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Leonora addio – l’addio a Vittorio del fratello Paolo

Quest’anno c’è stato un altro film su Luigi Pirandello che è passato praticamente inosservato in sala, e oggi già disponibile su Sky, di cui vale la pena parlare dopo il clamoroso successo di “La stranezza” di Roberto Andò che racconta fra invenzione narrativa e ricerca storica i tormenti dell’autore sulla composizione del suo dramma “Sei personaggi in cerca d’autore”. Dirige Paolo Taviani, per la prima volta in solitaria dopo la morte del fratello Vittorio, di due anni più anziano, avvenuta nel 2018 quand’era 89enne. E Paolo, oggi 91enne, torna di nuovo a Pirandello: con Vittorio avevano firmato dalle novelle pirandelliane il riuscitissimo “Kaos” nel 1984 e il meno riuscito “Tu ridi” nel 1998, in una cinematografia fatta principalmente di ispirazioni letterarie e di alternanze di film belli e meno belli, ma mai brutti, e “Leonora addio” è purtroppo da iscrivere nella categoria dei film meno riusciti, ancorché premiato all’interno del Festival di Berlino 2022 col premio indipendente Fipresci (Fédération internationale de la presse cinématographique), ricordando che in quel festival erano stati incoronati con l’Orso d’Oro nel 2012 per il sorprendente “Cesare deve morire”.

“Leonora addio” è un film enigmatico, per certi versi incomprensibile e che a tratti si rivela ostico, nonostante sia molto elegante sul piano stilistico, addirittura semplice sul piano narrativo con i suoi scarni dialoghi e le sequenze girate da maestro ma piane e senza scossoni, addirittura prevedibili nei pochi momenti grotteschi che però non fanno sorridere perché virano al nero.

“Per lo schietto e geniale rinnovamento nell’arte scenica e drammatica”.

Dopo l’incipit in cui vediamo Pirandello ricevere il Premio Nobel per la letteratura nel 1934 in filmati di repertorio, ci sono i titoli di testa e la dedica a Vittorio: che è la chiave di lettura di questo film scomposto, un lungo addio a un fratello, un amico, un complice, un compagno d’arte. E il tema del film è la morte. Pirandello muore due anni dopo aver ricevuto il premio e le sue disposizioni, scritte già nel 1911, sono precise: “Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. Bruciatemi. E il mio corpo, appena arso, sia lasciato disperdere, perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra della campagna di Girgenti, dove nacqui.

Taviani passa dai cinegiornali al suo cinema mantenendo lo stesso bianco e nero con la fotografia di Simone Zampagni, in cui l’unico colore ad accendersi è il rosso del fuoco del forno crematorio. Da qui cominciano le disavventure delle ceneri in un racconto surreale ma purtroppo vero. In quel 1936 l’Italia era governata dal regime fascista, idee cui peraltro lo stesso Pirandello aveva entusiasticamente aderito già nel 1924 e l’anno dopo sarà tra i firmatari del Manifesto degli Intellettuali Fascisti redatto da Giovanni Gentile. Dunque l’apparato politico con Benito Mussolini in testa si sentì in dovere di appropriarsi delle ceneri e di disporne a proprio modo, e senza considerare le volontà del Trapassato organizza quello che sarà il primo dei tre funerali cui Pirandello andrà incontro suo malgrado, e le ceneri vengono murate in una colombaia al cimitero del Verano. Dopo la Liberazione dal regime nazi-fascista, nel 1947, alcuni studenti agrigentini fra cui Andrea Camilleri, dettaglio non citato nel film, sollecitarono il trasferimento delle ceneri nella terra natia secondo le precise disposizioni dell’illustre Agrigentino, e su interessamento del presidente del consiglio dei ministri Alcide De Gasperi, le ceneri conservate in una preziosa anfora greca che già fu di proprietà dello stesso Pirandello, cominciano l’avventuroso surreale viaggio, custodita e accompagnata da un attento delegato del Comune di Agrigento che nel film è interpretato dal comprimario emergente pluripremiato Fabrizio Ferracane.

Marta Abba davanti all’urna con le ceneri di Pirandello depositata al museo civico

Ma in città c’è un altro ostacolo: il vescovo Giovanni Battista Peruzzo, interpretato da uno dei fedelissimi dei Taviani, Claudio Bigagli, si oppone al corteo funebre perché i resti erano stati anti-cristianamente cremati e non si poteva esporre un’urna greca, pagana: a qualcuno venne l’idea di nascondere l’imbarazzante urna dentro una più cristiana bara: Camilleri si attesta la paternità del brillante quanto ridicolo ma necessario sotterfugio, ma Taviani nel suo film attribuisce l’idea a un prete, un non definito Don Biagio interpretato da Biagio Barone; ma non finisce qui e le ceneri devono passare attraverso altri sberleffi. Avvenuto il secondo funerale l’anfora rimase però depositata nel museo civico perché si attendeva la conclusione del monumento funerario disposto dal comune e dai figli e da costruire nella villa pirandelliana, ma passarono altri quindici anni prima della terza e conclusiva cerimonia funebre nel 1962. Parte delle ceneri che non entrarono nel contenitore metallico disposto per l’ultima sepoltura alla fine vennero disperse nel mare, così come erano state le originarie volontà di Pirandello.

Sul set Paolo Taviani in basso a sinistra Claudio Bigagli in piedi a destra.

A questo punto il mare vira dal bianco e nero al colore con la fotografia di Paolo Carnera e comincia la seconda parte del film, totalmente slegata dalla prima: la messa in film dell’ultimo racconto scritto da Pirandello pochi giorni prima di morire, “Il chiodo”, ispirato da un fatto di cronaca nera avvenuta ad Harlem, New York. Bastianeddu, interpretato dal ragazzino già in carriera Antonio Pittiruti, è stato portato dal padre Turiddu, Federico Tocci, via dalla madre e dalla Sicilia per fare fortuna in America; il ragazzino si rende colpevole di un inspiegabile crimine: con un chiodo uccide un’orribile bambina dai capelli rossi, sue le parole, e agli inquirenti spiega solo che il chiodo era caduto apposta, on purpose, da un carretto e lui si era ritrovato apposta davanti alla sua vittima, senza alcun’altra logica spiegazione. Nella vicenda reale il processo si conclude con l’assoluzione del ragazzo evidentemente ritenuto momentaneamente incapace di intendere e di volere. Nel film, Bastianeddu da adulto, in campo lunghissimo, va sulla tomba della sconosciuta ragazzina che aveva ucciso, e su quella tomba torna e ritorna negli anni, sempre più vecchio, a scontare la sua vera pena.

Due differenti film sotto uno stesso titolo che però non parla di nessuno dei due: altro dettaglio non da poco che spiazza critica e pubblico. “Leonora addio” è il titolo di un altro racconto di Pirandello, titolo che a sua volta l’autore aveva preso da un’aria da “Il Trovatore” di Giuseppe Verdi i cui versi sono: “Sconto col sangue mio / L’amor che posi in te!… / Non ti scordar di me! / Leonora, addio!” Se ne deduce che l’addio del titolo è per Paolo Taviani un ermetico addio al fratello, così come l’intero film che gli ha dedicato è sul tema della morte: narrativamente quella di Pirandello; e poi del dolore di chi resta, quello di Bastianeddu sulla tomba della vittima senza motivo e sconosciuta. Due film non per platee dai gusti facili, e belli se presi separatamente, ma il cui accostamento lascia spiazzati, ancor più dopo il titolo, perché per l’autore rimasto fratello unico è il criptico personalissimo omaggio alla sua metà di sempre: Pirandello è Vittorio, Bastianeddu è Paolo – e questa è una semplificazione assai grossolana.

Abbasso il zio – Marco Bellocchio al suo primo cortometraggio

Il film completo

Il giovane Marco Bellocchio, di cui abbiamo appena visto il documentario autobiografico “Marx può aspettare”, finiti gli studi alla scuola dei Salesiani (famiglia alto borghese assai cattolica) avendo già mostrato vivo interesse per il cinema (girava già filmini in famiglia) lascia la nativa Bobbio in provincia di Piacenza per trasferirsi a Roma a iscriversi nel 1959 al Centro Sperimentale di Cinematografia dove trova come insegnante quell’Andrea Camilleri assurto alla fama nella sua terza età come autore di successo della serie tv sul Commissario Montalbano dai suoi romanzi, lui che già aveva scritto molto altro e lavorava in teatro da anni. Questo primo cortometraggio, la cui data di uscita è il 1961, il ventenne Bellocchio lo ha girato nell’estate tra il primo e il secondo anno del biennio accademico.

Cos’è questo breve film? non più che un esperimento, l’associare una narrazione alle immagini – lui che già le immagini in movimento le aveva ampiamente sperimentate in famiglia – e in questo suo primo cimento professionale non ha ancora i mezzi narrativi, o forse non sente la necessità, di esprimere una trama: da un lato c’è un suo racconto, anche abbastanza letterario, reso da una voce fuori campo, e dall’altro le immagini che scorrono di pari passo al racconto, quasi un documentario che va a girare dalle sue parti, la Val Trebbia, filmando quattro ragazzini di estrazione sottoproletaria, ricordandoci che allora gli steccati fra le parti sociali erano ancora abbastanza netti e Pier Paolo Pasolini ci innestò praticamente tutta la sua cinematografia, oltre al pensiero filosofico-politico-sociale.

Anche il crocifisso come giocattolo fra le ossa dei morti racconta già la distanza che l’autore prende dal pensiero religioso

Perché è importante l’accento sull’estrazione sociale dei ragazzini? perché Bellocchio viene da un altro mondo, quello benestante e borghese, a ha per quei ragazzini un occhio da entomologo, da osservatore curioso ma anche intimamente timoroso, come deve essere stato da bambino ben vestito e infiocchettato che per i suoi coetanei – scapestrati, scalzi, liberi di gironzolare, di atteggiarsi a grandi fumando sigarette sui muretti – deve avere avuto ammirazione e timore insieme, perché loro erano liberi di fare quello che nel suo mondo non si fa: in questo suo primo cortometraggio li racconta come li vede, da lontano e senza scendere fra loro, attraverso il filtro del suo racconto intellettuale. Filosofeggia sulla vita e sulla morte mentre i ragazzini vanno a scoperchiare vecchie tombe e giocano coi resti di scheletri scomposti, e ne è affascinato, tanto che sta per saltare la barricata e da regista verrà immediatamente considerato un ribelle perché sin da subito metterà in discussioni quei modelli sociali e familiari in cui è cresciuto: non sarà mai uno di loro, e neanche fingerà di esserlo come Pasolini ha tentato di fare, ma negli anni che verranno sarà in prima fila nelle battaglie sociali che probabilmente in quella provincia assolata e oziosa del suo primo cortometraggio non arriveranno mai. E in molte di quelle battaglie salì sulle barricate – solo in termini di impegno civile, mai fisicamente – proprio insieme a Pasolini, a suo fratello Piergiorgio e gli altri intellettuali sinistroidi dell’epoca.

Evidente è il gusto per la composizione delle immagini fra ombre e luce naturale

Dai titoli vediamo che produce Giorgio Pàtara, un altro intellettuale vicino all’ambiente sperimentale che fra le varie cose (si cimenterà anche nella regia di documentari corti) produrrà poche cose ma soprattutto “Nostra Signora dei Turchi” di Carmelo Bene. Come aiuti registi (così nei titoli, invece del più corretto aiuto registi) è affiancato da Gustavo Dahl, suo compagno d’appartamento e del corso di cinematografia, un brasiliano che aveva ricevuto una borsa di studio dal Governo Italiano e che tornerà in patria a fare il regista e il critico cinematografico; e da Sandro Franchina, ex attore bambino (“Europa ’51” di Roberto Rossellini) figlio dell’artista visivo, scultore e illustratore, Nino Franchina, che cinematograficamente resterà legato al mondo dell’arte come regista di documentari su quel mondo, fra i quali si inserisce un unico film di narrazione sempre con l’arte sullo sfondo: “Morire gratis” del 1968. Le musiche sono già di rango, del maestro Armando Trovaioli che dopo si firmerà Trovajoli. Lo stesso Bellocchio molto più avanti ricorderà: “Era una storia di bambini che giocano passando da un cimitero moderno a uno antico, per cercare frammenti d’ossa in quel luogo abbandonato. Alla freddezza e alla mediocrità del nuovo cimitero si contrappone la malinconia, la nostalgia dell’antico nello spirito di Giovanni Pascoli, un poeta che mi ha molto influenzato”. Ma già nel titolo, Abbasso il zio, è chiaro che il suo intento era quello di guardare con occhio distante e critico un mondo rurale che coi suoi strafalcioni linguistici gli era culturalmente lontano: abbasso il zio non ha attinenza col film e sembra riportare una frase orecchiata. Essere intellettuali ha questo lato della medaglia: restare sempre altro rispetto alla realtà che si osserva e a cui anche onestamente si partecipa. Quattro anni dopo Marco Bellocchio dirigerà il suo primo lungometraggio che sarà subito un successo: “I pugni in tasca”.

Pier Paolo Pasolini, Marco Bellocchio, Ninetto Davoli, Elda Tattoli (attrice per Bellocchio in “La Cina è vicina”) e Alberto Moravia in uno scatto del 1969 di Carlo Bavagnoli per Close-up Life