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I soliti ignoti vent’anni dopo

1985, esattamente 27 anni dopo arriva il secondo sequel di cui nessuno sentiva la necessità. L’anno prima c’era stato il non riuscito remake americano “Crackers” a firma del francese americanizzato Louis Malle e il sequel tutto italiano lo ha forse voluto solo il non più giovanissimo regista esordiente Amanzio Todini che per anni è stato assistente di Mario Monicelli e finalmente vuole fare qualcosa di suo, solo che invece di fare qualcosa di veramente suo si immette nel solco del suo maestro. Perché evidentemente sa vivere solo di luce riflessa e come autore non ha niente da dire: firma il secondo sequel – dopo “Audace colpo dei soliti ignoti” che Nanni Loy diresse l’anno dopo il capostipite capolavoro – senza infamia e senza lode. Semmai l’infamia gli viene dall’essersi voluto cimentare nell’impresa e la mancanza di lode proprio nell’aver fallito clamorosamente: non che il film sia brutto ma è semplicemente banale, una commedia di genere senza una precisa identità.

Ma vediamo chi è rimasto nell’impresa. Alla sceneggiatura resta solo Age che da qui in poi si firmerà col nome completo Agenore Incrocci, perché il suo sodalizio con Furio Scarpelli si è concluso a metà anni Sessanta. Torna Suso Cecchi D’Amico che aveva saltato l’appuntamento col secondo sequel e completa il terzetto lo stesso regista debuttante, già co-sceneggiatore per il suo maestro Monicelli nel film “Le due vite di Mattia Pascal” dello stesso anno con Marcello Mastroianni che in quel 1985 esce anche con “Maccheroni” di Ettore Scola e “Ginger e Fred” di Federico Fellini. Il produttore dei primi due film Franco Cristaldi, ormai accasato con Zeudi Araya, si tira fuori e produce la non meglio identificata Excelsior Film.

A quel punto bisognava fare i conti col cast: chi c’era, chi non c’era e chi non era più interessato – fermo restando che per suscitare l’interesse degli interpreti a volte basta l’entità del compenso. Le riconferme più entusiaste arrivano da coprotagonisti e generici: Tiberio Murgia è della partita e lo segue Gina Rovere che fu la moglie di Mastroianni nel primo film; da qui in poi bisognava convincere i big. Si lascia convincere Vittorio Gassman che quell’anno esce con un solo altro film di produzione internazionale, poco visto: “Il potere del male” di Krzysztof Zanussi, e non è improbabile che sia stato lui a chiedere agli sceneggiatori di farlo morire alla fine del film per evitare ulteriori tentazioni. Un no secco deve essere arrivato da Nino Manfredi che si era unito al cast del secondo capitolo riempiendo il vuoto lasciato da Mastroianni che a sorpresa torna nell’impresa, stavolta da protagonista assoluto con l’unico nome sopra il titolo: Gassman si fa collocare alla fine “con la partecipazione di”. Carlo Pisacane era morto dieci anni prima di beata vecchiaia e Renato Salvatori ha lasciato il cinema da alcuni anni, “un mondo che non gli apparteneva più” come dichiarò in un’intervista, ma da almeno un decennio soffriva di alcolismo e morirà 54enne di cirrosi epatica nel 1988. Anche Claudia Cardinale si sfila dall’impresa: con tutta la buona volontà non c’era modo di offrirle un ruolo appetibile e ormai è una diva inarrivabile per certe produzioni e questo secondo sequel del film che l’ha lanciata si prospetta come una commedia di genere, forse anche di serie B; quell’anno lei esce con due film, “La donna delle meraviglie” di Alberto Bevilacqua e il francese “L’estate prossima” di Nadine Trintignant. Dunque agli sceneggiatori tocca giocare con le carte rimaste pescandone di nuove, e di nuovo ci sono due figli che nel primo capitolo erano bambini e oggi sono adulti, nel segno della continuità generazionale.

Il ruolo più importante va al romano Giorgio Gobbi come figlio di Marcello Mastroianni e Gina Rovere che gli sceneggiatori fanno venire giù da Milano dove il giovanotto vive e lavora; l’attore, che aveva debuttato accanto ad Alberto Sordi in “Il Marchese del Grillo” di Mario Monicelli (il maestro torna sempre nella narrazione) fa bene, recita con accento milanese anche se non si capisce – e questa è un’altra delle tante lacune della sceneggiatura – perché un giovanotto nato e cresciuto a Roma improvvisamente cominci a parlare con forte accento meneghino dopo qualche anno in trasferta: la spiegazione forse sta nella debolissima gag con cui chiama papi suo padre che da buon romano non apprezza; c’è poi che il ragazzo dichiara al padre di essere diverso: siamo in un’epoca che, benché sfrondata dai tanti tabù dei decenni precedenti, l’omosessuale al cinema è ancora raccontato come macchietta da deridere o dramma individuale: in questo caso il giovane non è mai stato con una donna ma non ha ancora fatto il grande salto perché non è andato neanche con gli uomini: nella narrazione dell’epoca c’è speranza che “guarisca”, come il padre auspica, cosa che puntualmente avviene dopo un accidentale bacio con la bella di turno: scivoloni della scrittura oggi non più tollerabili che in ogni caso segnano le mancanza di idee davvero vincenti.

Francesco De Rosa primo a destra con Enrico Montesano e Gigi Proietti in “Febbre da cavallo”

L’altro figlio porta il cognome di Cruciani ed è l’erede narrativo del Dante Cruciani di Totò, ruolo che è andato al napoletano Francesco De Rosa che anche artisticamente si era proposto come erede di Totò, se non altro per la faccia che ne ricordava la maschera e anche il timbro vocale, tanto che esordì sui palcoscenici partenopei con delle macchiette in cui imitava o omaggiava il Principe della Risata. Gli si aprirono le porte del cinema e debuttò diretto da Steno in “Piedone a Hong Kong” con Bud Spencer, e l’anno dopo, sempre diretto da Steno, fu nel cast di “Febbre da cavallo” con il suo ruolo più importante che gli fece raggiungere la massima notorietà e per il quale viene ancora oggi ricordato. Fra un film e l’altro torna a omaggiare Totò in questo film ma la svolta drammatica arriva nei primi anni Duemila con la produzione di “La mandrakata” come seguito di “Febbre da cavallo”, diretto da Carlo Vanzina figlio del fu Steno. Incomprensibilmente, contrariamente agli altri interpreti, non viene riconfermato nel cast, e nel ruolo del napoletano fu scritturato l’emergente Carlo Buccirosso cambiando alcune caratteristiche del personaggio; questo grave smacco fece scivolare De Rosa in una profonda depressione che lo condusse al suicidio per impiccagione un paio d’anni dopo.

Per quanto la Cardinale non fosse più disponibile non si poteva rimettere in scena il Ferribotte di Tiberio Murgia senza la sorella Carmelina, dato che la coppia degli allora debuttanti formava un unicum narrativo assai riuscito che vent’anni dopo ribalta i ruoli in un buon sviluppo narrativo: Carmelina ha oggi preso le redini della conduzione domestica, lavora e mantiene l’inutile fratello, tanto che si stenta a riconoscerla sul piano caratteriale, mentre sul piano fisiognomico è interpretata dalla credibilissima e somigliante Rita Savagnone, che essendo più attiva nel doppiaggio è già stata più volte la voce di Claudia Cardinale che qui stavolta sostituisce fisicamente; il personaggio è ben riuscito e gradevole ma gli sceneggiatori, sbagliando ancora una volta, preferiscono non svilupparlo avendo a che fare con una sostituzione. Sviluppano invece il non riuscito personaggio della madre di Cruciani come vecchia al seguito della banda nell’odierna disavventura: la interpreta la non troppo vecchia napoletana Concetta Barra, madre di Peppe Barra, che fa quello che può col poco materiale narrativo che le è stato dato in carico, dimostrando ancora una volta che gli sceneggiatori hanno lavorato davvero male sprecando occasioni su occasioni; eppure, tolto il regista Todini che ha sempre arrancato dietro agli altri, i primi due erano due vecchie volpi del mestiere. Mah.

La bella di turno che guarisce il diverso è, in linea coi tempi, una ragazza madre che fugge da un fidanzato violento. La interpreta la napoletana Clelia Rondinella mentre il violento che la insegue è l’ancora sconosciuto Ennio Fantastichini che nei decenni a venire sarà uno dei protagonisti di qualità del cinema italiano: morto 63enne nel 2018 per cause naturali. Completano il cast come trafficanti Giovanni Lombardo Radice, mio amico personale recentemente scomparso, attore e regista teatrale che era divenuto famoso, per gli appassionati, come iconico interprete di alcuni film horror di serie B, anche in lingua inglese che parlava fluentemente, e per i quali ebbe un suo proprio fan club internazionale; come suoi scagnozzi Pasquale Africano che divenne famoso in tv come guardia giurata del giudiziario “Forum” di Canale 5, e un giovanissimo quasi irriconoscibile Alessandro Gassmann (che ha recuperato nel cognome tedesco la seconda N che Vittorio aveva fatto cadere) che il padre sta avviando alla carriera artistica ma qui è doppiato da Roberto Chevalier. Vanno ricordati anche il caratterista romano dal fisico imponente specializzato in ruoli di rude e violento Natale Tulli, doppiato da Enzo Liberti, qui come nuovo compagno della moglie di Tiberio-Mastroianni, e in un piccolo ruolo la doppia figlia d’arte Alessandra Panelli (di Paolo Panelli e Bice Valori) come moglie dell’erede Cruciani, e nella vita reale moglie a scadenza di Lombardo Radice.

Nell’insieme il film si lascia seguire piacevolmente e recuperarlo non è tempo perso, se non altro per rivedere duettare Gassman e Mastroianni, ma resta un’occasione sprecata sin dalla sua genesi: l’intento è nostalgico ma anche commerciale e viene confezionato un film di genere che nulla ha dei punti di forza del capostipite che fondò la commedia all’italiana. Non si trattava di rifondare il genere ormai sepolto dalla commedia sexy all’italiana ma se non altro mantenerne l’idea, l’ideale, e a nulla valgono gli inserti in bianco e nero del film capostipite concessi dal primo produttore che viene ringraziato nei titoli di coda: “La produzione e gli autori ringraziano FRANCO CRISTALDI per gli inserti da I SOLITI IGNOTI di MARIO MONICELLI”.

Monicelli che in apertura dei titoli di testa viene citato con “Mario Monicelli presenta”, una sorta di viatico e lasciapassare per il discepolo dotato di poco talento. Marcello Mastroianni è l’unico nome prima del titolo: uscendo dal carcere all’inizio del film si ritrova in una Roma sconosciuta e anche incattivita, ma ancora una volta la sceneggiatura non graffia laddove spunti ce ne sarebbero a decine, e la recitazione dell’attore ha lo spessore dell’interprete maturo, ma non avendo spunti brillanti a cui aggrapparsi – se non trite gag da avanspettacolo, quello che Monicelli aveva mandato in soffitta – il suo personaggio risulta più cupo che brillante, da commedia amara, e sarebbe stato un punto a favore se il film avesse seguito questa traccia, ma in realtà in film non ha nessuna traccia.

Segue nei titoli, al secondo posto, Tiberio Murgia “nel ruolo di Ferribotte”, che non essendo un vero interprete rifà sé stesso senza sbagliare; vengono poi Rita Savagnone “nel ruolo della sorella di Ferribotte”, Concetta Barra “nel ruolo della signora Italia” e infine arriva “con la partecipazione diVittorio Gassman che pur continuando a balbettare si è liberato di quel trucco e parrucco che lo avevano aiutato a diventare maschera brillante quasi trent’anni prima. Amanzio Todini dopo questo debutto-flop firmerà due anni dopo solo un’altra regia, il televisivo Fininvest “Non tutto rosa” con Marisa Laurito e Andy Luotto; è morto 48enne nel 1995 ma non mi è stato possibile rintracciare ulteriori dettagli. Il film è disponibile su YouTube.

Noi donne siamo fatte così

1971. Un titolo che è di per sé un manifesto, una dichiarazione di status e di intenti, ma che fallisce entrambi i punti perché in una buona metà degli episodi non è protagonista la donna con il suo sbandierato modo di essere bensì la situazione del racconto, a volte sviluppata in una vera e propria trama ma per lo più sono episodi che rimangono situazioni senza sviluppo narrativo, sketch, scenette da varietà televisivo, barzellette. E la donna è solo il mezzo espressivo. E’ un peccato perché l’occasione era ghiotta: Monica Vitti protagonista assoluta di uno di quei film a episodi tanto in voga all’epoca, che nel 1963 avevano avuto come protagonista femminile Sofia Loren in “Ieri, oggi, domani” diretta da Vittorio De Sica e accompagnata passo passo dal coprotagonista Marcello Mastroianni. Qui dirige Dino Risi e non c’è spazio per coprotagonisti maschili, e dove il ruolo di comprimario in pochi casi si fa importante viene affidato a differenti attori, che in ordine di apparizione sono: Enrico Maria Salerno, Carlo Giuffrè, Ettore Manni.

Donna oggetto con Enrico Maria Salerno in “Zoe – Romantica”

12 episodi per 112 minuti di film, in media 9,33, con episodi più lunghi e complessi, veri cortometraggi, e altri davvero veloci come siparietti, il primo dei quali in apertura del film è anche muto, che offrono a Monica Vitti l’occasione di cimentarsi in 12 ritratti diversi in cui recita credibilmente con diverse cadenze regionali e interpreta anche un’americana, una tedesca e una hostess poliglotta. Gli episodi vengono introdotti da un cartello che li intitola col nome della donna protagonista e solo nei titoli di coda si apprende che ogni episodio aveva un titolo proprio, che come si vuole in narrativa introduce allo spirito del racconto più del semplice laconico nome femminile.

Siciliana vittima-carnefice in “Alberta – Il mondo cammina” con Carlo Giuffré

Da “Noi donne siamo fatte così” ci si aspetta un film che nei suoi episodi racconti la donna nei suoi molteplici e complessi aspetti, anche pre rivoluzione settantottina, anche nel tono grottesco che si è scelto e nel quale la protagonista è notoriamente a suo agio. In realtà sono donne che più che raccontare come sono fatte, dunque dal loro punto di vista, raccontano storie totalmente maschili in cui la donna, per lo più, rimane la costola di un Adamo che si avvia in quegli anni settanta a essere seriamente messo discussione, e dunque il film è già vecchio e fuori fuoco già alla sua uscita nelle sale.

Ancora donna oggetto in “Teresa – Schiava d’amore” con Ettore Manni

Unici riferimenti alla realtà del tempo: una veloce battuta sul divorzio, legalizzato in Italia l’anno prima, ed evidentemente non ancora metabolizzato dagli autori tanto da spingerli a scriverci sopra un intero episodio; lo sciopero delle lavoratrici di un biscottificio; la guerra del Vietnam; la citazione del programma radiofonico “Chiamate Roma 3131” qui adattato in “Chiamate Roma 2121”, un episodio che pericolosamente fa l’apologia dello stupro. C’è poi il ritratto di una coppia iper moderna della Roma bene, come si dirà all’epoca in seguito al successo del film di critica sociale “Roma bene” di Carlo Lizzani, di quello stesso anno; coppia aperta che vanta libere frequentazioni erotiche extra coniugali ma che alla fine danno sfogo alla loro intima natura di siciliani, ovviamente gelosi come la narrativa pretende, e si uccidono a vicenda. In questo episodio la Vitti fa di nuovo la coppia siciliana creata con Carlo Giuffré che l’aveva disonorata in “La ragazza con la pistola” diretto da Mario Monicelli tre anni prima, grande successo che in qualche modo ridisegnò la sua immagine presso il pubblico, dopo che era stata per il compagno di vita Michelangelo Antonioni musa della tetralogia detta dell’incomunicabilità. Il resto sono ritratti di donne senza tempo occasionalmente inserite in un luogo specifico per darle la possibilità di sfoggiare calate dialettali diverse, compreso il napoletano dell’episodio “Annunziata” ovvero “Mamma” in cui è madre di 22 figli e orecchia l’episodio “Adelina” di “Ieri, oggi, domani” ispirato a un reale fatto di cronaca.

Dirige Dino Risi, maestro della commedia con le unghie affilate che ha già firmato capolavori come “Il sorpasso” e fra i film a episodi “I mostri”; ma qui il suo sguardo cinico e tagliente non basta a dare spessore a una serie di barzellette. Un film ancora gradevole per la presenza di Monica Vitti e che, dati i numerosi anche brevi episodi, si può vedere a tempo perso, magari facendo zapping quando nel canale in visione c’è la pubblicità. Nel complesso uno di quei film a episodi troppo legati alla fantasia maschile e maschilista degli autori – Age e Scarpelli, lo stesso Dino Risi, Ettore Scola, Rodolfo Sonego, Luciano Vincenzoni, Giuseppe Catalano, più un anonimo che firma “Eliana – La guerra del Vietnam” che potrebbe celare la stessa Monica Vitti, corrispondente di guerra italiana gravemente mutilata, nell’ospedale da campo in Vietnam, che al presidente americano in visita rivolge un fulminante “…li mortacci tua!”. Il film fu praticamente ignorato nelle sale, mentre la critica salva il mestiere della Vitti e non infierisce sul prodotto. Monica Vitti si rifarà inanellando tre successi: “La Tosca” diretta da Luigi Magni, “Teresa la ladra” diretta dal suo compagno Carlo Di Palma e “Polvere di stelle” di e con Alberto Sordi.

Una giovanissima Ileana Rigano, accreditata come Riganò, nel ruolo muto ma essenziale della graziosa camerierina della coppia siciliana Vitti-Giuffré