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FILM EROTICI DI EXPLOITATION E COMMEDIE SEXY – 2

QUI LA PRIMA PARTE
L’ARTICOLO CONTIENE FOTO E ARGOMENTI
CHE POTREBBERO URTARE CERTE SENSIBILITÀ

Dicevamo che il sesso al cinema esiste fin dai primordi ma il vero e proprio exploit commerciale avviene negli anni ’60-’70 riflettendo nei film la liberazione-ribellione che già avveniva nella società: erano anni in cui (semplificando molto) si è ridisegnato il modo di stare insieme in società e il modo di esprimere l’individualità anche attraverso la sessualità. Personalmente in quegli anni ’70 ero un adolescente che se da un lato non si rendeva pienamente conto di quello che gli accadeva intorno nella realtà sociale e politica, nell’intimo era però scosso da tempeste ormonali che non potevano restare indifferenti davanti a locandine cinematografiche che nei titoli avevano ammiccanti poliziotte soldatesse e liceali, infermiere e dottoresse, insegnanti e supplenti, zie nonne e matrigne, oltre a tutto l’ambaradan che si rifaceva anche solo a sfioro alla letteratura licenziosa del Tre-Quattrocento del Boccaccio e dell’Aretino.

Avevo la curiosità ma non avevo l’età, anche se in certi cinema di periferia chiudevano entrambi gli occhi; però ero un adolescente già appassionato di cinema che frequentava diversi cineclub arrivando a vedere anche tre film in un solo pomeriggio, cineclub dove si dava il caso che fra corazzate Potëmkin e retrospettive di Ingmar Bergman capitassero certi film d’autore, come il visionario Alejandro Jodorowsky o il cupo Walerian Borowczyk, che filmavano in forma autorale l’altrimenti vietato erotismo, con il secondo che sfiorava anche la pornografia – ma erano leciti film da cineclub, senza censure di stato, e lì compresi che i film erotici erano sperimentazioni d’autore, che occasionalmente potevano usare la chiave del grottesco o del surreale ma sempre concentrati sull’aspetto drammatico e torbido delle vicende: insomma i film erotici erano sempre serissimi, finivano male e il sesso era spesso mortale.

Sotto l’ampio paracadute del cinema erotico d’autore si affollarono tanti altri cineasti che produssero film erotici più seriosi che seri, più commerciali e autocelebrativi che sperimentali com’è il caso della coppia più teatrale che cinematografica Gabriele Lavia con Monica Guerritore; lei era stata avviata al genere da Salvatore Samperi, autore che aveva debuttato con il ribelle “Grazie zia” che suo malgrado divenne capostipite del cinema erotico nel sottogenere famiglia; la Guerritore ebbe dapprima da Samperi un ruolo secondario in “Peccato veniale” del 1974 per poi essere protagonista dieci anni dopo nel decisamente commerciale “Fotografando Patrizia” cui il marito regista Lavia fece subito seguire i propri “Scandalosa Gilda” e “Sensi”, sensi che poi si acquietarono un po’ per tutti perché il genere aveva ormai fatto il suo tempo e l’erotismo si spostava verso la più scanzonata e anche becera commedia sexy all’italiana. Ovviamente quel cinema erotico più o meno d’autore, benché per certi aspetti dirompente sul piano sociale e politico, era comunque specchio del suo tempo, gli anni Settanta, e la figura femminile nonostante le rivendicazioni femministe rimaneva donna-oggetto: oggetto del desiderio e oggetto-soggetto di quella filmografia.

Fra le attrici star di prima grandezza ci fu Laura Antonelli che lavorò con veri autori del genere come Samperi appunto, e poi Pasquale Festa Campanile, Dino Risi, Giuseppe Patroni Griffi e Luchino Visconti, per poi passare alla commedia sexy. E ci fu Lilli Carati che poi si perse nel porno per pagarsi la dipendenza da droga.

Sylvester Stallone sul set di un soft-porn

Ma anche Paola Senatore, Ilona Staller, Moana Pozzi Karin Schubert cominciarono le loro carriere in quei film erotici prima di passare definitivamente al porno, e a tal proposito va ricordata la produttiva pratica dell’epoca di montare due film differenti con lo stesso girato: l’hard e il soft, ovvero il pornografico vero e proprio con i dettagli anatomici che nulla lasciano all’immaginazione, e l’erotico che accende la fantasia senza mostrare la macelleria, che perdendo le istanze creative era ormai solo soft-porn dove i dettagli scabrosi erano tagliati per montare un film che potesse anche passare, con molta faccia tosta, per erotico d’autore. Entrambe queste produzione nostrane hanno sempre avuto grande seguito nei Paesi dell’America Latina. Mentre negli Stati Uniti una star indiscussa come Sylvester Stallone cominciò la carriera fra le lenzuola di queste doppie produzioni.

Negli anni Ottanta esplose la Serena Grandi veicolata dall’indiscusso maestro dell’erotico Tinto Brass che spogliò anche la non più giovanissima Stefania Sandrelli che con “La chiave” rilanciò la sua carriera prima di finire definitivamente nei ruoli di mamma.

Senza però dimenticare che anche Ornella Muti e Florinda Bolkan ebbero i loro ruoli nel cinema erotico.

E si registrarono i debutti erotici della valletta Sabina Ciuffini in “Oh, mia bella matrigna” e della modella africana Zeudy Araya in “La ragazza dalla pelle di luna” oltre alle performance da Lolita di Romina Power prima di darsi alle canzonette.

Ci furono fra le altre Femi Benussi, Agostina Belli, Nadia Cassini e Gloria Guida che altrettanto passarono dai film erotici drammatici non più d’autore alle commedia sexy.

Le star di sesso maschile furono decisamente Lando Buzzanca e il prematuramente scomparso Alessandro Momo; per il resto gli attori erano di passaggio e intercambiabili, spesso stranieri, altrettanto spesso bellocci senza passato né futuro, qualche volta interpreti di rango che venivano dal palcoscenico.

Fra gli autori non va dimenticato Pier Paolo Pasolini che dedicò l’ultima parte della sua produzione cinematografica all’erotismo d’autore cominciando proprio con quel “Decameron” che diede la stura a tutte le altre produzioni più o meno boccaccesche. Altrettanto va ricordato Bernardo Bertolucci che al genere specifico si dedicò con “Ultimo tango a Parigi” “The Dreamers”.

Gianfranco D’Angelo fra le ballerine del televisivo “Drive In” andato in onda su Italia 1 dal 1983 al 1988.

Sul finire degli anni ’70 si affievolì la moda del film erotico, d’autore o meno, e nelle sale cinematografiche arrivò la commedia sexy all’italiana che era nata già dalla fine degli anni ’60 e anch’essa destinata all’asfissia più o meno a metà degli anni ’80. Oltre al riciclo di interpreti del più necroforo cinema erotico ci fu spazio per volti e culi nuovi, stavolta tutto all’insegna della spensieratezza e della comicità, dalla più sottile a quella più grossolana: spensieratezza e grossolanità che furono anche la cifra politica del nuovo che avanzava nella figura di Silvio Berlusconi i cui varietà delle sue televisioni erano intercambiabili con le atmosfere e i cast delle commedie sexy. E trattandosi di comico stavolta i divi furono maschi, quelli che venivano dall’avanspettacolo e dal teatro e dal cabaret, oltre a quelli che pur non avendo nessuna specifica preparazione attoriale recitavano solo con la loro naturale maschera: Alvaro Vitali e Bombolo.

Lando Buzzanca e Aldo Maccione primeggiarono anche per la prestanza fisica, non perfetta ma accettabile perché il principale oggetto da esporre era la donna; e fra gli attori di rango Renzo Montagnani accettò qualsiasi ruolo per poter pagare le cure mediche al figlio gravemente infermo. Un vero e proprio divo del genere fu il cantante Johnny Dorelli che tenne banco per un ventennio e sposò la più giovane collega Gloria Guida che dopo il matrimonio abbandonò lentamente il cinema per darsi alla famiglia, seguita anche da lui che essendo di 18 anni più anziano aveva fatto il suo tempo come attore a tempo pieno da commedia sexy.

Dalla vecchia guardia si riciclarono Carlo Giuffrè e il caratterista di lusso Mario Carotenuto mentre fecero fortuna Gianfranco D’Angelo, Pippo Franco, Lino Banfi e Enzo Cannavale.

Mentre fra gli attori che furono punte di diamante della più castigata commedia all’italiana che occasionalmente si affacciarono nella commedia sexy vanno elencati: Enrico Montesano, Renato Pozzetto, Massimo Boldi, Diego Abatantuono e Teo Teocoli.

Accanto a cotanti comici fra le attrici solo poche mantennero lo status di protagoniste assolute: le riciclate dall’erotico Laura Antonelli, Zeudi Araya, Agostina Belli e Gloria Guida che però se la dovettero vedere con la tedesca già con carriera internazionale Barbara Bouchet; e poi c’è il caso a parte di Carmen Villani che nata cantante è diventata attrice di commedie scollacciate sotto la direzione del marito Mauro Ivaldi che a lei e al genere sexy dedicò la sua intera cinematografia prima della sua prematura scomparsa a 42 anni.

Fra le tette e i culi più esposti nella commedia sexy vanno ricordate: Orchidea De Santis, Lory Del Santo, Silvia Dionisio, Rosa Fumetto, Eva Grimaldi, Daniela Poggi, Pamela Prati, Anna Maria Rizzoli, Carmen Russo, Jenny Tamburi e Marilù Tolo.

Mentre fra le straniere che si accasarono nel sexy italiano ci furono le giovani Ewa Aulin, Annie Belle, Sylvia Kristel e Laura Gemser che se la dovettero vedere con le più mature e agguerrite Maria Baxa, Senta Berger, Sylva Koscina, Dagmar Lassander, Marisa Mell e molte altre.

Ci furono anche delle star internazionali che vennero a esibirsi nella commedia sexy all’italiana: Ursula Andress che restò in Italia, Carroll Baker e Joan Collins.

La commedia all’italiana aveva generato i suoi diversi sottogeneri fra i quali quello che definirei lo storico addomesticato, ovvero film di ambientazione storica con molte libertà narrative che veicolavano la creativa di autori che avevano molto da dire; fra questi film si annoverano: “L’armata Brancaleone” del 1966 di Mario Monicelli, il “Satyricon” del 1969 di Federico Fellini e il “Decameron” del 1971 di Pier Paolo Pasolini. E furono film, ognuno sperimentale e inventivo a suo modo, il cui successo generò scopiazzature e parodie che vanno a comporre il sottogenere decamerotico o boccaccesco della commedia sexy. Ma c’è da dire che lo sfruttamento commerciale del fenomeno coincise all’epoca con le rivoluzioni in atto sul piano sociale, culturale e politico: con quei film avvenne una riappropriazione popolare di quei testi del Trecento e Quattrocento italiano che il retaggio scolastico borghese aveva fin lì tenuto sugli scaffali in alto perché ritenuti troppo licenziosi e dunque temuti come eversivi dai poteri alti, Stato e Chiesa; testi che veicolando un messaggio di libertà sessuale furono gettonatissimi in quegli anni di contestazione: nuovi vangeli senza chiesa e senza stato. Dell’immediato 1972 sono i primi sensazionali film di sottogenere: “Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda” di Mariano Laurenti “Quando le donne si chiamavano madonne” di Aldo Grimaldi e a cascata venne tutto il resto. Gli altri sottogeneri furono le poliziotte, le caserme, le dottoresse e le infermiere, la scuola, la famiglia e tutta la serie di Pierino con Alvaro Vitali che insieme ai matti e ai carabinieri affollano il filone dei film barzelletta. Senza dimenticare che molti di questi film sexy erano a episodi, più o meno scollacciati e più o meno d’autore.

La produzione dei film erotici d’autore pur rallentando è sempre viva in sottotraccia in tutta la cinematografia internazionale, di cui l’ultima sperimentazione è quella del danese Lars Von Trier che essendo recidivo aveva già mostrato il sesso senza censure in “Idioti” del 1998, in “Antichrist” del 2009 e nel soporifero dittico “Nimphomaniac” del 2013, che quell’anno in fatto di scandalo e creatività d’autore restò indietro a “La vita di Adèle” del franco-tunisino Abdellatif Kechiche che con le sue scene di sesso lesbico si aggiudicò ben tre Palma d’Oro al Festival di Cannes: all’autore e alle due protagoniste Adèle Exarchopoulos Léa Seydoux; e vale la pena commentare che benché acclamato da tutta la stampa con l’eccezione del conservatore Le Figaro, è stata criticata la scena di sesso eterosessuale perché si intravede l’erezione di Jérémie Laheurte, paventando addirittura la pornografia: perché permane l’ipocrita voyeurismo dei maschi etero che ben sopportano la visione di due donne che fanno sesso ma che si scandalizzano se davanti agli occhi gli balena un cazzo ancorché per un secondo. Anche il francese Patrice Chéreau con “Intimacy” ha filmato il suo sesso esplicito d’autore nel 2001 vincendo l’Orso d’Oro al Festival di Berlino, e pure l’inglese Michael Winterbottom con “9 songs” nel 2009 ha fatto il suo film erotico senza censure.

Restando sull’argomento cazzi al vento ci sono poi film che pur non inserendosi nel filone erotico improvvisamente sbandierano erezioni d’autore, anzi d’attore, guadagnandosi la collocazione d’ufficio nel genere erotico: Vincent Gallo nel suo “The Brown Bunny” del 2003 si fa fare un estemporaneo pompino da Chloë SevignyElio Germano esibisce la sua serissima erezione nel serissimo “Nessuna qualità agli eroi” del 2007 di Paolo Franchi; mentre nella già anche troppo scanzonata commedia “Libera uscita” del 2011 di Peter Farrelly al protagonista Owen Wilson viene sventolata in faccia l’erezione nera di un figurante.

Il nudo femminile è rassicurante, direi quasi ecumenico, perché se l’attrice è su di giri lo sa solo lei ma per gli attori è un altro discorso: l’erezione al cinema la concepiamo solo nei porno e veder sbandierata l’intimità erotica di attori famosi o meno è il superamento di uno steccato che molti sperimentatori auspicano: far cadere la separazione fra il genere porno e il mainstream che a volte, come dimostrano certi anatemi e certe polemiche, è più ipocrisia che reale difesa del senso del pudore collettivo: siamo adulti e sappiamo distinguere fra pornografia ed erotico d’autore. Così se ogni tanto capita di vedere improvvise erezioni a sorpresa, come uno di quei pupazzi a molla, Jack in the Box, che può divertire o fare paura, be’ non è niente di che: è solo pura evasione. O pura eversione.

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CHE POTREBBERO URTARE CERTE SENSIBILITÀ

Dicevamo che il sesso al cinema esiste fin dai primordi ma il vero e proprio exploit commerciale avviene negli anni ’60-’70 riflettendo nei film la liberazione-ribellione che già avveniva nella società: erano anni in cui (semplificando molto) si è ridisegnato il modo di stare insieme in società e il modo di esprimere l’individualità anche attraverso la sessualità. Personalmente in quegli anni ’70 ero un adolescente che se da un lato non si rendeva pienamente conto di quello che gli accadeva intorno nella realtà sociale e politica, nell’intimo era però scosso da tempeste ormonali che non potevano restare indifferenti davanti a locandine cinematografiche che nei titoli avevano ammiccanti poliziotte soldatesse e liceali, infermiere e dottoresse, insegnanti e supplenti, zie nonne e matrigne, oltre a tutto l’ambaradan che si rifaceva anche solo a sfioro alla letteratura licenziosa del Tre-Quattrocento del Boccaccio e dell’Aretino.

Avevo la curiosità ma non avevo l’età, anche se in certi cinema di periferia chiudevano entrambi gli occhi; però ero un adolescente già appassionato di cinema che frequentava diversi cineclub arrivando a vedere anche tre film in un solo pomeriggio, cineclub dove si dava il caso che fra corazzate Potëmkin e retrospettive di Ingmar Bergman capitassero certi film d’autore, come il visionario Alejandro Jodorowsky o il cupo Walerian Borowczyk, che filmavano in forma autorale l’altrimenti vietato erotismo, con il secondo che sfiorava anche la pornografia – ma erano leciti film da cineclub, senza censure di stato, e lì compresi che i film erotici erano sperimentazioni d’autore, che occasionalmente potevano usare la chiave del grottesco o del surreale ma sempre concentrati sull’aspetto drammatico e torbido delle vicende: insomma i film erotici erano sempre serissimi, finivano male e il sesso era spesso mortale.

Sotto l’ampio paracadute del cinema erotico d’autore si affollarono tanti altri cineasti che produssero film erotici più seriosi che seri, più commerciali e autocelebrativi che sperimentali com’è il caso della coppia più teatrale che cinematografica Gabriele Lavia con Monica Guerritore; lei era stata avviata al genere da Salvatore Samperi, autore che aveva debuttato con il ribelle “Grazie zia” che suo malgrado divenne capostipite del cinema erotico nel sottogenere famiglia; la Guerritore ebbe dapprima da Samperi un ruolo secondario in “Peccato veniale” del 1974 per poi essere protagonista dieci anni dopo nel decisamente commerciale “Fotografando Patrizia” cui il marito regista Lavia fece subito seguire i propri “Scandalosa Gilda” e “Sensi”, sensi che poi si acquietarono un po’ per tutti perché il genere aveva ormai fatto il suo tempo e l’erotismo si spostava verso la più scanzonata e anche becera commedia sexy all’italiana. Ovviamente quel cinema erotico più o meno d’autore, benché per certi aspetti dirompente sul piano sociale e politico, era comunque specchio del suo tempo, gli anni Settanta, e la figura femminile nonostante le rivendicazioni femministe rimaneva donna-oggetto: oggetto del desiderio e oggetto-soggetto di quella filmografia.

Fra le attrici star di prima grandezza ci fu Laura Antonelli che lavorò con veri autori del genere come Samperi appunto, e poi Pasquale Festa Campanile, Dino Risi, Giuseppe Patroni Griffi e Luchino Visconti, per poi passare alla commedia sexy. E ci fu Lilli Carati che poi si perse nel porno per pagarsi la dipendenza da droga.

Sylvester Stallone sul set di un soft-porn

Ma anche Paola Senatore, Ilona Staller, Moana Pozzi e Karin Schubert cominciarono le loro carriere in quei film erotici prima di passare definitivamente al porno, e a tal proposito va ricordata la produttiva pratica dell’epoca di montare due film differenti con lo stesso girato: l’hard e il soft, ovvero il pornografico vero e proprio con i dettagli anatomici che nulla lasciano all’immaginazione, e l’erotico che accende la fantasia senza mostrare la macelleria, che perdendo le istanze creative era ormai solo soft-porn dove i dettagli scabrosi erano tagliati per montare un film che potesse anche passare, con molta faccia tosta, per erotico d’autore. Entrambe queste produzione nostrane hanno sempre avuto grande seguito nei Paesi dell’America Latina. Mentre negli Stati Uniti una star indiscussa come Sylvester Stallone cominciò la carriera fra le lenzuola di queste doppie produzioni.

Negli anni Ottanta esplose la Serena Grandi veicolata dall’indiscusso maestro dell’erotico Tinto Brass che spogliò anche la non più giovanissima Stefania Sandrelli che con “La chiave” rilanciò la sua carriera prima di finire definitivamente nei ruoli di mamma.

Senza però dimenticare che anche Ornella Muti e Florinda Bolkan ebbero i loro ruoli nel cinema erotico.

E si registrarono i debutti erotici della valletta Sabina Ciuffini in “Oh, mia bella matrigna” e della modella africana Zeudy Araya in “La ragazza dalla pelle di luna” oltre alle performance da Lolita di Romina Power prima di darsi alle canzonette.

Ci furono fra le altre Femi Benussi, Agostina Belli, Nadia Cassini e Gloria Guida che altrettanto passarono dai film erotici drammatici non più d’autore alle commedia sexy.

Le star di sesso maschile furono decisamente Lando Buzzanca e il prematuramente scomparso Alessandro Momo; per il resto gli attori erano di passaggio e intercambiabili, spesso stranieri, altrettanto spesso bellocci senza passato né futuro, qualche volta interpreti di rango che venivano dal palcoscenico.

Fra gli autori non va dimenticato Pier Paolo Pasolini che dedicò l’ultima parte della sua produzione cinematografica all’erotismo d’autore cominciando proprio con quel “Decameron” che diede la stura a tutte le altre produzioni più o meno boccaccesche. Altrettanto va ricordato Bernardo Bertolucci che al genere specifico si dedicò con “Ultimo tango a Parigi” e “The Dreamers”.

Gianfranco D’Angelo fra le ballerine del televisivo “Drive In” andato in onda su Italia 1 dal 1983 al 1988.

Sul finire degli anni ’70 si affievolì la moda del film erotico, d’autore o meno, e nelle sale cinematografiche arrivò la commedia sexy all’italiana che era nata già dalla fine degli anni ’60 e anch’essa destinata all’asfissia più o meno a metà degli anni ’80. Oltre al riciclo di interpreti del più necroforo cinema erotico ci fu spazio per volti e culi nuovi, stavolta tutto all’insegna della spensieratezza e della comicità, dalla più sottile a quella più grossolana: spensieratezza e grossolanità che furono anche la cifra politica del nuovo che avanzava nella figura di Silvio Berlusconi i cui varietà delle sue televisioni erano intercambiabili con le atmosfere e i cast delle commedie sexy. E trattandosi di comico stavolta i divi furono maschi, quelli che venivano dall’avanspettacolo e dal teatro e dal cabaret, oltre a quelli che pur non avendo nessuna specifica preparazione attoriale recitavano solo con la loro naturale maschera: Alvaro Vitali e Bombolo.

Lando Buzzanca e Aldo Maccione primeggiarono anche per la prestanza fisica, non perfetta ma accettabile perché il principale oggetto da esporre era la donna; e fra gli attori di rango Renzo Montagnani accettò qualsiasi ruolo per poter pagare le cure mediche al figlio gravemente infermo. Un vero e proprio divo del genere fu il cantante Johnny Dorelli che tenne banco per un ventennio e sposò la più giovane Gloria Guida che dopo il matrimonio abbandonò lentamente il cinema, seguita da lui che essendo di 18 anni più anziano aveva anche fatto il suo tempo come attore brillante e disimpegnato.

Dalla vecchia guardia si riciclarono Carlo Giuffrè e il caratterista di lusso Mario Carotenuto mentre fecero fortuna Gianfranco D’Angelo, Pippo Franco, Lino Banfi e Enzo Cannavale.

Mentre fra gli attori che furono punte di diamante della più castigata commedia all’italiana che occasionalmente si affacciarono nella commedia sexy vanno elencati: Enrico Montesano, Renato Pozzetto, Massimo Boldi, Diego Abatantuono e Teo Teocoli.

Accanto a cotanti comici fra le attrici solo poche mantennero lo status di protagoniste assolute: le riciclate dall’erotico Laura Antonelli, Zeudi Araya, Agostina Belli e Gloria Guida che però se la dovettero vedere con la tedesca già con carriera internazionale Barbara Bouchet; e poi c’è il caso a parte di Carmen Villani che nata cantante è diventata attrice di commedie scollacciate sotto la direzione del marito Mauro Ivaldi che a lei e al genere sexy dedicò la sua intera cinematografia prima della sua prematura scomparsa a 42 anni.

Fra le tette e i culi più esposti nella commedia sexy vanno ricordate: Orchidea De Santis, Lory Del Santo, Silvia Dionisio, Rosa Fumetto, Eva Grimaldi, Daniela Poggi, Pamela Prati, Anna Maria Rizzoli, Carmen Russo, Jenny Tamburi e Marilù Tolo.

Mentre fra le straniere che si accasarono nel sexy italiano ci furono le giovani Ewa Aulin, Annie Belle, Sylvia Kristel e Laura Gemser che se la dovettero vedere con le più mature e agguerrite Maria Baxa, Senta Berger, Sylva Koscina, Dagmar Lassander, Marisa Mell e molte altre.

Ci furono anche delle star internazionali che vennero a esibirsi nella commedia sexy all’italiana: Ursula Andress che restò in Italia, Carroll Baker e Joan Collins.

La commedia all’italiana aveva generato i suoi diversi sottogeneri fra i quali quello che definirei lo storico addomesticato, ovvero film di ambientazione storica con molte libertà narrative che veicolavano la creativa di autori che avevano molto da dire; fra questi film si annoverano: “L’armata Brancaleone” del 1966 di Mario Monicelli, il “Satyricon” del 1969 di Federico Fellini e il “Decameron” del 1971 di Pier Paolo Pasolini. E furono film, ognuno sperimentale e inventivo a suo modo, il cui successo generò scopiazzature e parodie che vanno a comporre il sottogenere decamerotico o boccaccesco della commedia sexy. Ma c’è da dire che lo sfruttamento commerciale del fenomeno coincise all’epoca con le rivoluzioni in atto sul piano sociale, culturale e politico: con quei film avvenne una riappropriazione popolare di quei testi del Trecento e Quattrocento italiano che il retaggio scolastico borghese aveva fin lì tenuto sugli scaffali in alto perché ritenuti troppo licenziosi e dunque temuti come eversivi dai poteri alti, Stato e Chiesa; testi che veicolando un messaggio di libertà sessuale furono gettonatissimi in quegli anni di contestazione: nuovi vangeli senza chiesa e senza stato. Dell’immediato 1972 sono i primi sensazionali film di sottogenere: “Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda” di Mariano Laurenti “Quando le donne si chiamavano madonne” di Aldo Grimaldi e a cascata venne tutto il resto. Gli altri sottogeneri furono le poliziotte, le caserme, le dottoresse e le infermiere, la scuola, la famiglia e tutta la serie di Pierino con Alvaro Vitali che insieme ai matti e ai carabinieri affollano il filone dei film barzelletta. Senza dimenticare che molti di questi film sexy erano a episodi, più o meno scollacciati e più o meno d’autore.

La produzione dei film erotici d’autore pur rallentando è sempre viva in sottotraccia in tutta la cinematografia internazionale, di cui l’ultima sperimentazione è quella del danese Lars Von Trier che essendo recidivo aveva già mostrato il sesso senza censure in “Idioti” del 1998, in “Antichrist” del 2009 e nel soporifero dittico “Nimphomaniac” del 2013, che quell’anno in fatto di scandalo e creatività d’autore restò indietro a “La vita di Adèle” del franco-tunisino Abdellatif Kechiche che con le sue scene di sesso lesbico si aggiudicò ben tre Palma d’Oro al Festival di Cannes: all’autore e alle due protagoniste Adèle Exarchopoulos e Léa Seydoux; e vale la pena commentare che benché acclamato da tutta la stampa con l’eccezione del conservatore Le Figaro, è stata criticata la scena di sesso eterosessuale perché si intravede l’erezione di Jérémie Laheurte, paventando addirittura la pornografia: perché permane l’ipocrita voyeurismo dei maschi etero che ben sopportano la visione di due donne che fanno sesso ma che si scandalizzano se davanti agli occhi gli balena un cazzo ancorché per un secondo. Anche il francese Patrice Chéreau con “Intimacy” ha filmato il suo sesso esplicito d’autore nel 2001 vincendo l’Orso d’Oro al Festival di Berlino, e pure l’inglese Michael Winterbottom con “9 songs” nel 2009 ha fatto il suo film erotico senza censure.

Restando sull’argomento cazzi al vento ci sono poi film che pur non inserendosi nel filone erotico improvvisamente sbandierano erezioni d’autore, anzi d’attore, guadagnandosi la collocazione d’ufficio nel genere erotico: Vincent Gallo nel suo “The Brown Bunny” del 2003 si fa fare un estemporaneo pompino da Chloë Sevigny; Elio Germano esibisce la sua serissima erezione nel serissimo “Nessuna qualità agli eroi” del 2007 di Paolo Franchi; mentre nella già anche troppo scanzonata commedia “Libera uscita” del 2011 di Peter Farrelly al protagonista Owen Wilson viene sventolata in faccia l’erezione nera di un figurante.

Il nudo femminile è rassicurante, direi quasi ecumenico, perché se l’attrice è su di giri lo sa solo lei ma per gli attori è un altro discorso: l’erezione al cinema la concepiamo solo nei porno e veder sbandierata l’intimità erotica di attori famosi o meno è il superamento di uno steccato che molti sperimentatori auspicano: far cadere la separazione fra il genere porno e il mainstream. Del resto una semplice erezione, non in attività diciamo così, perché dovrebbe essere considerata esclusivamente pornografica? Così se ogni tanto capita di vedere improvvise erezioni a sorpresa, come uno di quei pupazzi a molla, Jack in the Box, che può divertire o fare paura, be’ non è niente di che: è solo pura evasione. O pura eversione.

Calibro 9 – il sequel sbagliato

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Quasi 50 anni dopo arriva il sequel del poliziottesco “Milano calibro 9”, all’epoca grande successo al botteghino, punta di diamante nella filmografia del regista Fernando Di Leo e oggi considerato una pietra miliare del genere, genere che oltre oceano Quentin Tarantino ha ripreso e svecchiato pur mantenendone le specifiche: personaggi grotteschi e sopra le righe, situazioni al limite, e storia dinamica senza troppe chiacchiere esistenziali, mentre di suo gusto ci ha aggiunto lo splatter facendone un personale marchio di fabbrica. Si prendono la briga di realizzare questo sequel il figlio dell’allora produttore Ermanno Curti, Gianluca Curti a sua volta produttore e sceneggiatore, e il regista sceneggiatore Toni D’Angelo figlio del cantante neomelodico per eccellenza Nino D’Angelo. I due hanno già collaborato nel 2017 realizzando “Falchi” un ottimo noir napoletano, con uno spirito più affine ai poliziotteschi di quanto lo sia questo sequel. Alla notizia i nostalgici esultano e viene anche rilasciata una prima locandina in cui insieme ai due nuovi protagonisti Marco Bocci (il personaggio è chiamato Fernando in onore al regista Di Leo) e Ksenia Rappaport ritroviamo due nomi del vecchio cast, Mario Adorf (90 anni) e Barbara Bouchet (78 anni), unici sopravvissuti come personaggi e anche come persone nella vita reale. Ma qualcosa va storto con Mario Adorf – problemi di salute? – e viene sostituito in corsa dal 75enne Miche Placido, e a Mario Adorf rimane l’omaggio nei titoli che riprende fotogrammi dell’originale.

La locandina “coming soon”

A vedere uno di seguito all’altro i due film, all’inizio se ne apprezzano subito i rimandi anche se, come è giusto e necessario, il nuovo film deve essere comprensibile anche a chi non ha memoria del primo: si tratta di dettagli che solo i cultori possono riconoscere e apprezzare. In apertura del classico un malloppo di centomila dollari passava di mano in mano per essere consegnato al capo di un’organizzazione criminale detto l’Americano, ma di mano in mano il malloppo si perde per strada e conseguentemente tutti i corrieri vengono ammazzati nella ricerca del colpevole. Nel moderno non c’è più un malloppo perché la valuta, stavolta sono cento milioni di euro, è dematerializzata e viaggia in digitale su diversi server europei e di nuovo, quando il malloppo digitale sparisce, tutti i responsabili dei vari trasferimenti vengono giustiziati nei vari scenari europei, quasi come se fossimo in un film di 007, ma ci sta perché il richiamo all’originale è compiuto guardando all’oggi. Altri rimandi: uno dei personaggi che esce dalla metropolitana sulla piazza del duomo e un altro dal carcere, e nel finale il primo piano su una cicca di sigaretta. Poi il film, pretendendo di dover piacere ai giovani spettatori di oggi secondo le dichiarazioni degli autori, perde lo stile del poliziottesco – che forse i giovani d’oggi avrebbero pure apprezzato – e diventa un noir che alterna le scene di azione, ben realizzate, a improvvidi momenti di sentimentalismo introspettivo che avviano il film verso il genere televisivo, e non è un caso che la Rai produce. Laddove il personaggio di Gastone Moschin si distingueva da tutti per la sua laconicità, qui, quello che viene raccontato come suo figlio, è solo uno dei tanti, perno della storia come fu il padre, certo, ma troppo chiacchierone e troppo raccontato, in un film che spiega troppe cose togliendoci il piacere di decrittare i personaggi, come accadrebbe in un vero noir; e l’interprete Marco Bocci sembra più a suo agio quando fa il romanticone che l’uomo in azione. Anche il poliziotto che indaga, ruolo che è andato ad Alessio Boni, mantiene dello spirito dei poliziotteschi il carattere di cane sciolto, ma quanto ce ne può importare che sia separato e stia lottando per l’affidamento condiviso del figlio? è un noir o una puntata di CentoVetrine?

la locandina definitiva che mette Marco Bocci in primo piano e toglie di mezzo tutti gli altri

Nel cast salta subito all’occhio, e infastidisce purtroppo, la russa Ksenia Rappaport che Giuseppe Tornatore ha importato nel 2006 per il film “La sconosciuta” col quale ha vinto il David di Donatello come protagonista, e da allora italianizzata con successo; e per quando bene possa ormai parlare la nostra lingua le rimane quel vago accento esotico che la rende aliena al personaggio che interpreta: l’esponente ripulita di una famiglia mafiosa calabrese, della ‘ndrangheta; viene inserita al volo una battuta per giustificare l’accento russo ma non basta a farci accettare la scelta di inserire nel cast e in quel ruolo questa pur brava attrice.

‘Ndrangheta calabrese dicevamo, quando nell’originale il personaggio di Rocco Musco, interpretato da Mario Adorf e doppiato da Stefano Satta Flores parlava in sicilianese, ma vabbè una famiglia mafiosa vale l’altra. L’anziano boss in clandestinità ha il volto segnato e ormai assimilato a questo genere di ruoli di Adriano Chiaramida, livornese di nascita ma siculo-calabrese cinematograficamente. Il capintesta assai aggressivo e il calabrese doc Paco Reconti mentre il conterraneo Walter Cordopatri è un killer assai violento e divertente, forse l’unico personaggio che rispetta i canoni del poliziottesco, perché continua ad ammazzare – con grandi schizzi di sangue in un omaggio di ritorno a Tarantino – chiedendo rabbioso alle vittime: “Und’è ‘a pila?”, dove sono i soldi?, che è praticamente la sua unica battuta che diventa un leitmotiv. Antonio Zavatteri è l’inevitabile magistrato corrotto, mentre si potevano pure evitare nel cast la francese Jessica Cressy, già vista nel premiato a Venezia “Martin Eden” e il belga Éric Godon, probabilmente come specchietti per le allodole per il mercato d’oltralpe, assieme a un paio di russi come manovalanza mafiosa per il mercato sovietico dove Ksenia Rappaport conserva frequentazioni.

Restano poche parole sui sopravvissuti a cominciare dall’originale Barbara Bouchet, che nel 2008 ha ricevuto un riconoscimento alla carriera ad Alghero, e che qui riprende il suo personaggio che avevamo lasciato alla fine dell’originale mentre si prendeva in faccia uno dei più bei pugni del cinema in soggettiva da parte del Rocco Musco di Mario Adorf e che oggi se la deve vedere col Rocco Musco di Michele Placido e non le andrà altrettanto bene ma, altro tradimento al poliziottesco, tutto è bene quel che finisce bene. Michele Placido si diverte a riprendere un personaggio divenuto iconico e laddove la sceneggiatura non gli offre molta ciccia da masticare lui gigioneggia facendo la faccia cattiva ma restando simpatico.

In conclusione un suggerimento a produttori e registi: state lontani dai sequel, soprattutto se sono passati decenni, come nel caso di “Blade Runner 2049″, perché quando non è un sequel inutile è sicuramente sbagliato e fuori rotta: “Milano calibro 9” rimane un brillante esempio di poliziottesco mentre questo “Calibro 9” è solo un film televisivo e neanche dei migliori.

Milano calibro 9

Il film è del 1972 ed è un viaggio nel tempo, per chi c’era come me, e anche per chi ancora non c’era, perché testimonia una realtà tutta italiana oggi scomparsa, una realtà cinematografica che a sua volta filtrava la vera realtà, la cronaca e il sociale. Ritroviamo subito un termine oggi caduto in disuso: il malloppo, parola di origine regionale, laziale e toscano soprattutto, che indica un pacco voluminoso che, in gergo, contiene banconote o altri preziosi, per lo più di origine illegale, truffaldina (altro termine in disuso); il malloppo poteva anche essere immateriale, ovvero indicare un capitale bancario o un’eredità, come essere anche sinonimo di uno stato d’animo o malessere fisico: avere un malloppo sullo stomaco.

Altro termine caduto in disuso è il night club, il cui periodo d’oro in Italia risale agli anni ’50, all’immediato dopoguerra col suo boom economico che attraeva in quei locali l’alta borghesia e genericamente quelli che potevano spendere, dunque anche gli arricchiti molto spesso legati alla malavita e qualche volta dai modi un po’ più rozzi; i night, come venivano abbreviati, si distinguevano dai bar e dalle discoteche per la musica dal vivo e nei migliori locali si esibivano artisti come Renato Carosone e Fred Bongusto, Peppino Di Capri e Sergio Endrigo; la qualità era anche nel servizio, e ai frequentatori si richiedeva altrettanta eleganza, almeno nell’abbigliamento, ed era un d’obbligo ordinare champagne da mettere in conto, e che conto! I night club furono al culmine in Italia fino a tutti gli anni ’60 e successivamente, dunque all’epoca di questo film, cominciò il loro declino, dovuto alle trasgressioni legate alla droga e al sesso che hanno attirato sempre più i malviventi, altro termine che sta andando in disuso, e allontanato la clientela d’élite. Oggi, sinteticamente club, o sono parecchio esclusivi, vedi il Billionaire, ritrovando lo spirito originario ed elitario incarognito però dai tempi, o sono la loro copia vorrei-ma-non-posso e finiscono con l’essere dei troiai. In ogni caso hanno quasi totalmente perso il fascino della musica dal vivo e sono solo discoteche con quel qualcosa in più. Il cosa dipende dal proprietario.

Barbara Bouchet go-go dancer nel film

Col night-club è caduto in disuso anche il termine go-go dance, oggi sostituita dalla (o dal) cubista, che non è una pittrice cubista ma una ragazza che balla, o meglio si agita e dimena, su un cubo, o comunque uno spazio ristretto, che può anche essere una gabbia, a sua protezione ma anche ulteriore fantasia per l’avventore. La go-go dance sopravviva anche nella lap-dance, termine che traduce la danza del ventre e trasforma la tradizionale danza araba, nata nelle corti principesche del Nord-Africa con significati ancestrali legati alla femminilità e alla fertilità, in una semplice danza erotica che può continuare nella prostituzione. In Italia chiamiamo lap-dance anche la pole-dance, che è quella che si fa attorno a un palo, che nasce come vera e propria attività sportiva legata all’acrobazia, con notevole impegno di forza fisica, flessibilità e coordinazione, e poi emigra nei club dove diventa anch’essa intrattenimento erotico.

#the first one is a renaissance painting from chaotic hedonist

La go-go dance è nata casualmente negli anni ’60 al Peppermint Lounge di New York, una discoteca dove all’epoca si ballava il twist, così alla moda che nel ’61 vi venne girato il film “Hey, let’s twist!”. Assai gay friendly il Peppermint fu frequentato da molte star fra cui, oltre a Paul MacCartney riconoscibile nella foto, Audrey Hepburn e Marilyn Monroe, Frank Sinatra e Truman Capote, e addirittura l’elusiva Greta Garbo vi si lasciò andare scatenandosi nel ballo, mentre Judy Garland probabilmente assistette all’esibizione di sua figlia Liza Minnelli, dato che vi si faceva anche musica dal vivo.

A un certo punto le avventrici, che indossavano minigonna e stivali, cominciarono a ballare sui tavoli per scatenarsi nel twist e dato che la cosa piacque molto, i gestori del locale (di cui era proprietaria la famiglia mafiosa dei Genovese) pensarono di assumerle come intrattenitrici. Il termine go-go è chiaramente un incitamento che in Europa si arricchisce della significanza del francese à gogo, in abbondanza. Nel 1965 il Peppermint chiuse e sulla sponda opposta degli States, sul Sunset Boulevard di West Hollywood aprì il Whisky a Go Go che ha preso il nome dal parigino Le Whisky à Go-Go del 1947, e lì a Hollywood furono regolarmente assunte le prime go-go dancers che si esibivano, assoluta novità, dentro gabbie che pendevano dal soffitto; erano generalmente vestite con abiti aderenti e succinti con frange che accentuavano i movimenti, solo successivamente le ragazze vennero via via spogliate.

Ill film oggi, dopo l’apprezzamento espresso da Quentin Tarantino cultore dei B movie italiani, viene considerato un capolavoro del genere, e dell’epoca. Il genere è il poliziottesco, ovvero il poliziesco all’italiana, fratello e contemporaneo dello spaghetti-western, un genere attivo dagli anni ’60 fino a tutti gli ’80, con punte di maggior fulgore proprio nei Settanta; che, come dice il termine, si basava su indagini di polizia con ampio riferimento al mondo criminale, storie che spesso prendevano spunto dai fatti di cronaca, e li raccontavano con uno stile enfatico che in certi casi sfiorava il grottesco, ma con un occhio anche al sociale – non dimentichiamo che sono gli anni delle contestazioni e del terrorismo – facendo però molta demagogia e poco pensiero critico.

Viene indicato come pietra miliare del genere poliziottesco “Svegliati e uccidi” di Carlo Lizzani sulla figura del criminale milanese Luciano Lutring, e il filone sviluppa un percorso parallelo nel cinema di impegno civile cui si dedicarono registi come Marco Bellocchio, Damiano Damiani, Giuliano Montaldo, Elio Petri, Francesco Rosi, Florestano Vancini con sceneggiature che guardavano in cronaca per i conflitti sociali, spesso trovando il protagonista nel cittadino che si ribella, e ai romanzi di Leonardo Sciascia per parlare malaffare e mafia.

Al di là dell’Atlantico il poliziottesco è fratello di un poliziesco più duro, dove quei tutori dell’ordine sono più intransigenti e violenti dei nostri che invece sono commissari di polizia assai sui generis, spesso anarcoidi però, incompresi e anche perseguitati dai superiori, dotati di compassione quando a delinquere erano i derelitti, ma sempre fedeli all’ordine e ai precetti della legge. Nel poliziottesco come attori troviamo protagonisti di qualità che negli altri film, quelli di serie A, restano comprimari e spalle, ma in genere il filone ha portato alla fama una serie di nomi che hanno dato il meglio, quando non il tutto, proprio lì: Giuliano Gemma, Luc Merenda, Maurizio Merli, Tomas Milian, Franco Nero, Fabio Testi, per ricordare i più noti, mentre fra le attrici, in genere solo comprimarie in questi film densi di testosterone, si ricordano: Janet Agren, Femi Benussi, Barbara Bouchet, Olga Karlatos, Dagmar Lassander, Marisa Mell, tutte rigorosamente straniere e belle, con alcune italiane altrettanto belle e doppiate come Agostina Belli e Silvia Dionisio, attrici che in alcuni casi hanno mostrato il meglio in un altro filone dell’epoca, le commedie sexy ed erotiche, curiosamente sempre accanto a uomini più anziani o brutti.

sopra alcune locandine con i protagonisti citati
sotto alcune delle belle nei cast di quei film
in una selezione incompleta

“Milano calibro 9” prende il titolo da una raccolta di racconti dello scrittore Giorgio Scerbanenco, poiché ad essi si ispira per personaggi e situazioni senza fare un riferimento specifico ad alcun racconto. Scerbanenco fu un prolifico giornalista scrittore molto versatile che ha spaziato in ogni campo della letteratura di genere – western, fantascienza, rosa – imponendosi all’attenzione negli anni ’60 come autore di racconti gialli e da considerare come uno dei maestri del genere, dove ha raccontato un’Italia in controtendenza a quella spensierata e brillante del boom economico, ma disincantata e cattiva, fatta di personaggi amari con un bisogno disperato di emergere sull’altro lato della storia italiana, quella edulcorata e gioiosa. Soggetto e sceneggiatura del film sono del regista, Fernando Di Leo, che realizza il film forse più importante della sua carriera, tanto che pochi anni dopo ne farà un remake ambientato nella capitale che avrebbe dovuto intitolarsi “Roma calibro 9” e che alla fine si chiamò “Diamanti sporchi di sangue” con Barbara Bouchet che rifà il suo personaggio riscritto in un altro contesto.

Gastone Moschin e Mario Adorf

Ne è protagonista Gastone Moschin, attore di classica impostazione teatrale che fu, come dicevo, uno di quegli interpreti che spaziando con grande versatilità nei film di genere, nel cinema di serie A rimarrà comprimario, e deve la sua fama maggiore alla trilogia di “Amici miei”, oltre che agli sceneggiati Rai. Qui come freddo criminale di poche parole appena uscito dal carcere di San Vittore è assai misurato e in controtendenza con il resto del cast e l’intero film. Gli fa da contraltare il logorroico e iper espressionista Mario Adorf, tedesco di padre calabrese, eccellente caratterista con carriera internazionale che qui recita in italiano, si vede dal labiale, ma è doppiato malissimo in un improbabile sicilianese dal pur ottimo Stefano Satta Flores. Come già detto la bella che balla è Barbara Bouchet, la tedesca che abbiamo già visto in “Casino Royale” la parodia a 007, e che in Italia è già talmente quotata da condividere col protagonista il nome sopra il titolo, e mentre fa la sua go-go dance coperta solo di perline il regista la filma con tutte le inquadrature possibili da tutte le angolazioni immaginabili, anche le più assurde, per il suo e il nostro piacere.

Nella scena del film Luigi Pistilli, Frank Wolff e Gastone Moschin

Nel ruolo del commissario all’antica il tedesco-americano Frank Wolff che era venuto in Italia all’inizio degli anni ’60 su suggerimento del suo amico regista Roger Colman, dato che quello era il periodo il cui gli americani che non riuscivano a sfondare in patria venivano da noi a girare i peplum, e subito Francesco Rosi lo ingaggia come protagonista del suo “Salvatore Giuliano” nel ruolo di Gaspare Pisciotta, e poi sarà Galeazzo Ciano in “Il processo di Verona” di Carlo Lizzani; ma dal cinema d’impegno civile scivola subito nei B movie dei poliziotteschi e degli spaghetti-western; si è suicidato tagliandosi la gola per una depressione dovuta a patimenti sentimentali. Anche Luigi Pistilli si è tolto la vita a causa della depressione le cui concause sono un insuccesso teatrale, la rottura sentimentale con Milva e, non ultimo, il suicidio del figlio 24enne avvenuto qualche anno prima; qui interpreta un vice commissario con una visione più moderna e dinamica sulle indagini condotte che, secondo lui, non intendono scalfire la connivenza dei malviventi con l’alta società milanese, e per questo in contrasto col commissario.

Nel piccolo ruolo dell’anziano boss decaduto e cieco c’è Ivo Garrani, un altro grande attore di provenienza teatrale, mentre il suo figlioccio, esperto sicario dal grilletto facile è interpretato dal francese Philippe Leroy, già militare paracadutista in patria e riparato in Italia per le tensioni politiche che si erano create attorno a certe sue dichiarazioni riguardo a De Gaulle che illudeva e buttava via i giovani che si erano arruolati per le guerre in Indocina e Algeria; è già famoso per avere interpretato Leonardo Da Vinci nello sceneggiato Rai del 1971 e bisserà il successo col ruolo di Yanez in “Sandokan”, ma è già protagonista di tanto cinema italiano. Altro straniero con ricca carriera italiana è l’americano Lionel Stander trasferitosi in Europa per sfuggire alla persecuzione maccartista, qui proprio nel ruolo dell’Americano, in un film in cui i personaggi sono tutti delle maschere, senza sfumature, esemplificazioni di una tipologia senza sovrastrutture psicosociali.

Fernando Di Leo scrive e dirige con grande sicurezza ma con qualche sciatteria tipica dei film di serie B. A cominciare da come si indicano i numeri con le dita: il tedesco Mario Adorf, che interpreta un siciliano, adotta il gesto di centro mentre qualcuno avrebbe dovuto spiegargli che noi italiani lo facciamo come nella prima immagine, mentre la terza è quella che usano gli americani. C’è poi che quando i tanti muoiono sparati, cadono fulminati a terra senza buchi sulle giacche e nessuna macchia di sangue, come nei film per bambini, e solo quando muoiono i pezzi grossi del cast vengono sprecati i soldi per bucare le giacche e spargere sangue finto. Anche la grande sparatoria finale è molto raffazzonata e tutti quanti hanno l’approssimazione dei bambini che giocano a guardia e ladri e non sanno neanche come si punta una pistola, ma il regista poi dedica ad ognuno di loro la propria inquadratura, ad ognuno un momento topico quando viene ferito a morte, e tutti fanno di tutto e di più fra smorfie e contorcimenti per lasciare il loro segno artistico nel film: del resto a personaggi grotteschi una morte grottesca. Però il film ha un buon ritmo e nell’insieme risulta ancora oggi gradevole, potendo separare col senno di poi il grano dal loglio. Resta comunque un film da vedere perché, come dire? ha un suo perché.

Casino Royale – la parodia

1967. la serie su James Bond 007 è al quinto film e il suo interprete, Sean Connery, vuole lasciare perché comincia a preoccuparlo l’eccessiva immedesimazione, da parte del pubblico, del personaggio con l’interprete, e teme di restare intrappolato in quel chiché. E a creare scompiglio arriva questo film parodia che il produttore Charles Feldman mette su con la “Famous Artists Productions” per approfittare del vuoto di diritti che si era creato su “Casino Royale”, già realizzato come telefilm per la serie americana “Climax!” (nell’articolo precedente) e che non era nel portafoglio di Albert Broccoli per la “United Artist”. In realtà la vicenda che porta alla realizzazione di questo film è più complessa…

1955. L’anno dopo che era stato realizzato il telefilm “Climax!” Ian Fleming vende i diritti di “Casino Royale” al produttore-attore-regista Gregory Ratoff, che nel 1950 aveva interpretato proprio un produttore in “Eva contro Eva” di Joseph L. Mankiewicz con Bette Davis e Anne Baxter. Ratoff affida la sceneggiatura a un giovane scrittore che tira fuori dal suo cilindro la trovata di trasformare James Bond in Jane Bond, magari affidando il ruolo a una diva che adorava, Susan Hayward. Ovviamente venne silurato. In seguito Ratoff non riuscì mai a mettere insieme i soldi per la produzione del film, e nel 1960 morì lasciando il progetto nel cassetto. Qui arriva Charles Feldman che acquista i diritti dalla vedova e subito l’Albert Broccoli futuro produttore degli 007 con Sean Connery, arrivato tardi alla compravendita si offre di acquistare a sua volta i diritti; ma Feldman, che già si prefigurava una produzione con Cary Grant protagonista, se li tiene stretti.

Nel 1962 esce il primo film prodotto da Broccoli: “Dr No” da noi intitolato “Agente 007 – Licenza di uccidere”, e dato il successo del film, Feldman accantonò il suo progetto. Ma, fra una cosa e l’altra, ci aveva già speso circa 550.000 dollari, qualcosa come 5 miliardi di dollari attuali, e non potendo permettersi il lusso di lasciarlo ancora in un cassetto, si guardò in giro per mettere insieme una produzione, tentando anche di soffiare al nemico Sean Connery, che gli chiese un milione di dollari per il disturbo. Arrivederci e grazie.

Passando di mano in mano la sceneggiatura arriva a Billy Wilder che la riscrive completamente ma anche il suo nome non è accreditato fra gli sceneggiatori che alla fine firmano il film. Un passamano che ciclicamente veniva riportato anche dalla stampa e sembra che la vicenda della pre-produzione abbia divertito più del film: era diventata la favola dello show-biz. Alla fine viene fuori che sarebbe stata una parodia e che ci sarebbero stati tanti James Bond. Ma non si sapeva ancora che ci sarebbero stati anche tanti registi oltre a tante intromissioni nello script: il disastro era nell’aria.

Intanto venivano fuori i nomi delle star scritturate, ed erano talmente tante, anche per apparizioni fugaci, che la ricchezza del cast, unitamente al personaggio 007, decretarono un enorme successo al botteghino, nonostante il film sia stato durante la lavorazione, e anche a prodotto finito, un grande pasticcio.

David Niven, che era già stato in predicato per il ruolo ufficiale di James Bond, qui interpreta l’agente segreto già in pensione, Sir James Bond, che nella sua residenza di campagna riceve la visita di quattro capi spia: “M” a capo dell’MI6 britannico, interpretato da John Huston, anche regista; William Holden in rappresentanza della CIA; Charles Boyer come rappresentante dei servizi francesi, e Kurt Kasznar per il KGB. Lo implorano di rientrare in servizio per combattere contro la misteriosa SMERSH, un’organizzazione criminale che sta uccidendo tutte le spie sul pianeta. Sir Bond rifiuta e “M” gli fa saltare in aria la residenza, per vendetta, restando però ucciso nell’attentato. Bond si mette in viaggio per la Scozia, per consegnare le spoglie mortali alla vedova, Deborah Kerr, divertita e divertente matrona “hilander” che nell’originale parla con accento scozzese, adattato dal doppiaggio italiano alla bell’e meglio, raddoppiando le erre, ma perdendo la gran parte del divertimento che era dovuto proprio al confronto del duro scozzese con lo scivoloso londinese. Un preambolo scozzese che nella sua comicità non resa dalla lingua, diventa per noi molto lungo, anche troppo. Sir Bond va quindi a rimpiazzare “M” nel posto vacante di capo dell’MI6 e la sua prima trovata è quella di rinominare tutti gli agenti come “James Bond 007” per confondere il nemico; ulteriormente, aiutato dalla sua assistente Moneypenny, interpretata da una giovanissima Barbara Bouchet che ancora non sapeva che sarebbe diventata una star della commedia sexy all’italiana, Bond decide di fare addestrare un agente maschio, Terence Cooper, a resistere a tutte le tentazioni femminili cui uno 007 va sempre incontro: una digressione che ammicca al sexy, piena di belle figliole, inutile dal punto di vista narrativo e che oggi definiremmo anche sessista: il film lo è ampiamente, pieno di belle ragazze, atletiche armate e pericolose ma sempre ammiccanti, un ben studiato campionario per guardoni anni ’60. A seguire, Sir Bond ingaggia la spia Vesper Lynd, interpretata da quella statuaria Ursula Andress che era già stata la prima Bond Girl all’epoca del primo 007; che a sua volta ingaggia l’esperto giocatore di baccarat Evelyn Tremble come ulteriore 007, per incastrare il famigerato Le Chiffre agente della SMERSH. E qui casca l’asino.

Per il personaggio di Tremble era stato scritturato Peter Sellers che con “La Pantera Rosa” di Blake Edwards e “Il Dottor Stranamore” di Stanley Kubrick era diventato una star. Ma l’attore era un maniaco depresso, sempre insicuro del proprio talento, e questo si fece risentire sul set di “Casino Royale”. Tanto per cominciare, oltre a riscriversi da sé le battute, ingaggiò un proprio sceneggiatore per riscrivere le scene solo dal suo punto di vista, per mettere in ombra i colleghi coi quali avrebbe dovuto recitare: Orson Welles, da cui era seriamente intimorito per la mole del personaggio, anche fisica, e Woody Allen, un altro maniaco depresso che però dalle sue nevrosi era riuscito a creare un personaggio e il conseguente successo; aveva recitato con lui in “Ciao, Pussicat” diretto da Clive Donner ma scritto dallo stesso Allen, e ne temeva il confronto. Allen, dal canto suo, stava anche lui mettendo mano alle sue scene. Inoltre Sellers era intrattabile anche perché il suo matrimonio con Britt Eckland stava naufragando e spesso spariva dal set, tanto da costringere sceneggiatori e registi a inventarsi nuove soluzioni. Si narra inoltre che la principessa Margareth, in visita sul set, sia stata monopolizzata dall’affabulatorio Orson Welles a discapito di Peter Sellers che non riuscì neanche a stringerle la mano. Sellers e Welles riuscirono a girare insieme solo un paio di inquadrature, poi a causa dell’odio reciproco, la scena clou al tavolo da gioco venne girata con controcampi separati, dato che nessuno dei due voleva recitare con l’altro; Welles definì Sellers un attore amatoriale e approfittò della sua assenza per arricchire la sua scena con surreali giochi di prestigio, per mettere in ombra il già ombroso collega. Il risultato è che la scena più importante del film, il duello con carte da gioco, scorre via insignificante. Dunque Orson Welles ha cannibalizzato quel Le Chiffre che Peter Lorre aveva tratteggiato con grande maestria nel telefilm. Woody Allen interpreta il nipote sciocco di Sir Bond, che alla fine si rivela la mente comicamente malefica dell’intero plot. E’ davvero notevole il suo apporto al film e in una lunga sequenza mimata e acrobatica è impareggiabile, degno dei divi del muto Chaplin e Buster Keaton.

Completano il pasticcio Joanna Pettet nei panni di Mata Bond, figlia di Mata Hari e James Bond, e in ruoli minori Jacquelin Bisset come agente SMERSH che tenta di uccidere Evelyn Tremble, Jean-Paul Belmondo che fa una rapida apparizione come legionario francese, George Raft, come se stesso che lancia una moneta sul tavolo da gioco, come aveva fatto nello “Scarface” del lontano 1932. Non accreditato appare anche Peter O’Toole che si è inserito sul set per il piacere di scherzare con i colleghi, visto che la lavorazione del film era già diventata una farsa dove ognuno faceva quel che voleva: veste il kilt di uno zampognaro di banda nell’incubo di Tremble, e di sfuggita gli chiede: “Lei è Richard Burton?” “No sono Peter O’Toole” gli risponde Peter Sellers; “Ah, un brav’uomo!” replica O’Toole: un “non sense” da teatro dell’assurdo. In ultimo: la sequenza che si svolge a Berlino viene chiusa con un primo piano a una guardia americana del “check point” accanto al Muro, un primo piano a un figurante che mi è parso sospetto, e nella fotografia del fotogramma non si riconosce forse quel Barry Nelson che fu il primo 007 in tv?

Oltre a John Huston, sono accreditati come registi Ken Hughes, Val Guest, Robert Parrish, Joseph McGrath. Con l’aggiunta di scene di raccordo filmante dall’attore-stuntman Richard Talmadge, per dire di quanto fu complessa e accidentata la lavorazione del film.