Igor Tuveri, passa alla regia e trasforma in film la sua graphic novel omonima. Ma non è il primo fumettista a saltare lo steccato, prima di lui c’è stato Gipi, Gian Alfonso Pacinotti, che per il suo debutto cinematografico “L’ultimo terrestre” del 2011 sceglie di ispirarsi alla graphic novel di un altro autore ma in seguito, nei due successivi film, diventa anche attore. Igort, fumettista di fama internazionale, negli anni si è fatto le ossa nel cinema come sceneggiatore e dopo un documentario su Andy Warhol scrive a quattro mani col regista debuttante Leonardo Guerra Seràgnoli “Last Summer” e poi partecipa alla sceneggiatura di “L’Accabadora” di Enrico Pau dal romanzo di Michela Murgia.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è 5-e-il-numero-perfetto-film-6.jpg

Il fumetto “5 è il numero perfetto”, dopo 10 anni di lavorazione – disegnare prende molto tempo – arriva alla stampa nel 2002 edito dalla Coconino Press che Igort ha contribuito a fondare, e diviene uno dei suoi best seller: praticamente da allora, e grazie anche alle sue fruttuose frequentazioni cinematografiche, Igort pensa di realizzare il film: impiegherà 13 anni in cui scriverà 10 differenti sceneggiature prima di arrivare alla pre-produzione; e dato che una cosa chiama l’altra e Igort vende molto, è stato pubblicato anche un libro sulla lavorazione del film: chiamasi merchandising. Detto questo, il film anche se non perfetto come il 5 del titolo, è comunque molto interessante perché trasportando il piatto bianco e nero dipinto di blu della pagina – allo schermo, arricchisce la storia di una fantasmagoria di colori e di azioni stilizzate, e omaggi stilistici che si fanno a loro volta stile proprio. Da buon cineasta provetto tradisce il fumetto per creare un’opera che viva di vita propria.

Palazzo D'Afflitto - Wikipedia
Palazzo d’Afflitto
Palazzo dello Spagnolo - Monumento - Palazzo
Palazzo dello Spagnolo

Per vivificare la sua visione si avvale dell’apporto di eccellenti professionisti e alla bellissima fotografia c’è il danese Nicolaj Brüel che con “Dogman” di Matteo Garrone ha vinto il David di Donatello, e ha poi continuato il sodalizio con “Pinocchio”. La scenografia di Nello Giorgetti è ricca di quei dettagli anni ’70 che la storia, ambientata nel 1972, richiede, e reinventa una Napoli dove l’iper realismo dei dettagli – la cabina col telefono a gettoni, la grande insegna Campari, la Seicento Multipla con le portiere controvento, la Bianchina, i manifesti pubblicitari – si fa scenario di un set immaginario dove anche i luoghi cult del cinema partenopeo – i vicoli antichi e la scenografia “naturale” dei palazzi che abbiamo visto in decine di film – diventano scenario immaginifico, nebuloso, assai lontana dalla Napoli iper-realistica dei recenti film di camorra. Anche i costumi di Nicoletta Taranta, il cui compito è stato quello di trasferire la bidimensionalità monocromatica del fumetto in costumi, tridimensionali funzionali colorati e reinventati mantenendo la linea della storia, contribuiscono a creare lo stile visivo del film. Per dirla in breve sono stati tutti candidati ai David di Donatello 2020.

Dick Tracy | COMICSANDO comic art blog
Dick Tracy di Chester Gould

Anche la scelta del cast è molto felice: professionisti ai quali potersi affidare a occhi chiusi, ma che dovevano rispecchiare le caratteristiche dei personaggi del fumetto per non deluderne i fan. Toni Servillo con naso posticcio e impermeabile è un Dick Tracy di una camorra che non c’è più, e sparatorie e scene di azione omaggiano sia Sergio Leone – che anche la musica del duo D-Ross & Startuffo riecheggia omaggiando Ennio Morricone – sia il kung-fu che in quegli anni ’70 arrivava da Hong Kong nei nostri cinema, e non è un caso se il protagonista, Peppino Lo Cicero, fa un salto in sala a vedere “Cinque dita di violenza”: un omaggio al cinema d’oriente e a quegli odierni cineasti che già erano interessati a portare in film la graphic novel di Igort: il cinese di Canton John Woo, il cinese di Hong Kong Johnnie To e il giapponese Takashi Miike – ricordando anche che Igort ha vissuto in Giappone e proprio lì ha cominciato a disegnare “5 è il numero perfetto”. L’imperfezione del film, per quel che mi riguarda, sta in una certa lentezza narrativa, necessaria in un plot che comincia come una storia di vendetta e diventa un percorso riflessivo, ma che a tratti sfugge di mano al regista che, in ogni caso, confeziona un’opera notevole.

ttAgency
Vincenzo Nemolato

Affiancano Toni Servillo, Carlo Buccirosso, a mio avviso un po’ sottotono rispetto all’impianto complessivo, e una Valeria Golino dal grilletto facile in stile Nikita che è l’unica a portare a casa il David di Donatello: un ruolo più in azione che di interpretazione, e un premio che sa di contentino per gli altri mancati riconoscimenti. Lorenzo Lancellotti è Nino, il figlio di Peppino; Vincenzo Nemolato, che già di suo ha una faccia da fumetto e un talento sicuro, già visto con un importante ruolo in “Martin Eden”, è Mr Ics con parrucca rock’n’roll; Nello Mascia è il dottore e Gigio Morra il boss Don Lava; nel ruolo del gobbo che non era nel fumetto c’è Giovanni Ludeno, che nell’ultima stagione “1992-1993-1994” ha avuto un ruolo di rilievo nel pool di Mani Pulite sostituendo l’attore Domenico Diele che si è bruciato la carriera finendo in carcere con l’accusa di omicidio stradale, aggravato dal fatto che già aveva la patente sospesa per guida con uso di eroina, reiterando e aggravando il crimine; a interpretare l’afrocrinito guappo Ciro c’è Emanuele Valenti, visto recentemente nel cast Rai di “L’amica geniale” nel ruolo dell’untuoso padre di famiglia che insidia una delle due protagoniste. Nel finale del film, ambientato nell’immaginifico stato del Parador (Paraguay+Ecuador?) in Centro-America, il barbiere cui Peppino svela l’ultimo mistero del suo dramma personale è interpretato da Marcello Romolo, che recentemente è stato protagonista di puntata come morituro Papa Francesco II nel televisivo Sky “The New Pope” di Paolo Sorrentino. Nomi e volti non tutti noti al grande pubblico che contribuiscono alla riuscita dell’insolito film. Film insolito per cinema italiano, beninteso.

5 è il numero perfetto - Igort | coconinopress.it