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Mad Max: Interceptor – opera prima di George Miller

Questo film del 1979 è l’inizio di una trilogia che appassionerà il mondo intero, cui si aggiungerà un tardivo quarto capitolo “Mad Max: Fury Road” nel 2015 e un quinto è in uscita nell’estate 2024 col titolo “Furiosa: A Mad Max Saga”. È l’opera prima di George Miller, regista che in seguito pur mantenendosi fedele a stile e tematiche non mancherà di misurarsi anche con altri generi. È anche erroneamente indicato come il debutto di Mel Gibson che però era avvenuto un paio d’anni prima con “Summer City – Un’estate di fuoco” dopo tanti piccoli ruoli nella tv australiana, poiché protagonisti e film vengono tutti da lì: periferia estrema delle produzioni cinematografiche che nei decenni successivi ha dato molte star al cinema internazionale: in fondo all’articolo la lista dei nomi.

Ma come cinematografia specifica quella australiana faticherà sempre a decollare nonostante le molte eccellenti produzioni che verranno. È nel 1978 che si registrò l’anno di svolta per un’industria cinematografica ancora inesistente con ben 13 film piazzati al Festival di Cannes (rimando all’ultimo paragrafo chi volesse approfondire i titoli e i nomi di Cannes ’78) e possiamo affermare che la cinematografia australiana arriva per la prima volta al mondo intero grazie a questo film del 1979, il primo di una saga che viene definita post-apocalittica fantascientifica e distopica ma che effettivamente in questo debutto a bassissimo costo c’è ancora ben poco di quello che verrà. Ma andiamo con ordine partendo dall’autore debuttante.

Byron Kennedy e George Miller al missaggio del sonoro del film

George Miller si è appassionato al cinema mentre ancora studiava medicina e risalgono a quel periodo i suoi primi esperimenti: durante il suo ultimo anno all’Università del Nuovo Galles del Sud realizza insieme a uno dei suoi fratelli un cortometraggio di un minuto che vince il primo premo di un concorso studentesco, e il premio era un corso di cinema all’Università di Melbourne dove conosce Byron Kennedy, insieme al quale gira il corto “Violence in cinema: part 1” molto splatter e molto satirico sulla violenza nei film che ottenne consensi anche fuori dall’Australia e questo spinse i due a creare una propria casa di produzioni, la “Kennedy Miller” con la quale si avvieranno verso questo progetto: insieme scrivono la sceneggiatura ispirati dal film australiano “Stone” di Sandy Harbutt del 1974 che raccontava le gang di motociclisti che terrorizzavano gli isolati abitanti dell’outback e che aveva nel cast molti di quegli stessi criminali.

All’inizio del film una scritta ci avverte: “Few years from now…” a pochi anni da adesso, un futuro assai prossimo e senza effetti speciali: c’era la fantasia ma non c’erano i soldi e il grosso dello sforzo produttivo è andato nella realizzazione delle auto che insieme alle motociclette creano spettacolari scene d’azione su strada che sono l’hard-core del film – che oggi va visto come documento di quell’epoca: un ipotetico futuro che per noi è già vintage.

la V8 Interceptor

Maxwell Rockatansky, che poi si meritò l’appellativo di Mad Max, è un poliziotto che guida una V8 Interceptor per la realizzazione della quale sin dal 1976 durante la fase di pre-produzione, George Miller, consapevole che l’automobile sarebbe stata insieme agli attori una protagonista del suo film d’azione, incaricò lo scenografo Jon Dowding di realizzare una vettura che fosse “nera australiana e cattiva”; l’attenzione andò subito a un’auto di costruzione esclusivamente australiana, la Ford Falcon XB GT Coupé prodotta in un numero esiguo e che oggi è un rarissimo esemplare da collezione; e Dowding incaricò una società di personalizzazione di auto per modificarla; lì Peter Arcadipane, Ray Beckerley e John Evans, con il decoratore di carrozzerie Rod Smithe, hanno trasformato l’auto secondo le esigenze cinematografiche.

Fra le altre variazioni di vetture c’è una versione di side-car con la seduta laterale coperta da una mezza sfera che gli conferisce un aspetto un po’ spaziale: la saga di “Star Wars” era cominciata nel ’77 e aveva già cominciato a influenzare l’immaginario collettivo. Mentre le motociclette usate dalla gang sono delle Kawasaki che la produzione era riuscita a ottenere in dono assicurando un rientro in pubblicità, come fu, e che sono state appositamente scenografate da una ditta specializzata che sfortunatamente fallì subito dopo l’uscita del film, mentre un’altra azienda giapponese, dato il successo delle Kawasaki modificate, ne ha ricreato delle copie per il mercato dei collezionisti fino ai primi anni 2000.

James Healey

Era il momento di comporre il cast. Miller avrebbe voluto un noto attore americano per garantire al film più ampia visibilità e andò anche a Hollywood per prendere contatti, ma resosi conto che l’attore da solo gli sarebbe costato l’intero budget tornò a Melbourne deciso a scritturare giovani sconosciuti a basso costo. La prima scelta fu l’irlandese lì trasferito con la famiglia James Healey che aveva già avuto dei ruoli in una serie tv ma che al momento lavorava in un macello aspettando di debuttare sul grande schermo: quale migliore occasione? ma l’attore lesse la sceneggiatura e rifiutò la parte perché la trovò “poco accattivante” e soprattutto il personaggio parlava poco mentre lui si riteneva un grande interprete: finirà col recitare sempre in soap opera come “Dinasty” e “Santa Barbara”.

Mel Gibson e Steve Bisley

A quel punto entra in scena Mel Gibson con la classica narrazione dell’amico che accompagna un amico e ottiene la parte al posto suo. La produzione si era rivolta agli insegnanti del NIDA, National Institute od Dramatic Art, specificando che cercavano dei giovani “con i capelli a punta”: era esplosa l’epoca punk; si presentò Steve Bisley accompagnato da Mel: entrambi avevano debuttato in “Summer City” ed entrambi furono scritturati ma Steve, da buon amico, ebbe il ruolo del buon amico. Gibson accettò un contratto secondo cui sarebbe stato pagato solo dopo l’uscita, e la buona riuscita, del film: fu lungimirante, al contrario di James Healey. Ma se Gibson divenne una star internazionale il suo amico Bisley si è mantenuto fermo su una carriera di tutto rispetto anche se in secondo piano. Nel ruolo della moglie del protagonista Joanna Samuel che resterà un’attrice di genere australiana.

Hugh Keays-Byrne

Più interessante il casting della banda di motociclisti: la maggior parte furono scritturati fra i veri fuorilegge che sulle moto battevano le superstrade australiane, appartenenti al clan dei Vigilanties e tre di essi, Hugh Keays-Byrne, Roger Ward e Vincent Gil avevano già recitato, come detto, in “Stone”. Il primo è qui nel ruolo del capobanda Toecutter, il tagliaditadeipiedi, e nel cinema troverà il suo futuro fino a concludere la sua carriera nel sequel di Mad Max del 2015. Ma intanto, data la scarsezza dei mezzi produttivi tutti la banda si era spostata a proprie spese da Sydney a Melbourne: cosa non si fa per l’arte.

Come sappiamo il film fu un clamoroso successo internazionale ma con un sostanziale distinguo: il film che era costato fra i 200mila e i 400mila dollari australiani (fonti diverse danno cifre diverse) incassò in patria più di 5 milioni raggiungendo in poco tempo il record mondiale di 100 milioni entrando nel Guinness dei Primati come il miglior film col minor costo e il maggior incasso, superato solo vent’anni dopo nel 1999 da “The Blair Witch Project”; ma per le manipolazioni subite l’unico Paese in cui il film non ebbe successo furono proprio gli Stati Uniti d’America. Vinse tre premi tecnici all’Australian Film Institute Awards per montaggio, sonoro e colonna sonora firmata da Brian May, compositore che aveva debuttato al cinema l’anno prima col B movie “Patrick” che ebbe un curioso sequel: avendo avuto successo nelle sale italiane, il regista di B movie italiani Mario Landi ne firmò un sequel apocrifo col titolo “Patrick vive ancora” in una deriva sexy come suggerisce la presenza di Carmen Russo nel cast. Tornando al film: vinse anche il premio speciale della giuria al Festival internazionale del film fantastico di Avoriaz.

Visto oggi il film, senza conoscerne il contesto, è un filmetto che sente il peso degli anni ed è davvero il documento di un’epoca e lo specchio di chi lo ha portato al successo, e va visto come il capostipite di una saga che ha avuto ben altro spessore. In ogni caso, dato il suo clamoroso successo che ha portato la cinematografia australiana nel mondo, esso è ancora oggi celebrato sul continente con feste e parate, tributi e anche ritrovi. Con i suoi sequel Mad Max è diventato un fenomeno culturale e con il suo futurismo distopico e apocalittico ha ispirato film come “1997: Fuga da New York” (John Carpenter 1981), la saga di “Terminator” (James Cameron 1984), “The Hitcher” e “I banditi della strada” (Robert Harmon, 1986 e 2004), oltre ai videogiochi “Fallout” e al manga “Ken il Guerriero”. Il prossimo capitolo “Interceptor – Il guerriero della strada” porterà la narrazione a un livello decisamente superiore… e da qui in poi non si parla più del film.

Richiami e rimandi bikexploitation

Vale la pena ricordare che inserendosi di diritto nel filone dei film con motociclette e motociclisti si può addirittura cominciare dal cinema muto che Miller ha detto di amare con “Lo spaventapasseri” dove Buster Keaton cavalca un sidecar Harley Davidson.

Un altro caposaldo è “Il selvaggio” con Marlon Brando che cavalcava una Triumph Thunderbird 6T del 1950, film diretto da Laszlo Benedek nel 1954 che è considerato un capostipite del genere bikexploitation che è esploso a metà degli anni ’60, e fra i film più noti c’è “I selvaggi” del 1966 che è considerato uno dei più grossi successi commerciali di Roger Corman: con un budget stimato di soli 360.000 dollari, il film ne incassò, solo negli Stati Uniti, circa 14 milioni; anche Corman, come Miller più di un decennio dopo, scritturò come comparse alcuni Hell’s Angels che però durante le riprese crearono non pochi problemi alla troupe. Sempre incentrato su quei terribili Hell’s Angels ci fu l’anno dopo “Angeli dell’inferno sulle ruote” di Richard Rush con Jack Nicholson in uno dei suoi primi ruoli da protagonista.

Si arriva al 1969 con un film che resterà nella storia: “Easy Rider” di e con Dennis Hopper, Peter Fonda e ancora Nicholson, un film il cui merito è andare oltre le narrazioni più o meno fuorilegge dei motociclisti, che al contrario qui sono degli innocui pacifisti che raccontano l’avanzata della contro cultura americana, la contestazione giovanile e l’antimilitarismo; il titolo viene da “Easy Life” che fu il titolo americano per il nostro “Il sorpasso” di Dino Risi a cui il film si ispira. E restando in Italia voglio ricordare la Moto Guzzi “Falcone Sport” che Alberto Sordi cavalca in “Il vigile” di Luigi Zampa del 1960.

Un po’ di star internazionali provenienti dal nuovo continente

In elenco Judy Davis, Cate Blanchett, Nicole Kidman con la sua amica Naomi Watts, Margot Robbie e Toni Collette fra le attrici; fra gli attori Hugh Jackman, Jason Clarke, Joel Edgerton, Guy Pearce, Geoffrey Rush, i fratelli Chris e Liam Hemsworth, il compianto Heath Ledger e Russell Crowe e Sam Neill che per correttezza sono neozelandesi; come neozelandese è Jane Campion fra i registi, con gli australiani Peter Weir, Phillip Noyce e Gillian Armstrong che proprio lo stesso anno di questo film firmò il più artistico “La mia brillante carriera” con Judy Davis che andò a vincere il BAFTA nel Regno Unito e Sam Neill che da lì in poi ha sviluppato una sua brillantissima carriera.

Approfondimento sul Festival di Cannes del 1978

Fra i titoli australiani vanno ricordati “The Chant of Jimmie Blacksmith” di Fred Schepisi e “Il sapore della saggezza” di Bruce Beresford. Quell’anno c’erano in concorso e fuori concorso molti grandi sui quali è interessante dare un’occhiata: “L’albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi che vinse la Palma d’Oro e che si aggiudicò anche in ex aequo con “La spirale” di Krzystof Zanussi il Premio Ecumenico, mentre il Grand Prix Speciale della Giuria è stato assegnato ex-aequo a “Ciao maschio” di Marco Ferreri e “L’australiano” (che non è un film australiano ma è il titolo italiano per “The Shout”) del polacco Jerzy Skolimowski con produzione britannica; altro ex aequo per la migliore attrice a Jill Clayburgh per “Una donna tutta sola” di Paul Mazursky e Isabelle Huppert per “Violette Nozière” di Claude Chabrol; miglior attore Jon Voight per “Tornando a casa” di Hal Ashby; miglior regista Nagisa Ōshima per “L’impero della passione”; Gran Prix tecnico a “Pretty Baby” del francese Louis Malle che si era spostato negli Stati Uniti perché legatosi a Susan Sarandon protagonista di questo suo primo film americano; e per finire il premio FIPRESCI a “L’uomo di marmo” di Andrzej Wajda. Ma erano presenti anche titoli come il grandioso “Molière” di Ariane Mnouchkine, “Ecce Bombo” di Nanni Moretti, “Fuga di mezzanotte” di Alan Parker, “L’ultimo valzer” di Martin Scorsese, “Nel regno di Napoli” di Werner Schroeter. Non c’è da stupirsi se in questo contesto gli australiani venissero considerati degli alieni.

AAA – Alle origini del cinema italiano, prima parte

Fiat lux, e luce fu. Dio creò l’Universo e molto tempo dopo le sue Creature intrappolarono la Luce nella fotografia, qualcuno anche sognando di vedervi impresso il volto del Dio e invece è andata a finire che non facciamo altro che replicare i nostri volti selfie su selfie: dio siamo noi. Lasciando le cose divine a chi se ne intende, fingiamo qui di intenderci di fotografia e cinema: entrambi alla loro creazione sono stati considerati principalmente strumenti legati a un discorso antropologico e ambientale, geografico e umano, in quanto inquadravano e catturavano la società e l’ambiente così com’erano: senza raccontarli ancora, ovvero senza rappresentarli, senza la fiction per dirla con parole odierne: erano documenti, documentari; la rappresentazione in quanto tale avveniva dopo, negli spazi in cui la fotografia e il cinema venivano presentati al pubblico, spazi dapprima ambulanti in cui erano utilizzati tendoni in stile circense, quando non addirittura all’aperto nelle serate estive, o adattando locali preesistenti sul territorio della tournée; ovviamente l’arrivo del fenomeno era annunciato preventivamente da manifesti affissi sui muri.

Tutti sappiamo che il cinema è nato in Francia con i Fratelli Lumière, ma non tutti sappiamo che fra i loro collaboratori ci furono due italiani, due amici piemontesi ingaggiati come rappresentanti in Italia: il torinese Vittorio Calcina che oggi viene ricordato come il primo cineasta italiano, che sul finire dell’Ottocento fu autore della prima ripresa cinematografica di un papa allorché immortalò Leone XIII nei Giardini Vaticani: non immortaliamo il volto del dio ma possiamo con i suoi rappresentanti in terra. L’altro italiano fu il cuneese Giuseppe Filippi che viene ricordato come fra i primi operatori-proiezionisti. Con questi due precedenti è facile immaginare come una fra le prime case di produzione cinematografica venisse fondata a Torino, città che negli anni successivi divenne una delle capitali del cinema. Un po’ scienza e un po’ tecnica l’impresa era nuova e poiché prospettava lauti guadagni ci furono dei coraggiosi pionieri che posero l’Italia fra le nazioni all’avanguardia nelle produzioni cinematografiche.

Ci fu anche Arturo Ambrosio, che da anonimo impiegato torinese presso una ditta di tessuti, seguì la sua bruciante passione per quel nuovo fenomeno che era la fotografia, e già trentenne (all’epoca era un’età rispettabile e ci si augurava che si fosse rispettabilmente già sistemati) lasciò il lavoro per andare a Losanna a studiare la sua passione, e appresi i fondamenti tornò nella sua Torino per aprire un negozio di articoli ottici e fotografici; ma la fotografia si stava trasformando in cinema e la sua passione si accese di quelle nuove prospettive, così decise di rimettersi in viaggio e spese un altro anno fra Francia Inghilterra e Germania continuando il suo preziosissimo apprendistato, alla conclusione del quale si ristabilì nella sua città per fondare la Ambrosio Film dotata di un proprio stabilimento, per la quale si improvvisò necessariamente anche regista, facendosi affiancare da altri amici con la medesima passione, e tutti insieme facevano di tutto un po’ essendo le professionalità specifiche ancora in divenire: sceneggiatori, operatori di ripresa, direttori della fotografia, direttori artistici e all’occorrenza anche attori: erano i tecnici Roberto Omegna e Giovanni Vitrotti e l’attore di filodrammatica Luigi Maggi, tutti ricordati oggi come pionieri del cinema, che a partire dal 1904 cominciarono i loro esperimenti cinematografici di documentari sportivi e di comiche.

La litografia conservata come manifesto di “Briganti di Sardegna”.

È curioso ricordare come per le loro primissime produzioni, fra le quali si annovera già il documentario “Briganti di Sardegna”, si fossero poi spostati anche in Sicilia realizzando vari titoli: “Una zolfara” “Una gita a Monreale” “Sicilia illustrata” “Marsala” che si inquadrano proprio nell’ottica del cinema come documento ambientale e curiosità antropologiche: l’unità dell’Italia era una cosa di appena cinquant’anni prima e Piemonte e Sicilia erano ancora due mondi lontanissimi. La prima grande produzione della Ambrosio fu lo storico “Gli ultimi giorni di Pompei” del 1908, un vero e proprio kolossal dell’epoca, ovviamente muto, regia firmata da Ambrosio e Maggi ma con riprese dirette da Omegna, in pratica direzione artistica e direzione tecnica disgiunte. Nel 1911 Ambrosio fu invitato dallo Zar Nicola II Romanov a creare in Russia un’industria cinematografica, e l’anno successivo si assicurò i diritti esclusivi per filmare le opere di Gabriele D’Annunzio; viene inoltre ricordato negli Stati Uniti per essere stato capace con i suoi film epici di rivaleggiare con l’industria hollywoodiana, che in realtà all’epoca era ancora molto disorganizzata. In questo link quel primo kolossal pubblicato su Wikipedia.

A seguire, nel 1905 viene fondata a Roma la Società Primo Stabilimento Italiano di Manifattura Cinematografica Alberini e Santoni, dotata di un teatro di posa sulla via Appia non lontano da Porta San Giovanni – oggi praticamente in centro. Realizzò il primo film a soggetto proiettato in pubblico, “La presa di Roma” poi noto anche come “Bandiera bianca” e “La breccia di Porta Pia” che i romani potettero vedere su un tendone piazzato proprio davanti a Porta Pia nell’anniversario del fatto, il 20 settembre 1905, ma si sa di una precedente proiezione a Livorno; in questo link la pagina Wikipedia su cui è caricato il filmato di sei minuti superstite dei circa dieci del film. Quella Società fu nel giro di un anno rilevata dal barone piemontese (ancora il Piemonte in prima fila) Alberto Fassini che la trasformò nella più nota (a posteriori) Società Italiana Cines che si specializzò in produzione storiche come “Garibaldi” e in costume come “Otello” e “Il fornaretto di Venezia”.

Altra importante casa di produzione dell’epoca fu la Itala Film, sempre a Torino, che nasce dalle ceneri di una precedente avanguardistica impresa specializzata nello sfruttamento commerciale della comunicazione senza fili, ma era ancora troppo presto e la società cambiò in corsa la propria attività; restando nell’ambito delle novità si trasformò in manifattura cinematografica nel 1907 come Carlo Rossi & C. i cui soci impresari erano il chimico Carlo Rossi e l’industriale di origine tedesca Guglielmo Remmert, che non sapendo dove mettere le mani assunsero personale francese proveniente dalla Pathé, e cominciarono così bene che i loro film vennero anche distribuiti negli Stati Uniti.

Giovanni Pastrone

Ma appena otto mesi dopo la proficua società fu messa in liquidazione per gli insanabili contrasti sorti fra i due soci, e il genero di Remmert, Carlo Sciamengo, rilevò la società insieme a un giovane contabile (anche diplomato in violino al Conservatorio di Torino) che avrebbe inscritto il suo nome fra i grandi del cinema muto, Giovanni Pastrone, e insieme fondarono la Itala Film che ben presto si accreditò come la terza più importante casa di produzioni cinematografiche per il numero delle pellicole o delle filme (così si dicevano all’epoca) vendute.

Fra le grandi produzioni dell’Itala il più grande e clamoroso successo fu “Cabiria” diretto da Pastrone, che con le sue tre ore e dieci fu il primo vero kolossal italiano di lunga durata e anche il più esageratamente costoso: a fronte di un costo medio di cinquantamila lire, il film costò un milione di lire-oro, termine che comprendeva sia la moneta coniata in oro che quella convertibile in base al rapporto di parità aurea stabilito nel 1862 all’avvenuta unità d’Italia; convertibilità in oro che però fu subito sospesa nel 1866 a causa dei costi della Terza Guerra d’Indipendenza del Regno d’Italia contro l’Impero Austriaco; la convertibilità fu ripristinata nel 1881 ma ormai la degenerazione delle monete in metallo vile e ancor più vile carta stampata era avviata, senza gravi conseguenze per la vita di tutti i giorni della gente comune, e la convertibilità in oro fu di nuovo messa in discussione nel 1887 e, senza dichiararlo apertamente, fu di nuovo sospesa: la reale copertura aurea del denaro in circolazione era ormai solo al 40% del totale e la convertibilità veniva garantita solo a imprese importanti, come appunto la produzione di “Cabiria”, scritto dallo stesso Pastrone con gli intertitoli (i cartelli) di Gabriele D’Annunzio su soggetto dello stesso D’Annunzio dagli scritti di Tito Livio, Gustave Flaubert ed Emilio Salgari. Cabiria, che significa “nata dal fuoco” è un nome inventato dal D’Annunzio grande inventore di nomi (sua invenzione anche Ornella e suo anche “La Rinascente”). Il film restò per sei mesi in cartellone a Parigi e addirittura per un anno a New York, dove David W. Griffith rimase colpito dalla spettacolarità delle riprese, non più statiche, e soprattutto dalla durata: presto avrebbe realizzato il suo lungometraggio “Nascita di una Nazione” che in qualche modo segna anche la nascita di quella nazione come centro di produzioni cinematografiche.

Ma anche a Napoli c’era un gran fermento. Il 19enne di buona famiglia Gustavo Lombardo abbandonò gli studi di giurisprudenza, facendo arrabbiare il papà, per seguire la sua passione fondando nel 1904 una sua società per la distribuzione di pellicole, diventando rappresentante per l’Italia meridionale delle case del nord e di quelle francesi. E solo nel 1916 si buttò nella produzione creando la Teatro-Lombardo Film che successivamente trasformò in Lombardo Film assorbendo la conterranea Polifilms in crisi economica e accreditandosi fra i più importanti produttori italiani, fino a dare vita nel 1928 alla Titanus, ancora oggi attiva come distributore e produzione tv.

Ed è ancora napoletano il primo regista a firmare il primo cortometraggio italiano: fu Roberto Troncone, giovane laureato in giurisprudenza che appassionatosi al cinema si procurò una macchina da presa Lumière girando già nel 1903, prima ancora dei primi esperimenti torinesi, il documentario “Il ritorno delle carrozze da Montevergine”; nel 1906, aggiornatosi con una nuova macchina da presa Gaumont, il pioniere napoletano gira con riprese “dal vero” mentre il Vesuvio stava eccezionalmente eruttando il 6 aprile, filmando dal treno della Circumvesuviana; il cortometraggio, intitolato “Eruzione del Vesuvio” gli varrà fama internazionale, e creò la Fratelli Troncone & C. che fu la prima vera casa di produzione napoletana, che nel 1909 trasformò in Partenope Film che visse fino al 1926, anno in cui chiuse a causa del clamoroso insuccesso commerciale di “Fenesta ca lucive” che era il remake di un successo di undici anni prima. Già allora bisognava andare cauti coi remake!

Fotografia dell’americano in vacanza Frank A. Perret
I Fratelli Lumière girarono anche a Napoli i loro documentari-cartolina
Luca Comerio

A Milano c’era il fotografo Luca Comerio “Fotografo Personale di Sua Maestà il Re” attività, questa, che era nata da un fortunato scatto di Umberto I mentre conversava con il vescovo della città e che gli valse i complimenti del Savoia; ma oltre che rinomato ritrattista che stampava anche su porcellana fu anche precursore del foto-giornalismo per avere documentato i moti di Milano del 1898 sanguinosamente repressi dal generale Bava Beccaris, episodio che ispirò la vendetta dell’anarchico Gaetano Bresci che nel 1900 sparò tre colpi di rivoltella uccidendo il re Umberto. Intanto, in quell’ancora tranquillo fine ‘800, Comerio pensò di ampliare la sua attività realizzando dei brevi filmati con l’attore trasformista Leopoldo Fregoli, il quale aveva già cominciato a sperimentare il cinema con i Fratelli Lumière e con Georges Méliès. Nel 1907 Comerio vinse 500 lire a un concorso fotografico e andò a Parigi per acquistare un cinepresa Pathé con la quale, grazie alla stima che si era conquistata presso i Savoia, gli fu concesso di imbarcarsi sul panfilo reale Trinacria per documentare la crociera nel Mediterraneo del nuovo re Vittorio Emanuele III: fu quel servizio che gli valse la nomina a fotografo ufficiale della Real Casa. Quindi costituì la Luca Comerio & C., la prima manifattura cinematografica milanese, cominciando a realizzare reportage d’attualità di stampo giornalistico, prima di darsi alle fiction; come fotoreporter documentò anche il terribile terremoto di Messina del 1908 e nel 1911 partecipò come fotografo e cineoperatore alla spedizione militare in Libia: fu probabilmente il primo a fare un reportage di guerra, addirittura in Kinemacolor, e poi fu in campo anche durante la Prima Guerra Mondiale. Nel frattempo, attraverso varie trasformazioni societarie, Comerio aveva fondato nel 1909 la Milano Films con ampia partecipazione di ben 24 soci finanziatori del bel mondo milanese: un nuovo assetto societario dal quale Comerio prese presto le distanze per divergenze artistiche e organizzative.

Uno degli esperimenti di Comerio con Fregoli.
Bersaglieri che fronteggiano le barricate in uno scatto di Comerio
il terremoto di Messina del 1908: si noti quanto sia migliorata la resa fotografica in soli dieci anni rispetto alla foto sopra

FINE PRIMA PARTE, QUI LA SECONDA

Viale del Tramonto – rivisto in tv

1950, un film unico che travalica i generi, all’epoca molto più definiti di oggi, che si apre come un noir, un morto ammazzato in piscina, continua come una commedia degli equivoci con l’ignaro protagonista che viene accolto in villa da un “Se vi occorre una mano con la bara, chiamate”, e si scopre che la bara è per una scimmia da salotto appena morta, e siamo nel grottesco; ma il film è anche una storia d’amore impossibile con una dattilografa della Paramount e, anche, un impietoso documentario sul mondo del cinema come non si era mai visto: la voce fuori campo del protagonista che ci accompagnerà nella sua vicenda per tutto il film, due ore piene senza mai un cedimento anche alla visione odierna, avverte, elegantemente, che le giovani attrici non devono credere a tutto quello che dice un produttore; produttori e padroni di mondi che letteralmente possiedono le star che hanno sotto contratto, e qui si fa un fugace riferimento a Barbara Stanwyck e Tyron Power, due fra i tanti, in un sistema di ingaggi che non prevedeva autodeterminazione neanche per la vita privata. Ma è, soprattutto, un sontuoso melodramma dove la modernità del protagonista, sceneggiatore in fuga dai creditori, si scontra con la retorica, linguistica e comportamentale, dell’anziana protagonista esponente di un mondo che non c’è più: quello del cinema muto. Ed è curioso, e interessante notare, come la modernità del 1950 sia oggi retorica a sua volta, nel dinamismo del linguaggio e delle espressioni che cambiano sempre, inevitabilmente, con buona pace dei nostalgici: se la lingua parlata, che è sempre viva e in mutamento, avesse dato retta ai puristi, oggi parleremmo ancora latino.

Non si era neanche mai visto, o meglio sentito, come voce fuori campo, quella dello stesso protagonista che vediamo morto all’inizio del film, come se ci raccontasse la sua storia dall’aldilà con tutta la consapevolezza, e l’amarezza, del senno di poi che ne deriva. Un espediente narrativo surreale e nel contempo talmente innovativo, e artisticamente forte, che per decenni nessuno ha avuto il coraggio di copiare: si arriva al 1999 con “American Beauty” e “Donnie Darko” del 2001 perché il morto torni a raccontarsi in prima persona.

Un film irripetibile in cui converge un miracoloso concentrato di esperienze, situazioni e personalità. Le cronache erano piene di ex divi del cinema muto che, caduti in disgrazia e prigionieri di un’arte che non esisteva più, si rendevano protagonisti di drammatiche scene, sia pubbliche che private, che richiamavano l’attenzione della stampa e delle forze dell’ordine. Il muto è stato spazzato via negli anni ’30: è del 1928 il primo lungometraggio (57 minuti) interamente parlato: “Lights of New York” mentre il primo esperimento in assoluto è dell’anno prima: “Il cantante di jazz” dove il sonoro era limitato a poche battute parlate e alle 9 canzoni interamente cantate e suonate, entrambi i film prodotti della Warner Bros.

Billy Wilder ha scritto e diretto il film: oggi lo definiremmo “autore”. Di religione ebraica e nazionalità austro-ungarica poiché nacque sotto quell’impero oggi inesistente, e in seguito di nazionalità polacca perché la sua città natale alla fine della seconda guerra mondiale era entrata a far parte della Polonia: è uno dei tanti europei geniali che hanno fatto grande la storia del cinema statunitense. Conosce bene il cinema muto perché a casa vi comincia a lavorare come sceneggiatore e firma un film tedesco, una sorta di documentario brillante sulla vita di Berlino firmato da vari registi, fra i quali Robert Siodmak e Fred Zinnemann, altri ebrei che, come lui, emigreranno negli Stati Uniti. Wilder per sfuggire al nazismo passa prima dalla Francia (sua madre, sua nonna e il patrigno moriranno ad Auschwitz) dove firma da regista il suo primo film con quella che diventerà una star francese: Danielle Darrieux. Sbarcato poi in America riceve il sostegno di altri ebrei tedeschi come l’attore Peter Lorre e il regista Ernst Lubitsch e diviene presto uno sceneggiatore da candidature agli Oscar, mentre la sua prima regia americana è “Frutto Proibito” con Ginger Rogers e Ray Milland che segnerà la sua carriera di regista brillante, benché abbia esplorato anche altri generi, soprattutto quello propagandistico anti nazismo come “I Cinque Segreti del Deserto” dove a interpretare Erwin Rommel c’è l’attore e regista Eric Von Stroheim, anch’egli fuoruscito ebreo, che ritroviamo in questo “Viale del Tramonto”.

Eric Von Stroheim è arrivato in America prima degli altri, già 1909, dove non c’è un clan ebraico-tedesco a facilitargli la carriera. All’inizio fece la comparsa e lo stuntman per grandiosi film del muto come “Nascita di una Nazione” e “Intolerance” di D. W. Griffith. Grandiosità narrativa che segnò il suo stile come regista del muto e che gli procurò non poche difficoltà con gli studios. Ma fra il 1915 e il 1928 è stato nel trio dei grandi registi del muto insieme a Charlie Chaplin e Buster Keaton, ognuno con stili e narrative diverse. Nel 1928 diresse Gloria Swanson in “La Regina Kelly” prodotto dalla “Gloria Swanson Pictures” ma si era già al tramonto del muto e per evitare la catastrofe al botteghino la signora Swanson fece distribuire il film solo in Europa.

Gloria Swanson, americana di Chicago il cui vero cognome era Svensson, dunque di origine scandinava. Debutta nel cinema con piccoli ruoli e a sedici anni è nel cast di “Charlot principiante”; ma a vent’anni conosce il 38enne Cecil B. De Mille che, e un loro legame intimo non è accreditato, le fa avere un contratto con la Paramount e la sua carriera decolla, diventando una delle più celebri dive del muto. Fino al crollo di quel mondo.

La Paramount è un’altra protagonista del film dato che molte scene sono girate nei suoi uffici e in un suo teatro di posa dove Cecil B. De Mille, interpretando se stesso, sta dirigendo un peplum, durante la lavorazione del quale la star del muto Norma Desmond-Gloria Swanson lo va a trovare, e in un divertente passaggio la vediamo scansare con stizza il microfono “a giraffa” che le viene a sfiorare la piuma del cappello, a ribadire il suo rifiuto per il sonoro che le ha stroncato la carriera. In un momento cruciale del film dirà: “Io sono sempre grande, è il cinema che è diventato piccolo!” e renderà merito solo alla Garbo, che come lei ha cominciato nel muto ma che si è saputa riciclare nel sonoro grazie a un film che sfruttava il suo accento straniero, “Anna Christie” dal dramma teatrale di Eugene O’Neill, e del quale fu girata una seconda versione in tedesco con diverso cast e diverso regista, per la Germania. Per quel debutto sonoro fu inventato il lancio “Garbo talks!” e a Greta Garbo era inizialmente stato proposto “Viale del Tramonto” ma lei si era già ritirata nel ’41 dopo l’insuccesso di “Non tradirmi con me” e non prese in considerazione l’offerta.

Billy Wilder ha avuto il genio di mettere insieme le intemperanze degli ex divi di cui si parla in cronaca, Gloria Swanson che a vent’anni dalla fine della sua carriera si rimette in gioco facendo il verso ai suoi stessi vezzi di star del muto: candidatura all’Oscar, Golden Globe come migliore attrice drammatica, e in Italia il Nastro d’Argento insieme a Billy Wilder; ma dopo questo rientro in grande stile non ci fu una nuova carriera cinematografica e lavorò solo in teatro, ottenendo qualche partecipazione a serie tv e nel 1956 venne in Italia a girare con Steno “Mio figlio Nerone” con Alberto Sordi nel ruolo e lei come sua madre Agrippina; Brigitte Bardot era Poppea e Vittorio De Sica, Seneca. La diva non legò mai con Sordi e soprattutto era gelosa della giovane e bella Bardot a inizio carriera. In seguito il regista ebbe modo di dire che la Swanson non aveva capito l’umorismo nero del film, avendolo giudicato come il peggior film della sua carriera. Vittorio De Sica le aveva chiesto come mai si fosse trovata male: “Non lo sapete? – gli disse la Swanson – ho accettato solo perché c’eravate voi”. “E io perché c’eravate voi”, replicò De Sica. “Allora – concluse lei – siamo stati imbecilli tutt’e due”. Nel 1975 è nel corale film catastrofico “Airport ’75” messo dalla critica fra i peggiori 50 film ma gran successo al botteghino, dove recita se stessa e, fra gli altri, ritrova un’altra diva del muto che però era saputa passare al sonoro: Mirna Loy.

Eric Von Stroheim, specializzato in ruoli di nazista cattivo, qui interpreta il fedele servitore tuttofare, angelo custode del mito vivente, che sotto finale svelerà di essere il primo marito della diva nonché suo regista e pigmalione in una sorta di cortocircuito con alcuni aspetti della vita reale.

Oltre a Hedda Hopper, che con Elsa Maxwell e Louella Parsons era nota come il trio delle più grandi pettegole di Hollywood, che nel film è se stessa e tenta di intervistare la diva ormai perduta per sempre nelle sue deliranti fantasie, a rifare se stessi ci sono il già citato Cecil B. De Mille, amico della diva ma anche lui preso nell’ingranaggio degli studios dove è consentito provare pena ma non esprimere solidarietà; bisogna ricordare che De Mille è stato fra i fondatori dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences che nel 1929 istituì il Premio Oscar. A rifare se stessi, in una triste partita a bridge fra ex star del muto, ci sono anche Anna Q. Nilsson, H. B. Warner e un attonito Buster Keaton, che Charlie Chaplin due anni dopo chiamerà a fargli da spalla in “Luci della Ribalta”: Keaton, al contrario di Chaplin, non si è saputo riciclare nel sonoro, e il suo genio, all’epoca, non era più considerato; solo oggi viene ricordato come uno dei grandi del cinema.

Protagonista assoluto del film è il trentenne William Holden, attore già in carriera ma che con questo film, anche lui candidato all’Oscar, darà una svolta al suo percorso artistico, e sempre diretto da Billy Wilder otterrà l’Oscar nel ’53 con “Stalag 17” dove è un prigioniero americano in un campo tedesco. Sarà ancora un prigioniero, ma in un campo giapponese, in “Il ponte sul fiume Kwai” e il fratello minore di Humphrey Bogart in “Sabrina” sul cui set ebbe una relazione con Audrey Hepburn. Ma negli anni ’60 lo attende il suo viale del tramonto: è quarantenne e la carriera rallenta, beve molto, e nel 1966 causò un incidente automolistico, in Versilia, dove morì un uomo: venne condannato a una pena, sospesa, di otto mesi, e privatamente versò una cospicua somma di denaro alla famiglia della vittima; il senso di colpa, però, peggiorò la sua dipendenza dall’alcol. A fine carriera anche lui passa sul set di un film catastrofico, “L’inferno di cristallo” e con “Quinto potere” di Sidney Lumet, nel 1977 riceve una nuova nomination all’Oscar che però va al suo collega Peter Finch. Cinque anni dopo morirà solo, nella sua villa, in seguito a una caduta, e il suo corpo verrà ritrovato almeno quattro giorni dopo, secondo le conclusioni dell’autopsia.

A completare il cast di “Viale del Tramonto” c’è Nancy Olson come amore segreto e impossibile del protagonista: lei è la fidanzata del suo migliore amico e lui è già legato sentimentalmente alla vecchia diva che lo mantiene assai generosamente. Ottiene la candidatura come migliore attrice non protagonista ma la sua carriera non ne beneficerà. Si ritroverà con Gloria Swanson in “Airport ’75”.

Fra le tante starlette che riempiono il film si riconosce un’ancora (per poco) sconosciuta Marilyn Monroe, che all’epoca campava di piccoli ruoli e lavorando come modella; qualche anno prima, senza lavoro, per mantenersi si era anche prostituita sul Sunset Boulevard che dà il titolo al film: evocativo in italiano e ancora di più per i losangelini, dato che oltre al significato intrinseco, è un luogo reale: 39 km che vanno dall’interno di Los Angeles verso ovest, verso l’oceano, verso il tramonto, attraversando quartieri come Echo Park, Silver Lake, Hollywood, Beverly Hills, Bel Air: tutti luoghi evocativi, a loro volta, con le ville delle star, gli scandali, gli incidenti, i set, e i film e i telefilm che ne riprendono i nomi. Un Viale del Tramonto sempre vivo immortalato per sempre in un film geniale e unico.