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Blow-up – per ricordare Jane Birkin

Il 16 luglio di questo 2023 a 76 anni se n’è andata Jane Birkin, che viene universalmente ricordata non tanto per la sua carriera di attrice che pure ha avuto dei picchi importanti, quanto perché è stata un’icona sexy e, prima che attrice, è stata anche più attiva come cantante. Aveva cominciato a 17 anni a calcare le scene londinesi seguendo la madre Judy Campbell, attrice e cantante famosa per i musical di Noël Coward, mentre il padre David nulla aveva a che fare col mondo dello spettacolo essendo un comandante della Royal Navy. La 18enne Jane debuttò anche lei in un musical del compositore John Barry, autore delle colonne sonore di 007 e non solo, che finì con lo sposare l’anno dopo. Lo stesso anno debutta sullo schermo con un piccolo ruolo nel film di Richard Lester che fu Palma d’Oro al Festival di Cannes “Non tutti ce l’hanno” ed è col film successivo, questo “Blow-up” del 1966 che accende la fantasia di tutti mostrando il seno nudo e diventando un’icona della Swinging London, la Londra del boom economico, che caratterizzò la seconda metà degli anni Sessanta.

Il film di Michelangelo Antonioni si inscrive a pieno titolo nel cinema che espresse quella dondolante e altalenante Londra, la Swinging London, che fu un movimento sociale e culturale che si espresse anche nella moda – il cui personaggio chiave fu Mary Quant con la sua minigonna – e nella musica – includendo band come i Beatles, i Rolling Stones e i Who. Antonioni, che aveva debuttato nel 1950 con “Cronaca di un amore” imponendosi come un autore rivolto al rinnovamento degli stili, un decennio dopo fra il ’60 e il ’62 realizzò la sua famosa “trilogia dell’incomunicabilità” o “esistenziale” con riferimento anche all’alienazione e al disagio mentale, protagonista la sua compagna dell’epoca Monica Vitti. Ma è con il successivo “Il deserto rosso” del 1964, Leone d’Oro al Festival di Venezia, che si impose all’attenzione internazionale e gli si aprirono le porte per realizzare questo suo film inglese. L’idea gli era venuta con la lettura del racconto “Le bave del diavolo” dell’argentino Julio Cortázar da cui prese solo lo spunto sviluppando una sua personalissima storia – nel racconto il crimine è la pedofilia, nel suo film è un omicidio – storia intrisa ancora del suo disagio sull’incomunicabilità ma che nello sviluppo narrativo diventa anche documento, ancora attualissimo, di quella Swinging London: cos’era, com’era, cosa si faceva, che musica si ascoltava. Alla fine dell’articolo il link dove leggere il racconto completo che ha ispirato il soggetto di Michelangelo Antonioni.

Nella prima versione della sua sceneggiatura c’erano anche scene di sesso ma poi Antonioni si autocensurò ricordando i problemi che aveva avuto con “L’avventura” e non voleva che il suo primo film internazionale potesse incorrere in alcun incidente, ma nonostante ciò la magistratura italiana sequestrò il film per oscenità – e davvero non c’è oscenità nel film, se non il seno di Jane Birkin appunto, e qualche altro nudo e degli amplessi di quel sesso libero ma con inquadrature veloci e in campo lungo: ovviamente oggi abbiamo una differente percezione dell’oscenità. E da questo punto di vista, quello strettamente sociale e politico, il film dovette essere stato considerato osceno per il suo angosciante pessimismo, intriso di nichilismo antireligioso e antisociale: mette in discussione la percezione stessa della realtà, e in un’epoca di boom economico e di edonismo spinto era un punto di vista disturbante, perché la visione del film non era quella di una realtà momentaneamente distorta dalle droghe psichedeliche ma una realtà messa in discussione per principio, e come fine ultimo della narrazione. Il fotografo scopre nei dettagli sempre più ingranditi dei suoi scatti la prova di un probabile omicidio, fino a trovare fisicamente il cadavere. Salvo poi non trovarlo più quando torna armato di macchina fotografica per provare il crimine – che resta solo nelle immagini sgranate degli scatti rubati, tanto sgranati da sembrare irreali, e forse davvero irreali.

Alla fine del film il protagonista si distrae con una coppia di mimi che gioca a tennis senza racchette e senza palla, seguiti da un pubblico di altri mimi che seguono la traiettoria della palla inesistente, e anche la macchina da presa la comincia a seguire nei suoi rimbalzi, e cominciamo anche a sentire i colpi di racchette inesistenti sulla palla inesistente; finché la palla vola oltre il recinto da dove il protagonista osservava, e invitato va egli stesso a raccogliere la palla inesistente: la realtà la si può inventare, è tutto frutto di fantasia. Un messaggio potente, da uno che fa cinema, fotografia in movimento.

Il fotografo di moda protagonista del film è lui stesso alla moda: il regista chiese a David Hemmings di vestirsi “à la Sachs” ovvero come il playboy tedesco Gunther Sachs all’epoca sulle pagine di tutti i rotocalchi come marito di Brigitte Bardot: camicia azzurra, jeans bianchi e mocassini senza calze. Ma è un fotografo tormentato, appunto: disprezza le fotomodelle e la loro vacuità, e sta lavorando a un libro fotografico d’impegno sociale dove ritrae gli hippy ma soprattutto i diseredati, i senzatetto, e difatti il film si apre con lui che esce da un dormitorio pubblico dove ha passato la notte.

Jean Birkin, per l’occasione bionda, ha davvero un ruolo secondario, che però risalta perché la narrazione intorno al protagonista è tutta fatta di ruoli di contorno; Vanessa Redgrave ha il ruolo più importante: è la donna coinvolta nel complotto che il fotografo crede di svelare; l’altro nome di punta è Sarah Miles come amica del protagonista; l’indossatrice Veruschka compare come sé stessa. David Hemmings, qui doppiato da Giancarlo Giannini, giunge alla notorietà e alla maturità artistica con questo film ma è sulle scene sin dall’infanzia, prima come boy soprano, ovvero voce bianca, sul quale il compositore Benjamin Britten compose anche un’opera; col sopraggiungere dell’adolescenza e la perdita della voce bianca il ragazzo passò alla recitazione ed è qui nel suo primo ruolo adulto importante. Vanessa Redgrave, figlia e sorella d’arte e già attrice shakespeariana nonché moglie del regista Tony Richardson che tra l’altro la diresse insieme a Hemmings in “I seicento di Balaklava”, anche lei raggiunge la fama internazionale grazie a questo film. Nel terzetto di nomi femminili di punta Sarah Miles è quella che meno viene ricordata dal pubblico: raggiunge il picco come protagonista in “La figlia di Ryan” nel 1970 di David Lean che le frutta una candidatura all’Oscar, ma dal 2004 non è più attiva.

Veruschka è il nome d’arte della contessa tedesca Vera Gottliebe Anna von Lehndorff-Steinort, il cui padre conte, in controtendenza alla nobiltà prussiana del suo tempo era stato antinazista, e poi accusato di aver preso parte a un complotto contro Hitler fu giustiziato nel 1944 quando Vera aveva 5 anni; insieme alle sue sorelle, mentre la madre incinta veniva internata in un campo di lavoro, fu trasferita in una cittadina di provincia insieme ai figli di tutti gli altri congiurati in una sorta di kindergarten per sorvegliati speciali; finita la guerra e tornata libera la ragazza venne a studiare in Italia dove a 20 anni fu scoperta dal fotografo Ugo Mulas che la lanciò come modella; ma non riscosse il successo sperato e tornando in Germania sparse la voce che fosse una fuoruscita russa, Veruschka appunto, e lo stratagemma riuscì.

Il film si sarebbe dovuto ambientare a Parigi, come nel racconto originale. Ma ad Antonioni, che già da tempo pensava all’estero come naturale sbocco della sua cinematografia, l’idea di collocare il suo film in quella Swinging London, che così bene ha saputo raccontare, venne quando andò a trovare la sua compagna Monica Vitti sul set di “Modesty Blaise – la bellissima che uccide” di Joseph Losey. Scrisse la sua sceneggiatura col suo fedele Tonino Guerra e per l’ottimizzazione dei dialoghi in inglese si affidò al drammaturgo Edward Bond. Per rendere viva e attuale la sua Londra, Antonioni inserì nel film alcune celebrità dell’epoca: la giornalista Janet Street-Porter balla insieme ad alcune spogliarelliste mentre nel concerto rock del prefinale si esibiscono gli Yardbirds con Jimmy Page e Jeff Beck che come da prassi sfascia la chitarra. Costato un milione e ottocentomila dollari ne incassò venti milioni in tutto il mondo. Osannato dalla critica, film e regista ebbero la nomination all’Oscar, sceneggiatura e regista furono anche nominati ai Golden Globe, e dopo altre tre nomination ai britannici BAFTA finì col vincere la Palma d’Oro al Festival di Cannes e l’italiano Nastro d’Argento ad Antonioni come miglior regista per un film straniero.

Grazie a questo film Jane Birkin soffiò una parte da protagonista alla top-model americana Marisa Berenson che dovette aspettare ancora qualche anno prima di diventare attrice debuttando nel 1971 con Luchino Visconti in “Morte a Venezia”. Il film in questione era il dimenticabile “Slogan” diretto da Pierre Grimblat e scritto su misura del protagonista Serge Gainsbourg, e il resto è storia. Il divo francese, nonché tombeur de femmes, che da poco aveva rotto con Brigitte Bardot che per lui aveva rotto col precedente marito Gunther Sachs, non aveva gradito la sostituzione della Berenson, sulla quale aveva probabilmente fatto un pensierino, e sul set maltrattò non poco la Birkin; l’inglesina, anche lei fresca di separazione da John Barry e decisamente attratta dagli uomini più maturi, chiese al regista la cortesia di organizzare un’uscita a tre per poi allontanarsi a metà serata: lo stratagemma riuscì e si formò la coppia-scandalo di quegli anni. Lui poi, su suggerimento dell’amica Mireille Darc, tirò fuori dal cassetto l’esplicita canzone che parla di sesso “Je t’aime… moi non plus” che aveva già inciso con la Bardot ma che era stata messa via su richiesta della diva francese timorosa dello scandalo che l’ancora marito cornuto Gunther Sachs le aveva promesso. Il brano uscì con tutto lo scandalo che seguì, particolarmente nel Regno Unito patria della Birkin, e in Italia, patria del Vaticano, il cui organo di stampa L’Osservatore Romano pubblicò una sgangherata e peggiorativa traduzione del testo per allarmare i propri lettori, e il distributore del disco viene scomunicato; va da sé che la Rai ne vietò la trasmissione radiofonica finché la Procura della Repubblica di Milano non ordinò il sequestro e la distruzione di tutte le copie sul territorio nazionale, che però venne importato clandestinamente e venduto a 3000 lire anziché 750, mentre veniva trasmesso dalle emittenti estere Radio Monte Carlo e Radio Capodistria che erano ricevute nell’etere italiano. Ovviamente seguirono molte reinterpretazioni nelle varie lingue e anche parodie. In Italia il testo fu riscritto da Daiano, “Ti amo… ed io di più” e fu interpretato dagli improbabili divi teatrali Giorgio Albertazzi e Anna Proclemer all’epoca compagni di vita. Ma ci fu anche una versione adattata da Gian Piero Simontacchi, “Ti amo… io di più” senza ed, per Ombretta Colli con la voce maschile dello sconosciuto Gianfranco Aiolfi amico e collaboratore di Ombretta e del marito Giorgio Gaber.

Nel 1976 Serge Gaisbourg pensò bene di farne anche un film e debuttò come autore cinematografico dirigendo la sua Jane Birkin che recitò quasi sempre nuda accanto a Joe D’Alessandro, star americano del porno gay lanciato da Andy Warhol, nel ruolo di un camionista omosessuale che inizia una relazione con la donna dall’aspetto androgino, che perciò si chiama Johnny, e con la quale ha soltanto rapporti anali. Viene da chiedersi chissà quanta droga circolasse sul set. In ruoli di contorno i non ancora famosi Gérard Depardieu e Michel Blanc.

La carriera di Jane, che nel frattempo aveva preso la nazionalità francese, proseguì da un lato continuando continuando a incidere le canzoni di lui divenendo una delle più apprezzate cantanti d’oltralpe, e dall’altro continuando la carriera di attrice anche in produzioni internazionali. Nel 1971 nacque la loro figlia Charlotte Gainsbourg e nel 1980 la coppia scoppiò perché lei, maturando, si era stancata delle sregolatezze di lui, e pur continuando a incidere i suoi brani scelse uno stile di vita più regolato legandosi al regista Jacques Doillon. Lavorò anche con Jean-Loc Godard, Patrice Leconte, Alain Resnais, Roger Vadim, Jacques Rivette, Bertrand Tavernier e il Paul Morissey che aveva contribuito al successo di Joe D’Alessandro, ma soprattutto ebbe un’intensa e proficua collaborazione con Agnès Varda che nel 1988 le dedicò il film “Jane B. par Agnès V.” Nel 2007 dirige anche il film di fiction autobiografica “Boxes – Les boîtes” mentre nel 2021 sua figlia Charlotte la dirige nel film-documentario-intervista “Jane by Charlotte” in questi giorni su Sky in cui finalmente sentiamo Jane Birkin che manda affanculo Serge Gainsbourg.

Maria Stuarda, Regina di Scozia – con l’omaggio a Glenda Jackson nell’occasione della sua scomparsa

Il 15 giugno 2023 Glenda Jackson se n’è andata a 87 anni e per omaggiarla con qualcuno dei suoi migliori film c’è davvero poco sul mercato italiano di piattaforme web e canali televisivi. L’ideale sarebbe stato rivederla in una delle sue due interpretazioni che le valsero l’Oscar: “Donne in amore” del 1969 diretto da Ken Russell o “Un tocco di classe” del 1973 diretto da Melvin Frank. Ma molti altri titoli avrebbero potuto rappresentarla: da “L’altra faccia dell’amore” sempre di Russell del 1970 a “Domenica, maledetta domenica” di John Schlesinger del 1971, a “Una romantica donna inglese” di Joseph Losey del 1975: una carriera strepitosa che ha cavalcato intensamente tutti gli anni Settanta e Ottanta prima di ritirarsi nel 1992 per dedicarsi alla carriera politica dove per 23 anni ininterrotti è stata deputata parlamentare per il Partito Laburista. E devo confessare che come spettatore ho sentito la sua mancanza.

Glenda Farrell

Glenda May Jackson deve il suo primo nome alla passione che sua madre aveva per l’attrice holliwoodiana Glenda Farrell che in quel 1936, anno di nascita della nostra, era una brillante star del nuovissimo cinema sonoro, ma oggi dimenticata; e la Jackson con la sua popolarità ha contribuito a diffondere quel nome nel mondo: attualmente in Italia si contano circa 500 Glenda: nome di origine gallese che significa “buona e santa” ma che attualmente non gode più di molta popolarità. La giovane Glenda era la maggiore di quattro figli in una famiglia di operai che faticava ad arrivare a fine mese; cominciò a calcare le scene da adolescente, e doveva essere davvero brava se vinse una borsa di studio alla Royal Academy of Dramatic Art di Londra dove si trasferì dalla provincia, per poi debuttare professionalmente in teatro; ma sul finire di quegli anni ’50 non riuscì più a mantenersi col lavoro di attrice e passò da un lavoretto all’altro, impieghi che in futuro definì “una serie di lavori che distruggono l’anima”.

Debuttò al cinema nel 1963 con un piccolissimo ruolo nemmeno accreditato e poi per quattro anni si unì alla compagnia teatrale di Peter Brook che metteva in scena il suo “Teatro della Crudeltà” con la Royal Shakespeare Company: la meno che 30enne Glenda vi interpretò la detenuta di un manicomio che a sua volta interpretava Charlotte Corday, l’assassina di Jean-Paul Marat nel dramma “Marat/Sade” di Peter Weiss: roba d’altissimo livello che andò a Parigi e Broadway facendo discutere pubblico e critica, e da cui l’autore nel 1967 ne sviluppò il film omonimo in cui Glenda riprese i suoi ruoli. Nello stesso anno fu anche Ofelia nell’Amleto messo in scena da Peter Hall, un’Ofelia che secondo la critica era l’unica vista fino a quel momento in grado di interpretare lei stessa il principe Amleto. Si arriva al 1969 e al suo ruolo da protagonista nel controverso “Donne in amore” di Ken Russell che le valse il primo Oscar, appunto.

Del 1971 è questo film storico dove interpreta Elisabetta I, un ruolo amato dalle dive di tutto il mondo, a partire dal dramma teatrale “Mary Stuart” o “Maria Stuarda” italianizzato, che il tedesco Friedrich Schiller scrisse nel 1800 e che sin dal titolo pone come protagonista Maria di Scozia in drammatico contrasto con Elisabetta d’Inghilterra, la prima descritta come vittima sacrificale e la seconda come gelida macchinatrice, ruoli ambitissimi che nelle storiche versioni italiane ha visto confrontarsi Sarah Ferrati ed Elena Zareschi nel 1958, Anna Proclemer e Lilla Brignone nel 1965, e Valentina Cortese con Rossella Falk per la regia di Franco Zeffirelli nel 1983 che fecero scintille dentro e fuori la scena. E ad entrambe le regine, separatamente, sono stati dedicati film sin dall’epoca del muto: è del 1895 il cortometraggio “The Execution of Mary, Queen of Scots” diretto dall’americano Alfred Clark e prodotto dall’inventore Thomas Edison, ed è il primo film storico e il primo a utilizzare effetti speciali: l’attrice sul ceppo viene sostituita da un manichino che viene decapitato, e la scena fu così realistica che impressiono moltissimo il pubblico che credette che un’attrice si fosse sacrificata per il ruolo. Edison produsse nel 1913 un altro “Mary Stuart” meno cruento e più in linea con le produzioni più rassicuranti.

Del 1936 è “Maria di Scozia” diretto svogliatamente da John Ford, veicolo per la star Katharine Hepburn che si rifà al dramma teatrale dell’americano Maxwell Anderson, e vede nel ruolo di Elisabetta Florence Eldridge, moglie di Fredrich March che nel film interpreta il Conte di Bothwell, storico amante di Elisabetta. Fra le curiosità di questo film c’è che Ford fece girare alcune scene al suo aiuto britannico Leslie Goodwins che però non venne accreditato, e la stessa Hepburn fece la sua unica esperienza da regista dirigendo una scena che Ford voleva tagliare perché non gli piaceva, e fu aiutata nell’impresa dal coprotagonista March: il regista li lasciò giocare a fare i registi e alla fine montò la scena nel film dietro personalissime pesanti pressioni: all’epoca aveva una storia con la Hepburn. Per quel ruolo si era proposta Ginger Rogers ma la produzione RKO la rifiutò ritenendo che la sua immagine non fosse in linea con il ruolo. Dopo questo film del 1971 “Maria Regina di Scozia” è di nuovo sullo schermo nel 2018, regia di Josie Rourke con le odierne dive Saoirse Ronan e Margot Robbie. Assai più corposo è invece l’elenco dei film dedicati a Elisabetta I a cominciare dal muto del 1912 “Les Amours de la reine Élisabeth” con Sarah Bernhardt, passando per i due film con Bette Davis “Il conte di Essex” diretto da Michael Curtiz nel 1939 e “Il favorito della Regina” del 1955 diretto da Henry Coster; non sorvolando sull’Elisabetta en travesti di Quentin Crisp in “Orlando” diretto da Sally Potter nel 1992 e chiudendo l’incompleto elenco con dittico interpretato da Cate Blanchett e diretto da Shekhar Kapur: “Elizabeth” 1998 e “Elizabeth: the Golden Age” del 2007.

Il film del 1971, che ciclicamente passa sulla meritevole Cine34 e che ha come primo nome Vanessa Redgrave nel ruolo del titolo, ha ancora un suo fascino narrativo esponenzialmente aumentato dal fascino delle due interpreti, considerando però che come tutti i film storici ha delle inesattezze. La vicenda delle due regine, che può apparire lineare è in realtà molto complessa e la stessa narrazione contiene tante sotto storie diverse da cui si possono trarre sempre diversi punti di vista narrativi. Nello specifico Maria viene qui raccontata come una donna innamorata dell’amore e che per amore commette diversi errori – messa in contrasto con Elisabetta che pur concedendosi amanti prestanti non si è mai concessa l’amore: doveva aver tenuto in mente la sorte di sua madre Anna Bolena, una delle mogli di Enrico VIII che fu regale uxoricida seriale. E poi c’è il sempre presente contrasto politico-religioso cavalcato dalla Chiesa Cattolica contro il Protestantesimo.

L’inesattezza storica da sempre perpetrata sin dal dramma di Schiller è l’incontro tra le due regine, che il drammaturgo tedesco racconta come segreto e dunque verosimile anche se non vero, e da lui in poi c’è sempre un incontro più o meno segreto fra le due regine perché un confronto diretto fra due protagoniste di tale portata è un elemento spettacolare irrinunciabile, con buona pace dell’accuratezza storica che da sempre molto sopporta. Negli altri ruoli di rilievo del film Patrick McGoohan interpreta Giacomo Stuart il fratello traditore di Maria, Trevor Howard è Sir William Cecil il consigliere di Elisabetta; il 25enne in rapida ascesa Timothy Dalton, che più avanti vestirà i panni di 007, qui è decolorato biondo e interpreta in modo assai convincente il vanesio Lord Henry Darnley che la lungimirante Elisabetta invia alla corte di Maria perché la regina scozzese se ne innamori e lo sposi, detto fatto: succede che anche nel privato che il bel Dalton fa girare la testa alla Redgrave di nove anni più anziana, in un’epoca in cui la differenza di età contava. Nigel Davenport interpreta l’ambiguo Conte di Bothwell e Ian Holm interpreta il cortigiano italiano Davide Rizzio, altrove Riccio.

Ma torniamo alla nostra Glenda Jackson. Lasciò la recitazione nel 1991 e l’ultimo film che ha girato prima di dedicarsi completamente alla carriera politica, da persona seria, è stato il prequel di quel “Donne in amore” che le aveva dato fama circa vent’anni prima, sempre tratto dai romanzi di David H. Lawrence e sempre diretto dal suo amico Ken Russell nel 1989.

Glenda si era interessata alla politica sin da giovanissima: a 16 anni si era iscritta al Labour Party, un’alleanza di area socialista corrispondente al nostro centro-sinistra, e qualche anno dopo, già attrice, fu una delle figure pubbliche che legò il suo nome all’Anti-Nazi League, mentre da parlamentare fu un’accanita avversaria della Lady di Ferro Margareth Thatcher e del suo governo conservatore, tanto da farle dichiarare che vi si sarebbe opposta “con qualsiasi cosa fosse legale”; e quando il governo passò al Partito Laburista con Tony Blair, lei fu nominata sottosegretario con delega ai trasporti londinesi. Ma da sensibile politica con anima profondamente radicata nella Sinistra divenne critica anche nei confronti del suo stesso primo ministro allorché Blair alzò i costi delle tasse universitarie, finché nel 2005 non lo sfidò frontalmente dichiarando di volersi candidare contro di lui. E va da sé che era anche anti monarchica. Poi nel 2011 annunciò il suo ritiro dalla carriera politica presumendo che il Parlamento eletto l’anno prima sarebbe durato fino al 2015: “Avrò quasi 80 anni e per allora sarà il momento che qualcun altro abbia il seggio”. Era stata circa 23 anni nella politica attiva e lo scorso anno si tolse un altro sassolino dalla scarpa dichiarando che quando lei era stata eletta in Parlamento nel 1992, quell’assemblea non si era dimostrata accogliente nei suoi confronti in quanto donna.

come Re Lear

Nel 2015 tornò a recitare per la gioia di molti fans, prima in radio e poi in palcoscenico interpretando il “Re Lear” di William Shakespeare, lei che da giovane era stata indicata come possibile Amleto; interpretazione per la quale la critica scrisse: “Glenda Jackson è straordinaria come Re Lear. Senza se e senza ma. Tornando sul palco all’età di 80 anni, 25 anni dopo la sua ultima esibizione, ha compiuto una di quelle imprese dell’ultima ora per lo sforzo umano, e di cui sicuramente si parlerà per gli anni a venire.”

E nel 2019, dopo 27 anni di assenza, tornò a recitare nel dramma televisivo “Elizabeth is missing” dove interpreta un’ottantenne con l’Alzheimer, film per il quale vinse il BAFTA e l’Emmy Award. Ha fatto in tempo a girare un ultimo film per il cinema tornando a fare coppia con Michael Caine, di tre anni più vecchio dunque 90enne, con cui aveva girato “Una romantica donna inglese”, oggi nel film sulla terza età “The Great Escaper” che dovrebbe uscire entro quest’anno: un’occasione da non mancare per tornare al cinema in sala.

Grazie zia – opera prima di Salvatore Samperi

Enzo Doria come Gionata in “Il vecchio testamento” del 1962 diretto dal generalista Gianfranco Parolini, dove ha ricoperto anche il ruolo di segretario di produzione

Il prode Enzo Doria, già attore belloccio che dopo essere apparso sugli schermi ha voluto fare le cose per bene frequentando il Centro Sperimentale di Cinematografia dal quale si è diplomato nel 1960, sin da subito aveva mostrato interesse per gli altri aspetti delle produzioni ricoprendo vari ruoli dietro le quinte, fino a farsi anche sceneggiatore e regista, ma il cui ruolo più importante rimane quello di produttore il cui primo avventuroso impegno sarà l’andare a braccetto col debuttante autore Marco Bellocchio alla ricerca di finanziamenti per “I pugni in tasca”. Ci ha preso gusto e a tambur battente ha prodotto altri due debutti, Silvano Agosti col censuratissimo “Il giardino delle delizie” e Salvatore Samperi con questo “Grazie zia”.

Di qualche anno più giovane del suo indiscusso modello, quel Marco Bellocchio appena giunto al successo, come lui viene da un’agiata famiglia borghese, di Padova, abbandona l’università per andare a iscriversi al Centro Sperimentale di Roma, che però lascia senza concludere il biennio per buttarsi nel movimento studentesco del 1968 e dichiararsi antiborghese e anti familista, più dichiaratamente di Bellocchio che invece esprimeva tormenti più personali; nel frattempo è assistente volontario, dunque non pagato, di Marco Ferreri, mentre gira anche da regista dei documentari industriali. Così, quando a 25 anni s’impegnerà in questo suo primo lungometraggio di finzione, conosce già bene il mestiere: si tratta solo di raccontare una storia. E la sua storia parte appunto dal suo modello, Marco Bellocchio con “I pugni in tasca”, di cui reimpiega lo svogliato attore feticcio Lou Castel in una vicenda dai tratti simili, l’implosione della famiglia borghese con un protagonista che ancora sogna la strage e anela il suicidio; ma mentre Bellocchio creava senza saperlo un paradigma cinematografico e sociale, Samperi è già sulle barricate del ’68, che è l’anno di produzione del film, e le istanze politiche sono tutte lì, dichiarate, anche con autocritica: il suo protagonista è un figlio di papà altrettanto disturbato come il protagonista di Bellocchio, che come molti giovani dell’epoca cavalca l’onda della rivoluzione sociale per dare sfogo solo ai suoi personali istinti autodistruttivi e nichilisti, senza progettualità né prospettive; gli fa da contraltare la figura dell’intellettuale di sinistra interpretata da Gabriele Ferzetti, seriamente impegnato e motivato, che però il giovane disprezza solo perché mosso da personale gelosia. Alvise è un paraplegico psicologico che è in grado di alzarsi dalla sedia a rotelle se motivato da momentanei impulsi e personali motivazioni, che fa la sua battaglia da adulto bambino su un plastico del Vietnam le cui vittime annota minuziosamente su una lavagna. Esemplare l’inizio del film: dopo l’elettrochoc cui viene sottoposto, panacea pseudo medica di quegli anni, intravediamo in una breve sequenza il suo autoritario padre sempre inquadrato di spalle o, se in campo lungo, nascosto alla nostra vista da una pianta: a simboleggiare la sua effettiva assenza come genitore.

C’è di nuovo, in Samperi rispetto a Bellocchio, l’aspetto erotico, e poi incestuoso in seconda istanza, a mettere in discussione l’impianto familiare benestante e borghese: il 17enne Alvise (ma l’attore è di quasi dieci anni più grande) è verosimilmente con gli ormoni in subbuglio, oltre a tutto il resto dell’armamentario di disturbi veri o presunti, e la bella zia fisioterapista presso cui viene mandato acuisce le sue già distorte fantasie. Molto bella la sequenza in cui il ragazzo osserva gli ospiti della zia cogliendone gli aspetti più intimi ed erotici: un erotismo di gran classe fatto di piccoli gesti inconsapevoli, sguardi e tensioni, che sfoceranno negli inevitabili rapidi amplessi che si consumeranno anche in modo un po’ arruffato.

Annie Girardot fu la prima scelta dell’autore ma rifiutò la parte che andò a Lisa Gastoni, attrice perfetta per il ruolo, giusta al momento giusto. “Io sono convinta che ciascuno di noi ha una sua età. Ci sono dei momenti fisici – perché nel cinema è soprattutto questione di momenti fisici – che ci sono più adatti, più giusti. In genere si chiamano ‘incontro col personaggio’. In fondo il mio vero incontro col personaggio è avvenuto quando avevo ventinove anni, girando ‘Grazie zia’. All’età quindi di una donna nella sua pienezza, alla soglia della trentina. Non ero vecchia ma neppure giovane. Però ero fisicamente ed emotivamente giusta per il ruolo.”

Una giovanissima Lisa Gastoni a inizio carriera

Lei, nata nel 1935 da padre italiano e madre irlandese, nel dopoguerra si trasferisce a Londra dove comincia come fotomodella e anche attrice senza mai sfondare davvero. Torna in Italia dove continua a fare cinema ancora senza grossi exploit fino a “Svegliati e uccidi” del 1966 di Carlo Lizzani dove – e bisogna ricordare che è sentimentalmente legata al produttore Joseph Fryd – interpreta la compagna del “solista del mitra” Luciano Lutring e si aggiudica il Nastro d’Argento; e per il ruolo di questa zia riceverà la Targa d’Oro ai David di Donatello, rilanciando la sua carriera come stella di prima grandezza; ma nei successivi prossimi anni Settanta sceglie di lavorare poco ma bene con registi e film di qualità, e vince un secondo Nastro d’Argento per “Amore amaro” di Florestano Vancini; ma per la sua scelta stilosa perde un po’ il contatto col grande pubblico sempre affamato di facili emozioni, e sul finire di quegli anni ’70 si ritira dalle scene lasciando il campo libero alla più giovane Laura Antonelli che lo stesso Samperi porterà al successo con “Malizia”; mentre da un altro lato si affermerà come diva sexy dei B movie Edwige Fenech. Lisa Gastoni tornerà di nuovo in gran spolvero nel nuovo millennio e fra cinema e tv ottiene altre candidature a premi prestigiosi, a cominciare dalla sua partecipazione a “Cuore sacro” di Ferzan Ozpetek, autore nella cui cifra stilistica va notato che ama reimpiegare vecchie glorie: Lucia Bosè, Erika Blanc, Massimo Girotti, Ilaria Occhini, Anna Proclemer…

Nella bella intervista di Mario Sesti, Lisa Gastoni dice una cosa non banale e interessante: che quando su una sceneggiatura ci sono troppe firme qualcosa non va. Viene citato anche il suo ultimo film diretto da Ferzan Ozpetek

Il film, nonostante nelle intenzioni dell’autore sia un manifesto politico di quegli anni, passerà alla storia come un cult che ha innestato il filone erotico nella commedia all’italiana, e anche Samperi, esaurita l’ispirazione politica che non ha portato grandi incassi alle sue imprese, si alternerà fra la commedia, anche sperimentale, vedi “Sturmtruppen”, e quel filone sexy di qualità che tanta immediata fama gli ha dato al suo debutto, tornando a deliziare le platee maschili con “Malizia” appunto, “Peccato veniale”, “Scandalo” e via discorrendo, un elegante erotismo sempre innestato sul disfacimento dell’istituzione della famiglia. Nel 1991 l’autore, evidentemente ormai col fiato corto, tenta col sequel “Malizia 2mila“, film assai problematico con tristi strascichi oltre che clamoroso insuccesso. Per Samperi è un personale colpo di grazia e smette di fare cinema, tornando solo dopo una decina d’anni a dirigere fiction per Canale 5, fino alla sua morte improvvisa a 68 anni.

Interessante il commento musicale di Ennio Morricone che ha composto un’inconsueta filastrocca cantilenante che torna quasi ossessiva nell’arco dell’intero film: “Guerra e pace, pollo e brace”; inoltre c’è anche l’altrettanto inconsueta “Filastrocca vietnamita” di Sergio Endrigo. Al montaggio torna il recalcitrante Silvano Agosti che stavolta si firma Alessandro Giselli e il film viene ammesso alla sezione ufficiale del Festival di Cannes del 1968, edizione che fu però cancellata dalle agitazioni studentesche del Maggio Francese: un dispiacere per autore e produttore mentre il protagonista di certo se la rideva sotto i baffi. Oltre alla Targa d’Oro a Lisa Gastoni il film si aggiudica anche il Nastro d’Argento per la miglior fotografia in bianco e nero di Aldo Scavarda. Salvatore Samperi si aggiudicherà l’attenzione di critica e pubblico, anche se per ragioni differenti: il titolo diventa subito sinonimo di situazioni scabrose ed erotismo pruriginoso, e avviando il filone della commedia sexy all’italiana resterà suo malgrado il capostipite del proficuo sotto-filone familiare in cui si contano: “Grazie… nonna” di Marino Girolami con Edwige Fenech, “Le dolci zie” di Mario Imperioli, “La cognatina” di Sergio Bergonzelli, “La cugina” di Aldo Lado, “Cugini carnali” di Sergio Martino, “Il vizio di famiglia” di Mariano Laurenti, “Peccati in famiglia” di Bruno Gaburro, “Cara dolce nipote” di Andrea Bianchi, “Bello di mamma” di Rino Di Silvestro, “Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno” di Luciano Salce e “Oh mia bella matrigna” di Guido Leoni che segna l’unica interpretazione cinematografica della valletta Sabina Ciuffini; qui tralasciando molti altri film che pur senza riferimenti alla famiglia nel titolo si inseriscono di diritto in questo sotto-filone cui lo stesso Samperi ha continuato a dare il suo contributo con “Peccato veniale” “Nenè” e “Casta e pura”.

Lou Castel, che fin dal primo set che ha frequentato, “Il Gattopardo” di Luchino Visconti, ha mostrato di non essere particolarmente interessato al concetto di “carriera” perché è un estremo eccentrico che non intende sottomettersi a un sistema di auto celebrazione in cui ci si auto rappresenta; già col successo di “I pugni in tasca” si defilò dai classici dibattiti con pubblico e stampa che seguirono, mettendo la scusa che non parlava bene l’italiano: in realtà era depresso dall’esito oltremodo positivo del film perché il successo gli dimostrava che anche quel film d’autore era un’impresa commerciale come tutte le altre. Idealista duro e puro dunque, fino al nichilismo del paradosso secondo cui un film di qualità, politicamente e socialmente impegnato, non deve avere successo commerciale. Ma suo malgrado diventa un celebrità transalpina e così comincia ad accettare qualsiasi cosa, che si tratti di film artistici o di serie B tutto fa brodo per permettergli di finanziare le cause di quell’estrema sinistra a cui ha aderito con tutte le scarpe, e versa tutti i suoi guadagni nell’organizzazione maoista “Servire il popolo” con questa motivazione: “Molti giovani della borghesia hanno fatto lo stesso, vendendo la loro auto o il loro appartamento. D’altro canto, di attori che hanno fatto lo stesso, ce n’erano pochi o niente.” E fu espulso dal democristiano e cattolicissimo governo italiano come indesiderato. Il disgusto per la popolarità che gli deriva dal suo lavoro di attore si esprime ancora in questo racconto: “Ricordo una volta che stavo chiacchierando con un ragazzo che mi aveva visto il giorno prima in ‘Grazie zia’ di Salvatore Samperi, un dramma piuttosto sulfureo ed erotico dove interpretavo un ragazzo che seduceva la zia. Io stavo cercando di convincerlo della necessità di una rivolta, ma la sua unica ossessione era se avessi scopato o meno l’attrice, Lisa Gastoni.” E ha raccontato pure allegramente che Louis Malle lo cercava senza trovarlo perché lui era a fare la sua rivoluzione, e non lo ha più trovato. Nonostante ciò la sua carriera di attore non-attore ha continuato, e anche se l’emergenza estremista si è acquietata lui rimane sempre un uomo controcorrente. Oggi ha 79 anni e nel 2016 Pierpaolo De Santis ha realizzato su di lui il documentario biografico “A pugni chiusi”.