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Il buono, il brutto, il cattivo

Nel 1964 era cominciata l’avventura con “Per un pugno di dollari” che era proseguita l’anno dopo con “Per qualche dollaro in più” e nel 1966 si completa quella che verrà definita la trilogia del dollaro con “Il buono, il brutto, il cattivo” e ancora una volta le verità sulla genesi sono diverse e addomesticate, e sono tutte buone se consideriamo che la memoria non è mai una verità assoluta ma solo un verosimile punto di vista su un fatto che viene visto da diverse prospettive. Con la tendenza a dimenticare o abbellire dettagli che riteniamo secondari ma che possono essere centrali in un differente punto di vista.

Lo sceneggiatore Luciano Vincenzoni ricorda di aver portato il suo amico vicepresidente della United Artists per l’Europa, con tutto il suo staff, al Supercinema di Roma a vedere “Per qualche dollaro in più”: “C’erano tremila persone. Videro il film in un tripudio di risate e di applausi e vollero andare subito al Grand Hotel a firmare il contratto. Pagarono come minimo garantito una cifra che era tre volte superiore alle più rosee previsioni del produttore. Come usano gli americani, la prima cosa che dissero quando firmarono il contratto fu: ‘Adesso crosscollateralizziamo, compensiamo profitti e perdite con il prossimo film; qual è il prossimo?’ Non avevamo un progetto. Col tacito assenso di Leone e Grimaldi, cominciai a inventare. ‘Un film su tre mascalzoni che corrono dietro a un tesoro attraversando la guerra civile, un po’ nello spirito della Grande Guerra (del 1959 di Mario Monicelli) che voi avete distribuito in America’. E quelli subito: ‘Lo compriamo: quanto costa?’, senza che ci fosse un soggetto scritto, solo sulle parole. Io quindi mi rivolsi a Leone e chiesi: ‘Quanto?’. Leone disse: ‘Cosa, quanto?’. Gli dissi: ‘Il film che gli ho appena venduto’. Onestamente, era un miracolo, senza una storia, solo facendo un po’ di scena. Grimaldi e Leone mi chiesero: ‘Cosa gli hai detto?’. Io dissi: ‘Una storia sulla guerra civile con tre attori; ditemi la cifra’. Grimaldi disse: ‘Beh, che ne dici di ottocentomila dollari?’. Io risposi: ‘Facciamo un milione’. Mi volsi verso Lopert e dissi: ‘Un milione di dollari’. Lui mi rispose: ‘Affare fatto’.”

Sergio Donati

L’aiuto regista Sergio Donati ricorda qualche dettaglio in più: “Grimaldi era pronto a vendere i diritti di ‘Per qualche dollaro in più’ negli Stati Uniti e in Canada. E esattamente in quello stesso periodo Luciano Vincenzoni collaborava con Ilya Lopert ed era un ottimo amico di Arnold e David Picker della United Artists. Erano a Roma. Lui convinse Lopert a portare quelli della UA a una grande proiezione di ‘Per qualche dollaro in più’… e Luciano riuscì davvero a vendere il film alla United Artists e ci guadagnò il 10 per cento di tutti i profitti e anche una percentuale su quello successivo, ‘Il buono, il brutto, il cattivo’.” Un dettaglio non da poco la percentuale sui profitti.

Mentre i ricordi di Sergio Leone sono più romantici e al contempo creativi, come si conviene: “Non sentivo più tutta quella pressione per offrire al pubblico un diverso tipo di film. Ora potevo fare esattamente il film che volevo… fu mentre riflettevo sulla storia di ‘Per qualche dollaro in più’, e su ciò che la faceva funzionare, sulle diverse motivazioni di Van Cleef e di Eastwood, che trovai il nucleo del terzo film… Da sempre pensavo che il buono, il cattivo e il violento non esistessero in senso assoluto e totalizzante. Mi sembrava interessante demistificare questi aggettivi nell’ambientazione di un western. Un assassino può fare mostra di un sublime altruismo, mentre un buono è capace di uccidere con assoluta indifferenza. Una persona in apparenza bruttissima, quando la conosciamo meglio, può rivelarsi più valida di quanto sembra – e capace di tenerezza… Incisa nella memoria avevo una vecchia canzone romana, una canzone che mi sembrava piena di buon senso comune: È morto un cardinale che ha fatto bene e male. Il mal l’ha fatto bene e il ben l’ha fatto male. In sostanza era questa la morale che mi interessava mettere nel film.”

Alberto Grimaldi

Riportati i dovuti distinguo sulla produzione sempre guidata da Alberto Grimaldi ma con l’apporto determinante degli americani, Leone si concentra sulla scrittura del suo terzo spaghetti-western che sarebbe anche stato il primo con budget in dollari e che fino a quel momento si sarebbe dovuto intitolare “I due magnifici straccioni” con protagonisti di nuovo l’ex star tv Clint Eastwood e il miracolato Lee Van Cleef che, tornando a recitare, finalmente si era potuto pagare le bollette e ora andare anche orgoglioso della sua Mercedes nuova. Ma Vincenzoni lì per lì si era inventato e venduto una storia con tre protagonisti, ambientata durante la guerra civile americana, e dovendo lavorare su quella traccia, e con un budget che arrivava a un miliardo di quelle lire, lo sceneggiatore propose di cooptare un’altra coppia di professionisti, Age & Scarpelli, Agenore Incrocci e Furio Scarpelli, una coppia la cui scrittura dava il meglio nell’umorismo popolaresco e nella satira di costume, maestri della commedia all’italiana che si erano anche cimentati nel genere cappa e spada ma mai nei western che fino a quel momento erano un sottogenere da non prendere in considerazione; e in quello stesso anno i due erano anche impegnati nella scrittura di “Signore & signori” di Pietro Germi, insieme all’amico Vincenzoni, del film a episodi “I nostri mariti” regia di D’Amico-Risi-Zampa e di “L’armata Brancaleone” di Mario Monicelli: scusate se è poco.

Age & Scarpelli

Ma la collaborazione fu per Leone da cancellare: “Il contributo dei due sceneggiatori era un disastro. Erano battute e nient’altro. Non potei usare nemmeno una delle cose scritte da loro. Fu la peggiore delusione della mia vita. Mi toccò riprendere in mano il copione con alcuni negri.” dove per negri si intendevano quelli che oggi vengono più correttamente definiti ghost writer. Sergio Donati, aiuto regista non accreditato nonché negro, concorda aggiungendo: “Nella versione finale del copione non è rimasto praticamente nulla che abbiano scritto loro. Avevano scritto solo la prima parte. Una riga appena. Erano lontanissimi dallo stile di Leone. Da parte sua, quella di tirarli dentro era stata una scelta tipica. Aveva bisogno di provare qualcosa di nuovo. E fu una sofferenza. Più che un western, Age e Scarpelli avevano scritto una specie di commedia ambientata nel West.” E Vincenzoni, che ha poi dichiarato di aver scritto la sceneggiatura in soli undici giorni, ben presto lasciò il progetto poiché i rapporti con Leone si andavano deteriorando, e quasi per dispetto si dedicò ad altri due western: “Il mercenario” di Sergio Corbucci e “Da uomo a uomo” di Giulio Petroni, tanto la sua firma sarebbe rimasta insieme a Age & Scarpelli e altrettanto la sua percentuale sugli utili.

Eli Wallach e Sergio Leone sul set

Fatti fuori tutti i co-sceneggiatori Leone resta da solo col suo negro (di altri negri non si sa) a concludere la sceneggiatura e in un’intervista alimenterà il mito di se stesso raccontando di elementi autobiografici sparsi in tutt’e tre i personaggi: “Nel mio mondo, sono gli anarchici i personaggi più veri. Li conosco meglio perché le mie idee sono più vicine alle loro. Io sono fatto di tutti e tre. Sentenza non ha anima, è un professionista nel più banale senso del termine. Come un robot. Non è questo il caso degli altri due personaggi. Considerando il lato metodico e cauto del mio carattere, sono simile al Biondo: ma la mia profonda simpatia andrà sempre dalla parte di Tuco… sa essere toccante con tutta quella tenerezza e umanità ferita. Ma Tuco è anche una creatura tutto istinto, un bastardo, un vagabondo.” Specificando che il Biondo è il personaggio fil rouge, l’uomo senza nome di Clint Eastwood, chiamato Joe nel primo film e il Monco nel secondo; Sentenza, intuizione molto bella e significativa per un nome, è il personaggio cattivo di Lee Van Cleef; mentre Tuco Ramirez, l’ultimo arrivato, è un messicano ricercato per una miriade di crimini ed è il personaggio che Sergio Leone ha amato di più: “Tuco rappresenta tutte le contraddizioni dell’America, e in parte anche le mie. Avrebbe voluto interpretarlo Gian Maria Volonté, ma non mi sembrava una scelta giusta. Sarebbe diventato un personaggio nevrotico, e io invece avevo bisogno di un attore dal naturale talento comico. Così scelsi Eli Wallach, di solito impegnato in parti drammatiche. Wallach aveva in sé qualcosa di chapliniano, qualcosa che evidentemente molti non hanno mai capito. E per Tuco fu perfetto.” E in un’altra intervista: “Eli Wallach l’ho preso per un gesto che fa nella ‘Conquista del West’, (grandioso film a episodi all-star e firmato da quattro registi) quando scende dal treno e parla con Peppard (l’attore George Peppard). Vede il bambino, figlio di Peppard, si volta di scatto e gli spara con le dita facendogli una pernacchia. Da quello ho capito che era un attore comico di estrazione chapliniana, un ebreo napoletano: si poteva fare tutto con lui. Infatti ci siamo molto divertiti a stare insieme.”

I tre attori col regista sul set

Insomma, Leone e Wallach “stavano insieme” e fra i due ci fu una così tanta sintonia da fare ingelosire Clint Eastwood. Il regista addirittura permise all’attore, col quale condivideva anche un bizzarro umorismo, di apportare cambiamenti al personaggio lasciandogli inserire il ricorrente segno della croce e facendogli scegliere il costume in tutta autonomia. Mentre Eastwood lo aveva tenuto sui bracieri ardenti anche perché lui stesso non sapeva che fare del suo futuro: la serie tv si era conclusa e i primi due film della trilogia erano usciti negli Stati Uniti, un successo di pubblico sull’onda del quale l’attore immaginava per sé altre prospettive – ma non gli arrivava ancora nessun’altra offerta, e quando Leone gli offrì quest’altro film per lui era l’unica proposta sul piatto. Ma leggendo il copione si rese subito conto che il personaggio di Tuco era più importante del suo e chiese all’autore di ridimensionarlo. “Ci mancò poco che non facesse la parte del Biondo. – ricorderà Leone – Dopo aver letto il copione trovò in effetti che il ruolo di Tuco fosse troppo importante, che fosse il migliore dei due ruoli. Tentai dunque di ragionarci: ‘Il film è più lungo degli altri due. Non puoi essere tutto solo. Tuco è necessario per la storia, e resterà come ho voluto che fosse. Devi capire che è il comprimario… e il momento in cui appari tu, è la star che fa la sua apparizione’.” E in effetti gli costruisce un’entrata in scena degna di un prim’attore che entra in palcoscenico, ma anche la presentazione degli altri due personaggi è notevole, come già lo era nei precedenti film grazie al suo uso particolarissimo dei primi piani. Ma l’attore ancora nicchiava perché immaginava per sé un futuro da star assoluta, e infatti a seguire girerà film senza comprimari troppo ingombranti: subito dopo aver debuttato come regista col thriller “Brivido nella notte” sarà il protagonista della serie di cinque film dell’Ispettore Callaghan. Solo con la maturità, e con la sicurezza che gli verrà dall’essere autore dei suoi film, si confronterà alla pari con altri talenti ed è del 1992 il suo western della terza età “Gli spietati” col quale farà jackpot agli Oscar.

Ma intanto non era contento del copione e Sergio Leone e gentile signora dovettero volare in California per convincerlo, e la signora Leone, l’ex ballerina del Teatro dell’Opera di Roma Carla Ranalli, ricorderà: “Clint Eastwood con sua moglie Maggie venne al nostro albergo… io spiegai che il fatto che avesse al suo fianco altri due grandi attori non avrebbe potuto che rafforzare la sua statura. A volte anche una grande star che interpreta un ruolo più piccolo insieme ad altri grandi attori può trarre vantaggio dalla situazione. A volte fare un passo indietro voleva dire farne due avanti.” Poi, mentre le due mogli facevano le mogli e parlavano fra loro, Eastwood e Leone si scontrarono molto duramente e fu lì che il loro rapporto cominciò a incrinarsi. Alla fine, ancora con un nulla di fatto, Leone disse alla moglie: “Se interpreta la parte ne sarò felicissimo. Ma se non lo fa – beh, visto che sono stato io a inventarlo – domani dovrò inventarne un altro come lui.” Dopo due giorni di trattative l’attore accettò di fare il film ma volle essere pagato 250mila dollari più il 10% sui profitti in tutti i territori occidentali, un accordo che la produzione concluse ma che non lasciò contento Leone, che ormai per l’attore non aveva più stima.

Per il ruolo del cattivo, Sentenza, ancora una volta Leone voleva coinvolgere Charles Bronson, gli piaceva proprio, ma ancora una volta non se ne fece nulla perché Bronson era impegnato sul set di “Quella sporca dozzina” di Robert Aldrich. In ballo c’era sempre Lee Van Cleef che però era un uomo dal carattere mite e l’autore temeva che non riuscisse a dare il meglio in quel ruolo di spietato assassino, sottovalutando le doti interpretative dell’attore. Poi, una volta assegnato il ruolo, il personaggio venne da sé: l’espressione cupa e pensierosa e gli occhi socchiusi, già di una forma tagliente, a mandorla, rendono Sentenza lo stereotipo ideale del cattivo che farà scuola, e solo dopo Leone dichiarerà, ancora una volta mitizzando la realtà: “Van Cleef aveva già interpretato un ruolo romantico in ‘Per qualche dollaro in più’. L’idea di fargli interpretare un personaggio che fosse l’opposto di quello mi intrigava.” Riguardo al suo contratto l’attore ricorda: “Sul primo film non potevo trattare, visto che non riuscivo nemmeno a pagare il conto del telefono. Feci il film, pagai il conto del telefono ed esattamente un anno dopo, il 12 aprile del 1966, fui chiamato di nuovo per fare ‘Il buono, il brutto, il cattivo’. E insieme a questo, feci anche ‘La resa dei conti’. Ma ora, invece di fare seventeen thousand dollars, ne stavo facendo a hundred e qualcosa, merito di Leone, non mio.” “La resa dei conti” è un altro spaghetti-western diretto da Sergio Sollima, sempre prodotto da Grimaldi che avendo sotto contratto sia l’attore che Ennio Morricone li piazza nel film come protagonista e compositore, l’attore nell’ennesimo ruolo di cacciatore di taglie. Anche riguardo al compenso ci sono delle divergenze: altre fonti affermano che per il primo film Van Cleef fu pagato 10mila dollari mentre lui in seguito ne ricorda 17mila, forse non volendo dichiarare che era stato sottopagato se si considera che Eastwood al suo primo ingaggio ne aveva avuti 15mila. Retroscena di poco conto ma che danno spessore al racconto, come ad esempio il fatto che l’attore fosse terrorizzato dai cavalli, come pure Wallach “altro stracittadino negato per la sella”, parole del negro Sergio Donati; gli fu assegnato un cavallino docile e ammaestrato, ma per farglielo montare bisognava aiutarlo con un sedia, e anche farlo smontare era una farsa. Donati riporta anche un altro aneddoto, sul fatto che l’attore fosse un uomo davvero mite a differenza dei tanti personaggi che ha interpretato: “Doveva prendere a schiaffi una prostituta, e non riusciva neanche a far finta. L’attrice, che era Rada Rassimov, gli diceva ‘Ma dai, non ti preoccupare anche se ti scappa una sberla vera, non m’importa, picchiami…’ Lui spiegava arrossendo che proprio non gli riusciva di alzare le mani su una donna, era più forte di lui.” Altra curiosità: anche in questo film Lee Van Cleef indossa lenti a contatto colorate data la sua eterocromia: aveva gli occhi di colore diverso, uno verde e uno blu, e proprio per i suoi occhi il suo personaggio si guadagnò l’appellativo di Angel Eyes nella versione inglese del film, invenzione dello stesso Leone. A Van Cleef mancava anche la falange distale (la falange finale) del dito medio della mano destra, che con un po’ di attenzione è possibile vedere in alcune inquadrature mentre impugna il fucile. Ma le curiosità sulla lavorazione sono tante e le vedremo più avanti.

Aldo Giuffrè

Fra gli altri personaggi è importante quello che compare in una sola scena, padre Ramirez, fratello di Tuco, col quale ha una bella scena a contrasto essendo i due all’opposto sul piano morale; lo interpreta Luigi Pistilli, che torna a lavorare con Leone e che fu un veterano degli spaghetti-western dove in genere impersonava i cattivi. Un volto inatteso in un western è invece quello di Aldo Giuffrè, assai noto al pubblico per la sua intensa attività sia teatrale che cinematografica che televisiva, e questo rimane il suo unico western senza considerare la parodia “Due mafiosi nel Far West” con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Qui interpreta il tormentato ruolo di un capitano nordista, alcolizzato, tentato da idee anarchiche perché stanco di una guerra dove deve sacrificare inutilmente i suoi uomini.

Il plastico del campo di concentramento di Andersonville sulla base del quale Sergio Leone fece costruire le sue scenografie, delle quali Lee Van Cleef dirà: “Il campo di prigionia che Sergio aveva costruito non era niente di che – solo poche case e un sacco di steccati. Ed era sovraffollato, ma ti dava l’impressione che durante la guerra civile dovesse essere proprio così. Era come alcune immagini che avevo visto di Andersonville.”

A tal proposito Leone aveva fatto molte ricerche storiche e ambientali per scrivere il film: “Ciò che mi interessava era da un lato demistificare gli aggettivi, dall’altra mostrare l’assurdità della guerra… la Guerra Civile nella quale i personaggi si imbattono, dal mio punto di vista, è inutile, stupida: non è portata avanti per una giusta causa. La frase chiave del film è quella di un personaggio (il Biondo) che commenta la battaglia del ponte: “Mai visto morire tanta gente… tanto male”. E Leone continua: “Faccio vedere un campo di concentramento nordista… ma in parte stavo pensando ai campi nazisti, con le loro orchestre di ebrei. Volevo mostrare l’imbecillità umana in un film picaresco insieme alla realtà della guerra. Lessi da qualche parte che 120mila persone morirono nei campi sudisti come Andersonville, ma da nessuna parte venivano citati gli stermini dei campi di prigionia nordisti. Si sente sempre parlare del comportamento vergognoso dei perdenti, mai dei vincitori. Così decisi di mostrare lo sterminio in un campo nordista. Agli americani questo non piacque… la guerra civile americana è un soggetto quasi tabù, perché la sua realtà è folle e incredibile. Ma la vera storia degli Stati Uniti è stata costruita su una violenza che né la letteratura né il cinema avevano mai mostrato come si deve. Personalmente tendo sempre a contrastare la versione ufficiale degli eventi – senza dubbio questo si deve al fatto che sono cresciuto sotto il fascismo. Ho visto in prima persona come si possa manipolare la storia, per cui metto sempre in dubbio quello che viene divulgato. Per me è diventato un riflesso incondizionato.” E ancora: “Gli autori americani non approfondiscono a sufficienza la loro stessa storia. Nel preparare ‘Il buono, il brutto, il cattivo’ scoprii che, durante la guerra civile, in Texas c’era stata una sola battaglia, il cui vero obiettivo era la proprietà delle miniere d’oro del Texas. Lo scopo della battaglia era di impedire al Nord (o al Sud) di mettere per primo le mani sull’oro. Così, mentre ero a Washington, cercai di trovare ulteriore documentazione su questo avvenimento. Il bibliotecario, lì alla Biblioteca del Congresso, la più grossa biblioteca del mondo, mi disse: ‘Credo che si sbagli. Il Texas, dice, signore? Deve esserci un errore. In America nessuno ha mai combattuto una battaglia per le miniere d’oro, e in ogni caso la guerra civile non è mai arrivata al Texas. Torni fra due o tre giorni e le farò qualche controllo. Ma sono sicurissimo che si sbaglia’. Beh, ritornai dopo due o tre giorni, e questo tizio mi guardò come se avesse visto un fantasma. ‘Ho qui otto libri’, disse, ‘e tutti fanno riferimento a questo particolare avvenimento. Come diavolo faceva lei a saperlo? Lei legge solo l’italiano, perciò come ha fatto a scoprirlo? Adesso capisco perché voi italiani fate film così straordinari. Sono vent’anni che sono qui, e non c’è stato un solo regista americano che si sia mai preoccupato di venire a informarsi sulla storia del West’. Beh, adesso ho anch’io una biblioteca enorme – a Washington, per otto dollari, ti fotocopiano un libro intero!“.

Altri interpreti: torna l’amico Mario Brega qui super cattivo con occhio di vetro; lo spagnolo Antonio Casas già in “Il colosso di Rodi” di Leone e contemporaneamente in “La resa dei conti” insieme a Van Cleef; la serba italiana Rada Rassimov nel ruolo della prostituta schiaffeggiata, e ancora Antonio Casale, Livio Lorenzon, l’altro spagnolo Molino Rojo come capitano in prigionia con la gamba in gangrena, e l’americano dal brutto muso Al Mulock che ha la peggio contro Tuco che lo liquida con una battuta che farà scuola, e che è anche critica a tanti western americani: “Quando si spara si spara, non si parla!” Tuco, che in quella scena esce nudo dalla vasca da bagno mostrando velocemente le chiappe pelose, una cosa all’epoca e in quel genere inaudita ma che diventa divertente nelle mani di Sergio Leone, e che prepara un’altra battuta clamorosa con il Biondo che gli dice: “Levati la pistola e mettiti le mutande” al che Tuco gli risponde un: “Vado, l’ammazzo e torno!” che farà storia: diventerà un modo di dire quando si andava a fare qualsiasi cosa per rientrare subito, come anche andare a comprare il latte o portare giù il cane: vado l’ammazzo e torno. Che divenne anche il titolo di un altro western di Enzo G. Castellari, film sfacciatamente e interamente fatto di omaggi e citazioni. Ma ci fu anche un “Il bello, il brutto, il cretino” con Franco e Ciccio regia di Giovanni Grimaldi (nessuna parentela col produttore Alberto). Un’altra parodia sarà “Il bianco, il giallo e il nero” di Sergio Corbucci starring lo stesso Eli Wallach. Fino al più recente (2008) coreano “Il buono, il matto, il cattivo” di Kim Ji-woon. Ma c’è anche un fumetto della Marvel Comics che con il medesimo titolo schiera Capitan America, Deadpool e Wolverine, e ci sarà anche Dylan Dog e altro ancora.

Di nuovo dal punto di vista linguistico il set era una babele ma stavolta c’erano tre protagonisti che almeno fra loro potevano recitare in inglese mentre il resto degli attori e dei figuranti parlavano italiano e spagnolo; solo Wallach, che conosceva il francese, si rivolgeva in quella lingua agli italiani, anche durante il girato; e a Leone pare che poco importasse del parlato: lui parlava poco e male l’inglese, aveva poi l’abitudine di cambiare le battute all’ultimo momento e, avendo già disponibile la musica di Morricone, amava averla sui set mentre girava, per ispirare gli attori, cosa che piaceva molto a Eastwood, ma che non aiutava al momento di dover doppiare il tutto, sia in italiano che in inglese per il mercato estero. Mickey Knox, il direttore del doppiaggio americano, ha dichiarato: “Sergio aveva una pessima traduzione dall’italiano e, nella maggior parte dei casi, gli attori americani cambiavano le battute mentre doppiavano… io sapevo quello che avrebbero dovuto dire, perché avevo il copione italiano… ma dovevo trovare le battute giuste, non solo per mandare avanti la storia, ma anche perché corrispondessero al movimento delle labbra. Non è una cosa facile da fare. Di fatto, mi ci vollero sei settimane per scrivere quello che chiamano ‘il copione col labiale’. Normalmente per un film ce l’avrei fatta fra i sette e i dieci giorni. Ma quello non era un film normale.” L’aiuto regista non accreditato Sergio Donati che era stato mandato a controllare il doppiaggio americano, aggiunge: “A ‘semplificare’ le cose arrivò pure Clint Eastwood il quale ormai, dopo il terzo film con Leone, stava con lui in un reciproco cordiale rapporto tipo ‘senza di me non saresti nessuno, brutto stronzo’. Clint con una faccia da western sbatté il suo ‘shooting script’ sul leggio e disse con la voce gelida e sussurrante che conoscete tutti: ‘Io ripeto esattamente quello che ho detto sul set’. Sapendo benissimo di rovinarci in quanto era tradizione leoniana sconvolgere completamente i dialoghi durante il montaggio.” Per l’Italia ancora una volta Clint fu doppiato da Enrico Maria Salerno, Van Cleef da Emilio Cigoli e Eli Wallach dal caratterista della voce un po’ nasale Carlo Romano, mentre Luigi Pistilli fu doppiato da Nando Gazzolo che nei primi due film aveva doppiato Gian Maria Volonté.

Nel 2014 l’editore Bompiani pubblica il romanzo di Nelson Martinico “Il buono, il brutto e il figlio del cattivo” fatto ritirare dal commercio dagli eredi di Leone, ma per chi lo volesse esistono delle copie in vendita online. L’idea del figlio del cattivo lascia supporre un sequel, che in effetti fu pensato dallo script-doctor Luciano Vincenzoni che pure aveva abbandonato Leone e la sua impresa, Leone che dal canto suo non aveva nessuna intenzione di realizzare un seguito; ma come ormai ci è evidente l’ineffabile Vincenzoni era uno che amava forzare la mano, e avendo scritto una prima traccia di sceneggiatura ambientata venti anno dopo, aveva anche contattato gli attori per sentirne la disponibilità; Eli Wallach fu subito della partita e della sceneggiatura dirà “Tuco sta ancora cercando quel figlio di puttana. E scopre che il Biondo è stato ucciso. Ma suo nipote è ancora vivo, e sa dove è nascosto il tesoro. Così Tuco decide di inseguirlo.” Clint Eastwood pare che sin da subito non fu entusiasta del progetto tanto che il testimone del suo personaggio passa a un probabile nipote, si rende però disponibile come voce narrante ma soprattutto voleva entrare nella produzione: piatto ricco mi ci ficco. Accertato che anche Sergio Leone non era disponibile come regista, lo sceneggiatore contattò Joe Dante offrendo a Leone il ruolo di coproduttore: era necessario che il titolare del franchising fosse della partita in un qualsiasi ruolo; ma l’ormai maestro dello spaghetti-western guardava molto oltre e non diede il permesso di utilizzare il suo titolo né i suoi personaggi. Fine della storia. Però per il suo successivo film, “C’era una volta il West” in cui finalmente avrà nel cast il tanto desiderato Charles Bronson, Leone aveva contattato i tre attori per chiedergli di interpretare dei camei: i tre killer che attendono il protagonista alla stazione, sarebbe stato divertente e iconico; Van Cleef e Wallach furono subito disponibili ma Eastwood si negò e l’autore dovette ripiegare su altri caratteristi.

Chi volesse acquistare una copia del famoso poncho lo può cercare online

Sotto finale Clint Eastwood trova un poncho e lo indossa, diventando il personaggio dei due primi film: un’auto citazione dell’autore, nient’altro. Ma questo ha scatenato tutti quelli che ancora oggi cercano nei tre film connessioni e riferimenti incrociati, volendo addirittura stabilire una cronologia; così se nell’ultimo film Eastwood trova il poncho significa che è un prequel, ma storicamente non funziona perché la guerra civile è posteriore alla conquista americana del Texas ancora messicano dei primi film. Di fatto i tre film sono nati autonomamente e anche casualmente, senza un preciso ordine né progetto da parte di Sergio Leone che però, negli anni, ricamando la sua stessa leggenda, dirà che sin dall’inizio aveva pensato nella sua interezza la Trilogia del Dollaro.

Le riprese avvennero come sempre principalmente in Spagna, e stavolta con l’approvazione del regime franchista che mise a disposizione l’esercito spagnolo per assistenza tecnica, e perché no anche spionaggio, e ben 1500 soldati entrarono a far parte del ricchissimo cast di comparse e figuranti. Esercito che venne in aiuto per la scena in cui il ponte viene fatto esplodere. Ricorda Donati: “Il miglior ‘artificiere’ del cinema allora era Baciucchi, a ‘living legend’: ma non aveva mai avuto a che fare con un botto di quelle dimensioni. Mise una trentina di cariche di tritolo, ma ogni volta l’esplosione delle prime mandava a puttane il resto dei contatti elettrici, così il ponte non saltava tutto in una volta come voleva Sergio.” Il ponte che Leone aveva fatto costruire era vero, transitabile e lungo quaranta metri, ma poiché l’artificiere di Cinecittà aveva fallito arrivò un colonnello dell’esercito spagnolo con una squadra di specialisti e per riprendere l’azione erano state piazzate ben dodici macchine da presa. Durante il conto alla rovescia, al “meno dieci” il capitano dell’esercito confuse una parola detta da un tecnico delle cineprese con il segnale di far esplodere il ponte: avevano concordato in spagnolo vaya, ma a un vai in italiano il militare premette il pulsante dieci secondi prima del tempo convenuto e le macchine da presa, avviate in tutta fretta, riuscirono a filmare solo la ricaduta dei detriti. Leone andò su tutte le furie: “Adesso lo ammazzo!” andava gridando, ma il colonnello gli disse: “Ricostruirò io il ponte, ma non fucili quest’uomo.” e il ponte fu ricostruito in una notte, pronto per un altro botto, e Eastwood e Wallach rischiarono di esserne travolti. Eastwood ricorda: “Se io e Wallach ci fossimo trovati nel punto stabilito da Leone, con tutta probabilità ora non sarei qui a raccontarvelo.” Fu proprio lui a volersi mettere in una posizione più sicura, e nonostante ciò, solo per un caso fortuito non venne colpito da un grosso frammento di pietra proiettato dall’esplosione a meno di un metro dalla sua testa, come si può chiaramente notare rivedendo la sequenza. Eastwood avrà molto a ridire sull’approssimazione della sicurezza nei set di Leone tanto da consigliare a Wallach di “non fidarsi mai di nessuno in un film italiano.”

Ma le disgrazie non finiscono qui: Eli Wallach rischiò di lasciarci la pelle per ben tre volte: prima per poco non si avvelenò con una bottiglia di acido che un tecnico aveva lasciato vicino alla sua bottiglia di acqua minerale; poi, in una delle scene delle finte impiccagioni, allo sparo il cavallo si imbizzarrì e corse via al galoppo con l’attore in groppa e con le mani legate dietro la schiena; un’altra scena assai rischiosa fu quella in cui lui e Mario Brega dovevano saltare dal treno in corsa, e la sequenza fu perfetta, ma nella scena successiva, quella in cui per spezzare la catena la mette sul binario dove passerà il treno, i tecnici e lui stesso non si erano resi conto che i gradini di ferro del treno sporgevano di circa 30 centimetri e che se l’attore si fosse alzato qualche attimo prima sarebbe stato decapitato; ma per fortuna era andata bene, e siccome cinematograficamente si poteva sempre migliorare, Leone chiese a Wallach di ripeterla: e a quel punto l’attore dove mandò il regista?

E mentre le riprese del film procedevano, la notizia che il nuovo western di Sergio Leone era in produzione fece subito il giro del mondo, quel mondo in cui Leone era già famoso. A questo punto il regista si è voluto togliere qualche sassolino dalla scarpa e in un’intervista per Il Messaggero dirà: “Sì, adesso posso fare quello che voglio. Ho firmato un contratto favoloso con la United Artists. Sono padrone di scegliere quello che voglio, soggetti, attori, tutto. Mi danno quello che voglio, mi danno. Solamente i signori burocrati del cinema italiano cercano di mettermi i bastoni fra le ruote. Loro fanno i film a tavolino col bilancino del farmacista. Quattro attori e mezzo italiani, due virgola cinque spagnoli, uno statunitense. No, gli ho detto, voi i film me li dovete far fare come voglio io, oppure me ne vado in America o in Francia, dove mi aspettano a braccia aperte!”

Le novità stilistiche introdotte da Sergio Leone sono tante e una è aver spogliato i personaggi del western da quel manicheismo tutto americano in cui i buoni sono buoni e i cattivi sono cattivi, e vi introduce una complessità psicologica che condurrà al western moderno, e questo pur restando nell’ambito delle maschere che come tali agiscono, dei tipi ben precisi che però con la sua narrazione apportano alla storia punti di vista diversi. E veniamo al triello: se nel duello sono in due nel triello sono in tre. Grandissimo finale, grandissima invenzione che farà scuola. Il maestro se la prende comoda, allunga i tempi e crea tensione, alterna campi lunghi a primissimi piani in un montaggio che da lento si fa via via più veloce. Una sequenza che non avrebbe avuto lo stesso impatto emotivo se non ci fosse stato il commento sonoro di Ennio Morricone. Leone ha ricordato: “Volevo un cimitero che potesse evocare un antico circo. Non ne esisteva nemmeno uno. Così mi rivolsi al responsabile spagnolo degli effetti pirotecnici che si era occupato della costruzione e della distruzione del ponte. Mi prestò 250 soldati, e questi costruirono il tipo di cimitero di cui avevo bisogno, con diecimila tombe. Quegli uomini lavorarono per due giorni pieni, e fu fatto tutto. Da parte mia non si trattava di un capriccio, l’idea dell’arena era cruciale, con una morbosa strizzatina d’occhio, perché i testimoni di questo spettacolo erano tutti morti. Insistetti perché la musica esprimesse la risata dei cadaveri all’interno delle tombe. I primi tre primi piani degli attori ci presero tutta la giornata: volevo che lo spettatore avesse l’impressione di guardare un balletto. La musica diede un certo lirismo a tutte queste immagini, così la scena divenne una questione di coreografia quanto di suspense.” Sono sette minuti senza alcun dialogo e anche all’inizio del film non si sente una sola parola prima di dieci minuti: parlano gli sguardi. George Lucas ha dichiarato di aver preso ispirazione dai primi piani leoniani per le riprese di “Star Wars: Episodio III – La vendetta dei Sith” nel duello finale tra Anakin Skywalker e Obi-Wan Kenobi. Inoltre la sequenza del triello viene studiata all’università del cinema di Los Angeles, fotogramma per fotogramma, come mirabile esempio di montaggio. Inoltre diverse scene del film sono state utilizzate per uno studio sulle funzioni superiori del cervello umano pubblicato il 12 marzo 2004 sulla rivista “Science”.

Per la prima volta Ennio Morricone scrive la sua musica sulla sceneggiatura e non più sul girato, una colonna sonora che ancora una volta venderà in tutto il mondo e avrà centinaia di scopiazzature; e qui introduce uno di quei suoi adagi larghi e solenni che vanno dritti al cuore, uno di quelli che ameremo in “C’era una volta in America” o “Mission”. E come la colonna sonora, il film spopolò in tutto il mondo lasciando a bocca aperta i boss della United Artists perché mai nessun altro western doc aveva raggiunto quei risultati, e al box office si piazzò terzo dopo “La Bibbia” di John Huston e “Il Dottor Zivago” di David Lean.

Alcuni stralci della critica. L’americano Roger Ebert, che successivamente incluse il film nella sua personale lista dei migliori film, affermò che nella sua prima recensione “descrisse un film da 4 stelle dandogliene solo 3, forse perché si trattava di uno spaghetti-western e quindi non poteva essere considerata arte”Enzo Biagi: “Per fare centro tre volte, come è appunto il caso di Sergio Leone, bisogna essere dotati di vero talento. Non si imbroglia la grande platea, è più facile ingannare certi giovanottoni della critica, che abbondano in citazioni e scarseggiano in idee.” Assolutamente ingeneroso Alberto Moravia che era più vicino al cinema di Pier Paolo Pasolini: “Il film western italiano è nato non già da un ricordo ancestrale bensì dal bovarismo piccolo borghese dei registi che da ragazzi si erano appassionati al western americano. In altri termini il western di Hollywood nasce da un mito; quello italiano dal mito del mito. Il mito del mito: siamo già nel pastiche, nella maniera.” Ma siamo anche in un altro mondo dove i grandi sono grandi ognuno a suo modo.

Per qualche dollaro in più

Secondo capitolo della trilogia del dollaro di Sergio Leone, una trilogia su cui lo stesso autore non aveva nessun progetto e che è stata così riconosciuta e nominata solo in seguito, ad opera di giornalisti e pubblico. Anzi, di più: archiviato il grande successo di “Per un pugno di dollari”, suo secondo lungometraggio dopo “Il colosso di Rodi”, Leone era davvero sfinito, anche dalle vicende giudiziarie che avevano prosciugato completamente i suoi guadagni. Era creativamente esausto, e paralizzato dalla consapevolezza che ripetere un tale successo sarebbe stato impossibile. Inoltre era molto arrabbiato coi produttori della Jolly Film che lo avevano messo nella posizione di essere citato in giudizio per plagio da Akira Kurosawa: “Il comportamento della Jolly mi aveva nauseato. Così andai a trovare i due produttori. Gli dissi che in effetti il modo in cui si erano messe le cose mi ‘faceva piacere’… Perché significava che non avrei mai più dovuto fare un film con loro. Avrei avviato un procedimento legale, ma non volevo vederli mai più. E fu da lì che nacquero i semi della mia vendetta. Dissi loro: ‘Non so se davvero ho voglia di fare un altro western. Ma lo farò. Solo per farvi dispetto. E si intitolerà…’ In quel momento, il titolo mi balenò nella mente – ‘Per qualche dollaro in più’. Ovvio che in quella fase non avevo idea di quale sarebbe stato il soggetto.”

In realtà pare che quel titolo glielo avesse suggerito lo sceneggiatore Luciano Vincenzoni, rinomatissimo scrittore di film di qualità noto come lo “script-doctor”, figura ovviamente mediata da Hollywood, per la sua capacità di intervenire sulle sceneggiature altrui, anche in anonimo, per appianare tutte le problematiche riscontrate principalmente dai produttori, una sorta di ottimizzatore. A un’amichevole chiacchierata con Leone che si lamentava della sua situazione, pare che Vincenzoni gli abbia detto: “Hai scritto per un pugno di dollari? Questo sarà per qualche dollaro in più. Molti milioni di dollari in più.”

Nello stesso periodo Leone conobbe un avvocato già bene avviato nella produzione cinematografica, soprattutto di spaghetti-western, il quale era rimasto assai colpito da “Per un pugno di dollari”: era Alberto Grimaldi e Leone, già transfuga dalla Jolly, gli chiese di produrlo; l’avvocato, che aveva l’occhio lungo e si stava già affrancando dagli spaghetti-western, gli fece una rispettabilissima offerta produttiva: il 50 per cento dei profitti oltre a tutte le spese vive pagate. Sul fronte internazionale si riconfermò la casa di produzione tedesca che voleva bissare il primo successo, mentre la Spagna che era ancora in forse salì sul carro con un diverso produttore; ma soprattutto, per la prima volta in un western all’italiana entrò nella produzione nientemeno che l’americana United Artists, già produttrice di “I magnifici sette”, solo per restare nell’ambito western, e che poi distribuì il film di Leone in tutto il mondo; e gli americani erano entrati nel progetto sempre grazie a Vincenzoni che al responsabile europeo della U.A. aveva fatto vedere “Per un pugno di dollari” convincendolo a entrare nell’affare e facendo lievitare il budget fino a 600mila dollari: bazzecole per gli standard americani ma una cifra insperabile per i western nostrani, e già nelle prime inquadrature del film i soldi si vedono nella ricchezza delle ambientazioni… e nell’espressione rilassata di Clint Eastwood! A quel punto lo “script-doctor” si era dimostrato davvero un amico e a Leone venne in mente di proporgli di scrivere insieme la sceneggiatura, però tentennava perché non riteneva che il rinomato Vincenzoni, che l’anno prima era stato premiato col Nastro d’Argento per avere scritto “Sedotta e abbandonata” di Pietro Germi, potesse essere interessato al suo filmetto di serie B: si trattava di mondi diversi; ma come sappiamo Vincenzoni fu ben felice di essere coinvolto nella scrittura, del resto si era già coinvolto nella promozione del progetto, e co-scrisse il film facendo anche di più: si inventò il soggetto del successivo “Il buono, il brutto, il cattivo”; resta da considerare che Sergio Leone fu lungimirante e sanamente opportunista nel volerlo coinvolgere, in quanto essendo lo script-doctor già un uomo di notevole successo, aveva quelle giuste entrature nei “piani superiori” cui lui tanto ambiva ascendere.

A quel punto, avuti tutti i finanziamenti, bisognava ancora scrivere il film e l’autore non aveva ancora che poche idee confuse. Aveva già tenuto una riunione con i co-sceneggiatori del primo film, Duccio Tessari e Fernando Di Leo, con l’idea di rimettere nel titolo la parola dollari e di formare il cast sempre intorno alla coppia vincente Eastwood-Volonté. E ancora una volta Sergio Leone si spinse su un terreno accidentato poco praticato dagli americani nei loro western, immaginando di mettere al centro del nuovo film una figura moralmente controversa come il bounty-killer, letteralmente assassino dietro compenso, che noi traduciamo in cacciatore di taglie, come Leone spiegò: “Gli Americani hanno sempre dipinto il West in termini romantici, con cavalli che corrono al fischio del padrone. Non hanno mai trattato il West seriamente, come noi non abbiamo mai trattato l’antica Roma seriamente. Forse il più serio dibattito sull’argomento è stato fatto da Kubrick in ‘Spartacus’: gli altri film sono sempre stati favole di cartone. È stata questa superficialità che mi ha colpito e interessato.” Si delineò così la storia di un cacciatore di taglie all’inseguimento di un fuorilegge, ma poi per dare più dinamismo alla vicenda i bounty-killer divennero due, dapprima in concorrenza fra loro e, per differenziarli, al Clint Eastwood sempre abbigliato col poncho ne avrebbero contrapposto uno più anziano, e Leone pensava sempre a Henry Fonda che gli era rimasto sul gozzo. Nel frattempo Duccio Tessari si defilò dal progetto perché stava scrivendo e dirigendo ben due film con Giuliano Gemma (“Una pistola per Ringo” e “Il ritorno di Ringo”) e, come si dice a Roma, non sapeva più a chi dare i resti. Questo mentre lo stesso Sergio Leone, impegnato su più fronti nella ricerca dei finanziamenti si distraeva dalla scrittura; e Fernando Di Leo, che era rimasto solo davanti la macchina per scrivere, di sua iniziativa completò un trattamento coinvolgendo l’amico e collega Enzo Dell’Aquila col quale aveva scritto a quattro mani un film a episodi del quale avevano anche co-diretto un episodio debuttando nella regia, “Gli eroi di ieri… oggi… domani”, un filmetto che con quel titolo era voluto andare a strascico del successo di Vittorio De Sica “Ieri, oggi, domani” con Sophia Loren e Marcello Mastroianni: film che però rimase pressoché mai visto nelle sale. Di Leo e Dell’Aquila portarono orgogliosamente a Leone il loro trattamento intitolato “Il cacciatore di taglie” con la speranza di piacere ed entrare di diritto nel progetto, per far salire le loro personali quotazioni sulla scia dell’amico che si trovava un gradino più su nella scalata al successo internazionale. A questo punto le cose si fanno un po’ oscure: a Sergio Leone il trattamento piacque molto, ma consapevole che il successo non può avere molti padri, chiese ad Alberto Grimaldi di acquistare il trattamento con la clausola che i nomi dei due autori sparissero, e i due reietti pur di fare cassa accettarono l’amara condizione – che in certi ambienti e a certi livelli è prassi, e anzi furono fortunati perché furono pagati laddove è anche prassi rubare il lavoro altrui; e Leone, che già aveva nel suo carnet il plagio a Kurosawa – in buona o mala fede non è chiaro – stava seguendo la prassi dell’appropriazione indebita con la ferrea volontà di costruire il suo personale successo: siamo abituati a santificare coloro che hanno fatto grandi cose in vita – dimenticando però che sono stati comuni esseri umani pieni di contraddizioni e difetti come chiunque di noi.

Fernando Di Leo

Una digressione su Fernando Di Leo, sceneggiatore non accreditato per i primi due film della trilogia, che da gran signore, interrogato sul suo reale coinvolgimento nella scrittura di quei successi, dichiarerà in un’intervista: “Il genio viene dopo la fase di scrittura. A cambiare il cinema negli anni ’60 sono state due cose: il montaggio di Godard e i tempi di Leone.” Lui, nonostante le idee e le capacità non avrà le stesse opportunità e passerà dal genere noir ai poliziotteschi, fra i quali va ricordato “Milano calibro 9”, fino a finire nel filone erotico dirigendo quello che oggi è un cult su cui si abbatté una valanga di censure: “Avere vent’anni”. Di certo nella sua carriera non ha avuto fortuna se si pensa che ha addirittura scritto e diretto per la Rai una serie di sei puntate “L’assassino ha le ore contate” che inspiegabilmente non è mai stata trasmessa, nonostante l’impegno produttivo, neanche in tarda serata, e i nostri soldi del canone buttati via; non poteva essere peggio di tante cose che vanno in onda senza vergogna. Di lui rimangono anche due interessanti progetti incompiuti dai quali i produttori si sfilarono per il timore di confrontarsi con quei temi: “Il pederasta”, che sarebbe stato il primo film ad affrontare senza tabù e senza macchiette il tema dell’omosessualità maschile, era il 1972, del quale riuscì a girare una sola scena mentre in seguito alle proteste dei soliti benpensanti il titolo era stato cambiato nel più elusivo e infamante “Uno di quelli” finché la lavorazione fu definitivamente sospesa; un altro progetto era “Il dio Kurt” dall’opera teatrale di Alberto Moravia che trattava il mito di Edipo trasferito in un campo di concentramento, con Henry Fonda e Charlotte Rampling addirittura, film di cui non iniziarono neanche le riprese perché bloccato da produttori e distributori terrorizzati dal tema che trattava.

A quel punto il nostro mise mano alla sceneggiatura vera e propria coinvolgendo, come sappiamo, Vincenzoni, il cui apporto fu soprattutto immettere umorismo nella storia, un’ironia sempre al limite che però non diventa mai parodia – questa è la maestria – e che coinvolge i protagonisti a differenza di quanto accadeva nei classici western americani, dove gli eroi alla John Wayne sono sempre tutti d’un pezzo e la parte ironica, quando c’è, è lasciata a figurine di contorno, come il solito vecchietto con la voce chioccia. Ma anche se lavorò col suo solito impegno Vincenzoni si sentiva però un intruso, da un lato perché non credeva che quel genere di western all’italiana, che Leone stava ancora inconsapevolmente creando, potesse davvero avere un seguito, e dall’altro perché stava antipatico al produttore Grimaldi, produttore sulla carta che chiudeva un pacchetto composito, una specie di notaio insomma, mentre Vincenzoni vantava rapporti personali con i tycoon della United Artists: gelosia da provincialismo.

A seguire, negli anni, a bocce ferme come si dice, in tanti hanno rilasciato dichiarazioni e interviste: Tonino Valerii ha affermato di aver lavorato anche lui alla sceneggiatura e di aver creato lui la figura dell’antagonista, El Indio, e Vincenzoni non nega dicendo però di aver battezzato lui il personaggio: gelosie fra padrini. Lo sceneggiatore Sergio Donati, che già era stato chiamato da Leone alla scrittura del primo film che lui aveva rifiutato perché poco allettante, di nuovo viene chiamato a collaborare e, benché anche lui non accreditato, si attesta la creazione di diverse importanti scene, fra cui quella del treno che presenta il coprotagonista e il finale in cui si contano i cadaveri; continuerà a collaborare con Leone e il primo film in cui compare la sua firma accanto a quella di Sergio Leone è “Giù la testa”, ben quattro film dopo.

Era il momento di formare il cast. Ovviamente l’uomo senza nome che qui verrà indicato come Il Monco perché spara solo con la sinistra avendo la destra parzialmente inabile, era stato scritto per Clint Eastwood ma non era certo che l’attore accettasse anche perché nel frattempo era stato contattato dalla Jolly Film malamente abbandonata da Leone, che voleva rubare al regista il suo protagonista; ma quando l’attore seppe della rottura decise di stare dalla parte di Leone che ora aveva dalla sua anche la United Artists, e firmò un contratto di 50mila dollari dopo i soli 15mila del precedente film, oltre a una piccola percentuale sugli incassi e il biglietto aereo di prima classe mentre precedentemente aveva viaggiato in economica.

Per il ruolo dell’anziano cacciatore di taglie, il colonnello Douglas Mortimer, Leone ancora una volta aveva dovuto rinunciare a Henry Fonda, e allora contattò Charles Bronson, ma anche lui rifiutò la parte e Leone allora si rivolse a Lee Marvin, che si era messo in luce come Liberty Valance in “L’uomo che uccise Liberty Valance” di John Ford; e l’attore era ben disposto a prendere parte al progetto, però qualche giorno prima dell’inizio delle riprese firmò per recitare in “Cat Ballou” di Elliott Silverstein, film che gli fece vincere l’Oscar. Così, a pochi giorni dall’inizio delle riprese il colonnello Mortimer non aveva ancora un volto. Allora il nostro impavido autore fece i bagagli e partì per Los Angeles alla ricerca di un attore di cui possedeva solo una vecchia foto strappata dall’Academy Players, un annuario degli attori della Academy Pictures. A suo dire quello sconosciuto attore, che rispondeva al nome di Lee Van Cleef, assomigliava a un parrucchiere del Sud Italia, ma aveva anche un naso da falco e gli occhi di Van Gogh. “Calcolai che all’epoca della foto doveva avere circa quarant’anni, quindi ora doveva averne quarantotto, quarantanove o cinquanta – proprio l’età giusta per il colonnello. Quando arrivai a Hollywood sembrava che fosse completamente sparito. Finalmente, dopo aver corso in lungo e in largo, riuscimmo a trovare il suo agente di nome Sid. Questo agente mi disse che Lee Van Cleef non faceva più l’attore, che ora era un pittore, che era stato a lungo in ospedale perché aveva avuto un incidente frontale in un canyon a Beverly Hills. Aveva deciso di intraprendere una nuova professione… Ma io dissi: ‘Beh, devo vederlo a ogni costo perché, fisicamente, quando penso a questo personaggio, m’immagino lui’. E poche ore prima che il mio aereo partisse, Lee Van Cleef venne in questo piccolo albergo alla periferia di Los Angeles dove stavo io.”

Lee Van Cleef nel suo studio di pittura

Leone gli propose 10mila dollari di compenso e il biglietto per il prossimo aereo per l’Italia. Van Cleef accettò senza discutere, prendendosi però il tempo di completare un quadro che gli avevano commissionato. Per l’attore, dipendente da alcol e fumo, che per sua stessa ammissione faceva fatica a pagare anche la bolletta della luce, questo film fu una vera e propria ciambella di salvataggio; aveva interpretato decine di film, soprattutto western, anche grandi film come “Mezzogiorno di fuoco” di Fred Zinneman in cui aveva debuttato, o “Sfida all’O.K. Corral” di John Sturges, ma sempre in piccoli ruoli, spesso ucciso dal protagonista, e molto più spesso senza neanche una battuta. Leone gli fece leggere il copione durante il volo e Van Cleef notò che nella complessità della trama dove tutti tradiscono tutti e tutti hanno secondi fini, c’era qualcosa di shakespeariano, e questo inorgoglì ancora di più il nostro Leone. Una volta sul set, che era l’ennesima babele, ebbe qualche problema ad ambientarsi e Eastwood gli consigliò di andare vedere “Per un pugno di dollari” che era ancora nelle sale, e all’uscita del cinema convenne: “Adesso capisco cosa intendi. Il copione è importante ma decisamente secondario rispetto allo stile.” Per il resto, lui che aveva già abbandonato il cinema, per tutto il periodo delle riprese fu nella mani del regista “docile come un agnellino”, parole di Luciano Vincenzoni. E il 50enne Lee Van Cleef, all’anagrafe Clarence LeRoy Van Cleef Jr. che curiosamente aveva ascendenze olandesi come olandese era il pittore Van Gogh con cui Leone aveva trovato somiglianze, grazie a quel film assurse alla notorietà ed ebbe una vera carriera soprattutto in Italia, sua seconda patria artistica. Tranne poche occasionali cose non ha più girato in patria però dopo la sua morte, avvenuta a 64 anni per infarto ma era anche affetto da altre serie patologie, è diventato fonte di ispirazione grazie allo sdoganamento di Quentin Tarantino, cultore di un certo cinema trash nel quale inserire di diritto i nostri poliziotteschi e gli spaghetti-western. Nel film è doppiato da Emilio Cigoli.

Sin dall’inizio il ruolo del cattivo, El Indio, era stato pensato per Gian Maria Volonté, che forte del successo del primo film continua a esagerare non poco con la sua teatralità; ma d’altronde, Leone, che lo conosceva bene, lo assecondava e fa dire del suo personaggio che è un pazzo drogato per giustificare quella sua maschera sempre sopra le righe ma sempre efficace in quel contesto dove le inquadrature, i tempi della regia, l’indugiare sui primi piani, sono di per sé teatrali, da dramma shakespeariano come aveva notato Van Cleef. Per Volonté questo secondo film con Leone fu la loro ultima collaborazione dato che il cinema lo scoprì pienamente e lui si avviò verso tutt’altre interpretazioni, sempre drammatiche, politicamente impegnate come lo è stato lui nel Partito Comunista Italiano, e spesso biografiche: è stato Bartolomeo Vanzetti e Giordano Bruno per Giuliano Montaldo, Enrico Mattei, Lucky Luciano e Carlo Levi per Francesco Rosi, Aldo Moro per Giuseppe Ferrara, Michelangelo e Caravaggio in due serie tv, per dire solo i personaggi più noti. Questo è anche l’ultimo film dove viene doppiato, sempre da Nando Gazzolo, ché dal successivo film in poi reciterà, e di diritto, con la sua voce.

Mara Krupp

Nel resto del cast tornano gli amici Mario Brega, Benito Stefanelli e Edmondo Tieghi, ma ci sono delle interessanti new entries: il teatrale Luigi Pistilli che si avvierà a una brillante carriera ma qui è doppiato da Vittorio Sanipoli perché all’epoca anche se si era dei professionisti e si veniva dal palcoscenico, o forse soprattutto per quello data la diversa enfasi recitativa, si veniva sempre doppiati da professionisti del cinema e del microfono; e uno dei pochi che faceva bene tutto, teatro cinema doppiaggio e presto anche regia cinematografica, era Enrico Maria Salerno qui di nuovo voce di Clint Eastwood. Un’altra interessante presenza è il tedesco Klaus Kinski che quello stesso anno è anche nel cast del colossal “Il Dottor Zivago” e continuerà a lavorare molto in Italia come nel cinema internazionale. Dalla Germania torna il vecchietto Joseph Egger, sempre doppiato da Lauro Gazzolo, qui al suo ultimo film. Il caratterista napoletano Dante Maggio tratteggia il ruolo di un falegname mentre un’altra italiana dal nome teutonico, la caratterista Mara Krupp, è praticamente l’unica donna in un film decisamente al testosterone: c’è ma potrebbe anche non esserci per quanto il suo personaggio sia funzionale alla storia.

Lee Van Cleef con Klaus Kinski

A proposito di testosterone è molto divertente e riuscitissimo il duello fra i due bounty-killer a inizio film, quando ancora non si conoscono e si prendono le misure sparando l’uno al cappello dell’altro per farlo volare il più lontano: metafora del più prosaico e virile “facciamo a chi piscia più lontano”. Curioso è anche l’orologio da taschino con foto dell’amata all’interno del coperchio, gadget in dotazione a El Indio da cui suona un minaccioso carillon ogni volta che lo apre: è il tempo che dà al suo opponente prima di sparargli; è tecnicamente impossibile che un orologio da taschino possa contenere il marchingegno di un carillon, ma il cinema è anche questo, e soprattutto il cinema di Sergio Leone che in questo film sfoggia anche un wanted di El Indio con improbabile maschera ridanciana del pistolero criminale. Ma si tratta di maschere, appunto. In questa messa in scena mi sorprende negativamente la sciatteria, purtroppo molto diffusa all’epoca anche nei poliziotteschi e persino a Hollywood, con la quale il futuro maestro gira le sparatorie: se da un lato sono dinamiche e i mort’ammazzati saltano per aria e ruzzolano e cascano come birilli, dall’altro non si può fare a meno di notare che sui loro abiti non c’è un buco e neanche una macchia di sangue.

Di nuovo con le musiche di Ennio Morricone ancora una volta record di vendite di dischi, il film è un altro clamoroso successo dove non è più necessario nascondersi dietro fittizi nomi americaneggianti: fu il più visto in quella stagione cinematografica e ad oggi detiene il quinto posto nella classifica dei film italiani più visti di sempre.

Per un pugno di dollari

“Quando cominciai il mio primo western dovetti trovare in me stesso una ragione psicologica, perché non avevo mai vissuto in quel tipo di ambiente. E un pensiero mi venne spontaneo: era come se fossi il burattinaio dei pupi siciliani; i loro spettacoli erano leggendari ma anche storici. Tuttavia l’abilità del burattinaio consisteva in una cosa: dare a ciascun personaggio una connotazione ulteriore relativa al paese specifico che i “pupi” stavano visitando. Come cineasta il mio compito era quello di creare una favola per adulti, una fiaba per ragazzi cresciuti; e il mio rapporto col cinema era quello di un burattinaio con i suoi burattini.”

“Da parte dei produttori c’era la ferma sicurezza che sarebbe stato un disastro economico, però con un guadagno in partenza, perché io per farlo dovetti andare a trovare un coproduttore tedesco (la Constantin Film), un coproduttore spagnolo (la Ocean Film), e naturalmente un partecipante italiano. Il preventivo era di 80 milioni circa. Così andai da Constantin in Germania e ci fu subito l’accordo concreto di una cifra, e poi trovammo il coproduttore spagnolo. Io decisi di prendere la metà del mio cachet e di avere però la partecipazione. Dato che loro credevano che di utili non ce ne sarebbero stati, furono ben felici di darmi questa possibilità. Il film veniva girato gratis in partenza.”

1964. Il 35enne Sergio Leone aveva debuttato l’anno prima con un film tutto suo, il peplum “Il colosso di Rodi” dopo una già intensa carriera come assistente alla regia e regista di seconde unità in importanti film hollywoodiani girati a Cinecittà: basti pensare che aveva diretto lui la famosa battaglia delle quadrighe di “Ben-Hur” di William Wyler e sempre lui, co-sceneggiatore e aiuto regista, aveva concluso il film “Gli ultimi giorni di Pompei” che il regista Mario Bonnard aveva abbandonato per correre a dirigere Alberto Sordi in “Gastone”, ma ufficialmente ritiratosi per ragioni di salute.

Insomma, Sergio Leone non si ferma un attimo e pensa a un film tutto suo già da una decina d’anni; per il suo debutto aveva scritto la sceneggiatura “Viale Glorioso”, che a Roma è un luogo simbolo della sua infanzia e della sua giovinezza nel quartiere Monteverde, ma poi vi aveva rinunciato perché Federico Fellini era uscito con “I vitelloni”, film che in qualche modo ricalcava lo stesso spirito della sua storia, e fa riflettere che due registi tanto diversi abbiano pensato a inizio carriera una storia con le stesse atmosfere: un gruppo di giovani che oziosamente riflette sul senso della vita. Di fatto, i produttori di “Gli ultimi giorni di Pompei” soddisfatti dell’aiuto regista che aveva salvato il film, si mettono a disposizione per produrgli la sua opera prima, un altro peplum a basso costo, e Leone, che si era già divertito a scrivere una sceneggiatura come sorta di rivisitazione del genere ma in chiave ironica, propose “Il colosso di Rodi”: il film si fece, l’autore smussò però la parte ironica e mostrò grande talento nel filmare e firmare uno pseudo-colossal girato con un budget ridotto e molta inventiva.

Ricordiamo che in quei primi anni ’60 stava scemando l’interesse per i peplum – che gli americani chiamavano sword-and-sandals e Leone più prosaicamente sandaloni – e gli stessi western che in Europa, Italia e Spagna soprattutto ma anche Germania, si giravano a basso costo fingendo che fossero americani. Preso in quella scia Sergio Leone stava già lavorando alla sceneggiatura del suo terzo film del genere, “Le aquile di Roma” una specie di “I sette samurai” (1954) di Akira Kurosawa ma in sandaloni, film che aveva già avuto un recentissimo remake americano con “I magnifici sette” (1960) di John Sturges. Insomma, nulla si inventa e tutto si ricicla, e se poi il riciclo diventerà a sua volta un capolavoro dipenderà dal reale talento dell’autore. Ma in quel frangente Leone fu distratto da un altro impegno: gli era stata commissionata la sceneggiatura di un western per un regista spagnolo che poi rigettò il suo lavoro; ma al nostro autore era però rimasta in testa l’idea del western, idea che accarezzava da molto pur essendogli venuti a noia le dinamiche e i luoghi comuni di quel genere classico americano; e da innovatore, così come aveva tentato di innovare il peplum senza riuscirci, pensò di cimentarsi con una sua personalissima visione del western all’italiana o spaghetti-western, termine coniato dagli americani per definire i western girati da noi a basso costo, inizialmente col senso spregiativo che proveniva da mangia-spaghetti, definizione che recentemente anche Putin ha inopinatamente rispolverato.

Vale la pena riferire, per chi lo volesse cercare, che il primo western italiano fu “Una signora dell’ovest” del 1942 diretto dal tedesco italianizzato Carl Koch, regista su cui va spesa qualche parola: fu assistente del francese Jean Renoir che nel 1936 lo aiutò ad espatriare insieme alla moglie regista animatrice; a ridosso dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, nel 1939, Renoir col suo assistente Koch iniziarono a lavorare a Roma a un adattamento cinematografico del dramma in cinque atti fine ‘800 “La Tosca” di Victorien Sardou di cui nel 1900 Giacomo Puccini compose l’opera lirica su libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa; film che era stato voluto da Mussolini e caldeggiato dal governo francese per mantenere buoni rapporti con l’Italia onde evitare che entrasse in guerra al fianco della Germania, ma come sappiamo così non fu e dopo appena quattro giorni di riprese l’Italia entrò in guerra contro la Francia e Jean Renoir rientrò precipitosamente in patria lasciando il film in mano al suo secondo, il quale essendo tedesco non aveva problemi logistici, semmai ideologici, ma il lavoro è lavoro, gli venne italianizzato il nome in Carlo Koch e portò a compimento il film, successo al botteghino, avendo come assistente un promettente giovane, Luchino Visconti.

Torniamo a Sergio Leone. Era andato con la moglie al cinema Arlecchino – nomen omen! – a vedere “La sfida del samurai” (Yojimbo) sempre di Akira Kurosawa che a sua volta si era ispirato a un racconto dell’americano Dashiell Hammett, e ne fu folgorato: gli venne l’idea di fare il western che aveva sempre sognato. Si mise subito al lavoro e in breve completò la sceneggiatura insieme ai registi Fernando Di Leo e Duccio Tessari, ricalcando quasi pedissequamente il film del regista giapponese, fatto che diverrà una querelle giudiziaria. Il ronin giapponese diventa per Leone l’Uomo Senza Nome, un pistolero che, mostrate le sue capacità, rinfodera le armi e si mette al servizio di due famiglie rivali che con astuzia conduce allo scontro e all’annientamento reciproco. E Leone, dichiaratamente, si ispira proprio alle maschere di Goldoni benché nel prodotto finale è una finezza che il grosso del pubblico non coglie, un punto di vista che gli fa usare la macchina da presa per indagare gli sguardi dei protagonisti nei primissimi piani, le maschere che esprimono pensieri e sentimenti al di là delle parole che spesso diventano superflue.

Un’interessante intervista di Sergio Leone nonostante la piattezza dell’intervistatore Giuseppe Cereda

In seguito Leone racconterà (in questa intervista e altrove) che il ruolo del protagonista lo aveva scritto ispirandosi a un attore televisivo americano protagonista della serie “Gli uomini della prateria”, Clint Eastwood, ma in realtà lui aveva pensato in prima istanza a uno dei due giovani attori che si erano messi in luce in “I magnifici sette”, James Coburn o Charles Bronson; ma la produzione sparagnina gli negò una di quelle nuove star che ora avevano un ingaggio da 25mila dollari e le attenzioni si puntarono sulla star televisiva che si accontentava di 15mila. A dirla tutta i produttori avevano prima proposto Richard Harrison, cachet da 20mila dollari, che in Italia aveva già girato due peplum ma a Sergio Leone l’attore non piaceva, lui che inizialmente aveva puntato nientemeno che a Henry Fonda, tanto da mandare il copione al manager che neanche lo mostrò all’attore scrivendo nella cortese risposta: “Una cosa del genere non l’avrebbe mai fatta”; ma solo pochi anni dopo Fonda lavorò con Leone, che nel frattempo era diventato a sua volta una star, in “C’era una volta il West”. Leone aveva anche preso in considerazione Cliff Robertson ma non ci pensò più quando seppe che sarebbe costato come l’intero film. Così fra rifiuti e costi troppo alti non c’era ancora il protagonista. Si fece avanti un dipendente dell’agenzia William Morris di Roma con la copia di una puntata della serie “Gli uomini della prateria” nella quale recitava, a suo dire: “un attore giovane e allampanato, che poteva forse interessare Leone.” Ma Leone era ancora riluttante e fu spinto alla scelta dalla necessità di cominciare le riprese e dal costo contenuto dell’attore.

I cinque che non furono: Charles Bronson, James Coburn, Richard Harrison, Henry Fonda e Cliff Robertson

Solo dopo il regista dirà in un’intervista americana quello che parzialmente ripeterà nell’intervista Rai: “Ciò che più di ogni altra cosa mi affascinò di Clint, era il modo in cui appariva e la sua indole. Nell’episodio ‘Incident of the Black Sheep’ Clint non parlava molto… ma io notai il modo pigro e rilassato con cui arrivava e, senza sforzo, rubava a Eric Fleming tutte le scene. Quello che traspariva così chiaramente era la sua ‘pigrizia’. Quando lavoravamo insieme lui era come un serpente che passava tutto il tempo a schiacciare pisolini venti metri più in là, avvolto nelle sue spire, addormentato nel retro della macchina. Poi si srotolava, si stirava, si allungava… L’essenza del contrasto che lui era in grado di creare nasceva dalla somma di questo elemento con l’esplosione e la velocità dei colpi di pistola. Così ci costruimmo sopra tutto il suo personaggio, via via che si andava avanti, anche dal punto di vista fisico, facendogli crescere la barba e mettendogli in bocca il cigarillo che in realtà non fumava mai. Quando gli fu offerto il secondo film, ‘Per qualche dollaro in più’, mi disse: ‘Leggerò il copione, verrò a fare il film, ma per favore ti imploro solo una cosa: non mi rimettere in bocca quel sigaro!’ E io gli risposi: ‘Clint, non possiamo tagliare fuori il sigaro. È il protagonista!‘ e la mitizzazione dei fatti è talmente accattivante che verrà ripetuta come una lezione imparata a memoria.

Ma Clint Eastwood che ne pensava? Lui aveva ricevuto la sceneggiatura di “The magnificent stranger”, una produzione italo-ispano-tedesca, e ovviamente non sapeva niente di Leone ma conosceva gli spaghetti-western e riteneva che nessun europeo potesse essere in grado di girare un western: come dargli torto? cosa avremmo pensato noi di un americano che avesse voluto girare un film neorealista? Però, benché tradotta in uno scadente inglese, fu incuriosito dalla sceneggiatura che si ispirava al film del regista giapponese, al cui precedente film si era già ispirato il successone “I magnifici sette” che gli aveva fatto gola.

Clint nella serie tv CBS

L’offerta era pure allettante: la produzione garantiva il viaggio in Europa anche alla moglie, e l’eventuale insuccesso commerciale non gli avrebbe nuociuto perché nessuno avrebbe visto in patria quello strano western il cui protagonista era sì il classico pistolero ma era anche un furbo manipolatore, oltre che un vagabondo sui generis e dunque un personaggio troppo fuori dagli schemi dei classici western per poter essere apprezzato sul mercato americano; dovette solo questionare con la produzione della serie che non voleva lasciarlo andare, ma garantì che a fine riprese sarebbe tornato a girare per la tv e si accordarono; e quando più avanti la rivista Variety riportò lo straordinario successo di quello spaghetti-western lui quasi non ci fece caso, anche perché non conosceva il titolo finale del film; solo quando gli arrivò una lettera dalla produzione per la proposta di un secondo film si rese conto del valore dell’impresa, dato che gli si spiegava che nel box office italiano, il “suo” era il secondo incasso dopo un film col divo Marcello Mastroianni (“Matrimonio all’italiana”) e fece i bagagli in quattro e quattr’otto.

Per cominciare a lavorare alla sceneggiatura, Leone si era procurato una traduzione del copione del film giapponese con l’intento di evitare, racconterà in seguito, che il suo scritto fosse una copia conforme: “Mi feci fare una traduzione del copione solo per essere sicuro di non ripeterne nemmeno una parola. Tutto ciò che volli mantenere fu la struttura di base del film di Kurosawa. Concepii l’intero trattamento in cinque giorni con Duccio Tessari. Il titolo provvisorio era ‘Il magnifico straniero’. Tessari non capiva bene cosa stavo facendo. Fece girare per Roma la voce che ero diventato un po’ strano. Poi scrissi l’adattamento, da solo, in una quindicina di giorni.” Ma il suo amico e aiuto Sergio Corbucci lo smentirà dicendo che Leone aveva copiato il film di Kurosawa per filo e per segno cambiando solo ambientazione e dialoghi. Posizione confermata da Fernando Di Leo, co-sceneggiatore con Duccio Tessari: “Non so chi disse a Leone — o meglio come si sparse la voce — che Yojimbo aveva stilemi western, sicché quando Sergio ci convocò, Tessari e me, si pensò a come fare la trasposizione. Tessari era per dare una robusta vena d’ironia alla storia, io per differenziarci, Leone era decisamente per il plagio: staccarsi di quel tanto che la diversità del genere comportava. Più io che Duccio lavorai in ‘direzione plagio’ e Sergio ebbe il copione che voleva. Va detto che l’originalità di Leone fu nel modo di ‘girare’, della storia s’era proprio invaghito.”

Ma veniamo alla questione legale. Durante la lavorazione del film dalla produzione arrivò la direttiva che chiunque fosse impegnato sul set doveva “astenersi in ogni circostanza dal menzionare la parola Yojimbo.” Cos’era successo? anzi, con non era successo? i diritti del film giapponese non erano ancora stati pagati e lo stesso Eastwood ha poi ricordato che la produzione aveva assicurato che si trattava di una mera questione burocratica che si sarebbe risolta a breve; ma così non fu perché quando il film venne distribuito nelle sale, l’italiana la Jolly Film non aveva ancora pagato i 10mila dollari di diritti alla giapponese Toho Film. Akira Kurosawa intentò causa e nella produzione italiana nessuno volle prendersi la responsabilità: Leone disse che i produttori erano troppo taccagni per pagare il dovuto, e gli fu risposto che lui non aveva avvertito che ci fossero degli oneri da pagare; poi fu sostenuto che la Jolly avesse contattato la Toho senza però ricevere risposta; ma ci fu anche chi sostenne che i produttori volessero incastrare l’autore: “Fece vedere loro ‘La sfida del samurai’ e disse: ‘Se riuscite a ottenere i diritti per un remake, io farò il film’. Beh, loro gli dissero che avevano preso i diritti, ma in realtà non era vero. E lui andò avanti e fece ‘Per un pugno di dollari’. E partì una causa con Kurosawa, che aveva ragione.” Fu così che Sergio Leone ricevette una lettera direttamente da Akira Kurosawa che rivendicava i diritti del film, e l’azione legale ebbe inizio.

A questo punto entrarono in gioco le sottigliezze legali che ben si sposavano con il genio italico sempre incline all’inganno e al raggiro, come il personaggio che avrebbero scelto per difendersi in tribunale. Gli avvocati della Jolly ritennero che la miglior difesa fosse l’attacco e il futuro regista Tonino Valerii, assistente alla regia non accreditato, fu incaricato di cercare una qualsiasi opera antecedente a “Yojimbo” con la quale poter sostenere che anche Kurosawa avesse copiato. Valerii buttò lì una proposta: l’opera di Carlo Goldoni “Arlecchino servitore di due padroni” che presentava, secondo lui, diverse analogie con il film di Kurosawa: “Gli avvocati consigliarono di sostenere che l’eroe doppiogiochista era ispirato a un personaggio di qualche opera letteraria occidentale e che quindi eventualmente il plagiario era Kurosawa. Io fui incaricato di trovare quest’opera. Mi capitò sotto gli occhi l’annuncio di una rappresentazione della commedia di Goldoni. Telefonai a un amico, fortunato proprietario del ‘Dizionario Bompiani delle opere e dei personaggi‘ e gli chiesi di leggermi la trama. Lo stesso pomeriggio portai l’idea in produzione con una punta di vergogna per l’irriverenza dell’accostamento. Fu riferita agli avvocati che ne furono entusiasti. Ebbi trecentomila lire in premio. Fu così che Goldoni divenne l’ispiratore del western all’italiana.” Questa controffensiva modificò leggermente la questione legale e i giapponesi si resero più inclini a un patteggiamento. Kurosawa e il suo co-autore Kikushima sarebbero stati risarciti col totale dei proventi dei diritti di distribuzione del film in Giappone, Taiwan, e Corea del Sud, più il 15% degli incassi di tutto il mondo. Leone rimase molto contrariato, poiché mai pensava che la questione sarebbe finita in tribunale: “Kurosawa aveva tutte le ragioni per fare ciò che ha fatto. È un uomo d’affari e ha fatto più soldi con questa operazione che con tutti i suoi film messi insieme. Lo ammiro molto come regista.” L’intera causa andò avanti per dieci anni e Sergio Leone perse tutta la sua percentuale sui diritti del film per pagare le parcelle dei suoi avvocati, ma imparò la lezione e da quel momento in poi decise che avrebbe prodotto da sé i suoi film.

Il successo ha molti padri. L’iconico personaggio senza nome si presenta con un look che rinnova quello classico del pistolero, a cominciare dal poncho che era noto da noi per essere stato indossato da Giuseppe Garibaldi di ritorno dal Sud America, ma che il personaggio di Leone-Eastwood, mantenuto per tutta la trilogia del dollaro, aveva rinnovato nell’immaginario e nella moda nostrana dove il poncio era indossato soprattutto dagli alternativi e dagli hippy, i figli dei fiori nostrani, ma c’era pure chi se lo faceva all’uncinetto. Leone ha affermato che furono sue le idee per acconciare il personaggio: “Gli diedi un poncho per ingrossarlo. E un cappello. Nessun problema. Presi una di quelle foto in bianco e nero che mi avevano fornito e aggiunsi a penna una barba, un sigaro toscano e un poncho.” Diversamente Clint Eastwood ha ricordato: “Andai in un magazzino di costumi sul Santa Monica Boulevard, e mi limitai ad acquistare il costume e portarlo là. Era molto difficile, perché in un film hai sempre due o tre cappelli dello stesso tipo, due o tre giacche uguali, nel caso si perda un accessorio del costume, o se qualcosa si bagna o tu ti devi bagnare. Ma per questo film avevo solo uno di tutto: un cappello, una specie di abito di montone, un poncho, e diverse paia di calzoni che erano semplicemente jeans tipo Frisco. Se avessi perso qualcosa a metà film sarei stato veramente nei guai.”

Volonté e Eastwood
Mimmo Palmara

Per il secondo ruolo, quello del vilain Ramón Rojo, fu scritturato Gian Maria Volonté che il regista già apprezzava, benché pare che la parte fosse stata scritta con e per l’amico Mimmo Palmara, già nel cast di “Il colosso di Rodi” che però non prese parte al progetto perché al momento era solo una produzione di riserva della Jolly Film la cui produzione principale era “Le pistole non discutono” a cui Palmara scelse di partecipare: un film che oggi non ricorda più nessuno; e Leone per girare il suo film a basso costo dovette accontentarsi di riciclare location, costumi, troupe e anche parte di attori e figuranti del film principale. Il resto del cast è equamente distribuito fra le tre nazioni che producono: per l’Italia ci sono anche i caratteristi Mario Brega, che da qui in poi sarà in tutti i film di Leone, Benito Stefanelli, anche stuntman prenderà parte a tutta la trilogia del dollaro perché parlando molto bene l’inglese sui set sarà l’interprete di Clint Eastwood; Bruno Carotenuto, figlio del più celebre Memmo; Edmondo Tieghi al suo debutto cinematografico.

José Calvo con Eastwood

Per la Spagna il volto noto José Calvo, che come tenutario del saloon nonché “guida turistica per stranieri” ha il ruolo più importante dopo Eastwood e Volonté; Antonio Prieto, anche lui popolarissimo in Spagna pure come cantante; Margarita Lozano al suo primo western, continuerà a lavorare molto in Italia fino in età matura; il belloccio baffuto Daniel Martìn rifà lo stesso ruolo di tanti western spagnoli.

Eastwood con Joseph Egger

Per la Germania: Marianne Koch (nessuna parentela col regista Carl Koch sopra citato) che all’epoca era molto nota in patria tanto da meritarsi il secondo nome nei titoli, ma questo resterà il suo film più importante; Wolfgang Lukschy noto in Germania per essere il doppiatore di John Wayne e Gary Cooper nei western doc; Sieghardt Rupp, già interprete dei western tedeschi; il vecchio Joseph Egger è doppiato da Lauro Gazzolo che fu la voce chioccia di tanti vecchietti del west. E restando sul parlato c’è da dire che il film fu girato senza traccia sonora, praticamente muto, e sul set ognuno parlava la sua lingua in una sorta di babele cui fu data forma al doppiaggio. Clint Eastwood, che nella versione americana si doppiò da sé, fu doppiato da Enrico Mario Salerno, mentre Volonté fu doppiato da Nando Gazzolo figlio di Lauro. Altri doppiatori di rango: Anna Miserocchi per la Lozano, Rita Savagnone per la Koch, Sergio Graziani per Stefanelli, Mario Pisu per Prieto, i fratelli Luigi e Nino Pavese (padre della doppiatrice Paila Pavese) per Calvo e Martìn.

Per la colonna sonora Leone aveva pensato di affidarsi ad Angelo Francesco Lavagnino già compositore della musica per “Il colosso di Rodi” ma la produzione aveva sotto contratto un certo Ennio Morricone che aveva appena musicato il primo western della Jolly Film, “Duello nel Texas”, e benché restio l’autore andò a trovare il musicista a casa, scoprendo che erano stati compagni di scuola alle elementari: il resto è storia, anche se sulle prime ci furono delle frizioni perché Leone chiese a Morricone di ispirarsi al russo Dimitri Tiomkin che aveva musicato “La battaglia di Alamo” film d’esordio da regista di John Wayne, ma il musicista non aveva nessuna intenzione di copiare, anche per una questione di professionalità: “Mi toccò dire a Sergio: ‘Guarda, se vuoi mettere nel film quel lamento, io non voglio averci niente a che fare’. Allora lui mi disse: ‘Okay, tu componi la musica ma fallo in modo che una parte della partitura suoni come il deguello‘. Anche questa soluzione non la vedevo di buon occhio, così presi un mio vecchio tema, una ninna nanna che avevo scritto per un amico, per una versione teatrale di tre drammi di mare di Eugene O’Neill. La ninna nanna era cantata da una delle Peter Sisters… Ciò che lo faceva somigliare era l’esecuzione, con una tromba suonata un po’ alla zingara.” Terminata la composizione delle musiche per le scene principali, Leone pretese un altro pezzo che accompagnasse l’intero film e Morricone gli propose un altro suo vecchio tema musicale, un brano folk americano ispirato a Woody Guthrie in cui voleva far percepire la solitudine e la nostalgia e al primo ascolto del pezzo il regista ne rimase affascinato e disse al compositore: “Hai fatto il film. Vattene in spiaggia. Il tuo lavoro è finito. È questo che voglio. Ora devi solo procurarti qualcuno che sappia fischiare”. E Morricone contattò il maestro Alessandro Alessandroni, abile col fischio tanto da saperlo rendere un vero e proprio strumento – roba che oggi si farebbe solo in digitale; e degna di nota era anche l’armonica a bocca suonata da Franco De Gemini. Questa colonna sonora fu per Morricone il primo successo internazionale con grande vendita di dischi ma lui la ricordò come la peggior colonna sonora che avesse mai scritto per il peggior film di Sergio Leone. Vinse ai Nastri d’Argento mentre Volonté fu candidato come miglior non protagonista.

Nei titoli di testa Sergio Leone si firma come Bob Robertson in omaggio al padre Vincenzo Leone che come attore aveva usato il nome d’arte Roberto Roberti. Ennio Morricone è Leo Nichols e Volonté è John Wells. Fra le altre curiosità: Clint Eastwood ha successivamente affermato che Leone non sapeva nulla del West, e che molte delle sue innovazioni erano dovute proprio all’ignoranza del regista circa le norme vigenti a Hollywood, a cominciare dalle regole del Codice Hays, secondo il quale quando avveniva uno sparo, l’arma e il personaggio ucciso non potevano trovarsi nello stesso fotogramma: “Dovevi girare la scena separatamente, e poi far vedere la persona che cadeva. Si era sempre pensato che fosse un po’ stupido, ma in televisione facevamo sempre in quel modo… Sergio non ne sapeva niente, e quindi metteva tutto insieme… Si vede la pallottola che parte, si vede la pistola che fa fuoco, si vede il tizio che cade, e non era mai stato così prima.” Fra le innovazioni di Leone c’è il frequente uso di primi piani, dettaglio che divenne un suo marchio di fabbrica e per il quale divenne famoso in tutto il mondo; Secondo Leone, gli occhi “rivelavano tutto quello che c’è da sapere sul personaggio: coraggio, paura, incertezza, morte, eccetera.” Mentre Eastwood rifletteva: “Leone credeva, come Fellini, e come molti registi italiani, che la faccia significasse tutto. In molti casi è meglio avere una gran bella faccia piuttosto che un gran bravo attore.”

Negli Stati Uniti il film uscì tre anni dopo, nel 1967, dopo che si furono appianate le questioni legali; e per il passaggio in tv avvenuto nel 1975 ci fu qualche problema di ordine morale nonostante il Codice Hays fosse decaduto: le azioni del protagonista furono ritenute perverse e immotivate e perciò venne girato un prologo trasmesso prima dei titoli di testa, diretto da Monte Hellman, anche lui autore di western atipici, in cui il personaggio di Eastwood, interpretato da un ignoto attore più basso e con un poncho diverso, insieme a primissimi piani riciclati da altre scene del film, si trova in un carcere statunitense; viene portato dal Direttore, Harry Dean Stanton, il quale gli dice che sarà lasciato libero solo se riporterà la pace nel paese di San Miguel entro sessanta giorni, altrimenti verrà ricercato come qualunque altro prigioniero evaso. Lo informa della situazione tra i Rojo e i Baxter e lo avvisa che non potrà contare su aiuti militari o indigeni, in quanto anche queste fazioni commerciano con i banditi, per poi lasciarlo andare in groppa a un cavallo, anziché di un mulo come Leone fa arrivare l’Uomo Senza Nome a San Miguel. La curiosa scena è oggi disponibile come contenuto extra nell’Edizione Speciale in DVD e Blu-ray disc per il mercato statunitense, insieme a un’intervista al regista sulla sua realizzazione. Noi ce ne faremo una ragione.