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1917, sorprendente macchina ad orologeria

All’inizio non ci si fa caso. Ma dopo il primo raccordo, nel rifugio dove il generale dà l’incarico ai due soldati, comincia la corsa claustrofobica dentro la tortuosa trincea ed è subito chiaro che si tratta di un lunghissimo sofisticatissimo piano sequenza che coinvolge centinaia di uomini fra comparse figuranti e attori, senza contare la troupe tecnica che non si vede ma c’è, lì, dietro e intorno la macchina da presa che non si ferma un attimo: un solo errore di uno fra i tanti e bisogna ricominciare tutto daccapo. Fino al prossimo raccordo che è un’esplosione, e così di seguito tutto il film è costruito cucendo insieme lunghi e difficilissimi piani sequenza fitti di azione: corse, scoppi, sparatorie, dialoghi… Il pericolo poteva essere quello di rallentare l’azione ma, al contrario, la esalta, introiettando lo spettatore in un’unica sequenza, un’azione che si svolge in tempo reale (apparentemente). Solo per questo il film vale il prezzo del biglietto.

Da spettatore mi viene in mente solo un altro film girato in un unico piano sequenza, vero, senza raccordi artificiali, di 96 minuti, del 2002: “Arca Russa” di Aleksandr Sokurov. Un film in qualche modo sperimentale, girato dentro quel Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo in cui abitavano gli zar e che oggi è un museo; una lunga sequenza onirica in cui un visitatore, che è la soggettiva dello spettatore, vaga per le sale vedendo i fantasmi del passato: sicuramente affascinante ma anche, a dire il vero, soporifero. Sokurov riuscì a girare l’intera sequenza solo al quarto tentativo, proprio per gli errori che capitavano, e Mendes ha provato le sue sequenze per sei mesi prima di girarle, e il risultato si vede.

Bisogna ricordare che il primo a usare all’interno di un film un “piano sequenza” – fra le altre innovazioni – fu un geniale venticinquenne che nel 1941 scrisse produsse diresse e interpretò il suo primo lungometraggio: lui era Orson Welles e il film “Quarto Potere”, un’opera arrogante e geniale che rifondò il cosiddetto “cinema delle origini” e che merita un approfondimento a parte.

Fatte le dovute ricognizioni sulla tecnica e lo stile, veniamo alla storia, al genere del film, che è un film di guerra, ma di una guerra poco rivisitata nei recenti decenni, la Prima Guerra Mondiale: un cardine nello svolgimento delle battaglie, perché è l’ultima guerra combattuta muovendo le armate in campo secondo il metodo ottocentesco, con le trincee in campo aperto e i corpo a corpo, con i fucili innestati di baionetta, armi e da tiro e insieme armi da taglio. E’ anche l’ultima guerra in cui vengono impiegati i cavalli e all’inizio del film ne vediamo un paio di carcasse. Ma è anche la prima guerra moderna per il gran numero di innovazioni tecnologiche: a cominciare dal filo spinato e per finire coi carri armati, sono stati impiegati per la prima volta la mitragliatrice leggera e il lanciafiamme, le maschere antigas e i primi aerei bombardieri: un nuovo genere di battaglia che ha portato il conflitto nei centri abitati coinvolgendo, per la prima volta massicciamente, i civili, e lasciando sul campo, insieme ai morti, una impressionante quantità di feriti, mutilati e sfregiati: sono di quel primo dopo guerra le fondazioni, nelle nostre città, delle “case del mutilato”, oggi archeologia architettonica, a significare di come la nuova guerra abbia cambiato la civiltà a venire.

Tutti i film di guerra raccontano grandi battaglie o piccoli episodi realmente accaduti. Fra i più recenti ricordiamo il pluripremiato “Dunkirk”, del 2017, anche quello molto interessante per il montaggio ellittico di scene che si svolgono in contemporanea ma da diversi punti di vista; e poi il più lineare “Midway”, dello scorso anno, dove si racconta la riscossa che gli americani si sono presi sull’atollo di Midway dopo l’attacco giapponese subìto a “Pearl Harbor”, altro gran film del 2001. E poi ci sono i film di guerra che raccontano storie private, di persone realmente esistite come anche di personaggi immaginari, letterari, la cui vita viene stravolta dal conflitto. Questo “1917” è un’ambigua sintesi fra i due generi perché, ispirato dai racconti reali del nonno del regista, è una fiction che racconta un evento verosimile in un contesto vero, ed è anche la storia privata di personaggi che vivono e muoiono nella guerra del loro tempo.

I protagonisti sono due ex attori bambini, inglesi come il regista e il resto del cast in una produzione anglo-americana che schiera grandi interpreti in camei di una sola scena. il 28enne George MacKay, che praticamente ha sulle spalle l’intero film, fra i due è quello che ha il curriculum più lungo, e che ha avuto un ruolo da coprotagonista in un altro interessante film bellico, “Defiance – I giorni del coraggio” del 2008. Il 23enne Dean-Charles Chapman, invece, qui è al suo primo ruolo adulto: ha recitato ballato e cantato in teatro in “Billy Elliot the Musical” ed è poi stato un re adolescente della famiglia Baratheon nella saga tv “Il Trono di Spade”; serie da cui proviene anche Richard Madden, lì della famiglia degli Stark, famiglie in sanguinari conflitti, e qui – curiosità per cinefili – fratello maggiore assai somigliante del giovane coprotagonista: fratello da ritrovare alla fine del film un po’ come accade nell’Oscar 1998 “Salvate il soldato Ryan” di Steven Spielberg di cui rimane indimenticabile la sequenza d’apertura con lo sbarco in Normandia.

Gli altri camei nel cast sono di Colin Firth, Benedict Cumberbatch, Mark Strong, Andrew Scott e la francese Claire Duburcq. Di Sam Mendes, il regista co-sceneggiatore, va ricordato che viene dal teatro e ha debuttato in cinema facendo subito centro con “American Beauty”; ha poi fatto a tempo a dirigere, prima di separarsi un paio d’anni dopo, la moglie Kate Winslet in “Revolutionary Road” con Leonardo DiCaprio, rimettendo insieme la mitica coppia cinematografica del “Titanic”. “1917” mi sembra il suo film più personale, oltre a essere quello più rivoluzionario dai tempi del suo debutto cinematografico. Ha già vinto il Golden Globe come miglior film drammatico e miglior regista ma altri premi sono sicuramente in arrivo.

Birdman, o l’imprevedibile virtù dell’ignoranza

Attori e registi e scrittori e artisti e performer, aspiranti tali o presunti tali, andatelo a vedere tutti. Potevo essere politicamente corretto e dire anche attrici registe e scrittrici ma questo mi serve per dire che una delle tante chiavi di lettura di questo ricchissimo film è che lo sguardo del regista/autore è tutto al maschile, è un duello virile fra due attori per vedere chi ce l’ha più lungo, e le figure femminili sono tutte, ahimè mi spiace dirlo, di supporto per meglio disegnare la figura di questo grandioso personaggio meravigliosamente interpretato da un Michael Keaton sessantenne e stazzonato che non vedevamo sugli schermi da un bel po’: già Golden Globe e candidatura agli Oscar. Mi rivolgo ad attori e registi perché questo è anche un film sull’arte della recitazione: sul cinema – di cui mette in berlina vizi e vezzi delle superproduzioni che mietono vittime fra il pubblico e i loro portafogli sfornando blockbuster pieni di effetti speciali e vuoti di senso; sul teatro – a cui guarda con vero amore anche quando lo osserva criticamente e di cui mette sotto accusa, anche qui vizi e vezzi, di certa critica supponente e autoreferenziale, e di un certo tipo di attore, qui incarnato dal personaggio del grandioso Edward Norton, che gioca a fare il maledetto geniale e invece non è altro che un cialtrone opportunista.

La storia sarebbe anche semplice da riassumere: Riggan Thomson, star in declino che ha legato il suo nome alla trilogia cinematografica del fantaeroe Birdman, vuole riciclarsi in teatro come vero artista impegnandosi in una produzione a Broadway di cui è oltre a essere protagonista è anche regista e scrittore del copione adattato da un romanzo di successo di Raymond Carver. Ovviamente il nostro, pazientemente ma anche cinicamente assistito dal suo avvocato/agente interpretato da Zach Galifianakis (co-star della trilogia cogliona di “Una notte da leoni”), è anche in serie difficoltà economiche ed ha una famiglia normalmente e anche banalmente disastrata con ex moglie (Amy Ryan) e figlia ex tossica che, interpretata da Emma Stone, è il personaggio femminile meglio delineato che infatti porta a casa le nomination al Golden Globe e all’Oscar. Gli altri personaggi femminili sono le due colleghe di scena: una, che ovviamente è la nuova comprensiva compagna (Andrea Riseborough) e l’altra, cui si presta Naomi Watts (con Iñárritu in “21 grammi”) è una quarantenne già mezza frollata che su quel palcoscenico sta finalmente realizzando i suoi sogni di bambina: patetica quanto basta. Ma conoscendo Alejandro González Iñárritu e la sua cinematografia fatta  (compreso questo) di soli cinque grandi titoli (“Amores Perros”, “Babel” e “Biutiful”) è evidente che il geniale messicano, dopo essere passato attraverso sceneggiature e film assai complessi sia nella scrittura che nella confezione e nel montaggio, che sempre hanno avuto successo di critica ma un po’ meno di pubblico, stavolta ha scritto una trama comprensibile a tutti ricca però di sottotracce per il palati più raffinati da mettere al servizio di una realizzazione tecnica virtuosistica e assai complessa e dal risultato affascinante per tutti, critica e pubblico sia colto che impreparato: trattando di teatro e ambientato dentro e attorno a un teatro il copione è recitato come se si fosse a teatro, tutto di filato, in un unico lunghissimo piano sequenza che in realtà monta abilmente insieme differenti ma altrettanto lunghi e difficili movimenti di macchina in un’azione che ci avvolge dall’inizio alla fine fra camerini e quinte e palcoscenico e dintorni (Times Square dove il protagonista corre in mutande) in cui viene inquadrato en passant anche il batterista che esegue come se fosse dal vivo la colonna sonora del film: straordinario. In cinema si ricordano altri soli due titoli di film girati in piano sequenza: “Nodo alla gola” di Alfred Hitchcock e “Arca russa” di Aleksandr Sokurov.

Poi c’è il resto, la psiche e la favola, gli effetti speciali che Iñárritu ha l’ardire di criticare e di usare al contempo in una sequenza inattesa e mozzafiato che sotto finale libera e rivela la nevrosi del protagonista che durante tutto il film battibecca col suo alter ego Birdman, che lo vuole fuori da quella fogna di teatro per ridargli vita al cinema, mentre esprime segretamente i suoi poteri di telecinesi sin dalla sequenza di apertura in cui lo vediamo meditare levitando a mezz’aria. E c’è spazio anche per un presagio di catastrofe con una palla di fuoco che attraversa il cielo e una moria degli spiaggiati granchi più antichi del mondo: se non si salvano più neanche loro non c’è più speranza per nessuno… se non nell’intima fede in se stessi e nei propri sogni, come sembra indicarci un finalino consolatorio che ci strappa un sorriso e un sospiro di sollievo.

Fra le righe: ricordiamo che Michael Keaton, dopo aver interpretato “Beeteljuce” di Tim Burton, con lo stesso altro geniale regista nel 1989 indossa la tuta del supereroe “Batman” che poi come una puttana da quattro soldi e troppi milioni di dollari di budget è passato di attore in attore e di regista in regista fino a essere ripreso in toto e ridisegnato in noir da Christopher Nolan e Christian Bale. Quindi è lecito leggere nell’interpretazione dell’odierno Keaton un’adesione d’antan al personaggio dell’attore anziano in crisi da effetti speciali. Anche Edward Norton con questa sua interpretazione rimarca la sua personale distanza da quel genere di film dato che, inciampatovi nel 2008 come “Incredibile Hulk” finì in causa con i produttori che avevano tagliato dal film buona parte della sua prestazione di attore a favore di vuoti effetti speciali: peccati che si scontano. E c’è da dire, concludendo, che se il Batman di Burton/Keaton era un bel film, antesignano di una serie che si sputtanò cammin facendo, l’Incredibile Hulk di Leterrier(chi è costui?)/Norton era davvero brutto.