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Mad Max: Fury Road

2015, esattamente trent’anni dopo il terzo capitolo della saga di Mad Max, arriva il quarto film, e dal punto di vista commerciale la serie cinematografica è ormai diventata anche un franchise e i soldi che girano sono davvero tanti, è una vera e propria rendita. In questo lasso di tempo il suo creatore George Miller ha diretto solo altri cinque film che, tolto il dramma biografico “L’olio di Lorenzo” che ebbe un ottimo riscontro da pubblico e critica con nomination agli Oscar per la sceneggiatura a Miller e alla migliore protagonista Susan Sarandon, sono tutti film di genere fantasy, genere col quale il regista sembra essere più a suo agio, ma in questi “lavoretti per sbarcare il lunario” mancano i veri elementi fondanti della sua visione cinematografica: l’azione e il noir, per non parlare del catastrofico: ha firmato la fiaba per adulti “Le streghe di Eastwick” e la fiaba per bambini “Babe va in città” sequel di un precedente “Babe” con protagonista un maialino, e poi dirige i due cartoon sui pinguini “Happy Feet” che scrive lui stesso e che gli fa guadagnare il suo primo Oscar nella categoria Miglior Film d’Animazione: sono tutti film di successo che divertono il suo lato bambino ma gli manca il lato oscuro di Mad Max, sul quale però all’epoca pensava di aver detto tutto ma al contempo sentiva che quelle storie polverose di sabbia del deserto avevano ancora molto da raccontare.

Come si dice nel gergo cinematografico il suo progetto era finito nel development hell, il girone infernale in cui finiscono tutti i progetti abortiti o congelati e da cui pochi escono per tornare in vita. E qui la narrazione della produzione è a mio parere più interessante del plot del film, che di fatto ricalca la linea dei precedenti: un percorso forzato per il protagonista sempre di poche parole, e azione, violenza, autoscontro, invenzioni visive – con l’aggiunta stavolta di una vera coprotagonista cui affidare le sorti future del franchising: l’Imperatrice Furiosa. Passeranno dieci anni e nel 1995 Miller fu in grado di riacquistare i diritti di Mad Max che aveva perso per i suddetti dissesti finanziari e concretizza l’idea del nuovo film solo nel 1998: “folli predoni che non lottano per la benzina o per il petrolio, ma per degli esseri umani”. Fra un aggiustamento e l’altro la produzione era pronta a partire con la 20th Century Fox nel 2001 ma l’attacco alle Torri Gemelle fece rimandare il progetto.

George Miller con Tom Hardy e Mel Gibson che gli passa il testimone all’anteprima del film

All’epoca il 45enne Mel Gibson si disse subito pronto a rimettersi nei panni di Mad Max ma George Miller non era più convinto: nella sua storia non erano passati gli stessi anni che nella vita reale e il protagonista che aveva in mente non era perciò invecchiato: per lui era tempo, come accadeva per 007, che subentrasse un altro attore; ma la produzione spingeva per avere di nuovo la star e Mel Gibson fu ingaggiato per il quarto capitolo con inizio delle riprese nel 2003. Ma ancora una volta il progetto finì nel development hell allorché scoppiò la guerra in Iraq e parlare di predoni del deserto alla produzione non sembrò più un affare. Dal canto suo l’attore stava facendo i conti con la mezza età che inesorabilmente avanzava e tirava avanti con film di secondo livello, ma soprattutto combattendo i suoi demoni: l’alcolismo, per il quale è stato costretto a curarsi dopo essere stato arrestato per guida in stato di ebbrezza, passando per la denuncia per maltrattamenti conditi di insulti a sfondo razzista e minacce di morte alla sua compagna Oksana Grigorieva: accuse che portarono a una condanna per la quale Gibson patteggiò 3 anni di libertà vigilata; ma si è macchiato anche di insulti antisemiti a un poliziotto nonché di varie dichiarazioni omofobe per finire col ridicolo epiteto col quale si rivolse a un agente di polizia donna: “sugar tits”. Una persona davvero a modo, Mel Gibson.

Intanto, archiviata anche la guerra in Iraq, nel 2006 Miller si disse pronto a riprendere in mano il film, con o senza Gibson dichiarò, con una nuova sceneggiatura nella quale aveva coinvolto il fumettista inglese Brendan McCarthy che aveva anche disegnato nuovi veicoli e personaggi in uno storyboard di 3500 vignette che raccontava un film tutto azione e poche chiacchere, che avrebbe potuto essere compreso anche in Giappone senza sottotitoli, dichiarò Miller parafrasando Alfred Hitchcock. Allorché fu reso noto che Mel Gibson non era più nel progetto fu fatto il nome di Heath Ledger, ma l’attore morì nel 2008: quando è troppo è troppo e l’esasperato George Miller decise a quel punto di cambiare prospettiva e realizzare un film di animazione in 3D estendendolo anche alla piattaforma dei videogiochi, ma durò poco perché l’autore tornò all’idea originale del film in live action, con un po’ di delusione del fumettista McCarthy che non avrebbe più visto i suoi disegni prendere vita. Nel 2009 cominciarono le ricerche delle location, sempre nell’outback australiano e finalmente il film si avviava alla realizzazione sotto l’egida della Warner Bros.

Cominciarono le indiscrezioni riguardo a un ritorno di Mel Gibson ma le chiacchiere caddero tutte quando fu annunciato che l’inglese Tom Hardy (che quando fu girato il primo film della serie aveva due anni) sarebbe stato il nuovo Mad Max: ottenne la parte grazie all’intesa immediata che ebbe con Miller, scintilla che invece non era scoccata allorquando alla lettura del copione era stato prima chiamato Jeremy Renner. Si vociferava anche di un importante ruolo femminile e fra le preferite dell’autore c’era Uma Thurman finché non firmò per il ruolo la sudafricana Charlize Theron che al suo attivo aveva un Oscar 2004 per “Monster”, e sono dettagli che contano nella composizione di un film super milionario. A quel punto si poteva cominciare a girare – anzi no: le desertiche Broken Hill, già set per Mad Max 2, furono improvvisamente inondate da super tempeste come non si vedevano da decenni e il deserto divenne un giardino fiorito, un verdeggiante Eden che di nuovo gettò nello sconforto il già provatissimo Miller.

Ma la produzione – che oltre allo stesso Miller e allo scomparso Byron Kennedy inserito fra i produttori “ad memoriam”, contava anche Doug Mitchell che era nel pacchetto sin dal terzo capitolo della serie e che ha coprodotto tutti gli altri film di Miller, e P. J. Voeten che qui si piazza anche come regista assistente (e prima o poi farà il gran salto e debutterà come regista) – la produzione, dicevo, contava 150 milioni di dollari americani messi sul piatto dalla Warner Bros. attraverso la RatPac Entertainment, e i signori dollari spingevano perché le riprese avessero inizio, pioggia o meno. Un’ambientazione piovosa e il deserto rifiorito avrebbero però vanificato la storia che Miller voleva raccontare dove il cattivissimo di turno, il signore della guerra Immortan Joe, accumula preziosa acqua nella sua Cittadella nel deserto dove accumula anche belle figliole da stuprare e far figliare. Così i produttori, tutti insieme appassionatamente, elaborarono il nuovo piano che ha spostato i set nel deserto della Namibia, il paese più arido dell’Africa sub-sahariana, e questo ha comportato l’immane sforzo di per trasportare i veicoli post-apocalittici che erano già stati costruiti; ma poiché gli americani si erano dichiarati contrari – pensando forse di risolvere con dei modellini e la computer grafica – Mitchell caricò a loro insaputa una nave e solo dopo che essa aveva preso il largo informò i colleghi a stelle e strisce, e lo scenografo Richard Hobbs – che firma con Colin Gibson e Lisa Thompson – ricorda: “Sulla nave c’erano settantadue container pieni di roba, e questo non includeva i veicoli. Questi veicoli non stanno sul retro dei camion, non stanno nei container. Devi costruire box merci personalizzati per spostarli. E una volta che il trasporto ha avuto successo, la troupe ha iniziato ad arrivare nella città di Swakopmund, dove avrebbero risieduto durante le riprese.” E va detto che il design degli automezzi è davvero spettacolare e il concept più sorprendente mi è parso l’auto-istrice.

L’avventura delle riprese può cominciare, ricordando il resto del cast: nel ruolo del cattivissimo torna, invecchiato e mascherato, Hugh Keays-Byrne, che dopo aver fatto sé stesso, ovvero un motociclista delinquente in “Mad Max: interceptor” e altri film, chiude qui la sua carriera: morirà 73enne nel 2020.

Ma il terzo nome, in termini di star-system, è quello del britannico Nicholas Hoult, ex attore bambino che passando per gli X-Men e altri blockbusters è al momento lanciatissimo. Interessante il parterre femminile in cui ritroviamo nel ruolo secondario di una Valchiria la modell’attrice australiana Megan Gale divenuta nota da noi come testimonial di Omnitel-Vodafone e debuttando poi come sé stessa in due cine-panettoni di Neri Parenti; c’è poi il gruppo delle giovani mogli del cattivone che l’Imperatrice Furiosa rapisce e salva, e fra loro quella che ha fatto più carriera è la figlia d’arte Zoë Kravitz (figlia del cantante Lenny Kravitz e dall’attrice Lisa Bonet); le altre sono Rosie Huntington-Whiteley, Riley Keough, Abbey Lee e Courney Eaton.

Nicholas Hoult
La miniserie a fumetti in cinque volumi di Mark Sexton e Nico Lathouris, che funge da prequel del film.

Nel cast tecnico la costumista Norma Moriceau che fu geniale creatrice del mondo tribal-punk di Mad Max firmando i film 2 e 3, al momento della lavorazione era probabilmente malata, morirà l’anno dopo; viene sostituita dalla londinese Jenny Beavan già premio Oscar per “Camera con vista” di James Ivory (1987) e che lo vincerà di nuovo per questo film, e un terzo Oscar lo vincerà nel 2022 per “Crudelia” di Craig Gillespie, reboot con Emma Stone dei film con Glenn Close di fine-inizio millennio. Alla fotografia John Seale al suo debutto con Miller e già premio Oscar per “Il Paziente Inglese” di Anthony Minghella (1997) e al montaggio Margareth Sixel già collaboratrice di Miller per il maialino e i pinguini che stavolta vince l’Oscar. La colonna sonora, tranne i brani dalla “Messa da Requiem” di Giuseppe Verdi, è dell’olandese Junkie XL. Il film è stato un altro clamoroso successo entusiasmando pubblico e critica: in effetti la visionarietà di George Miller, benché non discostandosi dalla narrativa della saga, e questo è un rassicurante continuum, si serve in modo eccellente delle innovazioni tecnologiche e visive che dal 1985 al 2015 sono entrate nel cinema: e tutto un altro bel vedere.

Dunque, oltre agli Oscar per costumi e montaggio, il film ne ha ricevuti altri quattro tecnici: miglior scenografia, migliori trucco e acconciature, miglior sonoro e miglior montaggio sonoro; era anche candidato come miglior film, miglior regista, migliore fotografia e migliori effetti speciali. Fury Road è il primo film della serie a ottenere delle candidature agli Oscar e a vincerne sei su dieci, piazzandosi come più premiato in quell’edizione del 2016 e secondo film con più candidature dietro alle 12 “Revenant – Redivivo” di Alejandro González Iñárritu; ed è anche il film australiano con più statuette in assoluto togliendo il record a “Lezioni di piano” di Jane Campion del 1993 che ne deteneva tre. A questo punto le aspettative per i sequel e prequel e spin-off che Miller ha in mente si fanno sempre più alte: riuscirà a soddisfarle?

Tornando alla lavorazione del film, sul set non andò tutto liscio, e non fu solo per la sabbia che s’infilava dappertutto: i due protagonisti litigarono furiosamente dando voce alla Fury Road. La precisissima Charlize Theron – preparazione da ballerina classica con il senso del dovere e dell’abnegazione – si presentava sul set al minuto esatto della convocazione e vedeva come il fumo negli occhi, o la sabbia nelle mutande per restare in tema, Tom Hardy che invece arrivava quando voleva, addirittura con ore di ritardo: non è professionale e ha ragione lei. Che all’ennesimo ritardo ha perso le staffe gridandogli contro: “Bene! date a quel fottuto stronzo centomila dollari di multa per ogni minuto di ritardo che ha tenuto ferma la troupe! Tu non sai che cosa sia il rispetto!”, e lui le si fece sotto con aria minacciosa: “Che cosa mi hai detto?!”, talmente minaccioso che lei da quel giorno in poi volle accanto a lei la protezione e il sostegno femminile di una figura della produzione. Poi hanno fatto pace per la stampa.

Anche stavolta Miller ha privilegiato l’azione sui dialoghi tanto che Tom Hardy ha in seguito dichiarato la sua difficolta a stare sul set sia per l’isolamento che comportava che per la mancanza di battute del personaggio. E riguardo a questa sua saga George Miller ha dichiarato: “Non sono realmente collegati in modo rigoroso. Ognuno di essi è un nuovo capitolo di una saga su di un personaggio piuttosto archetipico: il vagabondo nella terra desolata, alla fondamentale ricerca di un significato. Si tratta di un personaggio che vediamo soprattutto nei classici western o nelle storie di samurai, con i ronin. Non si può concretamente mettere insieme una cronologia dei film di Mad Max. Non sono mai stati concepiti in questo modo, perché dopo aver realizzato il primo non avevo alcuna intenzione di girarne un secondo. Mad Max 2 è stato in definitiva un tentativo di fare le cose che non ho potuto fare nel primo e così via. Sono tutti film indipendenti in tanti modi diversi.” Per quel che riguarda le uscite è attualmente nelle sale “Furiosa: a Mad Max Saga” che racconta le origini dell’Imperatrice Furiosa con Anya Taylor-Joy nel ruolo da giovane che fu Charlize Theron. E non finisce qui. Anzi sì. Forse no. Chissà.

Mad Max oltre la sfera del tuono

Terzo e ultimo capitolo (relativamente ai successivi trent’anni) della saga fantasy futuristica e distopica di Mad Max con la quale George Miller ha inventato una cultura cinematografica che ha ispirato molti altri autori anche di fumetti e videogiochi. E molto è cambiato dalla prima avventura avventurosamente a basso costo: il secondo capitolo ha definito l’immaginario dell’autore che grazie a un più sostanzioso budget ha potuto giocare tutte le sue carte, che sono la visionarietà di un futuro apocalittico nel quale ha anche potuto schierare un ben più nutrito numero di automobiline modificate da distruggere, e soprattutto i costumi punk di Norma Moriceau che hanno davvero dato la visione di quel mondo, e che qui viene quindi riconfermata.

Norma Moriceau sul set con Mel Gibson

Anche le automobiline con cui giocare diventano ancora più fantasiose ma il plot narrativo è sempre quello: l’eroe solitario, qui non più in cerca di vendetta ma solo della sua propria egoistica sopravvivenza. Con una debolezza di scrittura che nei primi due capitoli era però punto di forza: scarsità dei dialoghi in una storia che racconta solo azione. Perché diciamola tutta: a George Miller interessa solo giocare con le macchinine e la sua capacità narrativa si ferma lì perché non è capace di scrivere dialoghi né tantomeno sviluppare storie più complesse.

Byron Kennedy

Ma in questo terzo capitolo molto cambia a partire dalla produzione: l’amico e sodale di Miller, Byron Kennedy è morto in un incidente col suo elicottero durante la preproduzione del film, e questa tragedia prostra seriamente l’autore tanto che a caldo aveva deciso di abbandonare il progetto. Ma poi, si sa, show must go on, la macchina produttiva era già in corso e molte maestranze erano già al lavoro, senza dire dei fan che attendevano ansiosi l’ulteriore sviluppo: “Ero riluttante ad andare avanti, ma poi c’è stata una sorta di necessità di fare qualcosa, anche solo per superare tutto il trauma e il dolore.” Ma non aveva la testa per concentrarsi sul lavoro e finì col chiedere all’amico attore-regista George Ogilvie col quale aveva lavorato nella miniserie tv “The Dismissal” del 1983, di co-dirigere il film: “Purtroppo non mi ricordo particolarmente quell’esperienza, perché lo facevo principalmente per portare a termine il progetto nonostante il lutto.”

Un altro importante cambiamento è stato quello di dare spazio all’immaginario hollywoodiano, così lontano dai silenzi e dagli spazi estremi dell’outback australiano, inzeppando questo suo terzo film di chiacchiere e di personaggi logorroici insieme a una vena di palese ironia che prima era solo accennata: il risultato è un film in cui si parla troppo, e anche a sproposito considerando che i dialoghi non sono mai stati il forte di Miller, che torna a scrivere col Terry Hayes del secondo capitolo. C’è anche la clamorosa novità di una coprotagonista americana, la cantante Tina Turner che a parte un paio di cameo in due film musicali, aveva interpretato un vero personaggio solo nell’altro musicale “Tommy” di Ken Russell; qui è al suo primo (di due) ruolo interamente recitato, però la cantante piazza due suoi brani nella colonna sonora del film che fu composta da Maurice Jarre, già Oscar per “Lawrence d’Arabia”, “Il Dottor Zivago” e in quel 1985 per “Passaggio in India”. Alla grande, quindi.

Tina Turner, alle sue spalle il Thunderdrome

Ma la narrazione del film è discontinua e sembra di assistere a due film diversi. Nella prima parte ritroviamo Max, cui nel frattempo è cresciuta una parrucca di lunga capelli, che inseguendo il malfattore che gli ruba le sue poche cose va a finire in una città violenta nel bel mezzo del deserto dove dovrà battersi nella bellissima invenzione, questa sì, del Thunderdrome, la sfera del tuono, all’interno della quale dovrà sconfiggere e uccidere, sollecitato dal pubblico che intona “due combattono, uno vive”, il gigante mascherato cattivo che porta sulle spalle un nano che è la sua mente pensante.

Qui la visionarietà di Miller è al suo punto più alto con un’invenzione e una lotta che ancora una volta ispireranno molta cinematografia. Nella seconda parte il film diventa un film per ragazzi: Max va a finire in una comunità di ragazzini in cui tanti hanno voluto riconoscere i ragazzi perduti di Peter Pan, ma forse l’ispirazione primaria è il bambino del precedente capitolo, il Feral Kid assai espressivo e accattivante che però non diceva una parola, e Miller col suo coautore moltiplicano all’infinito quel ragazzino inventando un nuovo mondo di ragazzini selvaggi anch’essi assai ciarlieri, fino allo sfinimento oserei dire; segue una movimentatissima, anch’essa magistralmente costruita, corsa in treno con duelli fra cattivi e meno cattivi in cui ritroviamo tutti i personaggi coinvolti a conclusione della narrazione che rimane disarticolata e confusa. Da allora in poi i fan stanno ancora discutendo su quale sia il miglior film dei tre e la maggior parte, cui io mi iscrivo, indica questo terzo come il meno riuscito: il primo era innovativo benché povero di mezzi, il secondo ha espresso al meglio tutta la potenzialità delle invenzioni della ditta Miller-Kennedy, questo terzo perde originalità e grinta nel suo voler piacere troppo ai bambinoni americani.

Del cast va ricordato che Mel Gibson, che nel frattempo era diventato una star, in quegli anni aveva preso parte ad alcuni bei film: “Gli anni spezzati – Gallipoli” (1981) e “Un anno vissuto pericolosamente” (1982) di Peter Weir; “Il Bounty” (1984) di Roger Donaldson, “Il fiume dell’ira” (1984) di Mark Rydell. Di Tina Turner ho già detto, aggiungendo che il suo prossimo e ultimo ruolo recitato sarà quello della sindaca di Los Angeles in “Last Action Hero” (1993) di John McTiernan con Arnold Schwarzenegger; pochi film a ribadire il fatto che la sua è stata una carriera principalmente musicale. Con “We don’t need another hero” nel film, è stata candidata ai Golden Globe.

Angelo Rossitto

Bruce Spence, che nel secondo capitolo interpretava il “brillante” Capitan Gyro che tenta di raggirare Max che invece lo sottomette, qui interpreta un altro ruolo “brillante” di supporto, il pilota d’aereo Jedediah che lo deruba. Il nano che dirige il corpo gigantesco è Angelo Rossitto, americano nato da immigrati siciliani da Carlentini, Siracusa, attivo al cinema sin dai tempi del muto grazie a John Barrymore che lo volle accanto a sé in “The Beloved Rogue”, 1927 e fu poi anche nel controverso “Freaks” di Tod Browning, e con l’avvento del sonoro Rossitto divenne anche doppiatore; qui, 77enne, è in uno dei suoi ruoli più importanti nonché suo terzultimo film. Altri interpreti nel parterre dei cattivi sono: Frank Thring, George Spartels, Robert Grubb e il rocker Angry Anderson. Fra i ragazzi perduti spiccano gli adolescenti Tom Jennings, Justine Clarke, Rod Zuanic.

Dopo questo terzo e al momento conclusivo film su Mad Max, George Miller andrà a dirigere finalmente a Hollywood la commedia fantasy “Le streghe di Eastwick” (1987) con un cast all star ma che esagerò nel cercare gli effetti in stile cartone animato. Passeranno esattamente trent’anni (e non per sua volontà) prima che torni sul suo Mad Max che rivivrà in “Mad Max: Fury Road” scrivendo un altro importante capitolo della sua saga.

Interceptor – Il guerriero della strada (Mad Max 2)

Alla fine della lavorazione il riscontro più immediato l’ha avuto lo sfasciacarrozze dato il gran numero di veicoli distrutti, col drammatico risvolto che anche diversi stuntmen sono finiti all’ospedale – tanto che George Miller fu definito “il Djaghilev dei derby di demolizione” qui ricordando che Sergej Djaghilev fu un impresario teatrale russo organizzatore di spettacoli di balletti vissuto a cavallo fra l’800 e il 900: dunque la colta definizione fa riferimento al mondo del balletto e alle sue coreografie, implicitamente definendo coreografici i vari inseguimenti fra veicoli con successivi incidenti spettacolari: e in effetti questo sono, e la capacità di Miller di creare quelle scene, coreografia più violenza più impatti distruttivi, è all’epoca un grande novità narrativa che influenzerà tanto cinema, come detto nel precedente capitolo, fino ad arrivare a un’altra saga spettacolare: “Fast & Furious” che in un paio di sequenze del film capostipite copia questo film. Inoltre Steven Spielberg (reduce dal successo di “E.T.”) fu talmente impressionato dalle scene di azione che offrì a Miller la regia di uno degli episodi del film ispirato alla serie fantasy tv “Ai confini della realtà” co-firmato dai due insieme a Joe Dante e John Landis, che sarà per Miller il primo lavoro hollywoodiano.

Ma prima: dopo il milionario successo del primo film creato con poche centinaia di migliaia di dollari ma soprattutto tanta creatività derivata da studio passione e conoscenza, Hollywood offrì a Miller la regia di quello che sarebbe diventato il capostipite di un’altra saga action: “Rambo”; ma l’autore, cui giustamente si ascriveva la rinascita del cinema australiano, volle proseguire per la sua strada che prevedeva un film sul rock & roll di cui poi non se ne fece più niente. A quel punto cominciò a pensare a un sequel di “Interceptor”, tanto più che avendo un budget decuplicato avrebbe potuto creare il mondo distopico che nel suo film di debutto era solo accennato. E poiché era un autore che, benché amando l’azione, era anche di buone letture, per scrivere questo sequel fu ispirato oltre che dalla sua cultura strettamente cinematografica – i western con i selvaggi che inseguono le carovane, il pistolero solitario e taciturno di Sergio Leone, la paranoia per la catastrofe atomica che Stanley Kubrick aveva raccontato in chiave grottesca con “Il Dottor Stranamore” (1964), la cinematografia di Akira Kurosawa che tanto cinema occidentale ha ispirato – c’era la letteratura vera e propria: “1984” di George Orwell che racconta il disfacimento delle regole sociali, e soprattutto i miti greci raccontati e comparati da Joseph Campbell in “L’eroe dai mille volti” che a sua volta rileggeva i miti greci nell’ottica psicanalitica degli archetipi secondo Gustav Jung: roba per palati fini.

A questo retroterra culturale si aggiungono gli ineguagliabili grandi spazi selvaggi australiani che sono gli scenari ideali per un film post-apocalittico. Facendo dei nomi specifici Miller ha dichiarato di ispirarsi a quelli che ha definito “registi del montaggio”: “Hitchcock, Carol Reed, Howard Hawks. Quelli che hanno montato i film nella loro testa prima ancora che il film venisse girato.” Sul suo lavoro ha poi detto: “Certamente non vorrei che questo film venisse visto solo come pura fantasia d’evasione. È anche tutto questo, certo, ma un film che ti stimola solo a livello emotivo di base non è molto efficace. Questo è un racconto mitologico in cui Max intraprende un viaggio durante il quale impara alcune cose su sé stesso. Puoi paragonarlo a un western – sono cresciuto con questi film e sono molto importanti per me – ma penso che questo tipo di storia venga raccontata più volte in molte culture. ‘Road Warrior’ è un ibrido: in parte Hollywood, in parte samurai, in parte film d’arte europeo.”

Sia come sia George Miller girò il suo sequel con molti più soldi, molte più macchinine da distruggere che ridisegnate in modo assai eccentrico saranno molto copiate per il mercato, un autotreno e addirittura un piccolo elicottero. Si arricchì anche la parte visiva decisamente punk con i costumi di Norma Moriceau che sdoganò nella cultura di massa i sottogeneri cyberpunk e dieselpunk, con il make-up in linea di Lesley Vanderwalt. Terry Hayes era entrato come co-sceneggiatore e co-produttore mentre Brian Hannant si aggiunse come co-sceneggiatore e regista della seconda unità; il socio iniziale di Miller, Byron Kennedy, era rimasto a capo del processo produttivo di questo film che inaugurerà il ritorno al passato, a un barbarico medioevo futuribile, e se rivedendolo oggi la sua carica innovativa non ci stupisce più è proprio perché è stato molto molto copiato.

La grande esplosione della raffineria fu la più grande esplosione cinematografica mai realizzata fino a quel momento in Australia.

Ancora una volta la trama è semplice e i dialoghi scarni: come nei western l’eroe solitario che tutto ha perduto si schiera dalla parte dei più deboli, non per altruismo ma per interesse personale: per lui non esiste il dualismo bene-male ma solo la sua personale sopravvivenza. E l’oggetto del contendere non sono le terre né l’oro del vecchio west ma il carburante di cui si nutrono le cattivissime automobili. Contrariamente al primo capitolo, che era già innovativo ma del tutto sviluppato per mancanza di fondi, questo sequel fu osannato dalla critica internazionale che lo definì uno dei migliori film di quell’anno, il 1981. E che film uscirono quell’anno? A cominciare da “1997: Fuga da New York” di John Carpenter direttamente ispirato da Mad Max ci furono “I Predatori dell’Arca Perduta” di Steven Spielberg, gli sportivi “Fuga per la Vittoria” di John Huston e “Momenti di Gloria” di Hugh Hudson, e i melodrammi “Il postino suona sempre due volte” di Bob Rafelson e “Ufficiale e Gentiluomo” di Taylor Hackford. E fra gli italiani, giusto per curiosità casalinga: “Ricomincio da tre” di Massimo Troisi, “Il Marchese del Grillo” di Mauro Monicelli e “Fracchia, la belva umana” di Neri Parenti.

Il cast. Mel Gibson torna come protagonista mostrando ora sulla tempia sinistra una ciocca grigio-bionda: un vezzo del make-up. E come detto parla pochissimo: dice solo 16 le battute, che poi sarebbero 15 se si considera che “Sono venuto solo per la benzina” la ripete due volte. A fargli da spalla comica molto più loquace – un espediente narrativo molto in linea con i buddy-buddy movies dove accanto al duro c’è sempre un clown – c’è il neozelandese Bruce Spence che tornerà con un diverso personaggio nel prossimo sequel. L’accampamento dei buoni è capitanato da Pappagallo, proprio in italiano, interpretato dall’inglese Michael Preston ex pugile poi cantante e poi attore tv; gli sono accanto come sexy guerriere Virginia Hey, già modella e attrice di pubblicità qui al suo debutto cinematografico se si escludono minuscole partecipazioni, e Arkie Whiteley.

Bruce Spence

C’è poi l’azzeccatissimo personaggino di Feral Kid, anch’egli silenzioso, il ragazzino selvaggio interpretato da Emil Minty che farà altri tre film e poi abbandonerà il cinema: oggi è un gioielliere. Solo a fine film scopriremo che l’anziana voce narrante che all’inizio introduce la narrazione è il suo personaggio da vecchio. Nel doppiaggio italiano è il veterano Mario Mìlita più popolare come voce del nonno Simpson.

Vernon Wells

Il capo dei cattivissimi è il sempre mascherato perché sfigurato Lord Humungus, interpretato dal culturista svedese Kjell Nilsson che reciterà solo in altri due film. L’altro bisteccone cattivissimo con cresta è l’attore Vernon Wells che rifarà la parodia dello stesso personaggio nella commedia americana per adolescenti “La donna esplosiva” di John Hughes, e che oltre a essere un interprete cine-televisivo è anche un doppiatore.

Insieme a Max torna anche il suo cane che non è lo stesso cane del primo film: è stato scelto in un canile della zona e addestrato appositamente per il film, e siccome era un trovatello senza nome la troupe lo chiamò semplicemente Dog; il quale però aveva un problema: non sopportava i rombi dei motori, gli facevano troppa paura, e per manifestare il suo disagio per un paio di volte liberò lo sfintere nell’Interceptor di Max: e ben fece perché così gli procurarono dei tappi per le orecchie fatti su misura. Spoiler: nel film Dog viene ammazzato dai punkabbestia ma una volta finite le riprese venne adottato da uno della troupe tecnica. Altra curiosità: l’outback australiano rendeva alla perfezione la desolazione postatomica, unitamente al fatto che è una zona in cui piove pochissimo durante l’anno: senonché durante le riprese, dopo quattro anni senza una goccia di pioggia, venne giù un acquazzone che bloccò i lavori per più di una settimana.

Questo secondo capitolo di Mad Max si aggiudicò numerose candidature e fra i premi ottenne la miglior regia all’AFI Award, Australian Film Institute Award che dopo il 2012 è diventato AACTA Award, Australian Academy of Cinema and Television Arts Award. Miglior film straniero (o internazionale) al Los Angeles Film Critics Association Award, al Festival del Film Fantastico di Avoriaz e al Saturn Award, premio specialistico per il fantasy e l’horror. Prossimo appuntamento “Mad Max oltre la sfera del tuono” che ha rischiato di non essere realizzato a causa di un drammatico incidente.

Mad Max: Interceptor – opera prima di George Miller

Questo film del 1979 è l’inizio di una trilogia che appassionerà il mondo intero, cui si aggiungerà un tardivo quarto capitolo “Mad Max: Fury Road” nel 2015 e un quinto è in uscita nell’estate 2024 col titolo “Furiosa: A Mad Max Saga”. È l’opera prima di George Miller, regista che in seguito pur mantenendosi fedele a stile e tematiche non mancherà di misurarsi anche con altri generi. È anche erroneamente indicato come il debutto di Mel Gibson che però era avvenuto un paio d’anni prima con “Summer City – Un’estate di fuoco” dopo tanti piccoli ruoli nella tv australiana, poiché protagonisti e film vengono tutti da lì: periferia estrema delle produzioni cinematografiche che nei decenni successivi ha dato molte star al cinema internazionale: in fondo all’articolo la lista dei nomi.

Ma come cinematografia specifica quella australiana faticherà sempre a decollare nonostante le molte eccellenti produzioni che verranno. È nel 1978 che si registrò l’anno di svolta per un’industria cinematografica ancora inesistente con ben 13 film piazzati al Festival di Cannes (rimando all’ultimo paragrafo chi volesse approfondire i titoli e i nomi di Cannes ’78) e possiamo affermare che la cinematografia australiana arriva per la prima volta al mondo intero grazie a questo film del 1979, il primo di una saga che viene definita post-apocalittica fantascientifica e distopica ma che effettivamente in questo debutto a bassissimo costo c’è ancora ben poco di quello che verrà. Ma andiamo con ordine partendo dall’autore debuttante.

Byron Kennedy e George Miller al missaggio del sonoro del film

George Miller si è appassionato al cinema mentre ancora studiava medicina e risalgono a quel periodo i suoi primi esperimenti: durante il suo ultimo anno all’Università del Nuovo Galles del Sud realizza insieme a uno dei suoi fratelli un cortometraggio di un minuto che vince il primo premo di un concorso studentesco, e il premio era un corso di cinema all’Università di Melbourne dove conosce Byron Kennedy, insieme al quale gira il corto “Violence in cinema: part 1” molto splatter e molto satirico sulla violenza nei film che ottenne consensi anche fuori dall’Australia e questo spinse i due a creare una propria casa di produzioni, la “Kennedy Miller” con la quale si avvieranno verso questo progetto: insieme scrivono la sceneggiatura ispirati dal film australiano “Stone” di Sandy Harbutt del 1974 che raccontava le gang di motociclisti che terrorizzavano gli isolati abitanti dell’outback e che aveva nel cast molti di quegli stessi criminali.

All’inizio del film una scritta ci avverte: “Few years from now…” a pochi anni da adesso, un futuro assai prossimo e senza effetti speciali: c’era la fantasia ma non c’erano i soldi e il grosso dello sforzo produttivo è andato nella realizzazione delle auto che insieme alle motociclette creano spettacolari scene d’azione su strada che sono l’hard-core del film – che oggi va visto come documento di quell’epoca: un ipotetico futuro che per noi è già vintage.

la V8 Interceptor

Maxwell Rockatansky, che poi si meritò l’appellativo di Mad Max, è un poliziotto che guida una V8 Interceptor per la realizzazione della quale sin dal 1976 durante la fase di pre-produzione, George Miller, consapevole che l’automobile sarebbe stata insieme agli attori una protagonista del suo film d’azione, incaricò lo scenografo Jon Dowding di realizzare una vettura che fosse “nera australiana e cattiva”; l’attenzione andò subito a un’auto di costruzione esclusivamente australiana, la Ford Falcon XB GT Coupé prodotta in un numero esiguo e che oggi è un rarissimo esemplare da collezione; e Dowding incaricò una società di personalizzazione di auto per modificarla; lì Peter Arcadipane, Ray Beckerley e John Evans, con il decoratore di carrozzerie Rod Smithe, hanno trasformato l’auto secondo le esigenze cinematografiche.

Fra le altre variazioni di vetture c’è una versione di side-car con la seduta laterale coperta da una mezza sfera che gli conferisce un aspetto un po’ spaziale: la saga di “Star Wars” era cominciata nel ’77 e aveva già cominciato a influenzare l’immaginario collettivo. Mentre le motociclette usate dalla gang sono delle Kawasaki che la produzione era riuscita a ottenere in dono assicurando un rientro in pubblicità, come fu, e che sono state appositamente scenografate da una ditta specializzata che sfortunatamente fallì subito dopo l’uscita del film, mentre un’altra azienda giapponese, dato il successo delle Kawasaki modificate, ne ha ricreato delle copie per il mercato dei collezionisti fino ai primi anni 2000.

James Healey

Era il momento di comporre il cast. Miller avrebbe voluto un noto attore americano per garantire al film più ampia visibilità e andò anche a Hollywood per prendere contatti, ma resosi conto che l’attore da solo gli sarebbe costato l’intero budget tornò a Melbourne deciso a scritturare giovani sconosciuti a basso costo. La prima scelta fu l’irlandese lì trasferito con la famiglia James Healey che aveva già avuto dei ruoli in una serie tv ma che al momento lavorava in un macello aspettando di debuttare sul grande schermo: quale migliore occasione? ma l’attore lesse la sceneggiatura e rifiutò la parte perché la trovò “poco accattivante” e soprattutto il personaggio parlava poco mentre lui si riteneva un grande interprete: finirà col recitare sempre in soap opera come “Dinasty” e “Santa Barbara”.

Mel Gibson e Steve Bisley

A quel punto entra in scena Mel Gibson con la classica narrazione dell’amico che accompagna un amico e ottiene la parte al posto suo. La produzione si era rivolta agli insegnanti del NIDA, National Institute od Dramatic Art, specificando che cercavano dei giovani “con i capelli a punta”: era esplosa l’epoca punk; si presentò Steve Bisley accompagnato da Mel: entrambi avevano debuttato in “Summer City” ed entrambi furono scritturati ma Steve, da buon amico, ebbe il ruolo del buon amico. Gibson accettò un contratto secondo cui sarebbe stato pagato solo dopo l’uscita, e la buona riuscita, del film: fu lungimirante, al contrario di James Healey. Ma se Gibson divenne una star internazionale il suo amico Bisley si è mantenuto fermo su una carriera di tutto rispetto anche se in secondo piano. Nel ruolo della moglie del protagonista Joanna Samuel che resterà un’attrice di genere australiana.

Hugh Keays-Byrne

Più interessante il casting della banda di motociclisti: la maggior parte furono scritturati fra i veri fuorilegge che sulle moto battevano le superstrade australiane, appartenenti al clan dei Vigilanties e tre di essi, Hugh Keays-Byrne, Roger Ward e Vincent Gil avevano già recitato, come detto, in “Stone”. Il primo è qui nel ruolo del capobanda Toecutter, il tagliaditadeipiedi, e nel cinema troverà il suo futuro fino a concludere la sua carriera nel sequel di Mad Max del 2015. Ma intanto, data la scarsezza dei mezzi produttivi tutti la banda si era spostata a proprie spese da Sydney a Melbourne: cosa non si fa per l’arte.

Come sappiamo il film fu un clamoroso successo internazionale ma con un sostanziale distinguo: il film che era costato fra i 200mila e i 400mila dollari australiani (fonti diverse danno cifre diverse) incassò in patria più di 5 milioni raggiungendo in poco tempo il record mondiale di 100 milioni entrando nel Guinness dei Primati come il miglior film col minor costo e il maggior incasso, superato solo vent’anni dopo nel 1999 da “The Blair Witch Project”; ma per le manipolazioni subite l’unico Paese in cui il film non ebbe successo furono proprio gli Stati Uniti d’America. Vinse tre premi tecnici all’Australian Film Institute Awards per montaggio, sonoro e colonna sonora firmata da Brian May, compositore che aveva debuttato al cinema l’anno prima col B movie “Patrick” che ebbe un curioso sequel: avendo avuto successo nelle sale italiane, il regista di B movie italiani Mario Landi ne firmò un sequel apocrifo col titolo “Patrick vive ancora” in una deriva sexy come suggerisce la presenza di Carmen Russo nel cast. Tornando al film: vinse anche il premio speciale della giuria al Festival internazionale del film fantastico di Avoriaz.

Visto oggi il film, senza conoscerne il contesto, è un filmetto che sente il peso degli anni ed è davvero il documento di un’epoca e lo specchio di chi lo ha portato al successo, e va visto come il capostipite di una saga che ha avuto ben altro spessore. In ogni caso, dato il suo clamoroso successo che ha portato la cinematografia australiana nel mondo, esso è ancora oggi celebrato sul continente con feste e parate, tributi e anche ritrovi. Con i suoi sequel Mad Max è diventato un fenomeno culturale e con il suo futurismo distopico e apocalittico ha ispirato film come “1997: Fuga da New York” (John Carpenter 1981), la saga di “Terminator” (James Cameron 1984), “The Hitcher” e “I banditi della strada” (Robert Harmon, 1986 e 2004), oltre ai videogiochi “Fallout” e al manga “Ken il Guerriero”. Il prossimo capitolo “Interceptor – Il guerriero della strada” porterà la narrazione a un livello decisamente superiore… e da qui in poi non si parla più del film.

Richiami e rimandi bikexploitation

Vale la pena ricordare che inserendosi di diritto nel filone dei film con motociclette e motociclisti si può addirittura cominciare dal cinema muto che Miller ha detto di amare con “Lo spaventapasseri” dove Buster Keaton cavalca un sidecar Harley Davidson.

Un altro caposaldo è “Il selvaggio” con Marlon Brando che cavalcava una Triumph Thunderbird 6T del 1950, film diretto da Laszlo Benedek nel 1954 che è considerato un capostipite del genere bikexploitation che è esploso a metà degli anni ’60, e fra i film più noti c’è “I selvaggi” del 1966 che è considerato uno dei più grossi successi commerciali di Roger Corman: con un budget stimato di soli 360.000 dollari, il film ne incassò, solo negli Stati Uniti, circa 14 milioni; anche Corman, come Miller più di un decennio dopo, scritturò come comparse alcuni Hell’s Angels che però durante le riprese crearono non pochi problemi alla troupe. Sempre incentrato su quei terribili Hell’s Angels ci fu l’anno dopo “Angeli dell’inferno sulle ruote” di Richard Rush con Jack Nicholson in uno dei suoi primi ruoli da protagonista.

Si arriva al 1969 con un film che resterà nella storia: “Easy Rider” di e con Dennis Hopper, Peter Fonda e ancora Nicholson, un film il cui merito è andare oltre le narrazioni più o meno fuorilegge dei motociclisti, che al contrario qui sono degli innocui pacifisti che raccontano l’avanzata della contro cultura americana, la contestazione giovanile e l’antimilitarismo; il titolo viene da “Easy Life” che fu il titolo americano per il nostro “Il sorpasso” di Dino Risi a cui il film si ispira. E restando in Italia voglio ricordare la Moto Guzzi “Falcone Sport” che Alberto Sordi cavalca in “Il vigile” di Luigi Zampa del 1960.

Un po’ di star internazionali provenienti dal nuovo continente

In elenco Judy Davis, Cate Blanchett, Nicole Kidman con la sua amica Naomi Watts, Margot Robbie e Toni Collette fra le attrici; fra gli attori Hugh Jackman, Jason Clarke, Joel Edgerton, Guy Pearce, Geoffrey Rush, i fratelli Chris e Liam Hemsworth, il compianto Heath Ledger e Russell Crowe e Sam Neill che per correttezza sono neozelandesi; come neozelandese è Jane Campion fra i registi, con gli australiani Peter Weir, Phillip Noyce e Gillian Armstrong che proprio lo stesso anno di questo film firmò il più artistico “La mia brillante carriera” con Judy Davis che andò a vincere il BAFTA nel Regno Unito e Sam Neill che da lì in poi ha sviluppato una sua brillantissima carriera.

Approfondimento sul Festival di Cannes del 1978

Fra i titoli australiani vanno ricordati “The Chant of Jimmie Blacksmith” di Fred Schepisi e “Il sapore della saggezza” di Bruce Beresford. Quell’anno c’erano in concorso e fuori concorso molti grandi sui quali è interessante dare un’occhiata: “L’albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi che vinse la Palma d’Oro e che si aggiudicò anche in ex aequo con “La spirale” di Krzystof Zanussi il Premio Ecumenico, mentre il Grand Prix Speciale della Giuria è stato assegnato ex-aequo a “Ciao maschio” di Marco Ferreri e “L’australiano” (che non è un film australiano ma è il titolo italiano per “The Shout”) del polacco Jerzy Skolimowski con produzione britannica; altro ex aequo per la migliore attrice a Jill Clayburgh per “Una donna tutta sola” di Paul Mazursky e Isabelle Huppert per “Violette Nozière” di Claude Chabrol; miglior attore Jon Voight per “Tornando a casa” di Hal Ashby; miglior regista Nagisa Ōshima per “L’impero della passione”; Gran Prix tecnico a “Pretty Baby” del francese Louis Malle che si era spostato negli Stati Uniti perché legatosi a Susan Sarandon protagonista di questo suo primo film americano; e per finire il premio FIPRESCI a “L’uomo di marmo” di Andrzej Wajda. Ma erano presenti anche titoli come il grandioso “Molière” di Ariane Mnouchkine, “Ecce Bombo” di Nanni Moretti, “Fuga di mezzanotte” di Alan Parker, “L’ultimo valzer” di Martin Scorsese, “Nel regno di Napoli” di Werner Schroeter. Non c’è da stupirsi se in questo contesto gli australiani venissero considerati degli alieni.