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“Maps to the Stars”: falling stars, risings stars, boring stars

A fine film la signora seduta accanto a me ha mormorato “Che tragedia!” e suo marito s’è messo a ridere: questo dice tutto del film. Un film che è un inganno sin dal titolo che fa romanticamente pensare a una mappa stellare e invece la mappa è quella di Los Angeles per trovare le ville delle star cinematografiche, e l’inganno mi sta bene così imparo a fare il romantico. Ma d’altronde che mi potevo aspettare da David Cronenberg, sempre votato alla violenza psicologica che si riverbera nella violenza fisica e viceversa? Io mi aspetto grandi film, e mi vengono subito in mente in due che ha girato con Viggo Mortensen: “A history of violence” e “La promessa dell’assassino”. Ma ultimamente Cronenberg sembra essersi raffreddato e dopo il non necessario dramma psicanalitico “A dangerous method” e l’ancor più gelido “Cosmopolis” che però esplora nuovi terreni, qui si affida a una sceneggiatura di Bruce Wagner che sarebbe stato meglio lasciare nel cassetto perché, a mio avviso, è tutta “troppo voluta”: storia corale di star in ascesa e altre in caduta libera dove la regola che vale per tutti, senza distinzione, è la nevrosi riccamente condita da droghe e psicofarmaci, ovvio; una storia dove nessuno si salva, neanche per sbaglio, neanche il cane, e non perché io ami gli happy endings ma davvero perché questa mancanza assoluta di speranza sembra tutta costruita a tavolino per raccontarci che dalle parti di Hollywood sono tutti brutti e cattivi nessuno escluso, e la morale ormai vecchiotta è che le colpe dei padri ricadono sempre sui figli. Trama da tragedia greca che si prende troppo sul serio e diventa grottesca spingendo al limite la pazienza dello spettatore con le allucinazioni in cui compaiono fantasmi che parlano troppo e non dicono niente. Brutti e cattivi, dicevo, anche visivamente, e se Julianne Moore si porta a casa il meritato premio come migliore attrice a Cannes mostrandosi fragile e sgradevole ma sempre affascinante anche se piena di rughe sotto una fotografia impietosa, la stessa fotografia fa di John Cusack – che è sempre un bravo attore ma ha il fascino di una zucchina bollita – un mostro invecchiato male e truccato peggio. La giovane Mia Wasikowska che ha sempre mostrato il suo fascino puro e acerbo, qui giocandosi la carta della bruttezza ci guadagna in credibilità artistica e il suo ritratto di ragazzetta scialba e sfigurata, nonché pazzoide ovviamente, è assai credibile. Anche Olivia Williams, nevrotica – e come sarebbe possibile altrimenti? – moglie dello pseudo-psico-terapeuta Cusack, cede al fascino della ruga in primo piano e anche lei lo fa con gran classe. Rimane inevitabilmente belloccio –  per chi lo crede belloccio ma per me ha l’occhio moscio – il Robert Pattinson che dopo aver fatto strage di cuori teenager come romantico vampiro s’è rifatto il look di attore serio col precedente “Cosmopolis” di Cronenberg dove era un giovane magnate che praticamente viveva nella sua limousine: qui è un giovane attore di belle speranze che la limousine la guida per pagare le bollette e anche se il suo ruolo è il più normale – ma dev’essere stata una svista dello sceneggiatore… – lui lo rende in modo naturale e credibile. Come altrettanto naturale, e anche di più, è il tredicenne Evan Bird che fa la giovanissima star, ovviamente in full immersion di nevrosi droghe e allucinazioni, che non si risparmia nulla: credo sia lui la vera rivelazione del film e se nella vita reale non farà la stessa fine del suo personaggio e di altre celebri giovani star sentiremo ancora parlare di lui. In conclusione, motivi per vedere il film: se sei un fan di David Cronenberg; se sei un fan di Julianne Moore; se sei un fan degli psicofarmaci. Altrimenti lascialo passare, senza perderci una serata, persino in tv, quando sarà.