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Dune 2021 – remake o reboot?

Adesso è di moda chiamarli reboot, riavvio, una volta erano semplicemente remake, rifacimento. A voler essere pignoli questo è il rifacimento del film del 1984 che non ebbe sequel, mentre per reboot si intende il riavvio di un’intera saga o serie, come è successo con lo 007 di “Casino Royale” interpretato da Daniel Craig, o “Terminator Genisys” che riavvia la serie di nuovo sotto il controllo di James Cameron, al quale era stato scippato.

Questo remake, che il titolo originale specifica “Dune: Part One” e già sappiamo che è in lavorazione la Parte Due, porta sullo schermo la prima parte del primo dei sei libri scritti da Frank Herbert; nelle intenzioni del regista c’è una trilogia la cui terza parte sarà il secondo volume del Ciclo di Dune. Per gli altri quattro volumi: chi vivrà vedrà.

Nel film c’è di buono che concedendo alla storia lo spazio necessario, risulta comprensibile rispetto al precedente, e ci vuole poco: i rapporti fra i personaggi e fra i diversi popoli sono finalmente chiari, e il problema del mentalismo degli Atreides è risolto brillantemente e semplicemente: leggiamo in sovrimpressione quello che si dicono, come generalmente succede quando in un film si parlano altre lingue o linguaggi, e l’espediente è davvero ridotto al minimo, con la brillante intuizione – dato che il cinema è arte visiva – di accompagnare il pensiero-dialogo con alcuni gesti che imitano il linguaggio dei segni per non udenti. Altra brillante soluzione narrativa è il libro-racconto (un video documentario tridimensionale) che il protagonista consulta per informarsi, come noi oggi facciamo googlando, e per informare noi del pubblico senza ricorrere a quelli che in gergo vengono chiamati spiegoni.

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Altre cose saltano subito all’occhio, a cominciare dal protagonista Timothée Chalamet che ha la stessa età che aveva Kyle MacLachlan; ma mentre nel “Dune” del 1984 l’attore 25enne aveva già l’aspetto di un uomo fatto, e il personaggio risultava sperduto nel senso di confuso (colpa della sceneggiatura e dei tagli al film), oggi Paul Atreides ha il giusto aspetto di un ragazzo, confuso perché alla ricerca della sua identità, in ciò che è sempre il classico percorso di formazione di tutti gli eroi: tormentato e puro di cuore laddove il Paul del 1984 appariva a tratti anche troppo compiaciuto di fare l’eroe.

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Salta subito all’occhio anche il cast multi etnico che risponde agli imperativi delle produzioni anglo-americane e che nel 1984 non esisteva, erano tutti visi pallidi; e poi l’assenza di personaggi chiave del primo film: l’Imperatore, la Principessa sua figlia e il nipote punk del Barone Harkonnen; ma nel racconto ne entrano altri. Le scenografie sontuose sfarzose colorate e luminose sono state sostituite da ampi spazi vuoti, grandi scalinate grige e vuote pareti decorate a rilievo, sempre in ombra, in penombra, al buio, coi personaggi in controluce e soffusi nella foschia, in un vedo-non-vedo assai intrigante che crea atmosfere cupe, opera di Patrice Vermette.

Ché di fondo il film è questo; una cupa vicenda tragica dove illustri famiglie si combattono, anziché da un regno a un altro sulla stessa terra – da un pianeta a un altro; ma i sentimenti sono sempre quelli, mossi dalla voglia di potere, e gli intrighi sono sempre gli stessi, dalle tragedie shakespeariane in poi; Frank Herbert vi ha aggiunto un eroe cristologico al centro di una religione new age, con tanto di reverende madri, anch’essa derivata da un miscuglio di filosofie più o meno religiose che ben conosciamo: il genio dell’autore, come quello di Dan Brown con i suoi thriller a sfondo religioso-iniziatico, sta nella capacità di raccogliere polverosi spunti e più o meno nascosti dettagli della nostra cultura filosofico-religiosa e riscriverli creando una nuova narrativa avvincente.

Che nel caso di Dune è la debolezza del film. Dune, come Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien, è un mondo a sé, ricco di altri mondi ulteriori, popoli, tradizioni, linguaggi. Bene ha fatto, e il successo lo dimostra, il regista Peter Jackson che ha lavorato in contemporanea a tre film per raccontare l’intera vicenda – benché ampiamente e necessariamente scremata. Questo “Dune” è assai fedele al romanzo ma nel raccontarne cinematograficamente le complesse vicende, territoriali e umane, è appesantito da un andamento lento dove anche le battaglie appaiono come affreschi pittorici in movimento e che non conferiscono ritmo al film, che dura 2 ore e mezza e sono ore che si sentono; a differenza, tanto per dire, delle 4 ore di “Zach Snyder’s Justice League” che forte del successo si è anche tolto lo sfizio di fare uscire il film anche in bianco e nero. Il film risulta dunque un fantasy più adatto agli adulti (non anagraficamente ma culturalmente parlando) che agli adolescenti (di ogni età) educati a videogiochi e blockbusters; ha la solennità di certi racconti bergmaniani conditi da effetti speciali. E soprattutto mancano divagazioni e personaggi accattivanti: il romanzo (che non ho letto) è serio, anche l’autore è serio, e ora il regista si prende sul serio.

Il canadese Denis Villeneuve, che co-scrive la sceneggiatura con Eric Roth, Oscar per “Forrest Gump” e Jon Spaihts specializzato in prequel (Alien) e reboot (La Mummia), sa di essere un autore con la a più o meno maiuscola e non lo nasconde; è abituato a ricevere premi e menzioni sin dagli esordi con film drammatici-esistenzialisti che guardano anche alla realtà della cronaca; poi accede alle produzioni con star americane e si da ai thriller-noir – ma l’eclettismo non è un peccato, anzi; con “Arrival” sbarca come gli alieni del film nella cinematografia sci-fi e si conquista un posto in prima fila: è pronto per il remake del capolavoro di Ridley Scott “Blade Runner” e questo la dice lunga: pensare di fare meglio e/o di rinnovarne l’immaginario è un grande esercizio di autostima; “Blade Runner 2049” fu un successo malgrado fosse un film sbagliato, con errori, e in definitiva inutile; ma il successo commerciale non guarda i peli nell’uovo e Villeneuve si accaparrò un posto nell’olimpo dei migliori in quel campo, dunque quando si presenta l’opportunità di ritentare con Dune, la bestia nera che tante vittime ha lasciato sul suo cammino, perché no? anzi!

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A Timothée Chalamet, americano con cittadinanza francese, fanno da contorno star di prima e seconda grandezza. La svedese (di madre inglese) Rebecca Ferguson, volto non noto al grande pubblico che si è messa in luce nella tv britannica, interpreta la madre di Paul Atreides, mentre il padre è interpretato dal guatemalteco-americano Oscar Isaac, un nome che è già una garanzia dalle parti di Hollywood. Josh Brolin raccoglie l’eredità di Patrick Stewart nel ruolo di maestro delle armi di Casa Atreides, e l’ex wrestler Dave Bautista, che era già con Villeneuve in “Blade Runner 2049”, interpreta La Bestia, nipote del Barone Harkonnen qui interpretato dall’irriconoscibile svedese star del cinema internazionale Stellan Skarsgård. Charlotte Rampling è la Reverenda Madre e la star dei teenager Zendaya nel ruolo della Freman Chani si avvia a fare coppia col protagonista, divenendo protagonista a sua volta della parte seconda in lavorazione. Jason “Aquaman” Momoa è il buono Duncan Idaho e lo spagnolo Premio Oscar Javier Bardem è capo tribù dei Fremen (cui manca una e per essere freemen, uomini liberi) il popolo del pianeta Arrakis che loro chiamano appunto Dune e che qui sono raccontati e abbigliati proprio come dei beduini del deserto africano. Attenzione all’etnicità anche nella scelta dell’interprete del personaggio del Dottor Yueh che nel 1984 era interpretato da Dean Stockwell e qui invece, seguendo il nome, dal taiwanese Chang Chen. Stephen McKinley Henderson raccoglie il testimone dal lynchiano Freddie Jones nel ruolo del mentat (mentalista) mentre l’ambiguo Piter DeVries che interpretava Brad Dourif qui è David Dastmalchian, attore poco noto anche lui già col regista in “Blade Runner 2049”.

Oltre al sequel già in lavorazione stanno ragionando su un prequel in forma di serie tv per Fox, “Dune: the Sisterhood” la sorellanza, che racconterebbe le Venerande Madri, che dai nemici vengono chiamate streghe, e il loro mondo esoterico-iniziatico. Scritta da Jon Spaihts, dovrebbe essere interpretata da Rebecca Ferguson mentre la prima puntata pilota dovrebbe essere diretta dallo stesso Denis Villeneuve che però ha dichiarato che al momento il progetto è in una fase di grande fragilità, un modo poetico per dire che è in stallo. Sopravviveremo anche a questo.