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Mad Max: Fury Road

2015, esattamente trent’anni dopo il terzo capitolo della saga di Mad Max, arriva il quarto film, e dal punto di vista commerciale la serie cinematografica è ormai diventata anche un franchise e i soldi che girano sono davvero tanti, è una vera e propria rendita. In questo lasso di tempo il suo creatore George Miller ha diretto solo altri cinque film che, tolto il dramma biografico “L’olio di Lorenzo” che ebbe un ottimo riscontro da pubblico e critica con nomination agli Oscar per la sceneggiatura a Miller e alla migliore protagonista Susan Sarandon, sono tutti film di genere fantasy, genere col quale il regista sembra essere più a suo agio, ma in questi “lavoretti per sbarcare il lunario” mancano i veri elementi fondanti della sua visione cinematografica: l’azione e il noir, per non parlare del catastrofico: ha firmato la fiaba per adulti “Le streghe di Eastwick” e la fiaba per bambini “Babe va in città” sequel di un precedente “Babe” con protagonista un maialino, e poi dirige i due cartoon sui pinguini “Happy Feet” che scrive lui stesso e che gli fa guadagnare il suo primo Oscar nella categoria Miglior Film d’Animazione: sono tutti film di successo che divertono il suo lato bambino ma gli manca il lato oscuro di Mad Max, sul quale però all’epoca pensava di aver detto tutto ma al contempo sentiva che quelle storie polverose di sabbia del deserto avevano ancora molto da raccontare.

Come si dice nel gergo cinematografico il suo progetto era finito nel development hell, il girone infernale in cui finiscono tutti i progetti abortiti o congelati e da cui pochi escono per tornare in vita. E qui la narrazione della produzione è a mio parere più interessante del plot del film, che di fatto ricalca la linea dei precedenti: un percorso forzato per il protagonista sempre di poche parole, e azione, violenza, autoscontro, invenzioni visive – con l’aggiunta stavolta di una vera coprotagonista cui affidare le sorti future del franchising: l’Imperatrice Furiosa. Passeranno dieci anni e nel 1995 Miller fu in grado di riacquistare i diritti di Mad Max che aveva perso per i suddetti dissesti finanziari e concretizza l’idea del nuovo film solo nel 1998: “folli predoni che non lottano per la benzina o per il petrolio, ma per degli esseri umani”. Fra un aggiustamento e l’altro la produzione era pronta a partire con la 20th Century Fox nel 2001 ma l’attacco alle Torri Gemelle fece rimandare il progetto.

George Miller con Tom Hardy e Mel Gibson che gli passa il testimone all’anteprima del film

All’epoca il 45enne Mel Gibson si disse subito pronto a rimettersi nei panni di Mad Max ma George Miller non era più convinto: nella sua storia non erano passati gli stessi anni che nella vita reale e il protagonista che aveva in mente non era perciò invecchiato: per lui era tempo, come accadeva per 007, che subentrasse un altro attore; ma la produzione spingeva per avere di nuovo la star e Mel Gibson fu ingaggiato per il quarto capitolo con inizio delle riprese nel 2003. Ma ancora una volta il progetto finì nel development hell allorché scoppiò la guerra in Iraq e parlare di predoni del deserto alla produzione non sembrò più un affare. Dal canto suo l’attore stava facendo i conti con la mezza età che inesorabilmente avanzava e tirava avanti con film di secondo livello, ma soprattutto combattendo i suoi demoni: l’alcolismo, per il quale è stato costretto a curarsi dopo essere stato arrestato per guida in stato di ebbrezza, passando per la denuncia per maltrattamenti conditi di insulti a sfondo razzista e minacce di morte alla sua compagna Oksana Grigorieva: accuse che portarono a una condanna per la quale Gibson patteggiò 3 anni di libertà vigilata; ma si è macchiato anche di insulti antisemiti a un poliziotto nonché di varie dichiarazioni omofobe per finire col ridicolo epiteto col quale si rivolse a un agente di polizia donna: “sugar tits”. Una persona davvero a modo, Mel Gibson.

Intanto, archiviata anche la guerra in Iraq, nel 2006 Miller si disse pronto a riprendere in mano il film, con o senza Gibson dichiarò, con una nuova sceneggiatura nella quale aveva coinvolto il fumettista inglese Brendan McCarthy che aveva anche disegnato nuovi veicoli e personaggi in uno storyboard di 3500 vignette che raccontava un film tutto azione e poche chiacchere, che avrebbe potuto essere compreso anche in Giappone senza sottotitoli, dichiarò Miller parafrasando Alfred Hitchcock. Allorché fu reso noto che Mel Gibson non era più nel progetto fu fatto il nome di Heath Ledger, ma l’attore morì nel 2008: quando è troppo è troppo e l’esasperato George Miller decise a quel punto di cambiare prospettiva e realizzare un film di animazione in 3D estendendolo anche alla piattaforma dei videogiochi, ma durò poco perché l’autore tornò all’idea originale del film in live action, con un po’ di delusione del fumettista McCarthy che non avrebbe più visto i suoi disegni prendere vita. Nel 2009 cominciarono le ricerche delle location, sempre nell’outback australiano e finalmente il film si avviava alla realizzazione sotto l’egida della Warner Bros.

Cominciarono le indiscrezioni riguardo a un ritorno di Mel Gibson ma le chiacchiere caddero tutte quando fu annunciato che l’inglese Tom Hardy (che quando fu girato il primo film della serie aveva due anni) sarebbe stato il nuovo Mad Max: ottenne la parte grazie all’intesa immediata che ebbe con Miller, scintilla che invece non era scoccata allorquando alla lettura del copione era stato prima chiamato Jeremy Renner. Si vociferava anche di un importante ruolo femminile e fra le preferite dell’autore c’era Uma Thurman finché non firmò per il ruolo la sudafricana Charlize Theron che al suo attivo aveva un Oscar 2004 per “Monster”, e sono dettagli che contano nella composizione di un film super milionario. A quel punto si poteva cominciare a girare – anzi no: le desertiche Broken Hill, già set per Mad Max 2, furono improvvisamente inondate da super tempeste come non si vedevano da decenni e il deserto divenne un giardino fiorito, un verdeggiante Eden che di nuovo gettò nello sconforto il già provatissimo Miller.

Ma la produzione – che oltre allo stesso Miller e allo scomparso Byron Kennedy inserito fra i produttori “ad memoriam”, contava anche Doug Mitchell che era nel pacchetto sin dal terzo capitolo della serie e che ha coprodotto tutti gli altri film di Miller, e P. J. Voeten che qui si piazza anche come regista assistente (e prima o poi farà il gran salto e debutterà come regista) – la produzione, dicevo, contava 150 milioni di dollari americani messi sul piatto dalla Warner Bros. attraverso la RatPac Entertainment, e i signori dollari spingevano perché le riprese avessero inizio, pioggia o meno. Un’ambientazione piovosa e il deserto rifiorito avrebbero però vanificato la storia che Miller voleva raccontare dove il cattivissimo di turno, il signore della guerra Immortan Joe, accumula preziosa acqua nella sua Cittadella nel deserto dove accumula anche belle figliole da stuprare e far figliare. Così i produttori, tutti insieme appassionatamente, elaborarono il nuovo piano che ha spostato i set nel deserto della Namibia, il paese più arido dell’Africa sub-sahariana, e questo ha comportato l’immane sforzo di per trasportare i veicoli post-apocalittici che erano già stati costruiti; ma poiché gli americani si erano dichiarati contrari – pensando forse di risolvere con dei modellini e la computer grafica – Mitchell caricò a loro insaputa una nave e solo dopo che essa aveva preso il largo informò i colleghi a stelle e strisce, e lo scenografo Richard Hobbs – che firma con Colin Gibson e Lisa Thompson – ricorda: “Sulla nave c’erano settantadue container pieni di roba, e questo non includeva i veicoli. Questi veicoli non stanno sul retro dei camion, non stanno nei container. Devi costruire box merci personalizzati per spostarli. E una volta che il trasporto ha avuto successo, la troupe ha iniziato ad arrivare nella città di Swakopmund, dove avrebbero risieduto durante le riprese.” E va detto che il design degli automezzi è davvero spettacolare e il concept più sorprendente mi è parso l’auto-istrice.

L’avventura delle riprese può cominciare, ricordando il resto del cast: nel ruolo del cattivissimo torna, invecchiato e mascherato, Hugh Keays-Byrne, che dopo aver fatto sé stesso, ovvero un motociclista delinquente in “Mad Max: interceptor” e altri film, chiude qui la sua carriera: morirà 73enne nel 2020.

Ma il terzo nome, in termini di star-system, è quello del britannico Nicholas Hoult, ex attore bambino che passando per gli X-Men e altri blockbusters è al momento lanciatissimo. Interessante il parterre femminile in cui ritroviamo nel ruolo secondario di una Valchiria la modell’attrice australiana Megan Gale divenuta nota da noi come testimonial di Omnitel-Vodafone e debuttando poi come sé stessa in due cine-panettoni di Neri Parenti; c’è poi il gruppo delle giovani mogli del cattivone che l’Imperatrice Furiosa rapisce e salva, e fra loro quella che ha fatto più carriera è la figlia d’arte Zoë Kravitz (figlia del cantante Lenny Kravitz e dall’attrice Lisa Bonet); le altre sono Rosie Huntington-Whiteley, Riley Keough, Abbey Lee e Courney Eaton.

Nicholas Hoult
La miniserie a fumetti in cinque volumi di Mark Sexton e Nico Lathouris, che funge da prequel del film.

Nel cast tecnico la costumista Norma Moriceau che fu geniale creatrice del mondo tribal-punk di Mad Max firmando i film 2 e 3, al momento della lavorazione era probabilmente malata, morirà l’anno dopo; viene sostituita dalla londinese Jenny Beavan già premio Oscar per “Camera con vista” di James Ivory (1987) e che lo vincerà di nuovo per questo film, e un terzo Oscar lo vincerà nel 2022 per “Crudelia” di Craig Gillespie, reboot con Emma Stone dei film con Glenn Close di fine-inizio millennio. Alla fotografia John Seale al suo debutto con Miller e già premio Oscar per “Il Paziente Inglese” di Anthony Minghella (1997) e al montaggio Margareth Sixel già collaboratrice di Miller per il maialino e i pinguini che stavolta vince l’Oscar. La colonna sonora, tranne i brani dalla “Messa da Requiem” di Giuseppe Verdi, è dell’olandese Junkie XL. Il film è stato un altro clamoroso successo entusiasmando pubblico e critica: in effetti la visionarietà di George Miller, benché non discostandosi dalla narrativa della saga, e questo è un rassicurante continuum, si serve in modo eccellente delle innovazioni tecnologiche e visive che dal 1985 al 2015 sono entrate nel cinema: e tutto un altro bel vedere.

Dunque, oltre agli Oscar per costumi e montaggio, il film ne ha ricevuti altri quattro tecnici: miglior scenografia, migliori trucco e acconciature, miglior sonoro e miglior montaggio sonoro; era anche candidato come miglior film, miglior regista, migliore fotografia e migliori effetti speciali. Fury Road è il primo film della serie a ottenere delle candidature agli Oscar e a vincerne sei su dieci, piazzandosi come più premiato in quell’edizione del 2016 e secondo film con più candidature dietro alle 12 “Revenant – Redivivo” di Alejandro González Iñárritu; ed è anche il film australiano con più statuette in assoluto togliendo il record a “Lezioni di piano” di Jane Campion del 1993 che ne deteneva tre. A questo punto le aspettative per i sequel e prequel e spin-off che Miller ha in mente si fanno sempre più alte: riuscirà a soddisfarle?

Tornando alla lavorazione del film, sul set non andò tutto liscio, e non fu solo per la sabbia che s’infilava dappertutto: i due protagonisti litigarono furiosamente dando voce alla Fury Road. La precisissima Charlize Theron – preparazione da ballerina classica con il senso del dovere e dell’abnegazione – si presentava sul set al minuto esatto della convocazione e vedeva come il fumo negli occhi, o la sabbia nelle mutande per restare in tema, Tom Hardy che invece arrivava quando voleva, addirittura con ore di ritardo: non è professionale e ha ragione lei. Che all’ennesimo ritardo ha perso le staffe gridandogli contro: “Bene! date a quel fottuto stronzo centomila dollari di multa per ogni minuto di ritardo che ha tenuto ferma la troupe! Tu non sai che cosa sia il rispetto!”, e lui le si fece sotto con aria minacciosa: “Che cosa mi hai detto?!”, talmente minaccioso che lei da quel giorno in poi volle accanto a lei la protezione e il sostegno femminile di una figura della produzione. Poi hanno fatto pace per la stampa.

Anche stavolta Miller ha privilegiato l’azione sui dialoghi tanto che Tom Hardy ha in seguito dichiarato la sua difficolta a stare sul set sia per l’isolamento che comportava che per la mancanza di battute del personaggio. E riguardo a questa sua saga George Miller ha dichiarato: “Non sono realmente collegati in modo rigoroso. Ognuno di essi è un nuovo capitolo di una saga su di un personaggio piuttosto archetipico: il vagabondo nella terra desolata, alla fondamentale ricerca di un significato. Si tratta di un personaggio che vediamo soprattutto nei classici western o nelle storie di samurai, con i ronin. Non si può concretamente mettere insieme una cronologia dei film di Mad Max. Non sono mai stati concepiti in questo modo, perché dopo aver realizzato il primo non avevo alcuna intenzione di girarne un secondo. Mad Max 2 è stato in definitiva un tentativo di fare le cose che non ho potuto fare nel primo e così via. Sono tutti film indipendenti in tanti modi diversi.” Per quel che riguarda le uscite è attualmente nelle sale “Furiosa: a Mad Max Saga” che racconta le origini dell’Imperatrice Furiosa con Anya Taylor-Joy nel ruolo da giovane che fu Charlize Theron. E non finisce qui. Anzi sì. Forse no. Chissà.

Stranizza d’amuri – opera prima di Giuseppe Fiorello

Lo dico subito e senza indugi: non ho mai amato Beppe Fiorello, ma per onestà devo dire che il suo debutto come regista mi ha più che convinto. Considero altri, gli attori, e senza andare all’estero o scomodare la vecchia guardia o addirittura i morti, mi basta citare Elio Germano, Pierfrancesco Favino, Alessandro Gassmann, Kim Rossi Stuart, Claudio Santamaria… di certo ne dimentico qualcuno e certamente ne tralascio qualcun altro, i gusti sono gusti. Beppe Fiorello appartiene a quella categoria di attori che non hanno fatto scuole o seri apprendistati e ha solo avuto ottime frequentazioni ed eccellenti opportunità, dunque fortuna. In questo senso uno che si è inventato dal nulla ma che è cresciuto bene come attore è Valerio Mastandrea. Beppe da ragazzo faceva da tecnico nei villaggi turistici al fratello maggiore Rosario che era lo sfacciato simpatico intrattenitore e che tale è intelligentemente e prudentemente rimasto, sviluppando un personaggio arguto e incisivo; di certo a Rosario Fiorello non saranno mancate le occasione e le succulente offerte per farsi attore ma evidentemente è ben conscio dell’ambito in cui riesce meglio.

Fiorellino, è questo l’ambiguo nomignolo che si è scelto per debuttare ai microfoni di Radio Deejay, e subito a seguire debutta anche in tv sostituendo il fratello alla conduzione del programma “Karaoke” che importò da noi l’orrida esperienza d’intrattenimento sociale che da lì è dilagata anche nei bar e nei ristoranti, e che come “La corrida” ha riempito il piccolo schermo di dilettanti allo sbaraglio, aprendo un terribile Vaso di Pandora. Da buon dilettante allo sbaraglio co’ bullu (col bollo statale, patentato) – e qui sto facendo un richiamo al film dove il ragazzo gay è apostrofato puppu co’ bullo – Fiorellino portò allo sbaraglio il programma che chiuse i battenti. Ma ormai il ragazzo aveva assaggiato le lusinghe della facile fama costruita sul nulla e tentò la carriera musicale come frontman del gruppo pop Patti Chiari che nel 1997 si esibirono al Festibalbar per poi essere subito dimenticati, anche dal web che conserva tutto. Ma il seme del Fiorello attore era già stato seminato l’anno prima: Niccolò Ammaniti ce l’ha sulla coscienza. Si erano conosciuti a Riccione e lo scrittore gli propose di sottoporsi a un provino con Marco Risi che stava preparando il film “L’ultimo capodanno” dal suo libro “L’ultimo capodanno dell’umanità”, film che fu un fiasco, ma l’eroico Beppe aveva trovato la cornice adatta alla sua arte informale.

Fra gli attori teatrali di vecchia scuola si racconta questa parabola: C’era un ragazzo che non sapeva fare nulla ma era ricco di sogni di gloria; in tv vede i trionfi del pugile Nino Benvenuti e decide di farsi pugile ma dopo aver preso i primi pugni decide che non fa per lui. Poi vede i successi del motociclista Giacomo Agostini e decide di darsi al motociclismo ma cade malamente e si frattura varie ossa, e di nuovo decide che non fa per lui. Poi qualcuno lo porta a teatro e lì resta estasiato dagli scroscianti applausi con cui il pubblico omaggia gli attori e allora decide di diventare attore. Anche quel mestiere non fa per lui ma nel bene e nel male il pubblico applaude sempre e oggi quel ragazzo fa ancora l’attore.

Giuseppe Fiorello passa dal grande al piccolo schermo con “Ultimo – il capitano che arrestò Totò Riina” che aveva nel ruolo di protagonista un altro infiltrato nella recitazione, Raul Bova, che però di suo aveva un’indiscutibile avvenenza. L’anno dopo si e ci concede un cameo, nell’hollywoodiano girato in Italia “Il Talento di Mr. Ripley” di Anthony Minghella dove compare fra gli altri italiani anche il fratello Rosario. A quel punto non lo ferma più nessuno e si darà anche al teatro ma sulla sua pagina Wikipedia alla voce “Premi e Riconoscimenti”… no pardon, non c’è questa sezione sulla sua pagina.

Però il regista di oggi gli cresceva dentro. Nel 2007 dirige il video musicale della siciliana Silvia Salemi “Il mutevole abitante del mio solito involucro” e nel 2010 fonda la sua casa di produzione “Ibla Film” mentre Rosario fonda “R.O.S.A.” e insieme producono per i 150 anni dell’unità d’Italia il cortometraggio “Domani” dove fa recitare i suoi figli Anita e Nicola. Si fa dunque produttore e anche sceneggiatore dei progetti in cui recita e a quel punto arriva lo speciale tv autocelebrativo “Il racconto di Beppe Fiorello” firmato dal Vincenzo Mollica per Rai1: l’ego, si sa, va nutrito, e lui a 44 anni ha molto da raccontare di sé e della vita.

Nel 2016, Beppe con la sua casa di produzione opziona i diritti del romanzo del romano Valerio La Martire “Stranizza” che dopo essere uscito nel 2013 edito da “Bakemono Lab.” riceve il patrocinio di Amnesty International per essere rieditato da “David and Matthaus”, dunque sono passati sette anni perché il film prendesse forma, sette anni assai ben spesi. Il romanzo si ispira a una vicenda realmente accaduta nel 1980 nota alle cronache come delitto di Giarre, in provincia di Catania, un duplice delitto di matrice omofoba: le vittime erano Giorgio 25enne dichiaratamente gay e già vittima di bullismo omofobo e Antonio il suo ragazzo 15enne, entrambi uccisi con un colpo di pistola alla testa e ritrovati ancora mano nella mano, che è l’immagine idilliaca sulla quale si chiude il film.

Oggi la vicenda più che per l’amore omosessuale sarebbe stigmatizzata per l’età dei due e si parlerebbe di pedofilia ma quarant’anni fa il crimine era l’omosessualità, in una terra e in un’epoca in cui peraltro erano ancora normali le fuitine con le spose-bambine, quelle che oggi condanniamo in altre culture. L’esecutore del duplice omicidio non fu mai legalmente individuato anche se le indagini condussero al nipote 12enne quasi coetaneo di Antonio, che sarebbe stato incaricato dalle famiglie di compiere il delitto d’onore; interrogato dai carabinieri il bambino, cicciottello e sempliciotto, le cronache diranno che era un po’ ritardato, sostenne che invece erano stati i due innamorati a chiedergli di essere uccisi per l’impossibilità di vivere apertamente la loro relazione, salvo poi ritrattare adducendo che era stato costretto a suon di ceffoni dai carabinieri a dare quella confessione; di fatto non fu mai perseguito per la sua giovane età. Giornalisti e televisioni si affollarono a Giarre da tutta Italia scontrandosi però con l’omertà della comunità locale che non voleva essere associata a una storia di puppi, mentre l’intera opinione pubblica italiana cominciò a fare i conti col problema della discriminazione omofoba, termine che all’epoca neanche esisteva. Il Corriere della Sera titolò: “Derisi da tutto il paese due omosessuali siciliani si fanno uccidere da un ragazzo di 12 anni abbracciati” che è un po’ quello che fecero tutti i quotidiani italiani. Immediatamente il “F.U.O.R.I!”, Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario italiano attivo da Roma in su sin dagli anni ’70 che con quel punto esclamativo fa dell’acronimo una parola di senso compiuto che si associa all’inglese coming out, apre una sede in loco per far sentire la loro voce sul territorio, ma serve a poco: passata l’emergenza i giornalisti se ne vanno e la pace ritorna in provincia.

Marco Bisceglia

Ma se la stampa si distrae così non è per gli omosessuali militanti: dall’altro lato dell’Isola, a Palermo, c’era un prete dichiaratamente omosessuale e sostenitore dei diritti per le persone omo-affettive, Marco Bisceglia; egli era incorso nella sospensione a divinis per essere caduto nella trappola tesagli da due giornalisti del settimanale di destra “Il Borghese”, che fingendosi due cattolici omosessuali gli si rivolsero chiedendogli un “matrimonio di coscienza”; il prete, già sotto i riflettori della Chiesa per le sue posizioni non ortodosse, era divenuto assai cauto nelle manifestazioni pubbliche e acconsentì a una benedizione privata; venne fuori la cronaca dei due solerti giornalisti che nel loro brillante articolo misero insieme le parole “omosessuale” e “ripugnante” e lo scandalo fu servito; Bisceglia li querelò ma i due furono assolti in virtù del diritto di cronaca. Sospeso dal servizio attivo ma ancora religioso e combattente, cominciò a collaborare con l’ARCI, Associazione Ricreativa e Culturale Italiana, fondata nel 1957 a Firenze con l’intento di creare sul territorio, in quel dopoguerra della ricostruzione, dei circoli o case del popolo, di fede comunista e socialista, dunque antigovernativa. Il prete, con la collaborazione del 22enne Nichi Vendola, fondò l’ARCIGAY, la prima sezione dell’ARCI dedicata esclusivamente alla cultura omosessuale, che da Palermo si diffonderà prestissimo in tutta Italia. Anche le femministe lesbiche diedero vita al primo collettivo lesbico siciliano, “Le Papesse”. Per concludere la vicenda di Marco Bisceglia: negli ultimi anni si ammalò di AIDS e, allontanatosi dalle barricate della cultura progressista e omosessuale, fu reintegrato nelle funzioni presbiteriali dall’allora cardinale Joseph Ratzinger e nominato Vicario Coadiutore della Parrocchia di San Cleto a Roma, dove morì nel 2001. Di lui resta, come messaggio laico, la sua rivoluzione per la rivalutazione del corpo, per la liberazione della vita sessuale di ciascuno dalle catene di una morale sessuofobica, colpevolizzante, repressiva, causa di tanta infelicità, che non contraddice la portata positiva del Cristianesimo: il senso del “sacro”, il senso dell’amore. Sacro tra virgolette, a significare dignità, nobiltà, rispetto.

Giuseppe Fiorello con Samuele Segreto.

Digressione dal film molto ampia e particolareggiata, come sempre del resto in questo blog, perché parlando di cinema mi piace contestualizzare i fatti e le persone per una lettura più sociale e umana che strettamente critica. Giuseppe Fiorello realizzando il suo primo film vola alto, come già da attore e produttore dei suoi progetti cine-televisivi aveva mostrato di prediligere un certo impegno, politico e morale. La storia che racconta il film non è la storia vera, ma solo una riuscitissima ispirazione. Così come il romanzo si prendeva delle libertà narrative rispetto alla vicenda reale, altrettanto Giuseppe Fiorello, con i suoi co-sceneggiatori Andrea Cedrola e Carlo Salsa, sviluppa una storia più personale così densa di dettagli e portatrice di emozioni così sincere da sembrare autobiografica, e sappiamo che non lo è; Beppe all’epoca del delitto di Giarre era un undicenne presumibilmente senza dubbi sulla sua identità sessuale, solo di un anno più piccolo del bambino accusato del duplice omicidio, e lui è venuto a conoscenza della vicenda solo in anni recenti, leggendo un articolo di cronaca che parlava del trentennale del delitto e che lo colpì moltissimo, e in quanto siciliano si è sentito co-responsabile del fattaccio e non lo ha più dimenticato, fino ad acquisire i diritti del romanzo che poi romanza e, come dice lui stesso: “Non si è mai scoperta la verità e allora mi sono affidato alla mia immaginazione. Ho immaginato un’estate di due ragazzi che si incontrano e fanno un percorso di vita insieme.”

Gabriele Pizzurro e Samuele Segreto

Colloca la vicenda nel 1982 dei mondiali di calcio, anno calcisticamente vittorioso per l’Italia che utilmente fa da sfondo a molti film che raccontano quegli anni, dando spessore a vicende umane e tensioni narrative; conoscendo bene i luoghi della sua giovinezza compone nel suo film una geografia fantastica che mettendo insieme diversi luoghi reali diventa narrativamente irreale, magica: si tiene lontano da Giarre per non turbare animi ancora dolenti, come ha spiegato, e mette insieme differenti periferie semi-rurali e paesini dove il folclore gioioso fa da contraltare a lavori duri e pericolosi: la cava di pietre e i fuochi d’artificio, con l’impressione sempre sospesa che qualcosa di brutto accadrà in quei luoghi e con quei lavori, ma nulla accade e la vita scorre tranquilla pur nei disagi interiori che non hanno voce. Se qualcosa di brutto deve accadere verrà fuori da quegli animi inquieti.

Gabriele Pizzurro, Simone Raffaele Cordiano e Antonio De Matteo, padre e figli.

E c’è Totò, il fratello piccolo di Nino, intorno al quale il neo-regista tesse una sapientissima tela di sguardi cinematografici che non raccontano nulla di specifico ma che ci insinua sensazioni e dubbi: ammira il fratello maggiore, gli vuole bene? o ne invidioso, e lo odia perché gli ruba attenzioni? e non dimentichiamo che il film si apre con lui che aiutato dallo zio spara a una lepre: il regista segna quel bambino con un battesimo alla polvere da sparo. Così, altrettanto, tutto il film, raccontando la specifica storia di un’amicizia che è anche la scoperta dell’amore adolescenziale, ha sguardi acuti su tutti i personaggi che racconta, scavando nelle loro espressioni, raccontando gesti minimi che hanno il sapore di un antico vissuto e danno spessore e controluce a un film dagli scenari luminosi in cui le ombre si stagliano più nette. Riguardo all’amore adolescenziale omo-affettivo il regista ha dichiarato: “L’adolescenza è quel tratto di vita che trovo divino, in cui ci si ama tra amici pur non essendo omosessuali. Io ho amato il mio amico Carmine, il mio amico Gianni, il mio amico Salvo, il mio amico Emanuele. Ci amavamo, veramente. L’amore adolescenziale va al di là di tutti i discorsi politici. Noi siamo veramente arretratissimi rispetto agli adolescenti. I miei figli si chiedono perché, quando si parla di omosessualità in tv, si usa un tono ‘diverso’. Per loro non è così… Anche del mio film hanno detto è una storia di coraggio. Ma è un peccato pensare che per amarsi ci voglia coraggio.”

La scena dello sberleffo omofobo.

Il neoregista non sbaglia neanche il cast, per comporre il quale guarda senza timore anche fuori dalla Sicilia; un cast da cui tiene fuori nomi e volti più o meno noti e ai debuttanti affianca eccellenti professionisti non ancora “bruciati” da troppe presenze cinematografiche: sono tutti bravissimi, quanto effettivamente lui non è mai stato nella sua carriera di attore. Come regista è bravissimo nel farli esprimere tutti in un credibile siciliano, tenendosi lontano dal finto “sicilianese” di tanti film e interpreti che non sanno cosa sia la lingua siciliana; qua e là affiorano accenti palermitani ma nell’insieme il dialetto di questo film è una sorta di lingua franca in assoluta armonia con le ambientazioni altrettanto di confine.

Luca Pizzurro

Gianni è interpretato dal 19enne palermitano Samuele Segreto che a otto anni ha cominciato a studiare danza e 12enne debutta come attore nel film di Pif “In guerra per amore” e da lì in poi alterna la danza e la recitazione fra programmi e serie tv con una partecipazione ad “Amici” di Maria De Filippi; qui è al suo primo ruolo da protagonista. Nino, l’altro coprotagonista, è il coetaneo romano Gabriele Pizzurro, figlio di Luca Pizzurro attore autore e regista che a Roma dirige il Teatro del Torrino dove a tre anni ha avviato il piccolo Gabriele in laboratori di recitazione per bambini: comprendo il desiderio genitoriale di trasmettere ai figli le proprie passioni ma sono più per il libero arbitrio e lasciare che un bambino sviluppi i suoi propri interessi… magari abbiamo perso un fisico nucleare o un eccellente artigiano ma non lo sapremo mai perché è stato plasmato un altro attore; di fatto il bambino a otto anni va in tournée con Alessia Fabiani nel musical “La bella e la bestia” dove interpreta il candelabro Lumière, quindi sempre bambino va avanti a musical e tournée e viene da chiedersi quando abbia trovato il tempo di andare anche a scuola; passa pure da una masterclass di recitazione all’altra fino a questo suo debutto assoluto nel cinema.

Bellissimi i ruoli delle due madri, magistralmente scritti e magistralmente interpretati: la consapevole e dolente Lina, interpretata dall’ericina (da Erice, Trapani) Simona Malato, che abbiamo già visto in “Le sorelle Macaluso” di Emma Dante, e la napoletana Fabrizia Sacchi, già con una lunga carriera di attrice teatrale televisiva e cinematografica, che interpreta Carmela, donna gioiosa che ama riamata, ma che sprofonda in una cupezza furente e feroce.

I ruoli maschili adulti vanno al casertano Antonio De Matteo, intensissimo padre di Nino, recentemente noto per un ruolo nel televisivo “Mare Fuori”; suo fratello, l’affettuoso zio Pietro, è interpretato con dosatissima ambiguità dal palermitano Roberto Salemi, anch’egli con una lunga carriera sui vari media; Franco, il patrigno di Gianni, è interpretato con la giusta ottusa durezza, e insieme ansia, dal palermitano Enrico Roccaforte, attore e regista che ha partecipato a diversi stage internazionali e ha all’attivo diverse serie tv: qui è cinematograficamente nel suo ruolo più di rilievo.

Il piccolo Totò è l’undicenne messinese Simone Raffaele Cordiano che già lo scorso anno aveva debuttato con “I racconti della domenica” di Giovanni Virgilio e ha all’attivo anche una partecipazione nel televisivo “Buongiorno mamma!”. La palermitana Giuditta Vasile interpreta la sorella maggiore e il ragusano Giuseppe Spata interpreta il suo giovane marito che al dolore del giovane cognato ferito dallo scandalo omofobo confida e consiglia un illuminante: “Quello che fai di nascosto lo puoi fare per cent’anni”. Fra gli altri ruoli di rilievo vanno annoverati gli omofobi tormentatori di Gianni: il palermitano Giuseppe Lo Piccolo, che è il più feroce, e il torinese Alessio Simonetti che è il bello capobranco con una segreta passione omoerotica per la vittima. La ragusana Anita Pomario, anche lei vista in “Le sorelle Macaluso”, interpreta la dolente ragazza in vendita davanti al bar. Divertente il personaggio muto dell’americano con tanto di cappello da cowboy e super-stereo in spalla, figura che appartiene alla memoria collettiva di tanti siciliani di provincia, forse vero americano immigrato per amore oppure paesano di ritorno che fa l’americano; è l’ultima interpretazione di Orazio Alba, amico e attore catanese prematuramente e improvvisamente scomparso in concomitanza all’uscita del film.

Nell’insieme un cast di attori per i quali vedrei bene un premio collettivo in qualche festival, e nello specifico il mio cuore batte per Simona Malato e Antonio De Matteo. Prevedo in ogni caso premi e riconoscimenti anche al regista esordiente, ma per Nastri d’Argento e David di Donatello se ne parla il prossimo anno, dato che i primi sono stati già assegnati e dei secondi sono già stati dati i candidati.

Di stranezza in stranezza il titolo del romanzo conduce Beppe al titolo di una canzone, “Stranizza d’amuri” di Franco Battiato, sul quale non è necessario spendere parole; la canzone parla della capacità dell’amore di sopravvivere in qualsiasi contesto, anche il più difficile, e racconta di una coppia di innamorati in mezzo a una guerra ma che, “nonostante l’orrore che li circonda, sentono che il loro sentimento non cede, non muore, rimane puro e stabile”. Beppe racconta che Battiato è stato la colonna sonora della sua giovinezze e va da sé che la canzone diventi la colonna sonora del film che prende il medesimo titolo, e di Battiato c’è anche “Cucuruccucù” a sottolineare il momento gioioso della relazione fra i due ragazzi. Mentre le musiche originali sono del modicano Giovanni Caccamo già collaboratore di Battiato, e del romano Leonardo Milani. E di stranezza in stranezza mi viene da considerare che quest’anno ben due film ne parlano: prima di questa “Stranizza d’amuri” c’è stato “La stranezza” di Roberto Andò a sottolineare il fatto che la stranezza, come sentimento e come modo di essere, appartiene ai siciliani.

Giuseppe Fiorello fra Giovanni Caccamo e Leonardo Milani.

Tornando al duplice delitto del 1980: Il 9 maggio 2022 il Comune di Giarre ha apposto una targa commemorativa dedicata alle due vittime all’ingresso della biblioteca comunale “Domenico Cucinotta”, e mi sono voluto chiedere che fine avesse fatto Francesco Messina, quel bambino cicciottello forse un po’ ritardato che le famiglie hanno mandato a compiere il delitto d’onore: oggi è in carcere per estorsione e ha all’attivo una lunga lista di precedenti penali: quel duplice omicidio ha fatto tre vittime, perché forse il bambino spinto all’omicidio dall’orgoglio omofobo di due famiglie avrebbe potuto avere altre occasioni di vita.