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Il buono, il brutto, il cattivo

Nel 1964 era cominciata l’avventura con “Per un pugno di dollari” che era proseguita l’anno dopo con “Per qualche dollaro in più” e nel 1966 si completa quella che verrà definita la trilogia del dollaro con “Il buono, il brutto, il cattivo” e ancora una volta le verità sulla genesi sono diverse e addomesticate, e sono tutte buone se consideriamo che la memoria non è mai una verità assoluta ma solo un verosimile punto di vista su un fatto che viene visto da diverse prospettive. Con la tendenza a dimenticare o abbellire dettagli che riteniamo secondari ma che possono essere centrali in un differente punto di vista.

Lo sceneggiatore Luciano Vincenzoni ricorda di aver portato il suo amico vicepresidente della United Artists per l’Europa, con tutto il suo staff, al Supercinema di Roma a vedere “Per qualche dollaro in più”: “C’erano tremila persone. Videro il film in un tripudio di risate e di applausi e vollero andare subito al Grand Hotel a firmare il contratto. Pagarono come minimo garantito una cifra che era tre volte superiore alle più rosee previsioni del produttore. Come usano gli americani, la prima cosa che dissero quando firmarono il contratto fu: ‘Adesso crosscollateralizziamo, compensiamo profitti e perdite con il prossimo film; qual è il prossimo?’ Non avevamo un progetto. Col tacito assenso di Leone e Grimaldi, cominciai a inventare. ‘Un film su tre mascalzoni che corrono dietro a un tesoro attraversando la guerra civile, un po’ nello spirito della Grande Guerra (del 1959 di Mario Monicelli) che voi avete distribuito in America’. E quelli subito: ‘Lo compriamo: quanto costa?’, senza che ci fosse un soggetto scritto, solo sulle parole. Io quindi mi rivolsi a Leone e chiesi: ‘Quanto?’. Leone disse: ‘Cosa, quanto?’. Gli dissi: ‘Il film che gli ho appena venduto’. Onestamente, era un miracolo, senza una storia, solo facendo un po’ di scena. Grimaldi e Leone mi chiesero: ‘Cosa gli hai detto?’. Io dissi: ‘Una storia sulla guerra civile con tre attori; ditemi la cifra’. Grimaldi disse: ‘Beh, che ne dici di ottocentomila dollari?’. Io risposi: ‘Facciamo un milione’. Mi volsi verso Lopert e dissi: ‘Un milione di dollari’. Lui mi rispose: ‘Affare fatto’.”

Sergio Donati

L’aiuto regista Sergio Donati ricorda qualche dettaglio in più: “Grimaldi era pronto a vendere i diritti di ‘Per qualche dollaro in più’ negli Stati Uniti e in Canada. E esattamente in quello stesso periodo Luciano Vincenzoni collaborava con Ilya Lopert ed era un ottimo amico di Arnold e David Picker della United Artists. Erano a Roma. Lui convinse Lopert a portare quelli della UA a una grande proiezione di ‘Per qualche dollaro in più’… e Luciano riuscì davvero a vendere il film alla United Artists e ci guadagnò il 10 per cento di tutti i profitti e anche una percentuale su quello successivo, ‘Il buono, il brutto, il cattivo’.” Un dettaglio non da poco la percentuale sui profitti.

Mentre i ricordi di Sergio Leone sono più romantici e al contempo creativi, come si conviene: “Non sentivo più tutta quella pressione per offrire al pubblico un diverso tipo di film. Ora potevo fare esattamente il film che volevo… fu mentre riflettevo sulla storia di ‘Per qualche dollaro in più’, e su ciò che la faceva funzionare, sulle diverse motivazioni di Van Cleef e di Eastwood, che trovai il nucleo del terzo film… Da sempre pensavo che il buono, il cattivo e il violento non esistessero in senso assoluto e totalizzante. Mi sembrava interessante demistificare questi aggettivi nell’ambientazione di un western. Un assassino può fare mostra di un sublime altruismo, mentre un buono è capace di uccidere con assoluta indifferenza. Una persona in apparenza bruttissima, quando la conosciamo meglio, può rivelarsi più valida di quanto sembra – e capace di tenerezza… Incisa nella memoria avevo una vecchia canzone romana, una canzone che mi sembrava piena di buon senso comune: È morto un cardinale che ha fatto bene e male. Il mal l’ha fatto bene e il ben l’ha fatto male. In sostanza era questa la morale che mi interessava mettere nel film.”

Alberto Grimaldi

Riportati i dovuti distinguo sulla produzione sempre guidata da Alberto Grimaldi ma con l’apporto determinante degli americani, Leone si concentra sulla scrittura del suo terzo spaghetti-western che sarebbe anche stato il primo con budget in dollari e che fino a quel momento si sarebbe dovuto intitolare “I due magnifici straccioni” con protagonisti di nuovo l’ex star tv Clint Eastwood e il miracolato Lee Van Cleef che, tornando a recitare, finalmente si era potuto pagare le bollette e ora andare anche orgoglioso della sua Mercedes nuova. Ma Vincenzoni lì per lì si era inventato e venduto una storia con tre protagonisti, ambientata durante la guerra civile americana, e dovendo lavorare su quella traccia, e con un budget che arrivava a un miliardo di quelle lire, lo sceneggiatore propose di cooptare un’altra coppia di professionisti, Age & Scarpelli, Agenore Incrocci e Furio Scarpelli, una coppia la cui scrittura dava il meglio nell’umorismo popolaresco e nella satira di costume, maestri della commedia all’italiana che si erano anche cimentati nel genere cappa e spada ma mai nei western che fino a quel momento erano un sottogenere da non prendere in considerazione; e in quello stesso anno i due erano anche impegnati nella scrittura di “Signore & signori” di Pietro Germi, insieme all’amico Vincenzoni, del film a episodi “I nostri mariti” regia di D’Amico-Risi-Zampa e di “L’armata Brancaleone” di Mario Monicelli: scusate se è poco.

Age & Scarpelli

Ma la collaborazione fu per Leone da cancellare: “Il contributo dei due sceneggiatori era un disastro. Erano battute e nient’altro. Non potei usare nemmeno una delle cose scritte da loro. Fu la peggiore delusione della mia vita. Mi toccò riprendere in mano il copione con alcuni negri.” dove per negri si intendevano quelli che oggi vengono più correttamente definiti ghost writer. Sergio Donati, aiuto regista non accreditato nonché negro, concorda aggiungendo: “Nella versione finale del copione non è rimasto praticamente nulla che abbiano scritto loro. Avevano scritto solo la prima parte. Una riga appena. Erano lontanissimi dallo stile di Leone. Da parte sua, quella di tirarli dentro era stata una scelta tipica. Aveva bisogno di provare qualcosa di nuovo. E fu una sofferenza. Più che un western, Age e Scarpelli avevano scritto una specie di commedia ambientata nel West.” E Vincenzoni, che ha poi dichiarato di aver scritto la sceneggiatura in soli undici giorni, ben presto lasciò il progetto poiché i rapporti con Leone si andavano deteriorando, e quasi per dispetto si dedicò ad altri due western: “Il mercenario” di Sergio Corbucci e “Da uomo a uomo” di Giulio Petroni, tanto la sua firma sarebbe rimasta insieme a Age & Scarpelli e altrettanto la sua percentuale sugli utili.

Eli Wallach e Sergio Leone sul set

Fatti fuori tutti i co-sceneggiatori Leone resta da solo col suo negro (di altri negri non si sa) a concludere la sceneggiatura e in un’intervista alimenterà il mito di se stesso raccontando di elementi autobiografici sparsi in tutt’e tre i personaggi: “Nel mio mondo, sono gli anarchici i personaggi più veri. Li conosco meglio perché le mie idee sono più vicine alle loro. Io sono fatto di tutti e tre. Sentenza non ha anima, è un professionista nel più banale senso del termine. Come un robot. Non è questo il caso degli altri due personaggi. Considerando il lato metodico e cauto del mio carattere, sono simile al Biondo: ma la mia profonda simpatia andrà sempre dalla parte di Tuco… sa essere toccante con tutta quella tenerezza e umanità ferita. Ma Tuco è anche una creatura tutto istinto, un bastardo, un vagabondo.” Specificando che il Biondo è il personaggio fil rouge, l’uomo senza nome di Clint Eastwood, chiamato Joe nel primo film e il Monco nel secondo; Sentenza, intuizione molto bella e significativa per un nome, è il personaggio cattivo di Lee Van Cleef; mentre Tuco Ramirez, l’ultimo arrivato, è un messicano ricercato per una miriade di crimini ed è il personaggio che Sergio Leone ha amato di più: “Tuco rappresenta tutte le contraddizioni dell’America, e in parte anche le mie. Avrebbe voluto interpretarlo Gian Maria Volonté, ma non mi sembrava una scelta giusta. Sarebbe diventato un personaggio nevrotico, e io invece avevo bisogno di un attore dal naturale talento comico. Così scelsi Eli Wallach, di solito impegnato in parti drammatiche. Wallach aveva in sé qualcosa di chapliniano, qualcosa che evidentemente molti non hanno mai capito. E per Tuco fu perfetto.” E in un’altra intervista: “Eli Wallach l’ho preso per un gesto che fa nella ‘Conquista del West’, (grandioso film a episodi all-star e firmato da quattro registi) quando scende dal treno e parla con Peppard (l’attore George Peppard). Vede il bambino, figlio di Peppard, si volta di scatto e gli spara con le dita facendogli una pernacchia. Da quello ho capito che era un attore comico di estrazione chapliniana, un ebreo napoletano: si poteva fare tutto con lui. Infatti ci siamo molto divertiti a stare insieme.”

I tre attori col regista sul set

Insomma, Leone e Wallach “stavano insieme” e fra i due ci fu una così tanta sintonia da fare ingelosire Clint Eastwood. Il regista addirittura permise all’attore, col quale condivideva anche un bizzarro umorismo, di apportare cambiamenti al personaggio lasciandogli inserire il ricorrente segno della croce e facendogli scegliere il costume in tutta autonomia. Mentre Eastwood lo aveva tenuto sui bracieri ardenti anche perché lui stesso non sapeva che fare del suo futuro: la serie tv si era conclusa e i primi due film della trilogia erano usciti negli Stati Uniti, un successo di pubblico sull’onda del quale l’attore immaginava per sé altre prospettive – ma non gli arrivava ancora nessun’altra offerta, e quando Leone gli offrì quest’altro film per lui era l’unica proposta sul piatto. Ma leggendo il copione si rese subito conto che il personaggio di Tuco era più importante del suo e chiese all’autore di ridimensionarlo. “Ci mancò poco che non facesse la parte del Biondo. – ricorderà Leone – Dopo aver letto il copione trovò in effetti che il ruolo di Tuco fosse troppo importante, che fosse il migliore dei due ruoli. Tentai dunque di ragionarci: ‘Il film è più lungo degli altri due. Non puoi essere tutto solo. Tuco è necessario per la storia, e resterà come ho voluto che fosse. Devi capire che è il comprimario… e il momento in cui appari tu, è la star che fa la sua apparizione’.” E in effetti gli costruisce un’entrata in scena degna di un prim’attore che entra in palcoscenico, ma anche la presentazione degli altri due personaggi è notevole, come già lo era nei precedenti film grazie al suo uso particolarissimo dei primi piani. Ma l’attore ancora nicchiava perché immaginava per sé un futuro da star assoluta, e infatti a seguire girerà film senza comprimari troppo ingombranti: subito dopo aver debuttato come regista col thriller “Brivido nella notte” sarà il protagonista della serie di cinque film dell’Ispettore Callaghan. Solo con la maturità, e con la sicurezza che gli verrà dall’essere autore dei suoi film, si confronterà alla pari con altri talenti ed è del 1992 il suo western della terza età “Gli spietati” col quale farà jackpot agli Oscar.

Ma intanto non era contento del copione e Sergio Leone e gentile signora dovettero volare in California per convincerlo, e la signora Leone, l’ex ballerina del Teatro dell’Opera di Roma Carla Ranalli, ricorderà: “Clint Eastwood con sua moglie Maggie venne al nostro albergo… io spiegai che il fatto che avesse al suo fianco altri due grandi attori non avrebbe potuto che rafforzare la sua statura. A volte anche una grande star che interpreta un ruolo più piccolo insieme ad altri grandi attori può trarre vantaggio dalla situazione. A volte fare un passo indietro voleva dire farne due avanti.” Poi, mentre le due mogli facevano le mogli e parlavano fra loro, Eastwood e Leone si scontrarono molto duramente e fu lì che il loro rapporto cominciò a incrinarsi. Alla fine, ancora con un nulla di fatto, Leone disse alla moglie: “Se interpreta la parte ne sarò felicissimo. Ma se non lo fa – beh, visto che sono stato io a inventarlo – domani dovrò inventarne un altro come lui.” Dopo due giorni di trattative l’attore accettò di fare il film ma volle essere pagato 250mila dollari più il 10% sui profitti in tutti i territori occidentali, un accordo che la produzione concluse ma che non lasciò contento Leone, che ormai per l’attore non aveva più stima.

Per il ruolo del cattivo, Sentenza, ancora una volta Leone voleva coinvolgere Charles Bronson, gli piaceva proprio, ma ancora una volta non se ne fece nulla perché Bronson era impegnato sul set di “Quella sporca dozzina” di Robert Aldrich. In ballo c’era sempre Lee Van Cleef che però era un uomo dal carattere mite e l’autore temeva che non riuscisse a dare il meglio in quel ruolo di spietato assassino, sottovalutando le doti interpretative dell’attore. Poi, una volta assegnato il ruolo, il personaggio venne da sé: l’espressione cupa e pensierosa e gli occhi socchiusi, già di una forma tagliente, a mandorla, rendono Sentenza lo stereotipo ideale del cattivo che farà scuola, e solo dopo Leone dichiarerà, ancora una volta mitizzando la realtà: “Van Cleef aveva già interpretato un ruolo romantico in ‘Per qualche dollaro in più’. L’idea di fargli interpretare un personaggio che fosse l’opposto di quello mi intrigava.” Riguardo al suo contratto l’attore ricorda: “Sul primo film non potevo trattare, visto che non riuscivo nemmeno a pagare il conto del telefono. Feci il film, pagai il conto del telefono ed esattamente un anno dopo, il 12 aprile del 1966, fui chiamato di nuovo per fare ‘Il buono, il brutto, il cattivo’. E insieme a questo, feci anche ‘La resa dei conti’. Ma ora, invece di fare seventeen thousand dollars, ne stavo facendo a hundred e qualcosa, merito di Leone, non mio.” “La resa dei conti” è un altro spaghetti-western diretto da Sergio Sollima, sempre prodotto da Grimaldi che avendo sotto contratto sia l’attore che Ennio Morricone li piazza nel film come protagonista e compositore, l’attore nell’ennesimo ruolo di cacciatore di taglie. Anche riguardo al compenso ci sono delle divergenze: altre fonti affermano che per il primo film Van Cleef fu pagato 10mila dollari mentre lui in seguito ne ricorda 17mila, forse non volendo dichiarare che era stato sottopagato se si considera che Eastwood al suo primo ingaggio ne aveva avuti 15mila. Retroscena di poco conto ma che danno spessore al racconto, come ad esempio il fatto che l’attore fosse terrorizzato dai cavalli, come pure Wallach “altro stracittadino negato per la sella”, parole del negro Sergio Donati; gli fu assegnato un cavallino docile e ammaestrato, ma per farglielo montare bisognava aiutarlo con un sedia, e anche farlo smontare era una farsa. Donati riporta anche un altro aneddoto, sul fatto che l’attore fosse un uomo davvero mite a differenza dei tanti personaggi che ha interpretato: “Doveva prendere a schiaffi una prostituta, e non riusciva neanche a far finta. L’attrice, che era Rada Rassimov, gli diceva ‘Ma dai, non ti preoccupare anche se ti scappa una sberla vera, non m’importa, picchiami…’ Lui spiegava arrossendo che proprio non gli riusciva di alzare le mani su una donna, era più forte di lui.” Altra curiosità: anche in questo film Lee Van Cleef indossa lenti a contatto colorate data la sua eterocromia: aveva gli occhi di colore diverso, uno verde e uno blu, e proprio per i suoi occhi il suo personaggio si guadagnò l’appellativo di Angel Eyes nella versione inglese del film, invenzione dello stesso Leone. A Van Cleef mancava anche la falange distale (la falange finale) del dito medio della mano destra, che con un po’ di attenzione è possibile vedere in alcune inquadrature mentre impugna il fucile. Ma le curiosità sulla lavorazione sono tante e le vedremo più avanti.

Aldo Giuffrè

Fra gli altri personaggi è importante quello che compare in una sola scena, padre Ramirez, fratello di Tuco, col quale ha una bella scena a contrasto essendo i due all’opposto sul piano morale; lo interpreta Luigi Pistilli, che torna a lavorare con Leone e che fu un veterano degli spaghetti-western dove in genere impersonava i cattivi. Un volto inatteso in un western è invece quello di Aldo Giuffrè, assai noto al pubblico per la sua intensa attività sia teatrale che cinematografica che televisiva, e questo rimane il suo unico western senza considerare la parodia “Due mafiosi nel Far West” con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Qui interpreta il tormentato ruolo di un capitano nordista, alcolizzato, tentato da idee anarchiche perché stanco di una guerra dove deve sacrificare inutilmente i suoi uomini.

Il plastico del campo di concentramento di Andersonville sulla base del quale Sergio Leone fece costruire le sue scenografie, delle quali Lee Van Cleef dirà: “Il campo di prigionia che Sergio aveva costruito non era niente di che – solo poche case e un sacco di steccati. Ed era sovraffollato, ma ti dava l’impressione che durante la guerra civile dovesse essere proprio così. Era come alcune immagini che avevo visto di Andersonville.”

A tal proposito Leone aveva fatto molte ricerche storiche e ambientali per scrivere il film: “Ciò che mi interessava era da un lato demistificare gli aggettivi, dall’altra mostrare l’assurdità della guerra… la Guerra Civile nella quale i personaggi si imbattono, dal mio punto di vista, è inutile, stupida: non è portata avanti per una giusta causa. La frase chiave del film è quella di un personaggio (il Biondo) che commenta la battaglia del ponte: “Mai visto morire tanta gente… tanto male”. E Leone continua: “Faccio vedere un campo di concentramento nordista… ma in parte stavo pensando ai campi nazisti, con le loro orchestre di ebrei. Volevo mostrare l’imbecillità umana in un film picaresco insieme alla realtà della guerra. Lessi da qualche parte che 120mila persone morirono nei campi sudisti come Andersonville, ma da nessuna parte venivano citati gli stermini dei campi di prigionia nordisti. Si sente sempre parlare del comportamento vergognoso dei perdenti, mai dei vincitori. Così decisi di mostrare lo sterminio in un campo nordista. Agli americani questo non piacque… la guerra civile americana è un soggetto quasi tabù, perché la sua realtà è folle e incredibile. Ma la vera storia degli Stati Uniti è stata costruita su una violenza che né la letteratura né il cinema avevano mai mostrato come si deve. Personalmente tendo sempre a contrastare la versione ufficiale degli eventi – senza dubbio questo si deve al fatto che sono cresciuto sotto il fascismo. Ho visto in prima persona come si possa manipolare la storia, per cui metto sempre in dubbio quello che viene divulgato. Per me è diventato un riflesso incondizionato.” E ancora: “Gli autori americani non approfondiscono a sufficienza la loro stessa storia. Nel preparare ‘Il buono, il brutto, il cattivo’ scoprii che, durante la guerra civile, in Texas c’era stata una sola battaglia, il cui vero obiettivo era la proprietà delle miniere d’oro del Texas. Lo scopo della battaglia era di impedire al Nord (o al Sud) di mettere per primo le mani sull’oro. Così, mentre ero a Washington, cercai di trovare ulteriore documentazione su questo avvenimento. Il bibliotecario, lì alla Biblioteca del Congresso, la più grossa biblioteca del mondo, mi disse: ‘Credo che si sbagli. Il Texas, dice, signore? Deve esserci un errore. In America nessuno ha mai combattuto una battaglia per le miniere d’oro, e in ogni caso la guerra civile non è mai arrivata al Texas. Torni fra due o tre giorni e le farò qualche controllo. Ma sono sicurissimo che si sbaglia’. Beh, ritornai dopo due o tre giorni, e questo tizio mi guardò come se avesse visto un fantasma. ‘Ho qui otto libri’, disse, ‘e tutti fanno riferimento a questo particolare avvenimento. Come diavolo faceva lei a saperlo? Lei legge solo l’italiano, perciò come ha fatto a scoprirlo? Adesso capisco perché voi italiani fate film così straordinari. Sono vent’anni che sono qui, e non c’è stato un solo regista americano che si sia mai preoccupato di venire a informarsi sulla storia del West’. Beh, adesso ho anch’io una biblioteca enorme – a Washington, per otto dollari, ti fotocopiano un libro intero!“.

Altri interpreti: torna l’amico Mario Brega qui super cattivo con occhio di vetro; lo spagnolo Antonio Casas già in “Il colosso di Rodi” di Leone e contemporaneamente in “La resa dei conti” insieme a Van Cleef; la serba italiana Rada Rassimov nel ruolo della prostituta schiaffeggiata, e ancora Antonio Casale, Livio Lorenzon, l’altro spagnolo Molino Rojo come capitano in prigionia con la gamba in gangrena, e l’americano dal brutto muso Al Mulock che ha la peggio contro Tuco che lo liquida con una battuta che farà scuola, e che è anche critica a tanti western americani: “Quando si spara si spara, non si parla!” Tuco, che in quella scena esce nudo dalla vasca da bagno mostrando velocemente le chiappe pelose, una cosa all’epoca e in quel genere inaudita ma che diventa divertente nelle mani di Sergio Leone, e che prepara un’altra battuta clamorosa con il Biondo che gli dice: “Levati la pistola e mettiti le mutande” al che Tuco gli risponde un: “Vado, l’ammazzo e torno!” che farà storia: diventerà un modo di dire quando si andava a fare qualsiasi cosa per rientrare subito, come anche andare a comprare il latte o portare giù il cane: vado l’ammazzo e torno. Che divenne anche il titolo di un altro western di Enzo G. Castellari, film sfacciatamente e interamente fatto di omaggi e citazioni. Ma ci fu anche un “Il bello, il brutto, il cretino” con Franco e Ciccio regia di Giovanni Grimaldi (nessuna parentela col produttore Alberto). Un’altra parodia sarà “Il bianco, il giallo e il nero” di Sergio Corbucci starring lo stesso Eli Wallach. Fino al più recente (2008) coreano “Il buono, il matto, il cattivo” di Kim Ji-woon. Ma c’è anche un fumetto della Marvel Comics che con il medesimo titolo schiera Capitan America, Deadpool e Wolverine, e ci sarà anche Dylan Dog e altro ancora.

Di nuovo dal punto di vista linguistico il set era una babele ma stavolta c’erano tre protagonisti che almeno fra loro potevano recitare in inglese mentre il resto degli attori e dei figuranti parlavano italiano e spagnolo; solo Wallach, che conosceva il francese, si rivolgeva in quella lingua agli italiani, anche durante il girato; e a Leone pare che poco importasse del parlato: lui parlava poco e male l’inglese, aveva poi l’abitudine di cambiare le battute all’ultimo momento e, avendo già disponibile la musica di Morricone, amava averla sui set mentre girava, per ispirare gli attori, cosa che piaceva molto a Eastwood, ma che non aiutava al momento di dover doppiare il tutto, sia in italiano che in inglese per il mercato estero. Mickey Knox, il direttore del doppiaggio americano, ha dichiarato: “Sergio aveva una pessima traduzione dall’italiano e, nella maggior parte dei casi, gli attori americani cambiavano le battute mentre doppiavano… io sapevo quello che avrebbero dovuto dire, perché avevo il copione italiano… ma dovevo trovare le battute giuste, non solo per mandare avanti la storia, ma anche perché corrispondessero al movimento delle labbra. Non è una cosa facile da fare. Di fatto, mi ci vollero sei settimane per scrivere quello che chiamano ‘il copione col labiale’. Normalmente per un film ce l’avrei fatta fra i sette e i dieci giorni. Ma quello non era un film normale.” L’aiuto regista non accreditato Sergio Donati che era stato mandato a controllare il doppiaggio americano, aggiunge: “A ‘semplificare’ le cose arrivò pure Clint Eastwood il quale ormai, dopo il terzo film con Leone, stava con lui in un reciproco cordiale rapporto tipo ‘senza di me non saresti nessuno, brutto stronzo’. Clint con una faccia da western sbatté il suo ‘shooting script’ sul leggio e disse con la voce gelida e sussurrante che conoscete tutti: ‘Io ripeto esattamente quello che ho detto sul set’. Sapendo benissimo di rovinarci in quanto era tradizione leoniana sconvolgere completamente i dialoghi durante il montaggio.” Per l’Italia ancora una volta Clint fu doppiato da Enrico Maria Salerno, Van Cleef da Emilio Cigoli e Eli Wallach dal caratterista della voce un po’ nasale Carlo Romano, mentre Luigi Pistilli fu doppiato da Nando Gazzolo che nei primi due film aveva doppiato Gian Maria Volonté.

Nel 2014 l’editore Bompiani pubblica il romanzo di Nelson Martinico “Il buono, il brutto e il figlio del cattivo” fatto ritirare dal commercio dagli eredi di Leone, ma per chi lo volesse esistono delle copie in vendita online. L’idea del figlio del cattivo lascia supporre un sequel, che in effetti fu pensato dallo script-doctor Luciano Vincenzoni che pure aveva abbandonato Leone e la sua impresa, Leone che dal canto suo non aveva nessuna intenzione di realizzare un seguito; ma come ormai ci è evidente l’ineffabile Vincenzoni era uno che amava forzare la mano, e avendo scritto una prima traccia di sceneggiatura ambientata venti anno dopo, aveva anche contattato gli attori per sentirne la disponibilità; Eli Wallach fu subito della partita e della sceneggiatura dirà “Tuco sta ancora cercando quel figlio di puttana. E scopre che il Biondo è stato ucciso. Ma suo nipote è ancora vivo, e sa dove è nascosto il tesoro. Così Tuco decide di inseguirlo.” Clint Eastwood pare che sin da subito non fu entusiasta del progetto tanto che il testimone del suo personaggio passa a un probabile nipote, si rende però disponibile come voce narrante ma soprattutto voleva entrare nella produzione: piatto ricco mi ci ficco. Accertato che anche Sergio Leone non era disponibile come regista, lo sceneggiatore contattò Joe Dante offrendo a Leone il ruolo di coproduttore: era necessario che il titolare del franchising fosse della partita in un qualsiasi ruolo; ma l’ormai maestro dello spaghetti-western guardava molto oltre e non diede il permesso di utilizzare il suo titolo né i suoi personaggi. Fine della storia. Però per il suo successivo film, “C’era una volta il West” in cui finalmente avrà nel cast il tanto desiderato Charles Bronson, Leone aveva contattato i tre attori per chiedergli di interpretare dei camei: i tre killer che attendono il protagonista alla stazione, sarebbe stato divertente e iconico; Van Cleef e Wallach furono subito disponibili ma Eastwood si negò e l’autore dovette ripiegare su altri caratteristi.

Chi volesse acquistare una copia del famoso poncho lo può cercare online

Sotto finale Clint Eastwood trova un poncho e lo indossa, diventando il personaggio dei due primi film: un’auto citazione dell’autore, nient’altro. Ma questo ha scatenato tutti quelli che ancora oggi cercano nei tre film connessioni e riferimenti incrociati, volendo addirittura stabilire una cronologia; così se nell’ultimo film Eastwood trova il poncho significa che è un prequel, ma storicamente non funziona perché la guerra civile è posteriore alla conquista americana del Texas ancora messicano dei primi film. Di fatto i tre film sono nati autonomamente e anche casualmente, senza un preciso ordine né progetto da parte di Sergio Leone che però, negli anni, ricamando la sua stessa leggenda, dirà che sin dall’inizio aveva pensato nella sua interezza la Trilogia del Dollaro.

Le riprese avvennero come sempre principalmente in Spagna, e stavolta con l’approvazione del regime franchista che mise a disposizione l’esercito spagnolo per assistenza tecnica, e perché no anche spionaggio, e ben 1500 soldati entrarono a far parte del ricchissimo cast di comparse e figuranti. Esercito che venne in aiuto per la scena in cui il ponte viene fatto esplodere. Ricorda Donati: “Il miglior ‘artificiere’ del cinema allora era Baciucchi, a ‘living legend’: ma non aveva mai avuto a che fare con un botto di quelle dimensioni. Mise una trentina di cariche di tritolo, ma ogni volta l’esplosione delle prime mandava a puttane il resto dei contatti elettrici, così il ponte non saltava tutto in una volta come voleva Sergio.” Il ponte che Leone aveva fatto costruire era vero, transitabile e lungo quaranta metri, ma poiché l’artificiere di Cinecittà aveva fallito arrivò un colonnello dell’esercito spagnolo con una squadra di specialisti e per riprendere l’azione erano state piazzate ben dodici macchine da presa. Durante il conto alla rovescia, al “meno dieci” il capitano dell’esercito confuse una parola detta da un tecnico delle cineprese con il segnale di far esplodere il ponte: avevano concordato in spagnolo vaya, ma a un vai in italiano il militare premette il pulsante dieci secondi prima del tempo convenuto e le macchine da presa, avviate in tutta fretta, riuscirono a filmare solo la ricaduta dei detriti. Leone andò su tutte le furie: “Adesso lo ammazzo!” andava gridando, ma il colonnello gli disse: “Ricostruirò io il ponte, ma non fucili quest’uomo.” e il ponte fu ricostruito in una notte, pronto per un altro botto, e Eastwood e Wallach rischiarono di esserne travolti. Eastwood ricorda: “Se io e Wallach ci fossimo trovati nel punto stabilito da Leone, con tutta probabilità ora non sarei qui a raccontarvelo.” Fu proprio lui a volersi mettere in una posizione più sicura, e nonostante ciò, solo per un caso fortuito non venne colpito da un grosso frammento di pietra proiettato dall’esplosione a meno di un metro dalla sua testa, come si può chiaramente notare rivedendo la sequenza. Eastwood avrà molto a ridire sull’approssimazione della sicurezza nei set di Leone tanto da consigliare a Wallach di “non fidarsi mai di nessuno in un film italiano.”

Ma le disgrazie non finiscono qui: Eli Wallach rischiò di lasciarci la pelle per ben tre volte: prima per poco non si avvelenò con una bottiglia di acido che un tecnico aveva lasciato vicino alla sua bottiglia di acqua minerale; poi, in una delle scene delle finte impiccagioni, allo sparo il cavallo si imbizzarrì e corse via al galoppo con l’attore in groppa e con le mani legate dietro la schiena; un’altra scena assai rischiosa fu quella in cui lui e Mario Brega dovevano saltare dal treno in corsa, e la sequenza fu perfetta, ma nella scena successiva, quella in cui per spezzare la catena la mette sul binario dove passerà il treno, i tecnici e lui stesso non si erano resi conto che i gradini di ferro del treno sporgevano di circa 30 centimetri e che se l’attore si fosse alzato qualche attimo prima sarebbe stato decapitato; ma per fortuna era andata bene, e siccome cinematograficamente si poteva sempre migliorare, Leone chiese a Wallach di ripeterla: e a quel punto l’attore dove mandò il regista?

E mentre le riprese del film procedevano, la notizia che il nuovo western di Sergio Leone era in produzione fece subito il giro del mondo, quel mondo in cui Leone era già famoso. A questo punto il regista si è voluto togliere qualche sassolino dalla scarpa e in un’intervista per Il Messaggero dirà: “Sì, adesso posso fare quello che voglio. Ho firmato un contratto favoloso con la United Artists. Sono padrone di scegliere quello che voglio, soggetti, attori, tutto. Mi danno quello che voglio, mi danno. Solamente i signori burocrati del cinema italiano cercano di mettermi i bastoni fra le ruote. Loro fanno i film a tavolino col bilancino del farmacista. Quattro attori e mezzo italiani, due virgola cinque spagnoli, uno statunitense. No, gli ho detto, voi i film me li dovete far fare come voglio io, oppure me ne vado in America o in Francia, dove mi aspettano a braccia aperte!”

Le novità stilistiche introdotte da Sergio Leone sono tante e una è aver spogliato i personaggi del western da quel manicheismo tutto americano in cui i buoni sono buoni e i cattivi sono cattivi, e vi introduce una complessità psicologica che condurrà al western moderno, e questo pur restando nell’ambito delle maschere che come tali agiscono, dei tipi ben precisi che però con la sua narrazione apportano alla storia punti di vista diversi. E veniamo al triello: se nel duello sono in due nel triello sono in tre. Grandissimo finale, grandissima invenzione che farà scuola. Il maestro se la prende comoda, allunga i tempi e crea tensione, alterna campi lunghi a primissimi piani in un montaggio che da lento si fa via via più veloce. Una sequenza che non avrebbe avuto lo stesso impatto emotivo se non ci fosse stato il commento sonoro di Ennio Morricone. Leone ha ricordato: “Volevo un cimitero che potesse evocare un antico circo. Non ne esisteva nemmeno uno. Così mi rivolsi al responsabile spagnolo degli effetti pirotecnici che si era occupato della costruzione e della distruzione del ponte. Mi prestò 250 soldati, e questi costruirono il tipo di cimitero di cui avevo bisogno, con diecimila tombe. Quegli uomini lavorarono per due giorni pieni, e fu fatto tutto. Da parte mia non si trattava di un capriccio, l’idea dell’arena era cruciale, con una morbosa strizzatina d’occhio, perché i testimoni di questo spettacolo erano tutti morti. Insistetti perché la musica esprimesse la risata dei cadaveri all’interno delle tombe. I primi tre primi piani degli attori ci presero tutta la giornata: volevo che lo spettatore avesse l’impressione di guardare un balletto. La musica diede un certo lirismo a tutte queste immagini, così la scena divenne una questione di coreografia quanto di suspense.” Sono sette minuti senza alcun dialogo e anche all’inizio del film non si sente una sola parola prima di dieci minuti: parlano gli sguardi. George Lucas ha dichiarato di aver preso ispirazione dai primi piani leoniani per le riprese di “Star Wars: Episodio III – La vendetta dei Sith” nel duello finale tra Anakin Skywalker e Obi-Wan Kenobi. Inoltre la sequenza del triello viene studiata all’università del cinema di Los Angeles, fotogramma per fotogramma, come mirabile esempio di montaggio. Inoltre diverse scene del film sono state utilizzate per uno studio sulle funzioni superiori del cervello umano pubblicato il 12 marzo 2004 sulla rivista “Science”.

Per la prima volta Ennio Morricone scrive la sua musica sulla sceneggiatura e non più sul girato, una colonna sonora che ancora una volta venderà in tutto il mondo e avrà centinaia di scopiazzature; e qui introduce uno di quei suoi adagi larghi e solenni che vanno dritti al cuore, uno di quelli che ameremo in “C’era una volta in America” o “Mission”. E come la colonna sonora, il film spopolò in tutto il mondo lasciando a bocca aperta i boss della United Artists perché mai nessun altro western doc aveva raggiunto quei risultati, e al box office si piazzò terzo dopo “La Bibbia” di John Huston e “Il Dottor Zivago” di David Lean.

Alcuni stralci della critica. L’americano Roger Ebert, che successivamente incluse il film nella sua personale lista dei migliori film, affermò che nella sua prima recensione “descrisse un film da 4 stelle dandogliene solo 3, forse perché si trattava di uno spaghetti-western e quindi non poteva essere considerata arte”Enzo Biagi: “Per fare centro tre volte, come è appunto il caso di Sergio Leone, bisogna essere dotati di vero talento. Non si imbroglia la grande platea, è più facile ingannare certi giovanottoni della critica, che abbondano in citazioni e scarseggiano in idee.” Assolutamente ingeneroso Alberto Moravia che era più vicino al cinema di Pier Paolo Pasolini: “Il film western italiano è nato non già da un ricordo ancestrale bensì dal bovarismo piccolo borghese dei registi che da ragazzi si erano appassionati al western americano. In altri termini il western di Hollywood nasce da un mito; quello italiano dal mito del mito. Il mito del mito: siamo già nel pastiche, nella maniera.” Ma siamo anche in un altro mondo dove i grandi sono grandi ognuno a suo modo.