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Downton Abbey, il film

Dopo sei gloriose stagioni televisive “Downton Abbey” diventa un film, fortunato e celebrato come le serie tv, che ha fatto in tempo a uscire nelle sale italiane a inizio anno, prima della pandemia che ha cambiato anche il modo di vedere il cinema: in tv, sui tablet e sui pc. Dunque il film approda sui piccoli schermi, e in fondo è la sua collocazione ideale, un ritorno alle origini. Una narrazione attenta anche a chi non ha visto la serie ma in cui i fan di sempre riconoscono richiami, rimandi e sottotracce che danno più spessore al divertimento. Perché di puro divertimento si tratta e il film, come la serie, si lascia seguire con un lungo disteso sorriso.

Per i neofiti, ma anche per rinfrescarci la memoria, la serie racconta le vicende e gli intrighi, sentimentali sociali e anche politici, dei Conti di Grantham che abitano i piani superiori del castello di Downton Abbey, mentre ai piani inferiori vive e lavora la numerosa servitù, anch’essa alle prese coi propri drammi e intrighi che spesso s’intrecciano con quelli degli abitanti dei piani nobili. Snodi importanti di tutta la narrativa sono la contessa Cora, nata “non bene” come avrebbero detto i nobili di una volta, ma di famiglia ricca, e soprattutto americana, cosa che fa sempre arricciare il naso ai nobili inglese; ma il personaggio è necessario perché aggancia gli Stati Uniti alla coproduzione col Regno Unito e soprattutto apre al prodotto l’immenso mercato d’oltre oceano. L’altro snodo narrativo è il personaggio di Tom Branson, autista e meccanico al servizio, che in quanto irlandese introduce nella narrazione il conflitto religioso politico culturale fra l’Irlanda e la Corona Inglese; di più, il personaggio di Branson riduce le distanze fra il piano inferiore e quello superiore quando sposa, con scandalo su entrambi i fronti, la minore delle tre figlie Grantham.

La prima stagione si apre nell’aprile del 1912 con la notizia dell’affondamento del Titanic che coinvolge un cugino del conte lasciando in eredità la contesa Downton Abbey che darà l’avvio a tutta la storia. Ideatore e creatore è Julian Fellowes, attore e regista ma soprattutto sceneggiatore, che nel 2002 ha vinto l’Oscar per la sceneggiatura di “Gosford Park”, gran bel film di successo e premi con la regia di Robert Altman, che con altre dinamiche e problematiche esplora i rapporti fra nobili e servitori, e inglese e americani, nell’Inghilterra degli anni ’30: da lì a qui il salto è breve. Evidentemente portato per il genere storico Fellowes ha anche firmato le sceneggiature di “La Fiera della Vanità” regia di Mira Nair, “The Young Victoria” di Jean-Marc Vallée e la miniserie tv “Titanic” nel centenario del naufragio.

Il numeroso cast del film, come nella serie, è presentato rigorosamente in ordine alfabetico, compresa la gran dama Maggie Smith, unico nome universalmente noto, e per la quale sono scritte le battute migliori di pungente humour (humor in America) inglese; segue, per fama, l’americana Elizabeth McGovern, che ventenne è stata nominata agli Oscar per la sua interpretazione in “Ragtime” di Miloš Forman, film che segnò anche l’ultima interpretazione del vilain d’America James Cagney. Nella terza stagione partecipazione di gran lusso di Shirley MacLaine, come madre dell’americana contessa Cora, i cui duetti con Maggie Smith sono da antologia.

il film racconta una vicenda a se stante che coinvolge tutti i piani di Downton Abbey: la visita di Re Giorgio V con la Regina Maria, con tutto il loro seguito di valletti, servitori, chef e governante che tenteranno di estromettere la servitù residente dall’ambito speciale servizio regale: il divertimento è assicurato, così come l’intrigo che porta in paese un altro irlandese che attenterà alla vita del re; non mancano le palpitazioni sentimentali: c’è l’infelicità coniugale della Principessa Mary, fatto avallato da chiacchiericci storici sempre smentiti dalle fonti ufficiali; c’è la scintilla d’amore che scocca fra l’assimilato irlandese Tom Branson, vedovo della terzogenita di casa, e la new entry servetta-ma-non-solo della dama di compagnia di regina; e per finire nasce anche un nuovo amore omosessuale, a dispetto dei tempi, fra il giovane nuovo maggiordomo Thomas Barrow, già cameriere indisciplinato e rampante traffichino nella serie, e un servo reale. Storie d’amore che rimangono aperte come viale d’ingresso al prossimo film, che era già nelle intenzioni di autore e produttori: se fosse andato bene ci sarebbe stato un secondo film, così la serialità passa dal piccolo a grande schermo, mentre la nostra amatissima Lady Violet di Dame Maggie Smith annuncia alla nipote che presto non ci sarà più: cautele produttive su un’attrice 86enne.

Hugh Bonneville è il Conte di Grantham, Michelle Dockery e Laura Carmichael le figlie, e Penelope Wilton come baronessa parente della famiglia; Allen Leech interpreta l’irlandese di casa che dai piani bassi passa a quelli alti, e fra la servitù spiccano il maggiordomo di Jim Carter, Phyllis Logan come governante, i coniugi Bates che sono Brendan Coyle e Joanne Froggat, mentre Robert James-Collier è l’inquieto Thomas Barrow. Altro nome di spicco, nel film, è Imelda Staunton con la sua servetta interpretata da Tuppence Middleton; il re e la regina sono Simon Jones e Geraldine James, mentre la Principessa Mary è Kate Phillips; l’attentatore è Stephen Campbell Moore; tutti nomi e volti noti al pubblico inglese. Dirige con mano sicura Michael Engler, già regista di quattro episodi della serie. Il film, gradevolissimo, rimane un prodotto televisivo anche trasferito sul grande schermo, e senza riservarci grandi sorprese, conferma la piacevolezza delle vicende che intrecciano i piani alti e quelli bassi di Downton Abbey anche con l’esterno e la storia con la maiuscola. Cinematograficamente magistrale la scena del gran ballo, per scrittura e regia, che alterna i piani sequenza dei valzer con i siparietti nei dintorni del salone in cui si sciolgono piccoli drammi esistenziali.

In conclusione una pungente curiosità, nello stile di Lady Violet: nel film documentario di Roger Michell “Un Tè con le Regine” dove insieme a Judi Dench, Joan Plowright e Eileen Atkins, Maggie Smith si lascia andare a ricordi e pettegolezzi, liquida “Downton Abbey” come una grande sciocchezza.

Parasite, e la Korea invade Hollywood

Con buona pace del tiranno nordcoreano Kim Jong-un si tratta di un’invasione pacifica e festaiola da indimenticabile Notte degli Oscar per il sudcoreano Bong Joon-ho, soggettista co-sceneggiatore co-produttore e regista: quando si parla di cinema coreano si intende sempre quello sud coreano dato che il nord, nazione totalitaria, non ha un suo vero e proprio cinema, o per lo meno non esiste per il resto del mondo dato che si tratta di produzioni propagandistiche e politicamente addomesticate per il mercato interno. Diverso il discorso per le collaborazioni nell’ambito del cinema di animazione, dato il riconosciuto valore dei creativi nord coreani.

“Parasite” aveva già vinto la Palma d’Oro a Cannes, con voto unanime, primo film sudcoreano a ricevere il premio e anche, in seguito, primo film sudcoreano a essere candidato agli Oscar. Da quel momento in poi passando per i Golden Globe e i BAFTA il film non ha più smesso di ricevere premi e riconoscimenti.

Ma c’è da dire che Bong Joon-ho era già noto ai tycoon holliwoodiani per un curioso film fantasy post-pocalittico, “Snowpiercer” del 2013, coproduzione USA-Korea con regia del nostro, con al centro il dramma del divario sociale. Dramma che ritroviamo in questo “Parasite” a riprova del fatto che il problema è lì molto sentito e che Bong Joon-ho se ne fa portavoce.

Il film ci introduce a una famiglia dei bassifondi di Seoul, genitori e due figli, che vive di sussidio e lavoretti: ma non sono dei cialtroni, tutt’altro, sono culturalmente evoluti e preparati, solo che la miseria li ha incanagliti. Con un colpo di fortuna il figlio viene assunto presso una famiglia benestante, dei quartieri alti, alti anche geo-morfologicamente, e da questo momento in poi, il genio fatto canaglia del quartetto, si insinua nella vita dei ricchi, proprio come un parassita, senza riguardo per chiunque sia da ostacolo al loro progetto. Una commedia nera e grottesca in cui la ben congegnata truffa si rivelerà un fragile marchingegno che si incepperà al primo contrattempo, e lì comincia il gioco al massacro dei colpi di scena. L’autore l’ha definita “una tragedia senza cattivi e una commedia senza clown”.

Alla serata degli Oscar prima arriva quello alla miglior sceneggiatura e l’autore è pienamente soddisfatto. Ma poi arriva anche quello al miglior film internazionale e qui Bong Joon-ho è incredulo per l’inattesa doppietta e ci spiega che è felice che quest’anno sia cambiata l’indicazione della categoria: da miglior film in lingua straniera a miglior internazionale, e la differenza, benché sottile è sostanziale, perché da premio anglo-centrico basato sulla lingua, diventa un riconoscimento al Paese che ha presentato il film, un riconoscimento alla cultura a prescindere dalla lingua. Poi arriva il premio come miglior regista, sfilandolo a Quentin Tarantino che ci credeva molto, e a Martin Scorsese che però Bong Joon-ho omaggia come suo maestro suscitando una standing ovation per l’anziano maestro. Per finire arriva anche il riconoscimento come miglior film, primo film in lingua coreana a vincerlo, ed è la consacrazione.

Personalmente non mi è piaciuto il finale, l’ho trovato un po’ stiracchiato, come se l’autore non sapesse più come uscire dall’incredibile macchina che aveva messo in moto, una brillantissima sceneggiatura che, più di altre, richiede allo spettatore la sospensione dell’incredulità: nel finale si spezza l’incanto della complicità fra spettatore e autore e la lunghissima lettera che viene mandata con l’alfabeto morse è il troppo che stroppia. Ma il film c’è e merita tutti i premi e l’attenzione che sta ricevendo.

In chiusura l’elenco degli Oscar ricevuti dai film che ho visto. Joaquin Phoenix miglior attore per “Joker”, film premiato anche per la miglior musica originale. Brad Pitt migliore non protagonista per “C’era una volta… a Hollywood”, film premiato anche per la scenografia. A “1917” sono andati due premi tecnici: fotografia ed effetti visivi.

C’era una volta a… Hollywood, ovvero un 3×1 al multisala

Ben tre film in uno e neanche fra i migliori del cosiddetto genio di Hollywood che ama riscrivere Hollywood. Siamo lontani anni luce dal visionario e narrativamente perfetto dittico di “Kill Bill” del quale mi sarei sorbito anche tre, quattro, cinque volumi di seguito. Il problema dei geni è che non c’è nessun produttore vecchio stampo, di quelli che licenziavano su due piedi i registi, che gli sappia dire: adesso basta, bello, datti una regolata o ti mando affanculo.

Tre film, dunque, che scorrono parallelamente slegati fra loro: il primo con Leo DiCaprio (già cattivissimo in “Django Unchained”), il secondo con Brad Pitt (già eroe americano in “Bastardi Senza Gloria”) e l’ultimo con Margot Robbie, sfortunata new entry nell’universo tarantiniano. A parte un paio di scene, in apertura e chiusura, dove ci godiamo insieme l’inedita coppia di buddy-buddy DiCaprio-Pitt che duettano amabilmente, ognuno dei due poi recita il proprio film all’interno di questo contenitore senza collante.

DiCaprio è una star tv in declino che si ricicla come cattivo, e dunque sempre perdente, nei film di altre star; viene contattato dal produttore (personaggio reale interpretato da Al Pacino) Marvin Schawarzs che gli propone di andare a fare il protagonista negli spaghetti-western italiani e a tal proposito parla al telefono con Sergio; io penso subito a Sergio Leone ma invece si tratta di Sergio Corbucci, il trash del già trash spaghetti-western, che viene citato insieme ad Antonio Margheriti e altri registi italiani esponenti di quell’epopea: la passione di Tarantino. A DiCaprio spetta il personaggio migliore perché si diverte e ci diverte nelle varie performance attraverso cui passa il personaggio.

Meno accattivante, e a mio avviso meno riuscito, il personaggio di Pitt, più cool e manesco, e più dotato dell’ironia tarantiniana, ma meno risolto e poco credibile come controfigura dell’altro: troppo iconico per essere un semplice stuntman a fine carriera al servizio h24 della star anch’essa a fine carriera. E mentre DiCaprio ci diverte con le sue variegate e sempre in tono interpretazioni, Pitt fa a botte e, fra un lavoretto e l’altro per guadagnarsi la giornata, mette al tappeto anche Bruce Lee. Detto questo, dicendo pure della raffinata ricercatezza delle ricostruzioni d’epoca, siamo alla fine degli anni ’60, le insegne, i manifesti, i set cinematografici, non c’è molto altro: i film nel film scorrono riempiendomi gli occhi ma tenendomi lontano dall’appassionato interesse cui il cinema di Tarantino mi aveva abituato.

il terzo film, in assoluto il più noioso, è quello dove Margot Robbie interpreta quella Sharon Tate, moglie di Roman Polanski, che la notte dell’8 agosto del ’69 venne massacrata nella villa di Rodeo Drive, insieme a tre amici, da tre adepti alla setta di Charles Manson. Tarantino ci racconta la sua Sharon senza infonderle anima, la forza tipica delle sue eroine, e si limita a seguirla mentre va alle feste col marito, o si aggira nella villa o se ne va al cinema a rivedersi, contenta che il pubblico apprezzi la sua performance come comprimaria di Dean Martin. E’ chiaro che tutto questo, dove davvero non succede nulla, ci sta preparando a quel finale dove ovviamente convergeranno tutte le storie, ma il problema del film è che le varie storie sono davvero lunghe e inutili e che quando finalmente si arriva al finale dove tutto trova il suo senso, siamo davvero sfiniti e tiriamo un sospiro di sollievo perché finalmente ce ne possiamo scappare da quelle 2 ore e 40 di vuoti compiacimenti stilistici e citazionistici.

Bisogna considerare che il pubblico medio, compresi gli ultracinquantenni, neanche sa chi sia Sharon Tate e non è neanche in grado di riconoscere il ghigno di Charles Manson (Damon Herriman) che si aggira fra le ville dei divi come in avanscoperta e lo si vede appena di sfuggita (la sua scena è stata tagliata e magari era quella buona): dunque non viene caricata l’ansia dell’aspettativa del massacro e ci si continua a chiedere cosa stiamo vedendo. Anche tutte le altre citazioni, a volte iperboliche, sono per cinefili duri e puri, e noi italiani non possiamo riconoscere al volo tutti i riferimenti a fatti e personaggi che appartengono alla cultura americana degli anni Sessanta: il pubblico è una massa indistinta che va intrattenuta, commossa divertita terrorizzata rapita, ma non messa davanti a un narcisistico cervellotico cruciverba senza definizioni.

Tutto il blocco su Bruce Lee (Mike Moh), un cortometraggio messo all’interno di un lungometraggio già lungo, è sì divertente e piacevole, ma alla fin fine totalmente estraneo al racconto, se non per dire (io ho dovuto fare approfondite ricerche) che inizialmente Roman Polanski aveva sospettato lui del massacro: e di passaggio vediamo Bruce Lee che allena Sharon Tate nel giardino della villa. Tutto il blocco sulla deliziosa zuccherosa Sharon Tate, e particolarmente la sequenza del cinema, è totalmente inutile. Come altrettanto inutile è la sequenza in cui lo stuntman, seguendo la hippy Pussycat (Margareth Qualley), arriva su un set western abbandonato (lo stesso dove era stato girato “Django”) e incontra il vecchio produttore cieco George Spahn (personaggio reale interpretato da Bruce Dern) per parlare di cosa? Di questa sequenza mi resta la citazione degli zombi di Romero trasfigurati negli hippy strafatti, dato che da spettatore medio non so ancora niente di Spahn, ottantenne soggiogato da Charles Manson che, in cambio del permesso di abitare le rovine con la sua “famiglia” di strafattoni, gli concede sesso con le ragazze del gruppo; mi resta anche il cameo dell’ex bambina prodigio Dakota Fanning come discutibile matriarca del branco; e poi le botte da orbi che lo stuntman assesta a uno sfaccendato innescando la vendetta che porterà al finale.

Altrettanto inutile è il cameo di Damian Lewis che interpreta uno Steve McQueen dispiaciuto di non avere chance con la bella Sharon Tate alla quale piacciono bruni e piccoletti: il suo precedente fidanzato, il parrucchiere delle star Jay Sebring (Emile Hirsch) è la copia conforme del nuovo marito, il più famoso Roman Polanski, per interpretare il quale è stato scelto l’altrettanto polacco Rafał Zawierucha. Altri personaggi reali che faccio fatica a riconoscere, e per i quali ho cercato dettagli, sono: l’attore Wayne Maunder interpretato da Luke Perry che morirà alla fine delle riprese del film; il regista Sam Wanamaker (Nicholas Hammond); l’attore James Stacy, star della nuova serie western, interpretato da Timothy Oliphant, a sua volta star della serie western “Deadwood”. Fra i personaggi fittizi vale la pena ricordare la moglie italiana di DiCaprio interpretata dalla cilena Lorenza Izzo e l’anziano stuntman di Kurt Russell già fictionary stuntman per Tarantino in “Grindhouse”.

Solo nel finale (siamo in zona anticipazione che oggi si dice spoiler) riconosco la mano del regista: riscrive la storia della sua Hollywood e devia dalla realtà per immaginare una favola dove la bella Sharon Tate vivrà ancora perché la Manson Family è andata a far danno nella villa accanto, quella dove DiCaprio sbevazza con l’amico Pitt che si farà pure di acido: sono più strafatti degli strafattoni venuti con cattive intenzioni e ne faranno materiale da barbecue in una di quelle scene splatter e pulp tipiche di Tarantino: tutto è bene quel che finisce bene, dunque, anche se non è reale ma una personale riscrittura della storia che completa il trittico iniziato con “Bastardi Senza Gloria” e “Django Unchained”.

Mi preoccupano le voci di una futura uscita di questo film nella versione “director cut” che serve solo a ridare vita sul mercato home video, e che si preannuncia di 4 ore! Questo è il nono film di Quentin il quale dice che al decimo si fermerà, e c’è già chi prega perché cambi idea. Io dico solo: perché no? se è stanco e crede di aver dato tutto perché non concedergli il suo meritato riposo, invece che una lenta e impietosa discesa fatta di film come questo?

La mia vita con John F. Donovan: auto-fiction o instant movie?

Auto-fiction, come Almodòvar fa dire al suo personaggio nel suo ultimo film? o instant-movie, per i suoi richiami alla realtà parallela e immediata dello star-system?

A un* spettatore/trice – lettore/trice attent* non sfugge il fatto che accostando il giovane canadese Xavier Dolan all’anziano spagnolo stiamo parlando di cine-omosessualità, dato che entrambi i cineasti vivono dichiarano e raccontano la propria sessualità sullo schermo, ma oltre questo sono lontanissimi l’uno dall’altro per stile e modalità: tragico-melodrammatico, sopra le righe, transgender, pansessuale e iconoclasta l’anziano – tragico-intimista, nevrotico ma senza tic di genere e socialmente omologato il giovane che racconta il suo mondo dove essere omosessuali ha le stesse chance di essere nevrotici di un eterosessuale: che diventa uno stress in più quando non si vive in armonia la propria sessualità, qualunque essa sia. Che è il tema centrale di questo film.

Instant movie: il John Francis Donovan del titolo è una star di fiction tv fantasy come il Kit Harington che lo interpreta avendo appena smesso i panni di Jon Snow in “Il Trono di Spade”; nel film una star con schiere di adolescenti adoranti – come nella realtà Kit Harington che porta in sala frotte di adolescenti sicuramente impreparati ai temi e alle atmosfere di questo film: se almeno un* su dieci si appassionerà al cinema d’autore, e si incuriosirà alle questioni che questo film dibatte, tanto di guadagnato per l’intera società.

Apprendiamo subito che la star è morta dieci anni prima, per accidentale overdose di psicofarmaci: e questo ci riporta alla morte simile, di un decennio fa, di Heath Ledger, che voci non accreditate bisbigliano di una omosessualità nascosta, e male vissuta, a causa delle dure leggi dello star-system. Che è quello che accade a John F. Donovan. A raccontare in flashback la sua vita è un’altra giovane star (Ben Schnetzer) intervistato a Praga da una riluttante giornalista (Thandie Newton) che sempre impegnata in reportage dal “terzo mondo” sta facendo un favore all’editore con questa storia da “primo mondo” che lei immagina noiosamente glamourous, in cui però il giovane attore riesce a intrigarla raccontando una storia amara con un punto di vista inedito: da bambino (Jacob Tremblay) aveva intrapreso una segreta corrispondenza vecchio stile, carta e penna, con l’attore che ammirava e di cui avrebbe seguito le orme… e qui torniamo all’almodovariana auto-fiction: Xavier Dolan da bambino aveva scritto al suo idolo Leonardo DiCaprio (che non gli ha mai risposto) e l’esperienza personale si fa qui fiction e fiorisce di sviluppi imprevedibili e drammatici che sconvolgeranno la vita dei due compagni di penna che non si sono mai incontrati.

Ma andiamo a dare un’occhiata alla breve, ma intensa, filmografia di Dolan: debutta come attore bambino e come autore-regista realizza: “J’ai tué ma mère” che interpreta, distribuito solo in Canada e Francia, essendo il film parlato in francese, e racconta di un ragazzo in difficoltà nel dire la propria omosessualità in famiglia; continua con “Les Amours imaginaires”, sempre in francese e sempre protagonista, in cui racconta di due amici, lui e lei, che si innamorano dello stesso ragazzo, presentato a Cannes nel 2010; poi viene “Laurence Anyways e il desiderio di una donna…” coprodotto da Canada e Francia in cui non recita e racconta la storia di un insegnante 35enne che decide di cambiare sesso, e a Cannes vince la Queer Palm e viene distribuito in quasi tutta Europa, tranne la Spagna: Almodòvar lo avrà visto? Dolan racconta l’aspirazione a una vita serena e normale lontana dagli squilibri surreali dei transessuali di Pedro; ancora in coproduzione “Tom à la ferme” in cui torna a recitare sempre parlando di omosessualità taciuta in famiglia, presentato stavolta a Venezia; segue “Mommy”, sempre in coproduzione francese, in cui accantona la sessualità per raccontare un quindicenne affetto da disturbo oppositivo provocatorio e indagare, di nuovo, l’ambiguità del rapporto madre-figlio adolescente, Premio della Giuria a Cannes e primo film di Dolan ad arrivare nei cinema italiani (ma gli altri passano in tv su Sky Cult); nel 2016 esce con “È solo la fine del mondo” e la coproduzione franco-canadese si fa più sostanziosa tanto da avere un cast francese di prim’ordine per una storia che, ponendo l’omosessualità solo sullo sfondo, racconta una famiglia messa al confronto con la morte imminente del protagonista che torna da lontano per morire in casa: i premi ovviamente si moltiplicano, come le attenzioni, e il film entra nella short list dei film stranieri all’Oscar.

È il momento del salto di qualità e coproducendo col Regno Unito gira in inglese e con un cast di stelle di prima grandezza che garantiranno grande distribuzione: in “La mia vita con John F. Donovan” schiera tre dame dell’Oscar nei ruoli di contorno: Natalie Portman (ex attrice bambina) nel ruolo della madre del bambino protagonista in cui mette al servizio della storia il suo talento per un personaggio necessario ma non eclatante; Susan Sarandon è la madre alcolista di Donovan e recita la sua scena madre evidentemente davvero ubriaca, dati gli occhi lucidi e appannati insieme, e se così non è – è davvero da Oscar; Kathy Bates è la cinica ma umana agente di Donovan, con un rigore morale poco credibile nell’ambiente dello show-biz. Completano il cast: Amara Karan come insegnante del bambino prodigio; Bella Thorne come “compagna da copertina” di Donovan; Sarah Gadon come sua collega tv e due bellocci intercambiali, data l’indiscutibile somiglianza, come fratello e amante segreto del protagonista: Jared Keeso e Chris Zylka. Il finale si arricchisce dell’intervento di Michael Gambon come vecchio deus ex machina.

Riportando la curiosità che l’intera interpretazione di Jessica Chastain, altro nome di peso, è stata eliminata al montaggio, va detto che il film è bello, emozionante, intrigante e, dall’ottica di Nolan, maturo: abbandona le atmosfere intimiste e rarefatte da cinéma d’essai e girando anche a Londra e Praga si apre alla vecchia Europa e alla lingua inglese, garantendosi visibilità planetaria. Kit Harington sfoggia un talento da attore adulto per ruoli impegnativi, e il bambino Jacob Tremblay, già protagonista di “Wonder”, bravissimo qui e lì, speriamo abbia avuto buoni consigli dalla sua mamma di scena, Natalie Portman, su come diventare attori adulti senza abusare di alcol e droghe. Tutto il resto del cast è all’altezza di un prodotto molto ben riuscito sull’identità sessuale e le trappole dello star system: un film che piacerà a Hollywood perché parla di Hollywood nell’unica lingua che conosce.

Dolor y Gloria, e premio a Cannes

Almodóvar, di casa a Cannes ma non solo, torna a vincere con l’interpretazione del suo amico Antonio Banderas la cui qualità dell’interpretazione è lampante sin da subito nel suo sguardo acuto e indagatore ma anche sperduto, di uno che è abituato a pensare ogni parola ma che nel contempo ha perduto se stesso. Insomma, Pedro affidando ad Antonio di interpretarlo, ha fatto centro con un film denso, drammatico ma al contempo lieve e che si lascia seguire con una leggero sorriso per l’intera durata. Lontano anni luce dai film surrealisti e grotteschi che lo hanno imposto all’attenzione internazionale e lontano anche, per fortuna, dai film degli ultimi anni dove il suo talento, perdendo la sua visionarietà, si era anche perso per strada.

Questo film si allaccia al meno riuscito “La Mala Educación” che altrettanto si ispirava alla sua infanzia ma, sempre nell’ambito della “auto-fiction” come fa dire a uno dei suoi personaggi, questa finta autobiografia fa centro nei nostri cuori per il grande equilibrio dell’avvenuta maturità col quale gestisce l’intero racconto: come lui dice in un’intervista ciò che vediamo nel film è vero al 30% ma intimamente vero al 90%. Sono veri gli arredi e i quadri della casa del protagonista, il regista in crisi e dalla salute precaria Salvador Mallo, che provengono tutti dalla sua casa. E’ vera la dipendenza da cocaina che qui racconta senza filtri o false giustificazioni, ed è vera la crisi creativa che, fondamentalmente, è ciò di cui parla il film: un film sul processo della creatività narrativa ma anche sull’amore, quello per la madre e quello per gli uomini.

Senza grandi colpi di scena porta tutti i colpi a segno, oscillando fra il passato che racconta la sua infanzia felice interrotta dalla visione del corpo nudo di un uomo in un espediente narrativo di gran classe, e il presente dove incanutito si trascina fra acciacchi e dipendenza e vecchi rancori fino al momento in cui decide di riprendere in mano la sua vita e tornare alla salvifica creatività.

Penélope Cruz è la sua solare madre della gioventù, interpretata sul letto di morte da Julieta Serrano. Asier Etxeandía è l’altro protagonista e rivelazione del film, new entry nella filmografia di Almodóvar e qui intenso nemico-amico del protagonista. Leonardo Sbaraglia, anche lui alla sua prima volta con Pedro, è il grande amore che torna dal passato e come amica e confidente ritroviamo la veterana almodovariana Cecliia Roth. Ma va ricordato anche il protagonista bambino Asier Flores con la sua grande espressività e simpatia; César Vicente è il giovane uomo amico troppo prematuro della sua infanzia e Raúl Arévalo è il padre.

Finale almodovariano che con una carrellata svela i segreti della narrativa filmica. Applausi interiorizzati.

Escobar – Paradise Lost

Sembra un film americano ma non lo è: prodotto da Francia Belgio e Spagna è scritto (insieme a Francesca Marciano) e diretto da un italiano: Andrea Di Stefano, attore di serie tv italiane (che rispetto a quelle americane sono sempre così così a cominciare dal cast) che fa il gran salto e dirige un’opera prima di tutto rispetto che si è aggiudicato il premio come Migliore Opera Prima al Festival Internazionale del Film di Roma nel 2014. Detto questo il film, meritevole di attenzione, non è esente da difetti.

A cominciare dal titolo che dice due cose diverse e senza alcun nesso fra loro: Escobar fa ovviamente pensare a un biopic sul grande narcotrafficante – mentre Paradise Lost fa pensare a un’avventura andata male, a dir poco. In realtà il film è nel secondo titolo, dato che racconta la storia – ispirata a vicende reali ma totalmente inventata – della classica “perdita dell’innocenza” del protagonista che incrocia Escobar e mal gliene incolse. Siamo quindi davanti a un progetto che mischia disinvoltamente invenzione e realtà, o meglio: usa la realtà – Escobar – per fare finzione: operazione quanto mai ambigua che presta il fianco a ogni possibile critica.

Dunque il protagonista non è Pablo Escobar ma il giovane canadese Nick Brady che col fratello Dylan è andato in Colombia col sogno di aprire una scuola di surf. Ma il dramma è ovviamente dietro l’angolo: Nick si innamora di Maria che ha uno zio ricco e benefattore dei poveri ed è troppo tardi quando scopre che cotanto zio è cotanto narcodelinquente: preso nelle spire dell’amore che tutto tinge di rosa non vede per tempo che tutto si tinge di nero e quello che gli era sembrato un paradiso si rivela un inferno.

Il difetto del film è nell’equilibrio delle parti. Detto che la finzione narrativa abusa della realtà e la realtà mistifica la finzione, si resta un po’ delusi nel vedere che il film non è la biografia di Escobar ma le disavventure di uno povero sprovveduto. Escobar rimane un po’ defilato ma non troppo: non abbastanza presente per essere un coprotagonista col quale confrontarsi, né troppo sullo sfondo come quell’icona negativa che si vuole raccontare.

Benicio Del Toro, portoricano, dopo il noiosissimo trittico sul “Che” di Steven Soderbergh e una miratissima campagna promozionale in seguito a qualche premio (Oscar e altro per “Traffic” sempre di Soderbergh e “21 Grammi” di Alejandro González Iñárritu) è diventato lui stesso un’icona, a mio avviso un po’ troppo ingombrante: a parità di lingua natia e di talento, per esempio, Javier Bardem ha fatto molto di più in molto meno tempo. Detto questo disegna il suo Pablo Escobar con quella pacata ferocia con cui possiamo immaginare un padre di famiglia criminale per caso.

Josh Hutcherson, il vero protagonista, è un ex attore bambino che con questo film dà prova di essere diventato adulto dopo essere stato la star della fanta-trilogia per adolescenti “Hunger Games” e dunque lo aspettiamo nelle prove ulteriori. Nel ruolo della fidanzata Maria gli è accanto la debuttante Claudia Traisac, con la quale sul set è nato il vero amore. Suo fratello nel film è un altro interessante giovane attore, Brady Corbet, anche lui ex attore bambino che nel 2015 ha presentato al Festival di Venezia il suo primo film da regista: “The Childhood of a Leader” di cui ancora aspettiamo la distribuzione… ma dato che il film di cui stiamo parlando è del 2014 c’è ancora tempo. Altro interprete debuttante che vale la pena segnalare è il quindicenne Micke Moreno nel ruolo di un candido giovanissimo padre di famiglia nato a cresciuto all’inferno.

Espresse le dovute riserve, poi il film è molto ben confezionato: i soldi spesi si vedono tutti, gli attori sono diretti bene così come le scene di azione e il montaggio da thriller che monta sempre in crescendo. Per il resto c’è solo una morale: attento di chi ti innamori. O, come si diceva una volta in modo meno elegante: quanto può un pelo di femmina…!

George Clooney, uno e due

Grazie alla stagione cinematografica che ormai continua in piena estate (fino a vent’anni fa ancora non c’erano da noi le multisala di concezione americana e a maggio le sale andavano in chiusura estiva e il cinema continuava in seconda visione nelle arene all’aperto) ho potuto vedere uno di seguito all’altro “Money Monster” e “Ave, Cesare!” entrambi con la star George Clooney che non sbaglia mai un film, sia che siano blockbusters che, al contrario, film d’impegno civile e/o artistico. Qui siamo a un fifty-fifty perché il primo è un filmone tutto thriller e pathos che però denuncia il malaffare delle multinazionali che speculano in borsa, e questo giustifica anche la presenza in regia di Jodie Foster che in genere si impegna solo in progetti più personali.

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Clooney è la star televisiva cinica e superficiale che preso in ostaggio in diretta televisiva da un ragazzo che ha perso tutto giocando in borsa il gioco sporco che nessuno denuncia perché nessuno sospetta, farà i conti con la sua stessa realtà umana rivedendo al rialzo tutti i suoi limiti. Affiancato dalla sua regista tv amica/nemica interpretata dalla sua reale amica Julia Roberts che sempre volentieri si presta in ruoli di supporto che sappiano esprimere un valore artistico e morale. Il disperato bravissimo attentatore è l’emergente britannico Jack O’Connell che meriterebbe almeno una qualche candidatura a qualsivoglia premio. Il cattivo è un altro inglese, Dominic West, mentre l’irlandese Caitriona Balfe è la sua nemesi: Old England in grande spolvero. Vale la pena citare il cameraman di Lenny Venito, attore italo-americano a cui in genere fanno fare l’italo-americano sul grande e sul piccolo schermo.

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Altro fifty-fifty che pur andando bene al botteghino non ha riempito le sale, ed è un gran pecccato, è “Ave, Cesare!” dei fratelli Coen, Joel e Ethan, che fra capolavori e scivoloni firmano sempre film originali e di prestigio. Qui si divertono a rievocare e – come potrebbero fare altrimenti? – prendere in giro la Hollywood di sfondi cartonati degli anni ’50 con le star sotto ferreo contratto che gli studios si imprestavano come figurine sul tavolo da gioco: George Clooney è una di queste, Baird Whitlock, anche qui star vanesia e di poco spessore ma di grande e forse inconsapevole talento che deve il decollo della sua carriera a un infamante segreto perseguito dalle gemelle Thora e Thessaly Thacker, giornaliste scandalistiche in concorrenza fra loro e interpretate da Tilda Swinton. Ma Clooney è solo una delle star dello studio dove si girano più film contemporaneamente per la gioia di noi spettatori amanti o forse nostalgici di quel cinema dove gli effetti speciali erano artigianali: c’è la giovane star inconsapevole Hobie Doyle, interpretato dal praticamente sconosciuto Alden Ehrenreich che con talento multiforme fa il giovane vaccaro texano che avendo un bel faccino e cantando bene le sue ballate accompagnandosi alla chitarra ha fatto carriera negli studios anche senza saper recitare né men che meno parlare decentemente, e il doppiatore italiano Davide Perino fa un gran lavoro per inventarsi una cadenza che è anche un birignao. Il personaggio è chiaramente disegnato sulla figura di Roy Rogers. Altra star degli studio è DeeAnna Moran ispirata alla star acquatica Esther Williams qui rivisitata come dispotica cinica e volgare e interpretata da Scarlett Johansson. Ma c’è anche il marinaio ballerino acrobata alla Gene Kelly interpretato da Channing Tatum.

Tutta la baracca è mandata avanti dal produttore Eddie Mannix, interpretato da Josh Brolin, vero protagonista del film: figura onesta e tormentata da dubbi morali, che apre e chiude il film in un confessionale, dato che si confessa ogni giorno, tentato dal Male qui impersonato dalla Lockheed, unico nome reale in tutto il film, che nella memoria collettiva si è impresso come un grande scandalo economico: grande sberleffo dei Fratelli Coen che si divertono a prendere in giro tutti ma puntano il dito solo da questa parte.

Altri interpreti in ruoli di contorno o quasi da generico, più o meno accreditati in locandina in base al credito commerciale: come registi degli studios abbiamo Ralph Fiennes (accreditato) e Christopher Lambert (invecchiatissimo e non accreditato). Poi Frances McDormand, Jonah Hill, Veronica Osorio, Heather Goldenhirsh, Clancy Brown, Jack Huston. Ma ci sono altri nomi che abbiamo visto protagonisti in serie tv e che qui fanno praticamente le comparse: si vede che i Coen fanno curriculum!

Solo per i curiosi del dettaglio: in entrambi i film George Clooney indossa un solo costume, nel primo perché si svolge in tempo reale e nel secondo perché… non gli danno tempo di cambiarsi.

La Comune – un luogo comune

Il regista danese Thomas Vinterberg è interessante e la sua filmografia lo dimostra. Si è fatto conoscere dalle grandi platee con “Festen” dove una famiglia riunita alla festa di compleanno del capostipite finisce col massacrarsi all’esplodere di rancori e rivelazioni. Più recentemente si è fatto apprezzare con “Il Sospetto” che racconta le vicissitudini di un maestro che viene ingiustamente accusato di essere pedofilo: è stato candidato all’Oscar e il protagonista Mads Mikkelsen ha vinto come migliore attore a Cannes. Qui vince a Berlino la migliore attrice Trine Dyrholm che nel film fa coppia con Ulrich Thomsen, altro volto noto del cinema danese, e col quale apre questa comune nella grande casa che lui ha avuto in eredità. Qui comincia e finisce il film, nel quale non succede nulla o quello che succede è facilmente intuibile, e quindi non sorprende e non racconta nulla che valga la pena di essere raccontato su questa realtà, la comune: i personaggi sono ben raccontati e gli interpreti tutti al meglio ma le dinamiche interne al gruppo sono quelle già vista, o già vissute. Peraltro il film è ambientato negli anni ’70 e se non fosse per un veloce riferimento alla guerra in Vietnam potrebbe essere collocato in qualsiasi decennio passato: non ci racconta gli anni Settanta né ci racconta qualcosa che da allora in poi è cambiato nella società o nelle coscienze individuali: è un film fine a se stesso che ha la sua ragione di esistere nella memoria sentimentale del regista che dai 9 ai 17 anni ha vissuto in una comune e ben conosce le dinamiche intime del contesto. Il suo sguardo sui personaggio e sulla storia è traslato nello sguardo limpido e profondamente bello della protagonista quattordicenne figlia della coppia, interpretata con leggera intensità da Martha Sophie Wallstrom Hansen ed è evidente che il regista sta facendo i conti col suo passato, confezionando però un film di scarso interesse: non brutto ma neanche necessario.

Macbeth, e che nebbia sia!

“Il dramma scozzese” lo chiamano gli inglese, perché pare che il solo nominarlo porti male, da quelle parti. Ma loro toccano legno e noi ferro, fanno gli scongiuri per il 13 e noi per il 17 e guai se un gatto bianco attraversa la loro strada. Curiosità scaramantiche a parte, per noi il Macbeth è un gran bel drammone per prova maschia d’attore e di attrice tenebrosa e sulfurea. Giuseppe Verdi ne ha fatto un’opera lirica e ogni tanto prende vita al cinema: dobbiamo dunque ricordare almeno le versioni di Orson Welles di stampo espressionista e quello di Roman Polanski, che a mio avviso è uno dei film meno affascinanti del regista. Vale una nota anche la versione giapponese di Akira Kurosava: “Il Trono di Sangue”.

Diretto dall’australiano pressoché sconosciuto Justin Kurzel qust’ennesimo Macbeth non è dunque un film d’autore, o di regista, ma di attori, dato che schiera le punte di diamante Michael Fassbender, che il trailer dice che è nato per questo ruolo, e sembra vero, dato che Fassbender è fra gli attori della sua generazione quello più virilmente prestante, e dotato di un raro magnetismo cinematografico che pienamente infonde a questo suo Macbeth ricco di tutte le sfaccettature che il personaggio richiede: tutte le sfumature che vanno dalla possanza fisica alla debolezza morale.

Lo affianca Marion Cotillard, la francese premio Oscar per la sua interpretazione di Edith Piaf in “La Vie en Rose” che l’ha lanciata nel firmamento hollywoodiano: che il trailer dice magnetica. Dice, non so se sapendo di mentire. Marion Cotillard è bella, più luminosa che tenebrosa, più rassicurante che magnetica. Per cui risulta debole anche il contratto di sangue fra coniugi dove la sulfurea Lady Macbeth instilla nel vacillante marito il dèmone dell’avidità per il potere.

Come debole è tutto il film: bello da vedere ma già di maniera secondo l’uso modernissimo ma già visto e vecchio dell’effetto “ralenti” durante le battaglie, dell’aspra brughiera scozzese ammorbidita da quintali di nebbia e, last but not least, la recitazione sommessa e sottotono, spesso bisbigliata, che fa tanto moderno il linguaggio poetico e spesso roboante di Shakespeare, col risultato del già visto, già sentito e andante noioso senza brio. Diciamocelo: pulire la recitazione da vecchi stilemi è sempre sano ma il Dramma Scozzese richiede d’imperio pomposità e soluzioni da Grand Guignol.

Ciò non toglie che il film sia molto bello da vedere con inquadrature e paesaggi sempre affascinanti ma sempre cartoline, e costumi e dettagli d’arredo che sono il vero punto di forza di questa produzione, assieme all’interpretazione di Michael Fassbender che rende credibile ogni passaggio della cupa storia. Ma la noia, come la nebbia, pervade ogni cosa.

La famiglia Bélier, ma che film è?!

“Un film che vi farà bene!” esclama la pubblicità sul cartellone, ma solo se lo fruisci senza pensarci troppo, e non è il mio caso, tanto che mi ha fatto pure venire il nervoso perché è una riuscitissima irritante perfetta miscela di comicità brillante e originale e buoni sentimenti da film per educande che però fa piroette nella commedia scollacciata: la primissima sensazione, anche guardandomi intorno nella platea che mi circondava, è che il film non avesse chiaro il segmento di pubblico cui rivolgersi. Racconta la storia di una adolescente alle prese con le prime palpitazioni amorose e le schermaglie scolastiche ma non è un film per adolescenti dato che non ci sono effetti speciali e neanche vampiri ed effetti speciali, e guarda caso “Twilight” viene anche citato come modello glamourous. Non è un film canterino nonostante la traccia della storia sia il canto e la protagonista Louane Emera sia venuta fuori dalla tv francese e dal programma “The Voice”. Non è un film di formazione artistica alla “Saranno famosi” nonostante racconti anche questo e non è un film per famiglie con bambini piccoli nonostante certa comicità clownesca e infantile perché creerebbe imbarazzo la divertente scena, quasi un quadro a parte nel film, in cui i genitori sordomuti della ragazza normodotata dialogano col medico attraverso lei che fa da traduttrice di malattie intime a trasmissione sessuale. E guardandomi intorno ho la conferma: sembrerebbe un film per coppie adulte/anziane senza figli piccoli o neanche più adolescenti che vogliono farsi quattro sane risate, anche intelligenti, con un film assai sdolcinato e apparentemente con lo spessore della carta velina. E invece. C’è di nuovo l’uso di personaggi sordomuti come protagonisti e gran parte del film ha i sottotitoli come per qualsiasi altra lingua straniera, e senza diventare didascalico accenna ad argomenti complessi come il razzismo che i sordomuti hanno nei confronti dei normodotati e le loro dinamiche familiari e sociali. C’è poi l’intelligenza e la delicatezza del racconto, con l’inizio della colazione in famiglia assai rumorosa con le stoviglie che i sordomuti sbattono inconsapevoli di poter diventare fastidiosi e il tanto atteso duetto canoro fra la nostra eroina e il belloccio del liceo di cui però non sentiremo nulla perché lo vedremo attraverso gli occhi della famiglia di sordomuti: e qui c’è del genio narrativo per la quale vale la pena commuoversi. Non ultimo c’è il talento degli attori che interpretano così bene i sordomuti da avermi fatto dubitare che lo fossero davvero: Karin Viard, François Damiens e Luca Gelberg che interpretano i genitori e il fratello minore con sorprendente mimesi. Nel cast c’è poi Ilian Bergala che duetta in canoro e in schermaglie amorose con la protagonista ma che, non sfoggiando grandi doti canore, si capisce che c’è perché ha un bel faccino. Roxane Duran è l’amica sincera e disinibita il cui ruolo nella storia è far risaltare con la sua presenza la purezza della protagonista. Eric Elmosnino è lo stazzonato insegnante di musica che scopre e supporta il talento della nostra Cerentola… perché questa è alla fin fine la segreta identità di questo film: è una favola ma nessuno lo dice: al posto della cenere nel caminetto ci sono le vacche nella stalla, dato che la famiglia Bélier/montone, quasi nomen omen, allevano bestiame e producono formaggi; la famiglia di sordomuti gioca il ruolo di matrigna e sorellastre mentre la fatina buona è l’insegnante di musica e, ça va sans dire, il belloccio sta per il principe azzurro e il duetto canoro sta per il ballo a corte. Nel finale vissero tutti felici e contenti come vedremo dalle cartoline che scorrono insieme ai titoli di coda. Cosa voglio di più? forse non essere preso in giro così sfacciatamente. Ma il prezzo del biglietto non è sprecato ed è già tanto.