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Io capitano – l’Oscar che non c’è

Matteo Garrone non ce l’ha fatta agli Oscar 2024, come non ce l’ha fatta ai Golden Globe dove era altrettanto candidato, e a mio avviso non poteva farcela perché la concorrenza al Miglior Film Internazionale (ex Miglior Film Straniero) era di altissima qualità, nulla togliendo all’italiano. L’Italia, che in ogni caso mantiene il più alto numero di candidature in quella sezione, mancava esattamente da dieci anni quando nel 2014 fu presente con “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino che si portò a casa la statuetta insieme al Golden Globe: Sorrentino come nemesi di Garrone? andiamo con ordine.

I due astri nascenti, diversissimi, si ritrovano a confronto in quel di Cannes nel 2008, Garrone con “Gomorra” dal libro inchiesta Roberto Saviano che poi ha moltiplicato pani pesci puntate e pubblico con le 5 stagioni della serie tv Sky, e Sorrentino con “Il Divo” sul mefistofelico Giulio Andreotti; entrambi erano in concorso per la Palma d’Oro che però restò in casa andando a Laurent Cantet per “La classe – Entre le murs” ma i nostri vennero premiati con le pergamene del Grand Prix Speciale della Giuria (quell’anno presieduta da Sean Penn con Sergio Castellitto come italiano fra i giurati) a “Gomorra” e il Premio della Giuria per “Il Divo”, tenendo presente che i due riconoscimenti sono lo stesso premio con due diverse diciture ed è il più importante dopo la Palma d’Oro: insomma due premi apparentemente diversi per non assegnare un ex-aequo. Da lì in poi la stampa ha inventato, o chissà forse solo registrato, una concorrenza diretta fra i due – che non analizzerò per non dilungarmi come al mio solito.

Tornando a oggi, qualsiasi sia la concorrenza vera o presunta fra i due (per certo non sono amici), entrambi sono assai stilosi e di Matteo Garrone si può certo affermare che il tema sociale, insieme al tema del magico e del favoloso, sia parte integrante del suo cinema, con radici coltissime nel favolistico di casa nostra o comunque europeo in generale, e dunque quanto di più lontano dal fumettistico fantastico ed effettistico statunitense: cosa, questa, che lo allontana dal pubblico d’oltreoceano più abituato agli effetti speciali e ai trucchi prostetici che alle atmosfere conturbanti e noir della nostra narrativa fantastica.

Partito ai suoi esordi con stile e contenuti decisamente neo-realistici si fa notare da critica e pubblico con “L’imbalsamatore” (2002) che gli valse il David di Donatello per la sceneggiatura, ma il film collezionò molti altri premi fra attori e produzione: già in questo film usa per il ruolo del protagonista l’attore nano Ernesto Mahieux come elemento di collegamento alla sua visione fantastica della narrativa cinematografica.

Anche il successivo assai disturbante “Primo amore” (2004) liberamente ispirato al romanzo “Il cacciatore di anoressiche” di Marco Mariolini è una favola nera dove l’orco è uno psicopatico ossessionato dalle donne magrissime che spinge la protagonista alla fame in una relazione di amore malato. Segue il “Gomorra” del successo internazionale e dopo realizza “Reality” (2012) dove il protagonista si fa accecare dalle favole moderne e ingannatrici dei reality show, un film con cui torna all’indagine sociale e in cui scatena visivamente la sua vena surreale e grottesca.

Arriva il raffinatissimo, e per questo anche poco digeribile e poco digerito dal grande pubblico, “Il racconto dei racconti” (2015) che schierando un cast internazionale in una coproduzione con Francia e Regno Unito (per cui Garrone anche produttore ha messo un’ipoteca sulla sua casa) è stato distribuito anche col titolo “Tale of Tales”, dalla raccolta di fiabe seicentesche “Lo cunto de li cunti” di Giambattista Basile; il film si concentra su tre racconti la cui narrazione si incrocia e incastra, e nell’insieme è un materiale enorme che potrebbe essere raccontato meglio in una coraggiosa produzione televisiva se solo Garrone si lasciasse tentare dalla serialità, cosa che ha fatto Sorrentino in Sky con “The Young Pope” e “The New Pope”, così tanto per dire. Il film di due ore e un quarto lascia un retrogusto amaro in bocca: quello del non perfettamente riuscito – ma la visione fantastica di Matteo Garrone è al suo fulgore massimo.

Ancora con i debiti da pagare accantona il suo successivo grandioso film su Pinocchio e rispolvera un vecchio progetto più a basso costo (4 milioni di euro contro i 15 del precedente) col quale torna alle sue origini di noir metropolitano di indagine sociale: “Dogman” (2018) su un fatto di cronaca nera romana che ebbe come protagonista un uomo detto “er canaro”, altra figura da favola horror, ed è di nuovo amore col Festival di Cannes che premia il protagonista Marcello Fonte, e trionfa ai Nastri d’Argento e ai David di Donatello, fra gli altri premi. E qui vale la pena spendere una curiosità: all’epoca della prima stesura di una decina d’anni prima, Garrone aveva proposto il ruolo a Roberto Benigni che poi sarà Geppetto nel successivo “Pinocchio”, grande favola che stavolta piacerà anche agli americani, molti dei quali ancora credono che il burattino sia un’invenzione di Walt Disney, e difatti riceve due candidature tecniche per costumi e trucco agli Oscar.

È evidente che Garrone, concorrenza o no, punta all’Oscar; del resto ha già trionfato in casa e in Europa e impugnare quella statuetta lo farebbe assurgere all’empireo ultimo, e qui film torna alle origini della sua ispirazione narrativa. Aveva debuttato nel 1996 con “Terra di mezzo” dove ha raccontato in tre e episodi la realtà di differenti immigrati in Italia, opera prima che al Torino Film Festival gli sono valsi il Premi Speciali della Giuria e il Premio Cipputi per il miglior film sul mondo del lavoro, premio ispirato al personaggio del metalmeccanico comunista creato da Altan; e col successivo “Ospiti” si concentra sulla figura di due ragazzi albanesi immigrati a Roma; dunque il tema dell’immigrazione lo appassiona e con quello che continua a succedere nel Mediterraneo era solo questione di tempo prima che anche Garrone ne traesse ispirazione, avendo già due titoli in una filmografia che è già un genere nella cinematografia italiana ricchissima di titoli a partire dalla fine degli anni ’80 con “Il tempo dei gitani” (1988) di Emir Kusturica cui segue a tambur battente “Pummarò” (1990) di Michele Placido, per dire solo i titoli più importanti, cui seguono “Lamerica” (1994) di Gianni Amelio, “Vesna va veloce” (1996) di Carlo Mazzacurati, “La ballata dei lavavetri” di Peter Del Monte e “L’assedio” di Bernardo Bertolucci, entrambi del 1998 e fra i titoli che si fanno assai più numerosi nel nuovo millennio ricordiamo “Quando sei nato non puoi più nasconderti” di Marco Tullio Giordana, “Bianco e nero” di Cristina Comencini, “Terraferma” di Emanuele Crialese, “Alì ha gli occhi azzurri” di Claudio Giovannesi ispirato agli scritti di Pier Paolo Pasolini, “Razzabastarda” opera prima di Alessandro Gassmann, “Fuocoammmare” di Gianfranco Rosi e il recentissimo “Nour” del 2020 di Maurizio Zaccaro.

I film fin qui realizzati si fermano a raccontare l’incontro-scontro degli immigrati con la realtà italiana e solo in pochi casi raccontano la tragicità del mare attraversato e dei viaggi, mentre Garrone – col suo team di co-sceneggiatori composto da Massimo Gaudioso, Andrea Tagliaferri e dall’attore Massimo Ceccherini che avendo nel curriculum uno suo spettacolo teatrale su Pinocchio già aveva affiancato come sceneggiatore Garrone nel di lui “Pinocchio” dove anche interpretò la Volpe – va oltre, sbarca in Africa, si addentra oltre il deserto per giungere in Senegal, nei villaggi e nelle case dove una certa politica vorrebbe rispedire i migranti.

Il soggetto di Garrone si ispira direttamente alle storie vere raccontate da Fofana Amara, Mamadou Kouassi Pli Adama, Arnaud Zohin, Brhane Tareka e Siaka Doumbia, tutti ragazzi che hanno realmente compiuto il viaggio dei due protagonisti del film, accreditati nei titoli come collaboratori alla sceneggiatura insieme a Chiara Leonardi e Nicola Di Robilant.

Il casting venne fatto in loco sotto la direzione del camerunense Henri-Didier Njikam che è incorso in un incidente diplomatico allorché gli fu negato dall’Ambasciata d’Italia a Rabat, Marocco, il visto d’ingresso in Italia per presenziare al Festival di Venezia; tempestivamente intervistato da “The Hollywood Reporter Roma”, Njikam ha accusato i responsabili di razzismo: “L’ambasciata ha giustificato il rifiuto sostenendo che non c’erano garanzie che avrei abbandonato il territorio italiano una volta entrato a Venezia. In pratica mi hanno trattato come un migrante, come se volessi approfittare della situazione per scappare. Ma io ho un lavoro, una tessera professionale del Centro Marocchino del Cinema. E, sinceramente, se avessi voluto lavorare in Europa, lo avrei già fatto: l’ente non ha guardato il mio curriculum né i miei documenti, ma solo il colore della mia pelle. Questo problema esiste solo con l’ambasciata italiana in Marocco, perché i miei colleghi dal Ghana e dalla Costa d’Avorio sono riusciti a partire. Se fossi stato bianco, non credo che sarei stato trattato così.”

Seydou Sarr insieme a Moustapha Fall sono i due ragazzi che abbagliati da sogni di notorietà e ricchezza lasciano la certezza di una tranquilla miseria quotidiana per l’incertissimo viaggio dispensatore di sofferenze e morte che tutti sconsigliavano; e Seydou, vero protagonista del film, è stato insignito a Venezia del Premio Marcello Mastroianni come attore emergente, ma l’intero cast è di altissimo livello e tutte le interpretazioni concorrono all’intensità narrativa del film costruito da Garrone senza sbavature e senza retorica, sempre focalizzato sulla tragedia umana di ragazzi che sognano un mondo migliore ma che trovano squali anche nelle sabbie del deserto.

Gli unici fugaci momenti in cui si indebolisce il racconto, a mio avviso, sono le due sequenza oniriche del protagonista che sogna, prima di salvare una donna nel deserto e poi volare indietro fino a casa ad osservare sua madre che dorme: due brevi momenti di abbagliante bellezza cinematografica che proseguono nella linea stilistica dell’autore ma che in questo caso deviano dall’intensità tragica del racconto, intensità universalmente riconosciuta da critica e pubblico.

Le curiosità: 1. resterà negli annali l’imbarazzante ultim’ora del Televideo Rai in cui il film veniva raccontato come la vicenda del capitano Schettino che abbandonò il comando della Costa Concordia incagliatasi sugli scogli dell’Isola del Giglio in Toscana nel 2012. Non si sa com’è andato l’incidente telematico, c’è chi parla di uno scherzo certo per minimizzare, c’è chi parla di un complotto certo per massimizzare, ma l’ipotesi più credibile è quella dell’intelligenza artificiale che ha creato la notizia pescando nel suo database, notizia farlocca che però è stata pubblicata da qualche intelligenza naturale… naturalmente a riposo.

2. le ultimissime di cronaca riferiscono di Claudio Ceccherini che ospite del programma Rai “Da noi a ruota libera” certo ispirato dal titolo ha parlato a ruota libera: “Sono molto fiero di aver lavorato con Garrone che ha fatto un film favoloso. Sappiate che il film della cinquina è più bello solo che non vincerà perché vinceranno gli ebrei. Quelli vincono sempre.” Va da sé che l’attore sceneggiatore non ha tutti i torti, solo che poteva esprimersi in modo diverso: i membri dell’Academy sono da sempre molto sensibili ai temi della Shoah tant’è che nel 1999 premiò “La vita è bella” di Roberto Benigni, miglior film straniero, miglior protagonista e miglior musica a Nicola Piovani. Non si parla di corde in casa dell’impiccato, si tratta di buon senso ed educazione, e tanto più vanno ponderate le parole in questo periodo di feroce conflitto in Medio Oriente.

3. mia personale curiosità: leggo nella scheda tecnica del film i nomi dei doppiatori ma “Io capitano” è stato distribuito in originale, il wolof parlato in Senegal, il francese e l’inglese, e non c’è traccia di doppiaggio. Si tratta forse di un’altra versione che sarà distribuita nelle versioni Home e On demand?

Accantonata la delusione per non avere afferrato la statuetta dorata Matteo Garrone guarda già al futuro per il suo bellissimo film che proseguirà il viaggio tornando nei luoghi da cui è partito, con proiezioni nei villaggi del Senegal anche su tendoni improvvisati, per raccontare a chi resta che a volte è più coraggioso restare. Meglio che morire nel deserto o nel mare, meglio ancora che essere umiliati da società e apparati politici ciechi alle urgenze umane nel coltivare i loro minimi miserevoli giardinetti recintati e vietati agli estranei.

I soliti ignoti – e per la prima volta sullo schermo Claudia Cardinale e Tiberio Murgia

Questo film del 1958 è un caposaldo del cinema italiano ma partiamo da più lontano nel tempo e nello spazio, dalla Hollywood dei primi anni ’50 che con film come “Giungla d’asfalto” di John Huston dal genere thriller, o noir per dirla alla francese, sviluppa il sottogenere caper movie detto anche heist movie, ovvero film dove una banda di malviventi organizza un colpa grosso; e se heist è comprensibile in quanto significa rapina, caper è meno chiaro perché letteralmente significa cappero ma in realtà è stato coniato fra i malavitosi italo-americani che hanno anglicizzato l’italiano capriola con riferimento ai salti mortali e a tutte le acrobazie che dovevano fare per sfuggire alle forze dell’ordine. Sta di fatto che il genere piacque molto al pubblico, e fra i principali caper movie bisogna ricordare “Rapina a mano armata” di Stanley Kubrick mentre in Francia ci fu il grande successo di “Rififi” di Jules Dassin, e scavalcando gli anni ’60 in Italia Marco Vicario diresse il dittico “Sette uomini d’oro” e “Il grande colpo dei sette uomini d’oro” al servizio di sua moglie Rossana Podestà; del 1969 è il francese “Il clan dei siciliani” di Henri Verneuil con Jean Gabin, Alain Delon e Lino Ventura; per tornare a Hollywood con “La stangata” di George Roy Hill del 1974 starring Paul Newman e Roibert Redford; poi primeggia il corale “Le iene” di Quentin Tarantino del 1992 fino al trittico di Steven Soderbergh iniziato con “Ocean’s Eleven”, con George Clooney capo brigata, che a sua volta era il remake di “Colpo grosso” del 1960 di Lewis Mileston col Rat Pack Frank Sinatra, Dean Martin e Sammy Davis jr. Insomma ce n’è per tutti i gusti.

Aldo Reggiani, Loretta Goggi e Arnoldo Foà protagonisti dello sceneggiato Rai

Ma torniamo in Italia alla fine degli anni ’50. Il genere imperante era il neorealismo nato sulle macerie della Seconda Guerra Mondiale, e ancora resistevano i generi peplum (e vale la pena ricordare il debutto cinematografico di Sergio Leone con “Il colosso di Rodi”) e cappa e spada (nessun film italiano memorabile, supplisce lo sceneggiato Rai “La freccia nera” diretto da Anton Giulio Majano dal romanzo di Robert Luis Stevenson) mentre il cinema spensierato dei telefoni bianchi che imitava le commedie sofisticate hollywoodiane era stato sostituito dalla commedia rosa o sentimentale che abbandonando le ambientazioni scintillanti e irrealistiche si era adattato alla nostra realtà con gli operai e le commesse “Poveri ma belli” di Dino Risi del 1957.

Scena da “I cadetti di Guascogna”, in primo piano da sinistra Riccardo Billi, Mario Riva, Carlo Campanini, Carlo Croccolo e seduto sulla branda Walter Chiari

Sul piano del film comico, film per ridere, si era fermi alle pellicole che derivavano dai palcoscenici dell’avanspettacolo e del varietà (ad esempio “I cadetti di Guascogna” che vide il debutto di Ugo Tognazzi e Carlo Croccolo) con interpreti che da lì venivano con le loro maschere e le loro gag (Mario Riva, Riccardo Billi, Carlo Campanini, Macario, Renato Rascel) di cui Totò era il più prolifico esponente, non amato dalla critica colta per quei suoi filmetti senza spessore. In questa brulicante vivacissima realtà si muoveva un gruppo di soggettisti e sceneggiatori che sentivano l’urgenza di raccontare la realtà, la loro realtà, quella realtà di quel preciso momento storico, il dopoguerra e il boom economico, mettendone in evidenza tutte le contraddizioni, l’impossibilità di conciliare il vecchio con il nuovo, l’ipocrisia e l’effimero: una realtà che autori come Pier Paolo Pasolini (“Accattone”) o Bernardo Bertolucci (“La commare secca”) presero di petto, mentre scrittori dalla penna più leggera e ironica e spesso caustica, e forse per questo più incisiva (ricordiamo l’adagio latino “castigat ridendo mores”) come Age & Scarpelli qui autori del soggetto e sceneggiatori insieme a Suso Cecchi D’Amico e allo stesso regista Mario Monicelli, che aveva esordito come braccio destro di Pietro Germi e fu poi regista di Totò che aveva sdoganato in un ruolo drammatico nella co-regia con Steno “Guardie e ladri” che valse all’attore l’ambito Nastro d’Argento e che lo convinse che poteva abbandonare il genere avanspettacolo che lo aveva reso ricco e famoso, ma con la media di cinque film l’anno in cantiere, il successo del pubblico e le pressioni dei produttori, passò ancora qualche anno fino a che concluse la sua carriera lavorando con Pasolini: “Uccellacci e uccellini”, “La terra vista dalla luna” nel film a episodi “Le streghe” e “Che cosa sono le nuvole?” nel film a episodi “Capriccio all’italiana”.

Monicelli e Totò durante una pausa sul set

Quando il gruppetto di amici si riunì per buttare giù una nuova sceneggiatura non sapevano che stavano cominciando a scrivere una pagina della storia del cinema. Partirono dall’idea di fare una parodia di quel genere tanto di moda, il caper movie, e presero come modello il noir “Rififi” tanto che il primo titolo pensato per il film in scrittura fu “Rufufù”, ma non erano autori da fermarsi al semplice parodistico e come altra ispirazione ebbero il racconto di Italo Calvino “Furto in una pasticceria”.

Memmo Carotenuto con Gassman

Poi c’era la realtà sociale in cui il gruppetto voleva collocare storia e personaggi, e pur condividendo con Pasolini il degrado della periferia romana in cui il boom sarebbe tardato ad arrivare e ancora si sarebbe vissuto di espedienti, i loro ladruncoli non hanno l’innocente cattiveria degli accattoni e dei ragazzi di vita pasoliniani, ma risentendo della leggerezza della Commedia dell’Arte (che i nostri ovviamente conoscono) sono Arlecchino e Brighella e Pulcinella i cui espedienti per procurarsi il tozzo di pane rimangono fallimentari e grotteschi, come certi capitomboli del fanfarone Er Pantera, ma sono qui intessuti dell’umanità di persone reali che soffrono e addirittura – novità assoluta in commedia – muoiono tragicamente, come il personaggio motore della storia interpretato da Memmo Carotenuto. Il risultato è un dolce-amaro, un grottesco patetico venato di tristezza, qualcosa di talmente simile alla vita reale da portare al cinema folle di spettatori che ridevano insieme delle loro stesse sventure, e però non mancano le battute folgoranti come quando Capannelle chiede a un ragazzino di un certo Mario e quello gli risponde che lì nel quartiere ce ne sono cento; sì ma questo è stato in galera, specifica Capannelle, sempre cento sono, risponde il ragazzino.

Tiberio Murgia nell’atrio del cinema dove si proietta il Kean di e con Vittorio Gassman in un corto circuito di citazioni

A scrittura ultimata sarebbe stata fondamentale la scelta del cast. I produttori, Franco Cristaldi in testa, avrebbero voluto scritturare i soliti noti che venivano dal varietà e dall’avanspettacolo, a cominciare da Alberto Sordi nel ruolo del pugile suonato Peppe er Pantera per il quale Monicelli e gli altri sceneggiatori – che avevano creato tutti i personaggi intorno ad un baricentro realistico, senza vezzi e gag, corredandoli però di un patrimonio di battute e situazioni brillanti e folgoranti sulle quale si sarebbe dovuta giocare tutta la comicità del film – si erano impuntati su Vittorio Gassman, in quale venendo dal teatro impegnato nel cinema aveva per lo più interpretato ruoli da cattivo, e con la sua aria da intellettuale non dava ai produttori nessuna garanzia di successo come attore comico, ma alla fine dovettero cedere alle argomentazioni di Monicelli & company, che con l’aiuto del truccatore Romolo De Martino crearono per Gassman un pesante trucco che con una parrucca gli abbassava l’attaccatura sulla fronte, e accentuando il profilo del naso e rendendo le labbra leggermente calanti lo ridisegnarono proprio come quel pugile suonato di periferia che avevano immaginato sulla carta, e l’invenzione poi della sibilante balbuzie completò il personaggio, sdoganando Gassman in un mondo ancora per lui inesplorato. Va segnalato che nel film viene omaggiato ritraendo la locandina del suo “Kean – genio e sregolatezza” che aveva diretto e interpretato a teatro e poi diretto e interpretato anche sullo schermo con l’importante contributo tecnico di Francesco Rosi.

Nel calibratissimo cast Renato Salvatori (doppiato da Marcello Prando) entrò come secondo nome (in percentuale di misura più piccola rispetto a Gassman) e come segno di continuità con la commedia rosa di cui era protagonista, anche qui protagonista di una storia amorosa ovviamente assai contrastata. Il caratterista Memmo Carotenuto, fratello di Mario, faccia da duro e voce roca è al terzo posto nei titoli di testa e probabilmente nel suo ruolo più significativo. Con le lettere che continuano a rimpicciolirsi segue Rossana Rory (Rossana Coppa sui documenti) già fotomodella e foto-attrice per “Sogno” che qui è l’unica componente femminile della banda e anche nel suo ruolo più importante (doppiata da Monica Vitti): nonostante l’impegno, andò a studiare recitazione presso la londinese Royal Academy of Dramatic Art, non riuscì a sfondare e pochi anni dopo, dopo aver partecipato a “L’eclisse” di Michelangelo Antonioni, si ritirò dalla carriera artistica. Segue nei titoli la 17enne in rapida ascesa Carla Gravina qui al suo terzo film e che aveva debuttato 15enne in “Guendalina” dello scopritore di Lolite Alberto Lattuada. Dopo di lei nei titoli di testa viene la non ancora ventenne Claudia Cardinale (doppiata dalla palermitana Lucia Guzzardi) qui al suo debutto cinematografico italiano e per la quale vale la pena spendere qualche parola in più.

Era nata a Tunisi da genitori altrettanto tunisini per nascita ma di discendenza siciliana. Va ricordato che la Tunisia era un protettorato francese e durante la Seconda Guerra Mondiale (Claudia nata nel ’38 era ancora bambina) l’Italia mussoliniana con la Germania hitleriana occuparono Tunisi con gravi e diverse conseguenze per tutta l’enclave italiana che lì viveva; nello specifico il padre di Claudia che aveva mantenuto rapporti con la famiglia d’origine in Sicilia, non aveva preso la nazionalità francese mantenendo quella italiana, e se in quel frangente ciò poteva giocare a suo favore agli occhi del regime, nei fatti tutti quegli italiani d’Africa furono vittime di un diffuso e paradossale sentimento italiano anti-italiano, con italo-tunisini che sposarono la causa fascista, altri che restarono fedeli alla Francia e altri ancora che volevano restare neutrali come fu per la famiglia Cardinale. Superato il disagio della guerra l’adolescente Claudia parlava solo arabo tunisino, francese e il siciliano trapanese appreso in famiglia, e come tutte le ragazze della sua generazione era una fan della Brigitte Bardot esplosa con “E Dio creò la donna” di Roger Vadim, star con la quale duetterà anni dopo, nel 1971, nel brutto western “Le pistolere” di Christian-Jacque. In ogni caso il cinema la attendeva: a diciotto anni partecipò a un cortometraggio documentaristico che omaggiava l’intraprendenza delle donne tunisine nell’immediato dopoguerra: “Les Anneaux d’or” di René Vautier che al Festival di Berlino vinse l’Orso d’Argento.  Bastò l’unico primo piano di quel film per farla diventare una celebrità locale ed essere richiesta dal regista Jacques Baratier che la volle per un ruolo secondario in “I giorni dell’amore”, ruolo che accettò con riluttanza perché aspirava a quello della protagonista nel quale la produzione volle un’attrice di pura nazionalità tunisina; protagonista maschile il giovane egiziano Omar Sharif in un film candidato per la Palma d’Oro al Festival di Cannes che per la nostra riluttante Claudia fu il primo vero impegno come attrice cinematografica, per il quale in ogni caso aveva ottenuto la dicitura in cartellone “e la partecipazione di” essendo ancora in pratica una sconosciuta. Claudia avrebbe duettato da protagonista con Sharif nel 1991 in “Mayrig” del franco-armeno Henri Verneuil, che l’anno dopo ebbe il seguito “Quella strada chiamata paradiso”, film che raccontano il genocidio armeno che però hanno avuto scarsa diffusione.

Momentaneamente accantonata la non del tutto per lei soddisfacente, benché di qualità, esperienza cinematografica, la giovane scalpitava e non sapeva come uscire dall’impasse della sua vita borghese tunisina, così non le parve vero quando a Tunisi si tenne la “Settimana del Cinema Italiano” organizzata da “Unitalia FilmRivista trimestrale dell’Unione nazionale per la diffusione del film italiano all’estero”, durante la quale vinse – “in modo del tutto involontario e inconsapevole” recitano le cronache – il concorso “La più bella italiana di Tunisia” dove probabilmente si era iscritta in modo del tutto altrettanto involontario e inconsapevole: ma la ragazza, come vedremo, era fortemente motivata e consapevole.

Claudia Cardinale in quel fatale 1957 a Venezia

Il premio del concorso consisteva in una vacanza spesata alla Mostra del Cinema di Venezia in cui seppe mettersi in mostra agli occhi dei tanti pigmalioni, registi e giornalisti e soprattutto produttori lì presenti, Franco Cristaldi in testa. Dicono sempre le cronache che accettò l’invito da parte del produttore Salvatore Argento (padre del regista Dario Argento) e del giornalista Lidio Bozzini l’offerta di fermarsi a Roma per frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia, che la ragazza accettò – non si sa a che titolo: chi pagava cosa e per cosa? Probabilmente oggi è lecito immaginare che i due fossero i prestanome del produttore Cristaldi, che di 14 anni più anziano della ragazza e già sposato, non si poteva esporre in quell’epoca in cui il divorzio era illegale in un Paese ultra cattolico in cui le relazioni extraconiugali creavano scandalo e condanna sociale: oggi sappiamo che Franco Cristaldi e Claudia Cardinale avevano già cominciato una relazione. Ma gli studi di recitazione e dizione, sua insegnante al Centro fu Tina Lattanzi, misero in evidenza la sua scarsa attitudine sia alla recitazione che all’apprendimento e dopo appena un trimestre abbandonò l’impresa per tornare a Tunisi… ma dato che la sua fotogenia era indiscutibile e la sua relazione con Cristaldi solida, si fece di necessità virtù e fu dato eco sulla stampa, con copertina sul settimanale “Epoca”, a quel suo inconcepibile rifiuto di continuare la carriera cinematografica: anche gli handicap se ben gestiti posso diventare vantaggi nelle mani di un solido ufficio stampa. Del suo stile recitativo, una volta diventata famosa, coerentemente dirà: “Io non mi sono mai considerata un’attrice. Sono solo una donna con una certa sensibilità: è con quella che ho sempre lavorato. Mi sono accostata ai personaggi con grande umiltà: cercando di viverli dal di dentro, usando me stessa, e senza far ricorso a nessun tipo di tecnica.”

Moglie e marito, produttore e protagonista, sul set di “La tenda rossa” diretto da Michail Kalazotov

Ancora di quell’intenso periodo è un’altra pagina che resterà oscura nella vita dell’attrice: la gravidanza del suo primogenito Patrick che partorirà a Londra, lontano da occhi indiscreti, dopo la fine della lavorazione del film. Durante la lavorazione ha tenuto segreta la gravidanza, come segreta rimarrà la genesi: verrà raccontato in seguito che rimase vittima di uno stupro da parte di uno sconosciuto ma alla luce dei fatti è lecito pensare che il figlio fosse del produttore e che l’invenzione dello stupro servisse anche, ancora una volta, a far di necessità virtù – ma questa è mia personale speculazione essendo a tutt’oggi la vicenda narrata così come fu data sin dall’inizio. E se dal lato professionale questo ruolo di siciliana illibata ritagliato su di lei la portò all’immediato successo, sul piano privato fu per lei un periodo assai difficile: era consapevole che la relazione con Cristaldi non poteva essere ufficiliazzata e soffriva lo stereotipo dell’immagine della giovane avventura del produttore attempato. Con l’avvio della sua carriera la famiglia la raggiunge a Roma e durante i primi anni mostrerà in pubblico suo figlio presentandolo come un fratellino.

In seguito, anni dopo, dichiarerà di non essersi mai sentita davvero la compagna di Cristaldi, quanto piuttosto un trofeo da tenere sotto vetro, una “Cenerentola gratificata dalla sua generosità” per l’aiuto dato nel difficile momento della gravidanza segreta e per, va da sé, l’impegno profuso per costruirle una carriera e un’immagine professionale adeguata; ma per il resto si era sentita in trappola: per il doppio legame, personale e professionale, si sentiva schiacciata e costantemente sotto controllo attraverso lo staff – il responsabile stampa, la segretaria e l’autista personali – che facevano riferimento a Cristaldi che probabilmente aveva perso la testa per la ragazza e finì col rinchiuderla in una gabbia dorata, una torre d’avorio, sempre ricordandole e rinfacciandole che lui l’aveva creata e che dunque gli apparteneva. Conducevano sempre vite separate, tranne qualche breve viaggio, e anche dopo il matrimonio che nel 1966 lui organizzò negli Stati Uniti avendo ottenuto l’annullamento della precedente unione dalla Sacra Rota, lei non lo chiamò mai Franco ma sempre e solo Cristaldi, fino alla definitiva rottura avvenuta nel 1975, allorché Claudia si era innamorata del regista Pasquale Squitieri conosciuto sul set di “I guappi”. Col matrimonio Cristaldi aveva adottato legalmente il primogenito dell’attrice. E sarebbe ancora lunga la narrazione su Claudia Cardinale se non fosse che devo rientrare nei ranghi del film che l’ha lanciata.

il gruppo dei ladruncoli al completo: Totò, Tiberio Murgia, Carlo Pisacane, Renato Salvatori, Marcello Mastroianni e Vittorio Gassman. Di spalle l’agente di controllo per il Dante Cruciani di Totò, attore non accreditato.

Al suo nome seguono nei titoli di testa i primi tre insieme dopo i nomi da solisti: Carlo Pisacane, Tiberio Murgia e Gina Rovere, lei nel ruolo secondario della moglie in galera di Marcello Mastroianni, è una caratterista romana che avrà i suoi ruoli più importanti nei prossimi “Nella città l’inferno” di Renato Castellani e “Adua e le compagne” di Antonio Pietrangeli. Il napoletano Pisacane viene invece dalla gloriosa filodrammatica partenopea e aveva cominciato a fare cinema già in gioventù all’epoca del muto per poi proseguire come caratterista generico e qui è al suo primo personaggio importante, quel Capannelle che gli porterà talmente fortuna e fama da venire accreditato nelle produzioni future anche come solo Capannelle; il suo riuscitissimo accento bolognese è dovuto al doppiaggio del friulano Nico Pepe.

I debuttanti Claudia Cardinale e Tiberio Murgia come sorella e fratello.

Il sardo Tiberio Murgia è al suo debutto cinematografico diventando siciliano col doppiaggio del napoletano Renato Cominetti e anche il suo personaggio ha talmente fortuna che proseguirà la carriera continuando a essere scritturato come siciliano. Prima di approdare al cinema ha un passato rocambolesco: di famiglia povera emigra in Belgio per andare a fare il minatore a Marcinelle dal cui disastro scampa perché si era dato malato per stare con la moglie di un collega di cui era divenuto amante, ma l’intera storia è oggi ritenuta falsa perché viene da un articolo della rivista “Gente” di genere scandalistico-propagandistico per favorire la carriera del neo-attore. Di fatto Murgia fu veramente minatore in Belgio e poi lavapiatti in un ristorante di Roma dove fu notato da un assistente di Monicelli e da lì si avviò la sua carriera di caratterista siciliano.

Va dato merito al regista e al suo staff di co-sceneggiatori l’avere inserito nel cast dei coprotagonisti due piccoli caratteristi, Carlo Pisacane di antica scuola teatrale e Tiberio Murgia preso dalla strada: due personaggi veramente costruiti a tavolino che nulla avevano e avranno a che fare col carisma dell’interprete; due facce che già da sé erano maschere, ma personaggi creati col supporto di altri due professionisti a dare loro la voce: in pratica per ogni personaggio due attori, uno davanti e l’altro dietro la macchina da presa, perché senza quelle voci e quegli accenti le due maschere non sarebbero mai esistite. Pratica oggi irrealizzabile per fortuna, per la dignità professionale degli interpreti, ma che allora era prassi comune se si pensa che anche molti dei protagonisti venivano doppiati e la cosa non creava scandalo. Qui c’è Renato Salvatori che praticamente sarà sempre doppiato in tutta la sua carriera e se ciò non fosse stato consentito probabilmente si sarebbe impegnato a studiare recitazione e dizione laddove la fotogenia non sarebbe bastata più; per molti anni Claudia Cardinale fu doppiata, però si è battuta per recitare con la sua voce, e anche Totò che verso la fine era ormai quasi cieco e aveva come doppiatore ufficiale Carlo Croccolo. I titoli di testa continuano col resto dei generici fra i quali bisogna ricordare Elisa Fabrizi che è un errore di trascrizione trattandosi in realtà di Elena Fabrizi, sorella di Aldo Fabrizi, che dopo la scomparsa del fratello diverrà nota come Lella Fabrizi o più semplicemente Sora Lella, attrice intrattenitrice e proprietaria di una trattoria sull’isola Tiberina a Roma. I titoli si concludono “con” Marcello Mastroianni le cui lettere riprendono la misura massima che Gassman aveva avuto in apertura, “e con la partecipazione straordinaria” di Totò. Non è accreditato il prevalentemente radio-televisivo Mario Feliciani nel ruolo del commissario di polizia che tornerà nel sequel dell’anno dopo messo in cantiere a tambur battente.

Sul momento nessuno si rese conto di cosa era accaduto: il fatto più evidente fu il clamoroso successo del film che fu distribuito praticamente in tutto il mondo: negli USA e nel Regno Unito col titolo “Big Deal on Madonna Street” e lì avrebbe avuto grande risonanza soprattutto fra gli addetti ai lavori tanto che nei decenni a seguire avrebbero realizzato ben due remake; mentre in Spagna fu ripreso il primo titolo provvisorio “Rufufù” e in Francia si optò per “Le Pigeon” il piccione, vai a capire perché, mentre in Argentina e Brasile fecero una fedele traduzione del titolo: “Los desconocidos de siempre” e Os eternos Desconhecidos“.

Dovette passare qualche anno perché ci si rendesse conto che “I soliti ignoti” era diventato il capostipite di un nuovo genere cinematografico: la commedia all’italiana. Che era un po’ quello che era successo secoli prima nel teatro quando dalla Commedia dell’Arte si passò alla commedia brillante borghese dove i caratteri avevano perso la fissità delle maschere per diventare esseri umani a tutto tondo con i loro chiaroscuri. Da quel film in poi tutti dovettero fare i conti con quel modo di scrivere e realizzare pellicole brillanti e in un paio di decenni si realizzarono grandi film, molti dei quali a episodi, fino a che la commedia all’italiana non morì verso la fine degli anni Settanta stretta fra le spire della commedia sexy. Mario Monicelli fu candidato agli Oscar nella categoria Miglior Film Straniero e vinse lo spagnolo Festival di San Sebastian; ai Nastri d’Argento vinse Vittorio Gassman come miglior protagonista e l’intera squadra degli scrittori fu premiata per la miglior sceneggiatura.

L’anno dopo uscì il sequel “Audace colpo dei soliti ignoti” con Nanni Loy che prese il controllo dell’impresa, e un secondo tardivo nostalgico seguito si ebbe nel 1985 diretto da Amanzio Todini: “I soliti ignoti vent’anni dopo”. Del 2020 è l’adattamento teatrale andato in scena al Teatro La Pergola di Firenze, diretto e interpretato da Vinicio Marchioni su copione di Antonio Grosso e Pier Paolo Piciarelli. Altro adattamento teatrale ma in musical fu quello che Bob Fosse realizzò nel 1986, “Big Deal”, che non vide praticamente nessuno: 6 anteprime e 69 repliche, a Broadway. Due i remake americani, dicevamo: il primo è “Crackers” del 1984 diretto da Louis Malle con Donald Sutherland e Sean Penn, mentre del 2002 è “Welcome to Collinwood” diretto dai fratelli Anthony & Joe Russo e prodotto da George Clooney che si è collocato nel ruolo che fu di Totò. Nel 2000 Woody Allen fece un’importante citazione-omaggio nel suo “Criminali da strapazzo”. Un altro importante omaggio è nel film “A/R Andata + Ritorno” del 2004, terza regia di Marco Ponti.

Fra le curiosità: il film sarebbe dovuto uscire col titolo “Le Madame” che era il soprannome con cui i criminali chiamavano i poliziotti e che venne rigettato dalla censura perché non si poteva ironizzare sulle forze dell’ordine. La Via delle Madonne in cui viene tentato il colpo, ripreso dal titolo americano, in realtà non esiste, trattandosi della scalinata di Via della Cordonata che scende su Via delle Tre Cannelle, dietro Piazza Venezia. La ragazza che litiga col fidanzato sotto il lucernario su cui restano appesi i ladruncoli è l’ungherese Edith Bruck, scampata ai campi di concentramento nazisti, che si era stabilita a Roma dopo aver tentato di rientrare in patria, dove non aveva più nessuno, per poi di trasferirsi in Israele nel 1948 a ridosso della formazione del nuovo stato, immaginato “di latte e miele”, come scriverà, ma percorso da altri insopportabili conflitti. Come ancora oggi è. A Roma frequenta ovviamente l’ambiente intellettuale dove conosce e poi sposerà il poeta-regista Nelo Risi, fratello di Dino, e debutterà come scrittrice nel 1959 con “Chi ti ama così” scrivendo in lingua italiana, una lingua non sua, come spiegherà, che le consente il necessario distacco per descrivere la sua esperienza nei campi di concentramento. Ultima curiosità: i nomignoli Capannelle e Ferribotte erano stati orecchiati nella vita reale: a Capannelle c’è l’ippodromo di Roma ed era il soprannome di un assiduo scommettitore sulle corse dei cavalli, caratteristica che nel personaggio del film non c’è, mentre Ferribotte è la storpiatura di ferry boat, il traghetto che i siciliani prendevano per raggiungere il continente e come molti ancora lo chiamavano: ferribotte o ferribotto. Entrambi i personaggi torneranno nel prossimo sequel mentre solo Ferribotte sopravvivrà vent’anni dopo.

Edith Bruck

Il film è disponibile su RaiPlay e YouTube.

FILM EROTICI DI EXPLOITATION E COMMEDIE SEXY – 2

QUI LA PRIMA PARTE
L’ARTICOLO CONTIENE FOTO E ARGOMENTI
CHE POTREBBERO URTARE CERTE SENSIBILITÀ

Dicevamo che il sesso al cinema esiste fin dai primordi ma il vero e proprio exploit commerciale avviene negli anni ’60-’70 riflettendo nei film la liberazione-ribellione che già avveniva nella società: erano anni in cui (semplificando molto) si è ridisegnato il modo di stare insieme in società e il modo di esprimere l’individualità anche attraverso la sessualità. Personalmente in quegli anni ’70 ero un adolescente che se da un lato non si rendeva pienamente conto di quello che gli accadeva intorno nella realtà sociale e politica, nell’intimo era però scosso da tempeste ormonali che non potevano restare indifferenti davanti a locandine cinematografiche che nei titoli avevano ammiccanti poliziotte soldatesse e liceali, infermiere e dottoresse, insegnanti e supplenti, zie nonne e matrigne, oltre a tutto l’ambaradan che si rifaceva anche solo a sfioro alla letteratura licenziosa del Tre-Quattrocento del Boccaccio e dell’Aretino.

Avevo la curiosità ma non avevo l’età, anche se in certi cinema di periferia chiudevano entrambi gli occhi; però ero un adolescente già appassionato di cinema che frequentava diversi cineclub arrivando a vedere anche tre film in un solo pomeriggio, cineclub dove si dava il caso che fra corazzate Potëmkin e retrospettive di Ingmar Bergman capitassero certi film d’autore, come il visionario Alejandro Jodorowsky o il cupo Walerian Borowczyk, che filmavano in forma autorale l’altrimenti vietato erotismo, con il secondo che sfiorava anche la pornografia – ma erano leciti film da cineclub, senza censure di stato, e lì compresi che i film erotici erano sperimentazioni d’autore, che occasionalmente potevano usare la chiave del grottesco o del surreale ma sempre concentrati sull’aspetto drammatico e torbido delle vicende: insomma i film erotici erano sempre serissimi, finivano male e il sesso era spesso mortale.

Sotto l’ampio paracadute del cinema erotico d’autore si affollarono tanti altri cineasti che produssero film erotici più seriosi che seri, più commerciali e autocelebrativi che sperimentali com’è il caso della coppia più teatrale che cinematografica Gabriele Lavia con Monica Guerritore; lei era stata avviata al genere da Salvatore Samperi, autore che aveva debuttato con il ribelle “Grazie zia” che suo malgrado divenne capostipite del cinema erotico nel sottogenere famiglia; la Guerritore ebbe dapprima da Samperi un ruolo secondario in “Peccato veniale” del 1974 per poi essere protagonista dieci anni dopo nel decisamente commerciale “Fotografando Patrizia” cui il marito regista Lavia fece subito seguire i propri “Scandalosa Gilda” e “Sensi”, sensi che poi si acquietarono un po’ per tutti perché il genere aveva ormai fatto il suo tempo e l’erotismo si spostava verso la più scanzonata e anche becera commedia sexy all’italiana. Ovviamente quel cinema erotico più o meno d’autore, benché per certi aspetti dirompente sul piano sociale e politico, era comunque specchio del suo tempo, gli anni Settanta, e la figura femminile nonostante le rivendicazioni femministe rimaneva donna-oggetto: oggetto del desiderio e oggetto-soggetto di quella filmografia.

Fra le attrici star di prima grandezza ci fu Laura Antonelli che lavorò con veri autori del genere come Samperi appunto, e poi Pasquale Festa Campanile, Dino Risi, Giuseppe Patroni Griffi e Luchino Visconti, per poi passare alla commedia sexy. E ci fu Lilli Carati che poi si perse nel porno per pagarsi la dipendenza da droga.

Sylvester Stallone sul set di un soft-porn

Ma anche Paola Senatore, Ilona Staller, Moana Pozzi e Karin Schubert cominciarono le loro carriere in quei film erotici prima di passare definitivamente al porno, e a tal proposito va ricordata la produttiva pratica dell’epoca di montare due film differenti con lo stesso girato: l’hard e il soft, ovvero il pornografico vero e proprio con i dettagli anatomici che nulla lasciano all’immaginazione, e l’erotico che accende la fantasia senza mostrare la macelleria, che perdendo le istanze creative era ormai solo soft-porn dove i dettagli scabrosi erano tagliati per montare un film che potesse anche passare, con molta faccia tosta, per erotico d’autore. Entrambe queste produzione nostrane hanno sempre avuto grande seguito nei Paesi dell’America Latina. Mentre negli Stati Uniti una star indiscussa come Sylvester Stallone cominciò la carriera fra le lenzuola di queste doppie produzioni.

Negli anni Ottanta esplose la Serena Grandi veicolata dall’indiscusso maestro dell’erotico Tinto Brass che spogliò anche la non più giovanissima Stefania Sandrelli che con “La chiave” rilanciò la sua carriera prima di finire definitivamente nei ruoli di mamma.

Senza però dimenticare che anche Ornella Muti e Florinda Bolkan ebbero i loro ruoli nel cinema erotico.

E si registrarono i debutti erotici della valletta Sabina Ciuffini in “Oh, mia bella matrigna” e della modella africana Zeudy Araya in “La ragazza dalla pelle di luna” oltre alle performance da Lolita di Romina Power prima di darsi alle canzonette.

Ci furono fra le altre Femi Benussi, Agostina Belli, Nadia Cassini e Gloria Guida che altrettanto passarono dai film erotici drammatici non più d’autore alle commedia sexy.

Le star di sesso maschile furono decisamente Lando Buzzanca e il prematuramente scomparso Alessandro Momo; per il resto gli attori erano di passaggio e intercambiabili, spesso stranieri, altrettanto spesso bellocci senza passato né futuro, qualche volta interpreti di rango che venivano dal palcoscenico.

Fra gli autori non va dimenticato Pier Paolo Pasolini che dedicò l’ultima parte della sua produzione cinematografica all’erotismo d’autore cominciando proprio con quel “Decameron” che diede la stura a tutte le altre produzioni più o meno boccaccesche. Altrettanto va ricordato Bernardo Bertolucci che al genere specifico si dedicò con “Ultimo tango a Parigi” e “The Dreamers”.

Gianfranco D’Angelo fra le ballerine del televisivo “Drive In” andato in onda su Italia 1 dal 1983 al 1988.

Sul finire degli anni ’70 si affievolì la moda del film erotico, d’autore o meno, e nelle sale cinematografiche arrivò la commedia sexy all’italiana che era nata già dalla fine degli anni ’60 e anch’essa destinata all’asfissia più o meno a metà degli anni ’80. Oltre al riciclo di interpreti del più necroforo cinema erotico ci fu spazio per volti e culi nuovi, stavolta tutto all’insegna della spensieratezza e della comicità, dalla più sottile a quella più grossolana: spensieratezza e grossolanità che furono anche la cifra politica del nuovo che avanzava nella figura di Silvio Berlusconi i cui varietà delle sue televisioni erano intercambiabili con le atmosfere e i cast delle commedie sexy. E trattandosi di comico stavolta i divi furono maschi, quelli che venivano dall’avanspettacolo e dal teatro e dal cabaret, oltre a quelli che pur non avendo nessuna specifica preparazione attoriale recitavano solo con la loro naturale maschera: Alvaro Vitali e Bombolo.

Lando Buzzanca e Aldo Maccione primeggiarono anche per la prestanza fisica, non perfetta ma accettabile perché il principale oggetto da esporre era la donna; e fra gli attori di rango Renzo Montagnani accettò qualsiasi ruolo per poter pagare le cure mediche al figlio gravemente infermo. Un vero e proprio divo del genere fu il cantante Johnny Dorelli che tenne banco per un ventennio e sposò la più giovane Gloria Guida che dopo il matrimonio abbandonò lentamente il cinema, seguita da lui che essendo di 18 anni più anziano aveva anche fatto il suo tempo come attore brillante e disimpegnato.

Dalla vecchia guardia si riciclarono Carlo Giuffrè e il caratterista di lusso Mario Carotenuto mentre fecero fortuna Gianfranco D’Angelo, Pippo Franco, Lino Banfi e Enzo Cannavale.

Mentre fra gli attori che furono punte di diamante della più castigata commedia all’italiana che occasionalmente si affacciarono nella commedia sexy vanno elencati: Enrico Montesano, Renato Pozzetto, Massimo Boldi, Diego Abatantuono e Teo Teocoli.

Accanto a cotanti comici fra le attrici solo poche mantennero lo status di protagoniste assolute: le riciclate dall’erotico Laura Antonelli, Zeudi Araya, Agostina Belli e Gloria Guida che però se la dovettero vedere con la tedesca già con carriera internazionale Barbara Bouchet; e poi c’è il caso a parte di Carmen Villani che nata cantante è diventata attrice di commedie scollacciate sotto la direzione del marito Mauro Ivaldi che a lei e al genere sexy dedicò la sua intera cinematografia prima della sua prematura scomparsa a 42 anni.

Fra le tette e i culi più esposti nella commedia sexy vanno ricordate: Orchidea De Santis, Lory Del Santo, Silvia Dionisio, Rosa Fumetto, Eva Grimaldi, Daniela Poggi, Pamela Prati, Anna Maria Rizzoli, Carmen Russo, Jenny Tamburi e Marilù Tolo.

Mentre fra le straniere che si accasarono nel sexy italiano ci furono le giovani Ewa Aulin, Annie Belle, Sylvia Kristel e Laura Gemser che se la dovettero vedere con le più mature e agguerrite Maria Baxa, Senta Berger, Sylva Koscina, Dagmar Lassander, Marisa Mell e molte altre.

Ci furono anche delle star internazionali che vennero a esibirsi nella commedia sexy all’italiana: Ursula Andress che restò in Italia, Carroll Baker e Joan Collins.

La commedia all’italiana aveva generato i suoi diversi sottogeneri fra i quali quello che definirei lo storico addomesticato, ovvero film di ambientazione storica con molte libertà narrative che veicolavano la creativa di autori che avevano molto da dire; fra questi film si annoverano: “L’armata Brancaleone” del 1966 di Mario Monicelli, il “Satyricon” del 1969 di Federico Fellini e il “Decameron” del 1971 di Pier Paolo Pasolini. E furono film, ognuno sperimentale e inventivo a suo modo, il cui successo generò scopiazzature e parodie che vanno a comporre il sottogenere decamerotico o boccaccesco della commedia sexy. Ma c’è da dire che lo sfruttamento commerciale del fenomeno coincise all’epoca con le rivoluzioni in atto sul piano sociale, culturale e politico: con quei film avvenne una riappropriazione popolare di quei testi del Trecento e Quattrocento italiano che il retaggio scolastico borghese aveva fin lì tenuto sugli scaffali in alto perché ritenuti troppo licenziosi e dunque temuti come eversivi dai poteri alti, Stato e Chiesa; testi che veicolando un messaggio di libertà sessuale furono gettonatissimi in quegli anni di contestazione: nuovi vangeli senza chiesa e senza stato. Dell’immediato 1972 sono i primi sensazionali film di sottogenere: “Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda” di Mariano Laurenti “Quando le donne si chiamavano madonne” di Aldo Grimaldi e a cascata venne tutto il resto. Gli altri sottogeneri furono le poliziotte, le caserme, le dottoresse e le infermiere, la scuola, la famiglia e tutta la serie di Pierino con Alvaro Vitali che insieme ai matti e ai carabinieri affollano il filone dei film barzelletta. Senza dimenticare che molti di questi film sexy erano a episodi, più o meno scollacciati e più o meno d’autore.

La produzione dei film erotici d’autore pur rallentando è sempre viva in sottotraccia in tutta la cinematografia internazionale, di cui l’ultima sperimentazione è quella del danese Lars Von Trier che essendo recidivo aveva già mostrato il sesso senza censure in “Idioti” del 1998, in “Antichrist” del 2009 e nel soporifero dittico “Nimphomaniac” del 2013, che quell’anno in fatto di scandalo e creatività d’autore restò indietro a “La vita di Adèle” del franco-tunisino Abdellatif Kechiche che con le sue scene di sesso lesbico si aggiudicò ben tre Palma d’Oro al Festival di Cannes: all’autore e alle due protagoniste Adèle Exarchopoulos e Léa Seydoux; e vale la pena commentare che benché acclamato da tutta la stampa con l’eccezione del conservatore Le Figaro, è stata criticata la scena di sesso eterosessuale perché si intravede l’erezione di Jérémie Laheurte, paventando addirittura la pornografia: perché permane l’ipocrita voyeurismo dei maschi etero che ben sopportano la visione di due donne che fanno sesso ma che si scandalizzano se davanti agli occhi gli balena un cazzo ancorché per un secondo. Anche il francese Patrice Chéreau con “Intimacy” ha filmato il suo sesso esplicito d’autore nel 2001 vincendo l’Orso d’Oro al Festival di Berlino, e pure l’inglese Michael Winterbottom con “9 songs” nel 2009 ha fatto il suo film erotico senza censure.

Restando sull’argomento cazzi al vento ci sono poi film che pur non inserendosi nel filone erotico improvvisamente sbandierano erezioni d’autore, anzi d’attore, guadagnandosi la collocazione d’ufficio nel genere erotico: Vincent Gallo nel suo “The Brown Bunny” del 2003 si fa fare un estemporaneo pompino da Chloë Sevigny; Elio Germano esibisce la sua serissima erezione nel serissimo “Nessuna qualità agli eroi” del 2007 di Paolo Franchi; mentre nella già anche troppo scanzonata commedia “Libera uscita” del 2011 di Peter Farrelly al protagonista Owen Wilson viene sventolata in faccia l’erezione nera di un figurante.

Il nudo femminile è rassicurante, direi quasi ecumenico, perché se l’attrice è su di giri lo sa solo lei ma per gli attori è un altro discorso: l’erezione al cinema la concepiamo solo nei porno e veder sbandierata l’intimità erotica di attori famosi o meno è il superamento di uno steccato che molti sperimentatori auspicano: far cadere la separazione fra il genere porno e il mainstream. Del resto una semplice erezione, non in attività diciamo così, perché dovrebbe essere considerata esclusivamente pornografica? Così se ogni tanto capita di vedere improvvise erezioni a sorpresa, come uno di quei pupazzi a molla, Jack in the Box, che può divertire o fare paura, be’ non è niente di che: è solo pura evasione. O pura eversione.

Il giardino dei Finzi Contini – Fascismo e Resistenza nel cinema d’autore

Sarò controcorrente: secondo me questo film non è fra i migliori di Vittorio De Sica. Tratta un argomento importante, è vero, è tratto da un importante romanzo, è altrettanto vero, ed ebbe grande successo anche oltreoceano dove notoriamente sono assai sensibili riguardo al tema dell’ebraismo: il film negli Stati Uniti si aggiudicò l’Oscar come miglior film straniero ed ebbero la candidatura per la miglior sceneggiatura non originale Ugo Pirro e Vittorio Bonicelli; e poi candidatura al Grammy per la musica di Manuel De Sica, figlio maggiore del regista, qui alla sua terza colonna sonora; Vittorio De Sica vinse anche l’Orso d’Oro a Berlino e il britannico BAFTA dove ci fu la candidatura di Ennio Guarnieri per la miglior fotografia. Premi in Italia: David di Donatello come miglior film e David Speciale al protagonista Lino Capolicchio; Nastro d’Argento a Romolo Valli come miglior attore non protagonista e a Giancarlo Bartolini Salimbeni per la miglior scenografia; e per finire Globo d’Oro a Fabio Testi come miglior attore rivelazione. Elencati per dovere di cronaca premi e riconoscimenti specifico che nel mio essere controcorrente sono in buona compagnia perché all’epoca non tutta la critica fu d’accordo nell’elogiare il film e Morando Morandini sul quotidiano milanese “Il Giorno” scrisse che era eccessivamente melenso. Be’ lo è.

Secondo me questo stile, melenso per Morandini, eccessivamente patinato aggiungo io, non è in linea con la miglior produzione di De Sica che nasce nel neorealismo e anche quando si trasforma in commedia mantiene certe radici veristiche e veraci, popolari e popolane, mentre la vita agiata di questa oziosa famiglia altoborghese, tutti leccati in abiti fra il bianco e il color crema, non appartiene al regista e dunque la racconta per luoghi comuni dove la quotidianità si fa cicaleccio e birignao: una leggiadria certo necessaria a far risaltare la tragedia incombente delle persecuzioni nazi-fasciste, ma non fosse stato per il risvolto drammatico questo ritratto di famiglia in un esterno sarebbe potuto diventare parodia: i Finzi-Contini, con trattino come nel romanzo di Giorgio Bassani, che sono “altro” nella comunità ebraica della Ferrara dell’epoca, restano “altro” anche nella cinematografia di De Sica.

Già l’inizio è imbarazzante dal punto di vista sonoro: Livia Giampalmo, che effettivamente era agli inizi in sala di doppiaggio, doppia Dominique Sanda quasi facendo il verso alle querule doppiatrici d’antan delle sofisticated comedies hollywoodiane, come dandosi un tono perché sta dando voce a una signorina di buonissima famiglia: stonatissima e fasulla; più avanti ci si fa l’orecchio, giocoforza, ma arriva subito anche il doppiaggio altrettanto stonato di Roberto Del Giudice che dà voce a Helmut Berger: l’atmosfera generale è che stiano giocando a fare le persone fini.

Alessandro D’Alatri, recentissimamente morto 68enne dopo una lunga malattia, recita nel film il ruolo del protagonista da adolescente, ma aveva debuttato 14enne l’anno prima da protagonista nel piccolo film di avventura e formazione (di cui non rimane traccia) “Il ragazzo dagli occhi chiari” di Emilio Marsili (due soli film nel portfolio e anch’egli sparito senza lasciare traccia) e poi in Rai con un piccolo ruolo nella miniserie “I fratelli Karamazov” diretta da Sandro Bolchi, dopodiché smette di recitare e da giovane adulto negli anni ’80 è al top come regista di pubblicità, debuttando come regista cinematografico solo nel 1991, 36enne, con “Americano Rosso” che gli varrà il David di Donatello come miglior regista esordiente; era una commedia sentimentale guarda caso ambientata nel 1934 con lo stesso entroterra fascista di questo film di De Sica cui resta legato il suo nome come giovane attore. Nel ruolo di Micol da giovane c’è l’ex attrice bambina Cinzia Bruno che aveva debuttato a tre anni proseguendo la carriera di giovane attrice anche in radio e nel doppiaggio ma per un problema alle corde vocali ha dovuto abbandonare la carriera artistica ed ha aperto un’agenzia di viaggi.

Proprio per il ruolo di Micol, De Sica aveva seriamente considerato Patty Pravo ma non se ne fece niente perché Patty era troppo impegnata, era appena arrivata al successo con “La bambola” (canzone che odiava perché dava l’immagine di una donna totalmente dipendente dall’uomo), inoltre la sua casa discografica stava battendo il ferro ben caldo: in quel 1970 era al successo con “La spada nel cuore” e poiché stava costruendosi una brillante carriera come cantante non volle distrarsi col cinema, tanto che in seguito rifiutò anche “Professione: reporter” di Michelangelo Antonioni: oggi se ne dice pentita. Però l’anno prima aveva doppiato Jacqueline Kennedy nel documentario di Gianni Bisiach “I due Kennedy”.

Alla sceneggiatura del film, come detto firmata da Bonicelli e Pirro, inizialmente partecipa anche l’autore del romanzo, Giorgio Bassani, che però abbandona il progetto per insanabili divergenze col regista, tanto da chiedere, e ottenere, che il suo nome venisse tolto dai titoli. Pare che il punto di rottura fu l’esplicitazione nel film della relazione fra Micol e il comunista milanese Malnati, che nel romanzo è solo accennata da Giorgio che è l’io narrante. E non si può dire che per lo scrittore sia stato il capriccio autorale di uno che non comprende le esigenze cinematografiche, perché egli stesso era da tempo attivo sia come soggettista che sceneggiatore, per non dire che aveva anche doppiato Orson Welles diretto da Pier Paolo Pasolini nell’episodio “la ricotta” del film “Ro.Go.Pa.G.”.

Lino Capolicchio è il protagonista Giorgio, nome autobiografico dell’autore che in qualche modo si rispecchia nel personaggio, ebreo come lui, che narra le vicende reali di una famiglia ferrarese cui nel romanzo sono stati cambiati i nomi (tranne quello del cane Jor) e alcuni dettagli: da qui forse il suo attaccamento a certi passaggi della sua narrativa che nel film non sono stati rispettati. Micol è interpretata dall’ex modella francese Dominique Sanda che dopo un’intenso debutto il patria con Robert Bresson che la diresse in “Così bella, così dolce”, subito viene adottata dai cineasti italiani a quell’epoca sempre affascinati dalle bellezze straniere, tanto c’era il doppiaggio: lo stesso anno gira con Bernardo Bertolucci “Il conformista” e si avvia a una carriera in film d’autore con personaggi tormentati e ambigui. Oggi è una bella signora 71enne che si dedica principalmente al teatro. Mentre ricordiamo che Capolicchio è morto 79enne lo scorso anno: la sua scomparsa ha creato un’impennata di visioni di questo film che fino a quel momento era in chiaro su Sky Cinema e che dopo la sua morte è passato a pagamento su Sky Primafila per sfruttare commercialmente la grande richiesta, e infine scompare del tutto; oggi è visibile a pagamento su Prime Video. Restaurato nel 2015 è reperibile in chiaro su YouTube una vecchia versione per il mercato anglofono con titolo e sottotitoli in inglese.

Ferrara, con Roma e Venezia, era una delle città con maggiore popolazione ebraica, e anche dopo la chiusura del ghetto in epoca fascista rimase un importante centro per la comunità, tanto che alle prime restrizioni vi confluirono ebrei da altre province pensando di trovare un ambiente più favorevole grazie alla presenza del deputato fascista ferrarese Italo Balbo e del suo amico Renzo Ravenna che fu uno dei due soli ebrei (l’altro fu il triestino Enrico Paolo Salem) a ricoprire il ruolo di podestà, fino all’emanazione delle leggi razziali che non risparmiò neanche loro. Ferrara dunque fu un centro nevralgico che anche il regista ferrarese Florestano Vancini racconterà nei suoi film.

Il giardino del titolo è quello della villa che realmente a Ferrara, e poi nel romanzo e infine del film, divenne ritrovo e porto franco per tutti gli ebrei e chiunque altro fosse inviso al regime fascista che aveva cominciato le persecuzioni e le restrizioni sociali; metafora di un sogno bello e impossibile che la realtà andrà a dissacrare. Romanzo e film raccontano come la comunità ebraica non si rese conto di quanto stava accadendo; ci fu chi reagì cercando di mimetizzarsi e si iscrisse al Fascismo, come il suddetto podestà della città e come il padre del protagonista interpretato da Romolo Valli, chi davvero senza poter comprendere, perché si era tutti italiani e da secoli, a memoria umana, non c’erano più state divisioni per ragioni religiose e men che meno razziali. Come detto a Romolo Valli, gran signore del teatro sempre in ruoli di supporto al cinema, è andato il riconoscimento del Nastro d’Argento. A Fabio Testi nel ruolo di Malnate è andato il Globo d’Oro come unico premio in una lunga carriera iniziata appena quattro prima come controfigura sul set di “Il buono, il brutto, il cattivo” di Sergio Leone che in seguito gli affida un ruolo in “C’era una volta il west” che però taglia in post-produzione perché non ottimale; ma è un aitante belloccio e dopo una serie di piccoli ruoli è protagonista in un paio di film di serie B; è qui alla sua prima occasione in un film importante e l’industria cinematografica che sta puntando su di lui lo premia per sdoganarlo fra quelli che contano. Conclude il cast dei ruoli principali l’altro bello e possibile già ex modello austriaco Helmut Berger che Luchino Visconti aveva diretto proprio come ragazzaccio austriaco in un episodio del film “Le streghe” e che lancerà come protagonista in “Ludwig” un paio d’anni dopo.

Curiosità letteraria, nel romanzo c’è un prossimamente: Giorgio racconta a Malnate di un’episodio accaduto in città poco tempo prima, che riguarda un otorinolaringoiatra coinvolto in uno scandalo omosessuale per il quale si tolse la vita; nomina il personaggio come Athos Fadigati, personaggio protagonista di un altro romanzo al quale stava lavorando: “Gli occhiali d’oro” che con la regia di Giuliano Montaldo diverrà film nel 1987. Una lettura integrale del romanzo “Il Giardino dei Finzi-Contini” a più voci, è stata realizzata dalla Rai di Torino, e poi una riduzione radiofonica e andata in onda su Radio 3. La New York City Opera e il National Yiddish Theatre Folksbiene ne hanno realizzato lo scorso anno un adattamento operistico presso il Museo del Patrimonio Ebraico di Manhattan.

I pugni in tasca – opera prima di Marco Bellocchio

Il film completo

1965, il ’68 è dietro l’angolo, e Marco Bellocchio realizza questo suo primo lungometraggio dando voce a disagi assai personali, senza sapere che stava realizzando un manifesto sociale: il suo malessere è lo stesso di tanti suoi coetanei che scenderanno per le strade a manifestare un diffuso disagio per una società fatta di schemi prestabiliti ancora radicati su vecchi modelli antecedenti il secondo conflitto mondiale se non addirittura ottocenteschi, che spingeranno la massa della nuova forza lavoro, studenti e operai, cui si affiancheranno gli intellettuali, verso la rottura con le rigide tradizioni, Dio Patria Famiglia, attraverso il comunismo l’anarchismo e il nichilismo.

“Volevo raccontare una storia molto personale, nella quale potessi riconoscermi. Pensai a un tema che aveva attraversato la mia adolescenza, quell’aspetto infelice della vita di famiglia in cui alcuni, soprattutto mio fratello Paolo, distruggevano ogni possibilità di gioia, obbligandomi a nascondermi. In partenza c’era il protagonista, che vuole restare in famiglia e dominarla eliminando i fratelli ‘imperfetti’ o improduttivi. Poi ho costruito gli altri personaggi, in particolare la madre. Alcune cose venivano dalla mia famiglia, altre erano frutto di fantasia. Ho attinto anche alla mia cultura, un po’ al surrealismo, un po’ alla letteratura, un po’ a quel che era diventata la mia vita. La storia è nata così. Sapevo anche di dover realizzare un film piuttosto intimo, perché i soldi erano pochi. Quindi il grosso del film andava girato all’interno di una casa. Si partì in modo tradizionale, proponendo il progetto a piccoli produttori e distributori, ma nessuno ne voleva sapere. Per le riprese avevamo preventivato venti milioni di lire. Andai da mio fratello: la sceneggiatura non gli piaceva, ma mi lasciò una parte del nostro patrimonio e ottenne un prestito bancario. Così mi ritrovai a essere di fatto produttore del film, con Doria come produttore esecutivo. Non era un grosso budget, anche se oggi si realizzano opere prime con ancor meno. Il soggetto dei ‘Pugni in tasca’ l’ho scritto a Londra, dove ero andato forse perché non sapevo bene che fare (frequentai dei corsi di cinema di Thorold Dickinson, era questa la scusa, con una piccola borsa di studio). L’idea del soggetto era la condensazione di fantasticherie di anni, di tutta una storia di solitudine dentro la famiglia. Eravamo testimoni, io e i miei fratelli, di una follia cui nessuno poteva mettere rimedio, e che veniva subita con reazioni nostre sempre uguali. Dalle fantasticherie di allora nacque un intreccio, crebbero dei personaggi. Poi naturalmente la storia si sviluppò diversamente, quando doveva diventare un film e ancora mentre il film veniva girato.” Bellocchio ha poi raccontato la sua famiglia nel documentario autobiografico “Marx può aspettare”.

In questo suo primo film la figura paterna è assente (come suo padre già morto da anni) e la figura materna, che come quella reale è una fervente cattolica che negli anni ha accumulato una collezione della rivista Pro Familia che vedremo nel film, è una donna cieca, simbolicamente cieca verso i bisogni e la natura dei figli, e narrativamente funzionale al racconto che l’autore sviluppa. I quattro figli sono altrettanto simbolicamente e sinteticamente sviluppati dalla sua realtà familiare: Leone, il piccolo, è un disagiato mentale che soffre anche di epilessia, il male di famiglia di cui soffre anche Alessandro su cui s’incentra il racconto, e il maggiore Augusto è quello che ha assunto, com’era d’uso, il ruolo di capofamiglia in assenza del pater familias: è l’unico che lavora e ha una sana vita sociale, va anche a puttane come tutti i maschi esempio cardine della società, mentre gli altri tre oziano in casa fra claustrofobie reali e mentali in cui si acuiscono i disagi e le tare latenti. “In quella villa sono tutti malati” è una battuta del film.

E la villa che fa da set è la casa dell’eredità materna fuori città dove i Bellocchio andavano in estate. Una casa in cui sono del tutto assenti la radio e soprattutto la televisione con la Rai che aveva avviato le trasmissioni ufficiali dieci anni prima, e l’apparecchio era ancora un bene di lusso da tutti ambito; così nella famiglia che Bellocchio mette insieme, la sera si legge ancora un libro o si gioca a carte, come non è inusuale ascoltare dischi di musica classica. In questa famiglia-tipo, provinciale benestante e oziosa, a mio avviso la figura meno definita è quella di Giulia, l’unica sorella, come se Bellocchio non sapesse come raccontare il mondo femminile, e ne fa un’entità indistinta, sottomessa, donna e bambina, che legge l’Almanacco Topolino e ha sulla testiera del letto la fotografia di Marlon Brando in “Fronte del porto”, una donna-bambina alternativamente tentata dal machismo di Augusto e dall’inafferrabile inconsistenza di Alessandro, Ale o Sandro, che però prende una posizione ed esprime il suo punto di vista solo nel finale.

In quei primi anni ’60 era arrivata dalla Francia la Nouvelle Vague, la nuova ondata, anch’essa nata da movimenti giovanili con l’intento di rifondare la narrativa cinematografica francese che sul finire degli anni ’50, in risposta a una crisi sociale interna, era diventata estremamente moraleggiante con situazioni e personaggi e dialoghi molto idealizzati e poco realistici; così una nuova generazione di registi, tutti intorno ai vent’anni, cominciano a girare film a basso costo e con mezzi di fortuna, nelle case private o per strada, come una sorta di diario intimo collettivo che esprime, insieme alla sincerità, la loro giovanile inquietudine. I nome di quei ventenni sono Claude Chabrol, Jean-Luc Godard, Jacques Rivette, Éric Rohmer, François Truffaut… Così anche da noi si avviarono delle produzioni che promuovessero dei nuovi debutti, e se da un lato ci fu l’opera prima, nonostante quasi quarantenne e già poeta e intellettuale affermato, di Pier Paolo Pasolini con “Accattone”, avevano debuttato anche Elio Petri con “L’assassino”, i Fratelli Taviani in co-regia con Valentino Orsini firmarono “Un uomo da bruciare” e l’opera seconda estremamente politica “Prima della rivoluzione” di Bernardo Bertolucci che ancora più giovane di Bellocchio aveva debutta con “La commare secca” sotto l’egida di Pasolini. Tutte produzioni ed esperimenti meritevoli di attenzioni ma che al botteghino non ebbero l’esito sperato, così quando Bellocchio fu pronto per presentare il suo progetto, nei produttori non c’era più l’entusiasmo dei primissimi anni ’60.

Enzo Doria

“Per mesi ho cercato insieme a Doria persone che potessero partecipare con dei quattrini al progetto. Non le abbiamo trovate. Allora i miei fratelli, Tonino e Piergiorgio, hanno chiesto un piccolo prestito alla banca e l’hanno garantito. Il prestito era di circa 20 milioni e con questi venti milioni è stato fatto il film. Loro erano convinti di perdere questi soldi, ma che comunque valesse la pena di perderli anche perché erano un mio diritto patrimoniale, dal momento che mancando mio padre io ero padrone di alcuni beni immobili, nessuno mi regalava niente. I produttori non accettavano il progetto perché ritenevano la storia incredibilmente scadente, non vendibile.” Enzo Doria racconterà: “Io venivo da Genova, ero a Roma già da qualche anno, dove avevo fatto il Centro Sperimentale con Bellocchio. Ho cominciato come attore, poi ho fatto l’aiuto regista, un po’ di edizione e casualmente il produttore, perché non avevo nessun altro sbocco. ‘I pugni in tasca’ è stato scritto a Londra, dove eravamo andati tutti a studiare l’inglese. Mi è piaciuto il tipo di storia, in quanto anche la mia famiglia viene dalla zona collinosa fra l’Emilia e la Liguria. Anch’io ho avuto strane storie in famiglia, tabù di malattie e cose del genere. Mi ha affascinato questa storia anche perché andando su da lui, da Bellocchio, dove poi abbiamo girato il film, ho visto questa villa isolata con degli alti cipressi intorno che rendono il posto protetto e solitario. È stato faticosissimo trovare una distribuzione. Nessuno capiva perché volevamo fare questo film.” Per lui questa sarà la prima impresa produttiva che gli varrà il Nastro d’Argento e produrrà i debutti di Silvano Agosti e di Salvatore Samperi. Mentre Tullio Kezich, critico e sceneggiatore, a quei tempi anche produttore, racconterà: “Al culmine della mia carriera di direttore artistico della società cinematografica 22 Dicembre, non partecipai a un’impresa che mi avrebbe dato gloria imperitura. All’epoca il fatto di aver realizzato fra l’altro un paio di film di Olmi, ‘I basilischi’ (1963) di Lina Wertmüller e ‘II terrorista’ (1963) di De Bosio attirava nei nostri uffici tutti gli esordienti del cinema italiano, incluso il giovanotto ad honorem Roberto Rossellini con il quale allestimmo ‘L’età del ferro’ (1964). E così in mezzo a tanti altri si presentarono un giorno, con l’aria di darsi coraggio reciprocamente, due timidi. Mi sottrassi alla loro vista barricandomi nella mia stanza (erano troppi, in quei giorni, gli illusi e i frustrati che facevano perdere tempo) e dopo un po’ mi raggiunse il nostro brutale organizzatore dicendo: ‘Te li ho risparmiati, ringraziami, erano proprio due imbranati. Quello che vuole fare il regista, figurati, mi ha raccontato un soggetto pazzesco, la storia di uno che ammazza tutta la famiglia’. Passò molto tempo prima che mi rendessi conto di aver mandato via insalutati Marco Bellocchio e il suo produttore Enzo Doria.” La sedicente gloriosa 22 Dicembre chiuse i battenti proprio l’anno di uscita di “I pugni in tasca”.

Se le cose fossero andate diversamente il film avrebbe avuto come protagonisti la coppia nazional-popolare Gianni Morandi e Raffaella Carrà, e avrebbe certamente funzionato. Il duo Bellocchio-Doria, rendendosi conto di doversi presentarsi al botteghino con un film difficile, opera prima di uno sconosciuto, ebbe la brillante idea di coinvolgere nel cast quei beniamini del pubblico televisivo per garantirsi una più facile visibilità. Morandi aveva vent’anni, era un ex bambino prodigio che aveva cantato nelle feste e nelle sagre di paese e ormai sfornava un successo dietro l’altro, da “Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte” a “Non son degno di te” sulla scia dei quali aveva girato un paio di musicarelli. Raffa, già attrice bambina, ancora 17enne si era diplomata al Centro Sperimentale di Cinematografia ma fra cinema teatro e radio, benché lavorando molto e anche molto apprezzata, stentava ancora a raggiungere il grande successo, che le arrivò solo negli anni ’70 con la tv. Ma mentre su di lei Bellocchio ci aveva solo fatto un pensiero, con Gianni ci furono delle vere e proprie trattative: il giovane cantante voleva assolutamente fare il film ma la casa discografica con cui era sotto contratto, la RCA, glielo impedì perché quel film rischiava di rovinare la sua immagine di bravo ragazzo di successo. Fine dei giochi nazional-popolari.

“Marco Bellocchio, che stava preparandosi a girare ‘I pugni in tasca’, mi propose per la parte del protagonista. Su due piedi rimasi incerto, poi l’idea mi interessò moltissimo. Tutti mi sconsigliavano, Lionetti, il mio scopritore, in testa, la casa discografica eccetera. In effetti, era una parte del tutto opposta al mio personaggio così come si era affermato in quegli anni. Ma io la volevo fare a tutti i costi. Bellocchio mi cercava e tutti gli altri facevano il possibile per fargli perdere le mie tracce. Io però ero deciso. A quel punto, visto che non c’era altra strada, Lionetti mi affrontò e mi disse: ‘Se lo fai, ti spezzo una gamba’. La parte fu affidata a Lou Castel.”

Bellocchio aveva sognato anche interpreti internazionali come Susan Strasberg fresca di Golden Globe per “Le avventure di un giovane” di Martin Ritt; mentre per il ruolo del fratello maggiore aveva pensato al francese Maurice Ronet, anch’egli all’epoca nome di punta specializzato in ruoli di giovani borghesi ambigui e tormentati. Intanto non aveva ancora trovato il suo protagonista, per il quale aveva anche provinato senza successo il 24enne Franco Nero da un paio d’anni sul mercato cinematografico già con ruoli in cui metteva in risalto la sua prestanza fisica più che il tormento interiore che il personaggio di Bellocchio richiedeva. Fu per caso che il giovane autore si imbatté in Lou Castel, che frequentava come auditore straniero il corso di regia al Centro Sperimentale: lo vide in mensa e incuriosito dalla sua espressione assorta gli propose un provino, benché poi non fosse davvero convinto: gli sembrava troppo timido e tranquillo, e anche lento. Ma durante la prova accadde un piccolo contrattempo tecnico: l’operatore aveva dimenticato di attaccare alla presa di corrente la spina della batteria della macchina da presa, e al momento di girare, in un silenzio carico di tensione, all’ordine del regista “motore! azione!” non successe nulla; e ciò fece scoppiare la tensione accumulata da Castel in un irrefrenabile risata liberatoria, un po’ isterica, che convinse Bellocchio a dargli la parte: “È lui, è lui, è spaccato!” si era messo a gridare entusiasta. Una risata che sarà ripetuta nel film insieme a tutte le altre personalizzazioni che l’interprete apporterà arricchendo il personaggio che nella scrittura non aveva la disarmante dolcezza che gli profonderà l’interprete, rendendo ancora più agghiacciante e incomprensibile la psicopatia di Alessandro. Fu così permeante l’adesione dell’attore al personaggio che durante la lavorazione Bellocchio si adattò all’improvvisazione dell’interprete, cambiando anche le scene, e accadde pure che per le reazioni isteriche e addirittura violente di Castel più volte si dovettero interrompere le riprese, tanto che Marino Masè, nel ruolo del fratello maggiore, assai irritato arrivò a schiaffeggiare il collega, e un esempio di questo scoppio d’ira è rimasto montato in una scena del film. “Volevo diventare regista – dirà l’attore – ma poi con Bellocchio sono diventato alleato di un regista: l’attore deve fare sempre la regia interna di una scena”.

Nato Ulv Quarzéll a Bogotà da un padre diplomatico svedese e da madre irlandese ha, come Marco Bellocchio, un fratello gemello: “Ulv è ‘lupo’ in norvegese. E ho un fratello gemello di nome Björn, ‘orso’. È stata nostra madre che in seguito ha francesizzato i nostri nomi, per evitare problemi amministrativi”. Il padre, che aveva scelto quei nomi dalla natura e dalle fiabe norrene, nel privato era un sognatore e idealista, e come tale aveva deciso di trascorrere il resto della sua vita in Colombia mentre la madre, divorziando, riportò con sé i figli in Europa. Dai 6 anni Ulv frequentò dapprima i college londinesi, ma poi seguendo la madre giramondo crebbe anche in Giamaica e a New York, finché approdò in patria alla rigida Royal Sweden dove subì atti di bullismo. Intanto la madre, inquieta artista comunista, era approdata a Roma entrando nel mondo del cinema come collaboratrice a sceneggiature di autori come Federico Fellini e Mario Monicelli. Lou, 17enne lascia gli studi e va a fare il contadino in Germania, breve parentesi conclusasi per una lite col padrone – è già un giovane ribelle in linea con quello che sarà – e infine si riunisce con la madre nella Roma cinematografica. Frequenta i corsi di recitazione di Alessandro Fersen e poi entra al Centro Sperimentale di Cinematografia.

Lou Castel in “Il Gattopardo”

Aveva debuttato con un piccolissimo ruolo non accreditato in “Il Gattopardo” di Luchino Visconti, il quale avendolo notato gli chiese di restare oltre le riprese, per conoscersi meglio, ma il ragazzo rispose che aveva fatto le sue otto ore per avere la sua busta paga e se ne andò, sempre insofferente irriverente e sovversivo, voltando forse le spalle a un altro tipo di carriera. “I pugni in tasca” sarà il suo vero debutto cinematografico nel quale, pur recitando in italiano, per il suo forte accento straniero verrà doppiato da Paolo Carlini. Continuerà con una bella carriera nel cinema italiano, lavorando con Damiano Damiani, Carlo Lizzani, Liliana Cavani, e infilando un altro successo con “Grazie zia” del debuttante Salvatore Samperi; fino alla sua espulsione dall’Italia nel 1972 come indesiderato per la sua militanza nell’estrema sinistra in un’Italia fortemente democristiana: fu portato quasi a braccetto dai militari su un aereo che lo riportò a Stoccolma dove non conosceva più nessuno, e da lì comincia un’altra carriera, più internazionale, anche tornando clandestinamente in Italia: fondamentalmente è un individuo poliglotta e senza patria.

Anche Paola Pitagora, di due anni più grande di Lou, ha frequentato i corsi di Fersen e il Centro ed è un’attrice emergente, pure in teatro, molto eclettica: comincia come presentatrice alla Rai e scrive anche canzoncine di successo per lo Zecchino d’Oro ed è proprio con la sua partecipazione a questo film che s’impone definitivamente all’attenzione di critica e pubblico; all’inizio aveva pensato di rifiutare per le situazione crude e sul piano morale anche scabrose, ma fu l’allora fidanzato, il pittore e attore Renato Mambor, a convincerla ad accettare. Un paio d’anni più tardi diventerà beniamina del pubblico televisivo come Lucia in “I Promessi Sposi” di Sandro Bolchi. Il belloccio Marino Masè è il fratello maggiore, l’unico la cui vita ha un senso nel sentire dell’alienato Alessandro; l’attore, scomparso 83enne nel maggio di quest’anno, anch’egli figurante nel Gattopardo viscontiano, era appena stato protagonista per Jean-Luc Godard nel controverso “Les Carabiniers” e si avvierà anche a una brillante carriera internazionale. La madre cieca è interpretata dalla caratterista napoletana Liliana Gerace, mentre il figlio piccolo è interpretato dall’attore per caso Pier Luigi Troglio, eclettico personaggio che sarà poi storico scrittore e filantropo nella sua nativa Bobbio, patria anche di Bellocchio, dove è poi stato segretario della Democrazia Cristiana locale; e l’intero cast partecipò al film solo con un rimborso spese. Per il cast tecnico, il compagno di corso dell’autore Silvano Agosti si occupa del montaggio, ma si fece mettere nei titoli col nome di un suo amico, Aurelio Mangiarotti, probabilmente perché non intendeva accreditarsi come montatore dato che lui stesso aveva studiato regia e avrebbe presto debuttato sotto l’egida del medesimo produttore e assicurandosi pure il divo francese che era sfuggito all’amico Bellocchio. E come per il suo cortometraggio di debutto anche per questo primo lungometraggio il nuovo giovane autore si assicura il commento sonoro di un grande professionista, Ennio Morricone. All’inizio il titolo del film avrebbe dovuto essere il più semplice ed esplicativo “Epilessia”, poi si pensò a “L’età verde” e infine venne cambiato col più evocativo “I pugni in tasca” per dire della rabbia repressa, nascosta, compressa; senza sapere – è la magia dell’ispirazione – che quel titolo era l’inconsapevole citazione di un altro ribelle, Arthur Rimbaud, nella sua poesia “La mia bohème (fantasia):

Me ne andavo, i pugni nelle tasche sfondate;
E anche il mio cappotto diventava ideale;
Andavo sotto il cielo, Musa! ed ero il tuo fedele;
Oh! quanti amori splendidi ho sognato!
 
I miei unici pantaloni avevano un largo squarcio.
Pollicino sognante, nella mia corsa sgranavo
Rime. La mia locanda era sull'Orsa Maggiore.
- Nel cielo le mie stelle facevano un dolce fru-fru
 
Le ascoltavo, seduto sul ciglio delle strade
In quelle belle sere di settembre in cui sentivo gocce
Di rugiada sulla fronte, come un vino di vigore;
 
Oppure, rimando in mezzo a fantastiche ombre,
Come lire tiravo gli elastici
Delle mie scarpe ferite, un piede vicino al cuore!

Una copia del film appena montato ma senza la post produzione, dunque incompleto di musiche e col sonoro imperfetto della presa diretta, venne presentata alla commissione di ammissione al Festival di Venezia, che la rifiutò; ma in seguito vinse il Premio Città di Imola attribuito a opere che rappresentassero la provincia italiana e vinto in precedenza da Pier Paolo Pasolini, Ermanno Olmi ed Eriprando Visconti; per gratitudine Marco Bellocchio girò a Imola il suo secondo lungometraggio “La Cina è vicina”. Vinse poi il Nastro d’Argento per il miglior soggetto e la Vela d’Argento a Locarno per la miglior regia. Dopodiché fu distribuito anche in Francia (Les poings dans les poches), nella Germania Occidentale (Mit der Faust in der Tasche), Regno Unito e Stati Uniti (Fist in His Pocket).

Dal punto di vista formale il film risente ancora del morente neorealismo ma si fa nuovo psicodramma e sicuramente attinge alla Nouvelle Vague, senza una precisa trama però, con scene e moduli che si ripetono come cercando di risolvere un puzzle in cui mancano dei pezzi, in cui la narrativa è l’assurdo assunto del protagonista: liberare il fratello maggiore, l’unico individuo sano e produttivo, dal fardello di una famiglia malata. Un orrore venato di sarcasmo quanto d’inquietante disarmante dolcezza che ancora oggi rende il film uno spettacolo esemplare, nonostante tutti gli orrori più espliciti cui ci ha assuefatti la cinematografia moderna: se lo si guarda in cerca di forti emozioni il film è datato, ma ai suoi tempi dev’essere stato davvero angosciante perché era ancora (per poco) l’epoca di un cinema rassicurante dove l’istituto della famiglia era un caposaldo indiscusso. Oggi i nostri ragazzi sterminano la famiglia per ripicca, per la paghetta, per accedere subito a una risibile eredità, mentre l’antieroe di Bellocchio si fa esecutore materiale di un malessere collettivo, narrativamente simbolizzato nel suo individuale, che sta per spazzare via le rassicuranti ma già marcescenti idee di Dio Patria e Famiglia.

Number One – instant movie del 1973 su uno scandalo di cocaina, jet-set, servizi segreti e terrorismo

“Un’inchiesta cominciata nel cesso non può che finire nella merda.” La notevolissima battuta è attribuita a uno dei tanti avvocati difensori del bel mondo che fu coinvolto nello scandalo del night-club romano Number One, sito in via Lucullo a pochi passi da quella Via Veneto dove si era consumata la Dolce Vita raccontata da Federico Fellini, scandalo cui seguì un’inchiesta assai paparazzata che nel 1971 vide sfilare davanti agli inquirenti ben 25 esponenti di quel jet-set, quelli che oggi chiamiamo sia vip che svippati, che nell’intimo – si fa per dire – cesso del locale citato dall’avvocato sciavano su piste di cocaina, e che poi nell’aula del tribunale scivolarono su accuse e querele reciproche perché erano tutti innocenti e la colpa era sempre di un altro.

Il playboy Gigi Rizzi con la sua conquista Brigitte Bardot e l’amico Johnny Hallyday al Number One

Alla fine degli anni Sessanta avevano aperto in Italia i primi night-club sull’esperienza di come ci si divertiva all’estero: quelli che viaggiavano, e che dunque avevano soldi e tempo da spendere, volevano trovare sotto casa lo stesso tipo di divertimento e le metropoli italiane si adeguarono: a Roma la dolce vita cedette il passo alla mala vita della nascente Banda della Magliana cui facevano da sfondo i servizi segreti deviati e corrotti; il Number One fu fra i night più in voga, gestito nell’illegalità delle connivenze e con l’inventiva tutta italiana nell’aggirare restrizioni e divieti, e tanto per dirne una: nei suoi documenti contabili il locale era dichiarato come un semplice ristorante vegetariano per smussare la mannaia fiscale; ne era proprietario l’imprenditore e, va da sé anche playboy, Paolo Vassallo, che però stava sempre sul chi vive, pover’uomo, perché sapeva di che pasta erano fatti i suoi occulti compagni d’impresa, e perciò sapeva pure che il suo locale poteva avere vita breve restando vittima di vendette incrociate: in molti bar e ristoranti e night andarono in scena risse di facinorosi come pezzi di teatro il cui scopo era far chiudere i battenti, oppure furono definitivamente incendiati da ignoti alla legge ma ben noti alle vittime. Nel Number One si materializzò tutto questo.

È difficile districarsi in quelle vicende perché i lati oscuri sono tanti e tanti rimasero anche all’epoca. Di sfuggita bisogna ricordare che l’anno prima, era il 1970, erano stati arrestati per possesso e spaccio di droga l’attore Walter Chiari e il musicista entertainer Lelio Luttazzi, e a seguire il francese Pierre Clémenti. Era il decennio in cui si sarebbero costituite le cellule terroristiche e in una decina d’anni avremmo avuto: nel 1969 la strage di Piazza Fontana presso la Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano, nel 1970 la strage di Gioia Tauro, nel 1972 la strage di Peteano a Gorizia, nel 1973 la strage in una questura sempre a Milano, nel 1974 la strage di Piazza della Loggia a Brescia, sempre nel ’74 la strage del treno Italicus diretto da Roma a Monaco di Baviera, nel 1976 la strage di Alcamo Marina in provincia di Trapani, e nel 1980 ci fu la strage alla stazione di Bologna. Solo per ricordare le stragi, ché innumerevoli furono gli attentati senza vittime o con soli feriti, o i singoli assassinii o le sole gambizzazioni.

La Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano dopo l’attentato

Fu un periodo che dall’inglese Observer venne definito “strategy of tension” secondo le carte che l’agenzia segreta inglese, l’ineffabile MI6 – l’em-ai-six di tanti film – avevano sottratto all’ambasciatore greco in Italia: si era in piena Guerra Fredda e gli Stati Uniti, in quanto guardiani del mondo, stavano mettendo in pratica nell’area mediterranea una strategia per metterci in sicurezza dall’influenza sovietica: a livello popolare si fece passare la colorita immagine dei cosacchi che venivano ad abbeverare i loro cavalli in Vaticano; di fatto destabilizzando i nostri equilibri sociali anche attraverso eventuali colpi di stato volti a instaurare governi di matrice conservatrice, destrorsa e fascista: i giovani terroristi italiani che si coinvolsero non furono altro che bassa manovalanza senza reale consapevolezza del disegno generale; i tanti innocenti che furono sacrificati negli attentati erano il danno collaterale di una politica volta alla marginalizzazione dei partiti di estrema sinistra e contemporaneamente alla criminalizzazione dell’estrema destra, i classici due piccioni con una fava che avrebbero condotto al rafforzamento dell’unica area centrista: la Democrazia Cristiana che in quella strategia della tensione sacrificò il suo esponente più possibilista, Aldo Moro.

Appena al di sopra di quel fangoso pantano, la bella vita di chi se la poteva permettere procedeva senza intoppi e anzi veniva incoraggiata, e nei nostri night-club fiumi di american whiskey scorrevano ecumenicamente insieme a fiumi di russkaya vodka e di apolide cocaina; ovviamente, non tutto essendo legale, bisognava dotarsi di opportuni soci in affari e di illecite frequentazioni: anche oggi, chi si concede una striscetta di cocaina il sabato sera, non si chiede certo chi o cosa sta finanziando. Il buon Walter Chiari, abituale consumatore, pare che finì in prigione e sulle pagine di tutti i giornali per scandalizzare il popolo bue, modo di dire che sembra provenire da un generale romano che così si era rivolto a Giulio Cesare: “Il popolo non deve pensare ma solo eseguire come fa il bove” e come mandria di bovi gli italiani del 1970 andavano pascolati con gustosissime notizie scandalistiche per distrarli da altri titoli che all’epoca comparivano su quegli stessi giornali e che riguardavano il primo processo sulla strage di Piazza Fontana. In seguito fu accertato che Lelio Luttazzi era completamente pulito: era stato coinvolto nell’inchiesta solo perché aveva ricevuto una telefonata dall’amico Walter (il cui telefono era sotto intercettazione) che gli chiedeva di chiamare un tizio per suo conto, uno che poi si rivelò essere uno spacciatore, perché lui non riusciva a prendere la linea – mentre per chiamare Luttazzi c’era riuscito: probabilmente Chiari già temeva di essere intercettato ma non pensò che avrebbe inguaiato l’ignaro Luttazzi.

L’attore si fece tre mesi a Regina Coeli e poi fu scarcerato pagando una cauzione di tre milioni di lire, nove mila euro odierni, e al successivo processo venne scagionato dall’accusa di spaccio e condannato con la condizionale per il solo uso privato della sostanza stupefacente. Mentre Lelio Luttazzi si fa 27 giorni di carcere prima di venire totalmente prosciolto ma quell’errore giudiziario gli rovinò la carriera perché perse le conduzioni della radiofonica Hit Parade e della televisiva Ieri e Oggi; espone la sua breve esperienza carceraria nel libro “Operazione Montecristo” che ispirerà Alberto Sordi per il suo “Detenuto in attesa di giudizio”. Anche il francese Pierre Clémenti finì a Regina Coeli per detenzione e uso ma dopo 18 mesi fu scarcerato per insufficienza di prove e costretto a lasciare l’Italia dopo aver dato belle prove attoriali diretto da Bernardo Bertolucci, Liliana Cavani e Pier Paolo Pasolini. Ma intanto il popolo bue era già stato allegramente condotto sui sempre verdi pascoli della disinformazione.

Gianni Buffardi con la moglie Liliana De Curtis, i due figli e il suocero Totò

In questo clima matura la vicenda del Number One. Gianni Buffardi, produttore di diversi film con Totò di cui sposò la figlia Liliana De Curtis, e che produsse anche l’opera prima di Luigi Magni “Faustina”, volle farsi autore scrivendo e dirigendo questo suo primo film che rimane anche l’unico perché morì prematuramente a causa di una leptospirosi contratta tuffandosi nel biondo Tevere. L’onesto intento è quello di fare un film inchiesta, o di denuncia che dir si voglia, sulla scia dei modelli Francesco Rosi o Elio Petri senza però neanche arrivare a sfiorarne la pregnanza. Sceneggiato su un suo soggetto da Sandro Continenza, suo collaboratore di fiducia dai tempi dei film con Totò, ma poi anche rimaneggiato su consiglio di Renzo Montagnani che gli consigliò di dare un respiro più ampio alla vicenda – forse di questo troppo ampio respiro il film soffre. L’intenzione dell’autore era inizialmente quella di attenersi rigorosamente ai fatti che riguardarono il night-club e già a quella dichiarazione di intenti si misero in moto, secondo Buffardi, delle oscure manovre per impedire la realizzazione del film: “È un film che non si dovrebbe fare perché può dare fastidio a molti, ma nonostante ciò lo realizzo ugualmente. Ritengo di essere la persona più indicata per fare questo film per vari motivi: primo fra tutti perché sono l’unico amico di Pier Luigi Torri; poi perché conosco molto bene coloro che frequentavano il Number One; quindi, perché sono stato interrogato in qualità di testimone dalla magistratura.”

Pier Luigi Torri con Marisa Mell

Pier Luigi Torri, produttore cinematografico e altro tombeur de femmes che all’epoca si accompagnava a Marisa Mell, viene indicato come la gola profonda che diede inizio all’indagine sull’allegro girotondo di bustine di cocaina, e non parve vero a paparazzi e giornalisti di buttarsi sulla vicenda, perché nella narrativa di un certo giornalismo c’è sempre l’ansia di scoprire l’illecito e l’intrallazzo nel bel mondo degli eroi patinati, i belli i ricchi i potenti, dove l’invidia di classe si fa vendetta sociale; per non dire della distrazione che veniva operata su un piano diverso: l’aula del tribunale dove sfilarono i moderni Dei dell’Olimpo era accanto a quella dove Franco Valpreda era imputato per la strage di Piazza Fontana, ma mentre lì si discuteva noiosamente di bombe e di 17 vittime innocenti, qui era un via vai di bei nomi tutti potenzialmente colpevoli di essersi divertiti troppo. All’uscita della notizia della realizzazione di quel film venne fuori che Torri, in carcere anche lui, aveva confidato ad altri due detenuti che proprio Buffardi aveva materialmente consegnato la cocaina: Torri era stato assai probabilmente manovrato con la promessa di uno sconto di pena ma l’inganno fu svelato e si prese un’ulteriore condanna per calunnia, e il produttore poteva continuare a fare il suo film, anzi no, perché subito a seguire venne accusato di estorsione dal figlio del pittore Massimo Campigli: secondo la sua denuncia, il produttore gli avrebbe chiesto 5 litografie del padre per sé e 18 milioni da versare ad alcuni “amici” per fargli riavere le 6 grandi tele, sempre paterne, e una preziosa collezione di vasi precolombiani che erano stati trafugati da ignoti dalla loro villa a Saint-Tropez. La Stampa titola: “È il tramonto della Roma ‘dolce vita’ – l’arresto del produttore Gianni Buffardi”, che secondo l’articolo firmato da Silvana Mazzocchi “entra a Regina Coeli con la camicia di seta munita di cifre ricamate in blu, come ci si recasse in visita. Nonostante tutto, il protagonista di questa storia non ha ancora capito come sono cambiate le regole della vita romana di cui lui resta uno degli ultimi misconosciuti esponenti pittoreschi.” E ancora lo apostrofa: “Gianni Buffardi, produttore cinematografico, cinquantenne, ideatore di film di cassetta, squattrinato «vitellone» della Via Veneto Anni Sessanta, poi scommettitore e trafficante di oggetti d’arte. (…) Nel mondo del cinema è sempre stato una figura di terzo piano, un produttore con scarse possibilità; ma vivendo al margine del «mondo che conta» ne aveva orecchiato i segreti.” Nei fatti Buffardi fu poi scagionato dall’accusa mossa dall’amico Torri.

Sia come sia, il produttore si fece autore cinematografico e girò il suo imperfetto e scomodissimo film, tanto scomodo che fu presto consegnato all’oblio e a tutt’oggi non è mai stato reso disponibile né in VHS né in DVD, e solo dopo decenni ne è stata rinvenuta una copia – si riteneva perduto – nei magazzini di una casa di distribuzione e così restaurato dal Centro sperimentale di cinematografia e dalla Cineteca Nazionale in collaborazione con la rete tv Cine34 dove, dopo la prima del dicembre 2021, il film ciclicamente torna in programmazione. L’opera prima e unica di Gianni Buffardi si apre subito, con accattivante e beffarda marcetta di Giancarlo Chiaramello, sul montaggio veloce di una serie di articoli giornalistici che parlavano del night-club, e subito segue un’ancora veloce sequenza di fotografie con gli esponenti di quel jet-set allora coinvolti, e fra gli altri si riconoscono in ordine sparso: Carla Gravina, Gina Lollobrigida, Monica Vitti, Florinda Bolkan, Omar Sharif, Liz Taylor e Richard Burton, le già dette Brigitte Bardot e Marisa Mell e Jacqueline Bouvier già vedova Kennedy e ancora per poco signora Onassis; e senza apparire nelle foto dei titoli del film si possono per certo aggiungere come abituali frequentatori la modella Verushka, Helmut Berger, Marina Ripa di Meana, Johnny Hallyday, Gianni Agnelli… Subito dopo la parata di foto un cartello avverte: “Fin qui la cronaca e la realtà. Ora l’immaginazione e la fantasia di un racconto, il cui eventuale riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti, è puramente casuale” solo per mettersi al riparo dalle querele ma il casuale e ben più causale.

La marcia di Giancarlo Chiaramello
Talitha Pol e Paul Getty sui Fori Romani della capitale dove erano venuti a sposarsi

Negli spettatori dell’epoca dev’esserci stato il gioco dell’indoviniamo chi è chi anche se la maggior parte dei personaggi, coi nomi cambiati, non erano noti al grande pubblico trattandosi di attricette, playboy, malviventi, affaristi, nobili e innominati; l’unico personaggio vagamente riconoscibile, anche a cinquant’anni di distanza, è il magnate americano Paul Getty III la cui bellissima moglie Talitha Pol morì per un’overdose di eroina e barbiturici, subito spacciato per un suicidio, tragico evento che dette il via a indagini degli inquirenti e sotterranei movimenti tellurici negli ambienti dell’illegalità che fecero altre vittime. Il film, assai ben documentato per la vicinanza dell’autore a quel mondo, affastella decine di personaggi fra i quali ci si perde, oggi come all’epoca, e procede seguendo le indagini di un commissario di polizia interpretato da Renzo Montagnani e di un comandante dei carabinieri che è Luigi Pistilli; alla loro lineare indagine si contrappongono i troppo disarticolati depistaggi che conducono anche a un furto di opere d’arte e altri morti ammazzati. Leo Pestelli sulla Stampa commentò: “La pellicola è documentatissima, rivela la preparazione di un naturalista. Ma noi che non fummo mai in quel luogo di perdizione, restiamo all’oscuro di troppe circostanze che qui si danno per intese, non sappiamo sostituire ai nomi falsi i nomi veri, agli episodi truccati gli episodi autentici, e insomma annaspiamo nel generico. Ma che cosa importa se intanto abbiamo assistito, sia pure di sbieco e per enimmi, alle messe nere della cafe-society romana, con polverine, morti ammazzati, lenoni, bari e dovizia di donne nude? In fatto di grosse e un po’ provincialesche emozioni, si ripigliano i soldi del biglietto.”

Nel resto del cast Paolo Malco è il magnate americano; l’ex divo dei melodrammi Massimo Serato è un editore e sarebbe bello capire chi fosse la controparte reale, Venantino Venantini è il proprietario del locale Paolo Vassallo, il romeno italianizzato Chris Avram rifà il playboy Pier Luigi Torri, Il belloccio Guido Mannari (che di sfuggita passò fra le lenzuola di Liz Taylor) fa l’altro playboy Gigi Rizzi, la teatrale Rina Franchetti impersona una principessa della cosiddetta nobiltà nera, Josiane Tanzilli che quello stesso 1973 fu la volpina in “Amarcord” di Federico Fellini qui esala l’ultimo respiro come Talitha Pol, e sfilano nei vari ruoli Howard Ross, Renato Turi, Bruno Di Luia, Emilio Bonucci, il direttore della fotografia Roberto D’Ettorre Piazzoli come gallerista, una giovanissima Eleonora Giorgi figura come attraente e compiacente arredamento del night, e per finire c’è l’ex pilota automobilistico datosi alla recitazione Guido Lollobrigida, che nella scheda info del film rilasciata da Cine34 figura solo come G. Lollobrigida facendoci illudere che nel cast ci sia sua cugina Gina: inutili scorrettezze di redazione. Luca Pallanch della Cineteca Nazionale ebbe a dire alla presentazione del film restaurato: “I protagonisti di quella oscura vicenda sono tutti scomparsi e, con loro, si è inabissato quell’effimero mondo riunito sotto le luci di una Roma by night, che non aveva nulla da invidiare alle altre metropoli del divertimento e del vizio.” Con riferimento alle indagini nel film passa l’espressione muro di gomma che decenni dopo è stata rispolverata per la vicenda dell’aereo caduto-abbattuto a Ustica nel 1980 da cui il film “Il muro di gomma” di Marco Risi del 1991.

Accattone – opera prima di Pier Paolo Pasolini

Per il suo debutto come regista cinematografico Pier Paolo Pasolini scrive una sceneggiatura che è il compendio dei suoi precedenti romanzi, per i quali, sia i romanzi che questa sceneggiatura, si avvale del fondamentale aiuto del romanissimo Sergio Citti per il glossario romanesco, perché lui era cresciuto in Friuli (ma nato a Bologna) e aveva esordito ventenne come poeta proprio con un libretto in versi friulani, “Poesie a Casarsa”, amato luogo della sua infanzia, ancora prima di laurearsi in Lettere con 110 e lode, a Bologna, dove era tornato per concludere gli studi. Intanto, mentre studiava, frequentava il cineclub dove si è appassionato ai film di René Clair, un cinema misto di realtà quotidiana abitata da gente comune e di una componente fantastica e onirica, tematiche che caratterizzeranno il cinema del futuro regista Pasolini.

Primo numero di Il Setaccio di cui Pasolini disegnò la copertina

Viveva già i suoi tormenti interiori di omosessuale in un’epoca e in un ambiente caratterizzato dagli uomini duri e puri di stampo fascista: siamo alla fine degli anni ’30. Nell’ambiente universitario comincia a frequentare il GUF, Gruppi Universitari Fascisti, i Campeggi della Milizia e, essendo un ottimo sportivo, le Competizioni Littoriali della Cultura. Aderì anche alla GIL, Gioventù Italiana del Littorio, che avviò la pubblicazione della rivista “Il Setaccio” di cui il ventenne Pasolini fu subito viceredattore, un viceredattore che entrò immediatamente in conflitto col direttore responsabile Giovanni Falzone che, benché la rivista si occupasse di arte, era molto ligio ai dettami del regime e usò la rivista come mezzo di propaganda, quella propaganda tanto a cuore ai vertici del Fascio. La rivista vivrà per soli cinque numeri.

Nell’autunno del 1942 aveva partecipato a un viaggio organizzato nella Germania nazista, affinché le gioventù universitarie dei paesi nazifascisti si potessero incontrare e confrontare – ma in Pasolini, che aveva già sviluppato una sua coscienza sociale, quell’esperienza lo condusse a riflessioni antitetiche a quelle del regime, e tornato a Bologna pubblicò sulla rivista del GUF l’articolo “Cultura italiana e cultura europea a Weimar” in cui si tracciava quello che sarà il Pasolini sempre controcorrente; e di seguito sul “Setaccio” cominciò a tracciare le linee di un programma culturale i cui principi erano quelli dello sforzo di autocoscienza e del travaglio interiore, sia individuale che collettivo, e di un’autonoma e sofferta sensibilità critica: un percorso che di fatto lo poneva già al di fuori del fascismo, ma che intimamente riecheggiava i suoi umani tormenti.

Il primo settembre del 1943 il ventunenne Pasolini fu chiamato alle armi, solo due giorni prima che l’Italia firmasse a Cassibile l’Armistizio con gli Alleati perdendo la guerra e voltando le spalle all’ex alleata Germania; ma essendo di fatto già un militare coscritto, il giovane era sottoposto alle regole dei combattenti, e appena una settimana dopo avere indossato la divisa si vide costretto a consegnare le armi agli ex alleati tedeschi: già allora, e come sempre nel corso della sua vita, Pasolini non consegnò le armi, non le consegnerà mai e vivrà sempre come sulle barricate, e all’epoca per non venire deportato si travestì da contadino tornando a rifugiarsi nella friulana Casarsa. Ma la guerra, coi suoi ultimi colpi di coda, portò una tragedia in casa Pasolini: Guido, il suo amato fratello minore che si era unito ai partigiani mentre in quel Nord Italia ancora resisteva la Repubblica di Salò, venne ucciso in quello che verrà ricordato come l’eccidio di Porzûs che verrà rievocato nel film del 1997 di Renzo Martinelli “Porzûs”. Nel 1947 Pier Paolo aderisce al Partito Comunista. Intanto si era conclusa la carriera militare del padre, che tornando da una prigionia in Kenya affetto da alcolismo e paranoie, oggi diremmo stress post traumatico da combattimento, renderà la vita difficile alla moglie e al figlio superstite al quale, lui che era stato orgogliosamente un militare fascista anche nella guardia personale di Mussolini, non perdona il voltafaccia comunista.

Nel ’49 ci fu il primo scandalo: Pier Paolo venne imputato per atti osceni in luogo pubblico avendo pagato tre ragazzi per una masturbazione collettiva, e la famiglia pagò ad ognuno centomila lire, circa due milioni e mezzo delle ultime lire in valuta di fine millennio, oppure circa mille e trecento euro attuali; ma poiché uno dei minorenni era anche minore di 16 anni, l’imputazione si aggravò in corruzione di minore, ma non essendo sopravvenuta la denuncia della famiglia dell’interessato l’accusa decadde. Ma l’infamia restò: il PCI lo espulse “per indegnità morale e politica” e, come previsto in quei casi, fu anche sospeso dall’insegnamento, professione che aveva fin lì esercitato con competenza e passione. A quel punto non gli rimaneva che l’esilio, o la fuga.

Nel 1950 si trasferisce a Roma con la madre e per le ristrettezze economiche la donna va a lavorare come cameriera. Lui trovò lavoro come insegnante in una scuola privata a Ciampino e per arrotondare andò a fare la comparsa a Cinecittà. Riprese a riscrivere i suoi lavori incompiuti, “Atti impuri” “Amado mio” e “La meglio gioventù”, ma soprattutto cominciò la stesura di “Ragazzi di vita” ispirato dalle conoscenze che via via faceva ora che stava cominciando a vivere con accettazione l’omosessualità, e con un nuovo complice amico, il poeta Sandro Penna, andava su e giù per il lungotevere in passeggiate notturne in cerca di avventure clandestine; fu così che conobbe un giovane imbianchino che, per il suo coloritissimo romanesco, lui elesse a suo dizionario vivente: si chiamava Sergio Citti.

Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano
di Pier Paolo Pasolini

Li osservo, questi uomini, educati
ad altra vita che la mia: frutti
d’una storia tanto diversa, e ritrovati,
quasi fratelli, qui, nell’ultima forma
storica di Roma. Li osservo: in tutti
c’è come l’aria d’un buttero che dorma
armato di coltello: nei loro succhi
vitali, è disteso un tenebrore intenso,
la papale itterizia del Belli,
non porpora, ma spento peperino,
bilioso cotto. La biancheria, sotto,
fine e sporca; nell’occhio, l’ironia
che trapela il suo umido, rosso,
indecente bruciore. La sera li espone
quasi in romitori, in riserve
fatte di vicoli, muretti, androni
e finestrelle perse nel silenzio.
È certo la prima delle loro passioni
il desiderio di ricchezza: sordido
come le loro membra non lavate,
nascosto, e insieme scoperto,
privo di ogni pudore: come senza pudore
è il rapace che svolazza pregustando
chiotto il boccone, o il lupo, o il ragno;
essi bramano i soldi come zingari,
mercenari, puttane: si lagnano
se non ce n’hanno, usano lusinghe
abbiette per ottenerli, si gloriano
plautinamente se ne hanno le saccocce piene.
Se lavorano – lavoro di mafiosi macellari,
ferini lucidatori, invertiti commessi,
tranvieri incarogniti, tisici ambulanti,
manovali buoni come cani – avviene
che abbiano ugualmente un’aria di ladri:
troppa avita furberia in quelle vene…
Sono usciti dal ventre delle loro madri
a ritrovarsi in marciapiedi o in prati
preistorici, e iscritti in un’anagrafe
che da ogni storia li vuole ignorati…
Il loro desiderio di ricchezza
è, così, banditesco, aristocratico.
Simile al mio. Ognuno pensa a sé,
a vincere l’angosciosa scommessa,
a dirsi: “È fatta,” con un ghigno di re…
La nostra speranza è ugualmente ossessa:
estetizzante, in me, in essi anarchica.
Al raffinato e al sottoproletariato spetta
la stessa ordinazione gerarchica
dei sentimenti: entrambi fuori dalla storia,
in un mondo che non ha altri varchi
che verso il sesso e il cuore,
altra profondità che nei sensi.
In cui la gioia è gioia, il dolore dolore.

Da lì in poi, coi suoi primi successi nonché scandali letterari, Pasolini divenne una figura centrale della cultura italiana e si avviò anche alla scrittura cinematografica collaborando alla sua prima sceneggiatura nel 1955 per il film “Il prigioniero della montagna” dell’altoatesino Luis Trenker. Seguono le collaborazioni a “Marisa la civetta” di Mauro Bolognini e “Le notti di Cabiria” di Federico Fellini, esperienze fondamentali per la sua futura discesa in campo come regista cinematografico: arriva il momento di “Accattone”. In realtà aveva già scritto una sua sceneggiatura con la quale pensava di debuttare come regista, “La commare secca”; ma per gli impegni professionali, altre sceneggiature e articoli, collaborazioni e attivismo politico, passò il progetto al figlio del poeta suo sostenitore Attilio Bertolucci, il giovane Bernardo Bertolucci, che gli farà da assistente alla regia sul set di questo “Accattone” e che aiuterà a debuttare come regista già l’anno dopo.

Propose il soggetto alla casa di produzione Federiz che il suo amico Federico Fellini aveva fondato con Angelo Rizzoli; Fellini con “Le notti di Cabiria” alla cui sceneggiatura Pasolini aveva collaborato, aveva appena vinto l’Oscar come miglior film straniero. La neo casa produttrice chiese a Pasolini di girare un paio di scene di prova, che non piacquero a Rizzoli e men che meno all’altro socio Clemente Fracassi più angosciato dai numeri che dalle visioni artistiche; ma fu Fellini a dover dire di no a Pasolini: “Fui costretto a dire Pier Paolo non la verità, ma che era meglio aspettare ma lui, intelligente com’era, capì che c’erano resistenze anche da parte mia, cosa non vera, e sorridendo con un po’ di mestizia mi disse: “Certamente non posso fare del cinema come lo fai tu”. Per fortuna incontrò subito Alfredo Bini e il loro sodalizio funzionò. Cercai di farmi perdonare quella presa di distanza, apprezzai persino esageratamente il film e soprattutto mi diedi di fare perché venisse liberato dal blocco della censura. Pasolini scrisse in quell’occasione un articolo sul “Giorno” in cui raccontava tutta la storia con onestà, con molta acutezza e anche con un po’ di umorismo, che non era da lui. In quell’articolo fui da lui battezzato come “l’elegante vescovone” per il modo in cui, con grande imbarazzo, gli diedi la notizia negativa sul film.Mi rimane il rimpianto di non averlo visto più spesso, di non aver approfittato della sua generosità, della sua cultura. E poi, forse, mi illudo, se c’era qualcuno con cui confidarsi, credo che con me l’avrebbe fatto volentieri, probabilmente soltanto per stupirmi. O anche per tentare, come qualche volta è successo, di avere un punto di vista diverso dal suo, che in qualche mondo gli si presentava sempre più atroce, indecifrabile, minaccioso. Una volta mi disse: “la verità è che tutto è caos”, ma in contrasto con questa frase che mi colpì per la sincerità beffarda che conteneva, c’era l’accettazione rassegnata e sconfitta. Aveva una sorta di dolcezza ferita che suggeriva quel fascino misterioso e segreto che ho sempre immaginato avesse Kafka.” Da un’intervista del 1992 di Rita Cirio per L’Espresso.

Così si rivolge al produttore Alfredo Bini che aveva appena debuttato come produttore di “Il bell’Antonio” dal romanzo di Vitaliano Brancati, diretto da Mauro Bolognini e sceneggiato da Pasolini, e il film finalmente si fa secondo la visione del neoregista: molti primi piani, prevalenza dei personaggi sul paesaggio e soprattutto grande semplicità. Nel ruolo del protagonista fece debuttare il fratello minore di due anni di Sergio Citti, Franco Citti, che subito a seguire girerà anche “Una vita violenta”; e se nella sua seconda interpretazione il non-attore è già più a suo agio, in questo debutto risulta davvero impacciato e come tutti gli altri interpreti presi dalla strada corre le battute senza neanche pensarle, a pappagallo, buttandole via nella fretta di liberarsene come accade a chi è impegnato in un progetto che supera le sue capacità e anche la sua comprensione. Fu doppiato da Paolo Ferrari così come Monica Vitti, già uscita dall’anonimato con “L’avventura” di Michelangelo Antonioni, doppia la moglie del protagonista, rendendo di fatto traballante la visione di Pasolini (ma non soltanto sua) secondo cui solo i non-professionisti potevano interpretare sé stessi, perché soggetti incontaminati, puri, privi delle sovrastrutture imposte dalla società: ma se bisogna ricorrere a dei professioni per farli parlare, quanto si mantiene di quella purezza e quanto si può parlare di interpretazione? penso alle vere interpretazioni neorealiste di Lamberto Maggiorani in “Ladri di biciclette” 1948, e Carlo Battisti in “Umberto D.” del 1952 entrambi diretti da Vittorio De Sica, che evidentemente sapeva come dirigere gli attori e insegnare a recitare ai non professionisti. Il meritevolissimo lavoro di Pasolini consiste soprattutto nella scrittura del film, esplosiva per l’epoca, e nella sua realizzazione precisa e pulita, senza voli pindarici stilistici; ma non essendo un attore si limita a mettere in bocca ai suoi borgatari le battute, passando al doppiaggio dove non si poteva fare altrimenti.

Il film fu presentato alla Mostra di Venezia dove ebbe un’accoglienza tempestosa, e a seguire fu il primo film italiano a essere vietato a minori di anni 18. Alla prima romana al cinema Barberini, un gruppo di neofascisti interruppe la proiezione aggredendo gli spettatori con lanci di bombette carta e di finocchi, vandalizzando la sala e arrivando a lanciare bottiglie di inchiostro sullo schermo – dando ragione a Pasolini che così li descriveva. All’uscita nelle sale di tutto il territorio nazionale, il film fu bloccato dalla censura e tutte le copie ritirate. La critica si divise ma in massima parte il film non piacque mentre in una proiezione parigina fu molto apprezzato da Marcel Carné; a seguire vinse il Primo Premio per la Regia al Festival Internazionale del Cinema di Karlovy Vary, in Cecoslovacchia; inoltre Alfredo Bini vinse il Nastro d’Argento come miglior produttore, mentre Franco Citti vinse il Laceno d’Oro al Festival del Cinema Neorealistico e l’inglese BAFTA – a dispetto del mio parere sulla sua recitazione. Nel resto del cast le non professioniste che continueranno a lavorare con Pasolini: Franca Pasut e Silvana Corsini, l’eclettica professionista Adriana Asti che sul set allacciò una relazione con Bernardo Bertolucci più giovane di lei di dieci anni, l’amica scrittrice Elsa Morante che si presta nella figurazione di una detenuta che legge fotoromanzi, e in ruoli minori lo stesso Sergio Citti come cameriere del ristorante sul barcone e il fratello più piccolo Silvio Citti nel naturale ruolo di fratello minore del protagonista. Il resto della masnada di borgatari sono volti che torneranno nel cinema pasoliniano. Archiviata questa sua prima avventura cinematografica, Pier Paolo Pasolini si ritira in una villa al Circeo, ospite di un’amica, per scrivere con Sergio Citti la sceneggiatura del suo secondo film “Mamma Roma” pensando ad Anna Magnani come protagonista.

Il film è disponibile su YouTube.

La commare secca, opera prima di Bernardo Bertolucci

1962. Il 21enne Bernando Bertolucci debutta come regista cinematografico sotto l’ala protettiva di Pier Paolo Pasolini che a sua volta aveva debuttato l’anno prima come regista con “Accattone”. Il ragazzo Bertolucci nasce bene, è figlio del poeta Attilio di cui sembra voler seguire la traccia e da Parma si trasferisce a Roma per iscriversi a Lettere a “La Sapienza”. Pubblica anche il suo primo e unico libro di poesie, che vince anche un premio, ma il caso vuole che suo vicino di casa è Pier Paolo Pasolini e il giovanotto – già cinéphile innamorato della francese “nouvelle vague” che reputa a quel momento l’unico cinema possibile (e si dà pure delle arie parlando con accento francese, come ricorda in un’intervista) – lascia l’università e la poesia per la settima arte, e fa da assistente a Pasolini che sta per debuttare come regista. Su quel set, tra l’altro, allaccia una relazione con l’attrice Adriana Asti, più grande di lui di 10 anni, che sarà poi protagonista della sua opera seconda “Prima della rivoluzione”. Ha girato solo due cortometraggi amatoriali, da adolescente, e non sa niente di cinema ma le circostanze fortuite e le fortunate stelle lo portano ad essere il più giovane regista cinematografico, come lui stesso racconta in questa intervista.

Ahilui, il film è pasoliniano. Lo scrittore-saggista-poeta ora anche regista ha già creato un suo stile e un suo genere alla prima regia. Suo il soggetto, dove continua la narrativa dei suoi primi romanzi “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta”, “suoi” i ragazzi di borgata, i ragazzi di vita presi dalla strada con quelle facce che ancora oggi diremmo “pasoliniane”, suo il romanesco – per il quale è aiutato dall’amico e sodale (anche attore e poi regista) Sergio Citti, che ha collaborato alla sceneggiatura del debuttante Bertolucci creando un romanesco quasi poetico – “aho, te fai aspetta’ più dei miracoli! – letterario e del tempo che fu, niente a che vedere col romanesco odierno assai incarognito, gutturale e biascicato dei borgatari di oggi, incattiviti dalle droghe e dal crimine che si è fatto, da scippi e borseggi, organizzato e letale: basta andare a verificare in un’altra opera prima, “La terra dell’abbastanza” dei Fratelli D’Innocenzo.

Un film pasoliniano anche a dispetto degli sforzi del giovane regista, dunque, che gira un film sempre in movimento in contrasto con le scene statiche e pittoriche di Pasolini. E questo movimento mi è saltato subito agli occhi, sin dall’inizio del film che si apre allo spazio e al movimento con una bellissima sequenza che va a scoprire il cadavere della prostituta. Un film capito poco dai contemporanei, ma anche dai posteri se consideriamo che per “Il Merenghetti”, dizionario del cinema edito nel ben più tardo 1993, il film è un esercizio di stile appesantito dalla preziosità del racconto d’autore e da uno sguardo liricheggiante che deve troppo alla volontà di fare un cinema d’autore. Beh sì, il 21enne Bertolucci ha voluto fare un cinema d’autore: chi non lo avrebbe voluto al posto suo? e a mio modesto parere ci riesce, e alla grande: dirige bene gli interpreti, muove con sicurezza – e anche arroganza? – la macchina da presa, e costruisce scene e sequenze che nulla hanno da invidiare ai professionisti di lungo corso: il ragazzo è stato baciato dalla fortuna perché la Fortuna lo aveva già scelto come futuro maestro del cinema italiano e internazionale. Qui una delle immagini che ho fotografato dallo schermo a dimostrazione del suo già indiscutibile gusto visivo.

Il film, che forse nelle prime intenzioni di Pasolini doveva essere un thriller, un’indagine su un assassinio, diventa invece – per il suo indagare nelle borgate – un’indagine sociale, un affresco sulla varia umanità che brulica ai confini della città e nel confidente buio dei parchi notturni. E la visione di Bertolucci, che segue i movimenti e lo scorrere del tempo, rafforzano e magnificano il lato umano del film. Che ha una costruzione perfetta, a capitoli: agli interrogatori, che poi si aprono ai racconti dei protagonisti, si inframmezzano i quadri privati in cui la futura vittima si prepara alla nottata che sappiamo fatale. Punti di raccordo di tutti i racconti sono un momento e un luogo. Il momento è un violento acquazzone nel primo pomeriggio che costringe i personaggi a uno fermo riflessivo, il luogo è il parco di notte in cui la prostituta batte, e in cui tutti i personaggi convergono allo stesso momento. Nella narrazione è il Parco Paolino, oggi Parco Schuster, che si estende fra la Basilica di San Paolo e la via Ostiense, allora periferia assai più estrema di oggi. E a tal proposito ho voluto indagare sul “com’era” e il “com’è” il via Trionfale 160 in cui abita il primo interrogato. Nella prima immagine il fotogramma del film, con una baracca su un montarozzo, nella seconda il Google che mostra palazzine moderne.

Il cast, benché composto sia da professionisti che non, risulta assai omogeneo, e anche questo va a merito del regista. Fra i professionisti va ricordato, in testa, Gianni Bonagura, che solo in voce interpreta il commissario che tiene gli interrogatori. Poi, ben mischiate ai volti di strada, ci sono Carlotta Barilli, Gabriella Giorgelli e Marisa Solinas.

Fra i non professionisti “con pedigree” vanno annotati il debuttante Silvio Laurenzi nel ruolo dell’omosessuale predatore in cui Pasolini dichiaratamente riscrive se stesso: un omosessuale vecchio stile come fortunatamente non ce ne sono quasi più, di quelli dediti all’esclusiva ricerca del “maschio vero”, l’immaginifico eterosessuale. Laurenzi, come i borgatari, recita se stesso recitando un copione, e si avvierà a una carriera in bilico fra quella di costumista cinematografico e macchietta gay nelle commedie sexy all’italiana; ma la sua dedizione al cinema, su qualsiasi versante si fosse espressa, nel 2009 viene premiata con la medaglia d’oro “Una vita per il cinema”.

Fra tanto romanesco di borgata il racconto esplora altri linguaggi: il napoletano, il pugliese, il calabrese, il friulano. Quest’ultimo nella figura dell’assassino, interpretato da un Renato Troiani che, in quanto friulano, viene sicuramente dal giro di Pasolini, bolognese di nascita ma veneto e friulano nella formativa infanzia. Il ruolo del militare calabrese (opportunamente doppiato) è invece affidato al volto solare dell’americano Allen Midgette, un bel ragazzone che in cerca di esperienze è arrivato in Italia col suo amico pittore Bill Morrow, a sua volta amico di Elsa Morante, e subito entrato nella cerchia di Pasolini. Dopo questa esperienza torna a New York, e come pittore ispirato dall’arte nativa americana, entra nella “Factory” di Andy Warhol, col quale gira due film; poi torna in Italia per piccoli ruoli e comparsate che l’amico Bertolucci gli propone in “Prima della rivoluzione”, “La strategia del ragno” e “Novecento”.

Il film è disponibile online diviso in due tempi in due pagine diverse sul sito dailymotion. Qui il primo tempo: https://www.dailymotion.com/video/x6yjarz. E qui il secondo: https://www.dailymotion.com/video/x6yh57v. Buona visione!