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CODA, I segni del cuore – tre Oscar buttati via

Remake del francese “La Famiglia Bélier” del 2014, trasvolando l’Atlantico subisce il necessario adattamento restando nell’impianto identico all’originale: una ragazza adolescente, unica normodotata in una famiglia di sordomuti – padre madre e fratello – per ironia della sorte canta come un usignolo e vuole seguire il suo sogno e spiccare il volo. Ma la poverina è intrappolata essendo l’unica a poter fare da traduttrice fra la sua famiglia e il mondo esterno, oltre a dover fare i conti con le naturali palpitazioni amorose per il belloccio di turno che guarda caso è canterino pure lui. E come l’originale francese è un film così delizioso ma anche così spalmato di buoni sentimenti senza se e senza ma, da farmi salire i trigliceridi.

Nella ruolo della mater familias la mater familias dei sordomuti hollywoodiani Marlee Matlin che debuttando nel 1986 in “Figli di un Dio Minore” vinse l’Oscar e da lì in poi si è ritagliata una carriera di lusso fra cinema e tv. Protagonista è la londinese Emilia Jones e il giovanotto con cui duetta è l’irlandese Ferdia Walsh-Peelo, mentre il fratello è Daniel Durant al suo debutto cinematografico. Troy Kotsur, il pater familias, è uno dei più importanti esponenti nel mondo dei sordomuti dello spettacolo statunitense e, a sorpresa ma neanche tanto (aveva già incassato altri importanti premi) vince l’Oscar 2022 come Migliore Non Protagonista, e la mia sensazione è che il premio sia un riconoscimento alla comunità perché, anche se bravo è bravo, premiarlo con l’Oscar mi pare davvero un’esagerazione: negli USA hanno un servile rispetto per ogni minoranza e fanno un uso così smoderato del politically correct da diventare a volte razzisti all’incontrario. È davvero un’esagerazione anche l’Oscar alla migliore sceneggiatura non originale alla sconosciuta Sian Heder qui al suo secondo film che si porta via, davvero a gran sorpresa da vero outsider, l’Oscar come Miglior Film. Ed è davvero troppo perché è un film, come l’originale, molto grazioso e molto furbo, che evidentemente ha messo nel sacco i membri dell’Academy. Con un difetto di fabbricazione: nell’originale francese gli attori che interpretano i sordomuti sono dei normodotati che danno un’eccellente totale interpretazione da fare impallidire le graziose ma ordinarie interpretazioni dei veri sordomuti americani. Americani che alla notte degli Oscar, ricevendo cotanti premi, si sono ben guardati dallo spendere una sola parole per l’originale francese che hanno copiato, copiato arrivando a una striminzita sufficienza, che l’ignoranza pervasiva degli americani verso il cinema europeo ha fatto gridare al miracolo.

L’acronico CODA nel titolo sta per Child Of Deaf Adult(s) ovvero figlio/a di adulto/i sordo/i.

Dune 2021 – remake o reboot?

Adesso è di moda chiamarli reboot, riavvio, una volta erano semplicemente remake, rifacimento. A voler essere pignoli questo è il rifacimento del film del 1984 che non ebbe sequel, mentre per reboot si intende il riavvio di un’intera saga o serie, come è successo con lo 007 di “Casino Royale” interpretato da Daniel Craig, o “Terminator Genisys” che riavvia la serie di nuovo sotto il controllo di James Cameron, al quale era stato scippato.

Questo remake, che il titolo originale specifica “Dune: Part One” e già sappiamo che è in lavorazione la Parte Due, porta sullo schermo la prima parte del primo dei sei libri scritti da Frank Herbert; nelle intenzioni del regista c’è una trilogia la cui terza parte sarà il secondo volume del Ciclo di Dune. Per gli altri quattro volumi: chi vivrà vedrà.

Nel film c’è di buono che concedendo alla storia lo spazio necessario, risulta comprensibile rispetto al precedente, e ci vuole poco: i rapporti fra i personaggi e fra i diversi popoli sono finalmente chiari, e il problema del mentalismo degli Atreides è risolto brillantemente e semplicemente: leggiamo in sovrimpressione quello che si dicono, come generalmente succede quando in un film si parlano altre lingue o linguaggi, e l’espediente è davvero ridotto al minimo, con la brillante intuizione – dato che il cinema è arte visiva – di accompagnare il pensiero-dialogo con alcuni gesti che imitano il linguaggio dei segni per non udenti. Altra brillante soluzione narrativa è il libro-racconto (un video documentario tridimensionale) che il protagonista consulta per informarsi, come noi oggi facciamo googlando, e per informare noi del pubblico senza ricorrere a quelli che in gergo vengono chiamati spiegoni.

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Altre cose saltano subito all’occhio, a cominciare dal protagonista Timothée Chalamet che ha la stessa età che aveva Kyle MacLachlan; ma mentre nel “Dune” del 1984 l’attore 25enne aveva già l’aspetto di un uomo fatto, e il personaggio risultava sperduto nel senso di confuso (colpa della sceneggiatura e dei tagli al film), oggi Paul Atreides ha il giusto aspetto di un ragazzo, confuso perché alla ricerca della sua identità, in ciò che è sempre il classico percorso di formazione di tutti gli eroi: tormentato e puro di cuore laddove il Paul del 1984 appariva a tratti anche troppo compiaciuto di fare l’eroe.

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Salta subito all’occhio anche il cast multi etnico che risponde agli imperativi delle produzioni anglo-americane e che nel 1984 non esisteva, erano tutti visi pallidi; e poi l’assenza di personaggi chiave del primo film: l’Imperatore, la Principessa sua figlia e il nipote punk del Barone Harkonnen; ma nel racconto ne entrano altri. Le scenografie sontuose sfarzose colorate e luminose sono state sostituite da ampi spazi vuoti, grandi scalinate grige e vuote pareti decorate a rilievo, sempre in ombra, in penombra, al buio, coi personaggi in controluce e soffusi nella foschia, in un vedo-non-vedo assai intrigante che crea atmosfere cupe, opera di Patrice Vermette.

Ché di fondo il film è questo; una cupa vicenda tragica dove illustri famiglie si combattono, anziché da un regno a un altro sulla stessa terra – da un pianeta a un altro; ma i sentimenti sono sempre quelli, mossi dalla voglia di potere, e gli intrighi sono sempre gli stessi, dalle tragedie shakespeariane in poi; Frank Herbert vi ha aggiunto un eroe cristologico al centro di una religione new age, con tanto di reverende madri, anch’essa derivata da un miscuglio di filosofie più o meno religiose che ben conosciamo: il genio dell’autore, come quello di Dan Brown con i suoi thriller a sfondo religioso-iniziatico, sta nella capacità di raccogliere polverosi spunti e più o meno nascosti dettagli della nostra cultura filosofico-religiosa e riscriverli creando una nuova narrativa avvincente.

Che nel caso di Dune è la debolezza del film. Dune, come Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien, è un mondo a sé, ricco di altri mondi ulteriori, popoli, tradizioni, linguaggi. Bene ha fatto, e il successo lo dimostra, il regista Peter Jackson che ha lavorato in contemporanea a tre film per raccontare l’intera vicenda – benché ampiamente e necessariamente scremata. Questo “Dune” è assai fedele al romanzo ma nel raccontarne cinematograficamente le complesse vicende, territoriali e umane, è appesantito da un andamento lento dove anche le battaglie appaiono come affreschi pittorici in movimento e che non conferiscono ritmo al film, che dura 2 ore e mezza e sono ore che si sentono; a differenza, tanto per dire, delle 4 ore di “Zach Snyder’s Justice League” che forte del successo si è anche tolto lo sfizio di fare uscire il film anche in bianco e nero. Il film risulta dunque un fantasy più adatto agli adulti (non anagraficamente ma culturalmente parlando) che agli adolescenti (di ogni età) educati a videogiochi e blockbusters; ha la solennità di certi racconti bergmaniani conditi da effetti speciali. E soprattutto mancano divagazioni e personaggi accattivanti: il romanzo (che non ho letto) è serio, anche l’autore è serio, e ora il regista si prende sul serio.

Il canadese Denis Villeneuve, che co-scrive la sceneggiatura con Eric Roth, Oscar per “Forrest Gump” e Jon Spaihts specializzato in prequel (Alien) e reboot (La Mummia), sa di essere un autore con la a più o meno maiuscola e non lo nasconde; è abituato a ricevere premi e menzioni sin dagli esordi con film drammatici-esistenzialisti che guardano anche alla realtà della cronaca; poi accede alle produzioni con star americane e si da ai thriller-noir – ma l’eclettismo non è un peccato, anzi; con “Arrival” sbarca come gli alieni del film nella cinematografia sci-fi e si conquista un posto in prima fila: è pronto per il remake del capolavoro di Ridley Scott “Blade Runner” e questo la dice lunga: pensare di fare meglio e/o di rinnovarne l’immaginario è un grande esercizio di autostima; “Blade Runner 2049” fu un successo malgrado fosse un film sbagliato, con errori, e in definitiva inutile; ma il successo commerciale non guarda i peli nell’uovo e Villeneuve si accaparrò un posto nell’olimpo dei migliori in quel campo, dunque quando si presenta l’opportunità di ritentare con Dune, la bestia nera che tante vittime ha lasciato sul suo cammino, perché no? anzi!

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A Timothée Chalamet, americano con cittadinanza francese, fanno da contorno star di prima e seconda grandezza. La svedese (di madre inglese) Rebecca Ferguson, volto non noto al grande pubblico che si è messa in luce nella tv britannica, interpreta la madre di Paul Atreides, mentre il padre è interpretato dal guatemalteco-americano Oscar Isaac, un nome che è già una garanzia dalle parti di Hollywood. Josh Brolin raccoglie l’eredità di Patrick Stewart nel ruolo di maestro delle armi di Casa Atreides, e l’ex wrestler Dave Bautista, che era già con Villeneuve in “Blade Runner 2049”, interpreta La Bestia, nipote del Barone Harkonnen qui interpretato dall’irriconoscibile svedese star del cinema internazionale Stellan Skarsgård. Charlotte Rampling è la Reverenda Madre e la star dei teenager Zendaya nel ruolo della Freman Chani si avvia a fare coppia col protagonista, divenendo protagonista a sua volta della parte seconda in lavorazione. Jason “Aquaman” Momoa è il buono Duncan Idaho e lo spagnolo Premio Oscar Javier Bardem è capo tribù dei Fremen (cui manca una e per essere freemen, uomini liberi) il popolo del pianeta Arrakis che loro chiamano appunto Dune e che qui sono raccontati e abbigliati proprio come dei beduini del deserto africano. Attenzione all’etnicità anche nella scelta dell’interprete del personaggio del Dottor Yueh che nel 1984 era interpretato da Dean Stockwell e qui invece, seguendo il nome, dal taiwanese Chang Chen. Stephen McKinley Henderson raccoglie il testimone dal lynchiano Freddie Jones nel ruolo del mentat (mentalista) mentre l’ambiguo Piter DeVries che interpretava Brad Dourif qui è David Dastmalchian, attore poco noto anche lui già col regista in “Blade Runner 2049”.

Oltre al sequel già in lavorazione stanno ragionando su un prequel in forma di serie tv per Fox, “Dune: the Sisterhood” la sorellanza, che racconterebbe le Venerande Madri, che dai nemici vengono chiamate streghe, e il loro mondo esoterico-iniziatico. Scritta da Jon Spaihts, dovrebbe essere interpretata da Rebecca Ferguson mentre la prima puntata pilota dovrebbe essere diretta dallo stesso Denis Villeneuve che però ha dichiarato che al momento il progetto è in una fase di grande fragilità, un modo poetico per dire che è in stallo. Sopravviveremo anche a questo.

Cape Fear – Il promontorio della paura

Cape Fear - Il promontorio della paura - Film (1991) - MYmovies.it

La violenza, imbrigliata dalla censura nel film del 1962, nel remake di Martin Scorsese del 1992 esplode sfrenata e porta il racconto cinematografico su un altro livello: lo psicopatico di Robert Mitchum che aveva covato vendetta in otto anni di galera e l’aveva in quel tempo raffreddata e affilata, con un Robert De Niro altrettanto sornione e calcolatore la violenza si fa fisica e visibilmente spettacolare.

Ma tutto parte dallo sceneggiatore di film d’azione Wesley Strick che aggiunge alla vecchia sceneggiatura connessioni e conflitti interni che rendono la storia più moderna e dinamica. Sam Bowden non è più solo il testimone che manda in galera Max Cody ma l’avvocato d’ufficio che nasconde una prova a discarico per mandare in galera il poco di buono, venendo meno alla sua deontologia professionale. La famiglia Bowden non è più un rassicurante quadretto borghese ma i coniugi litigano e discutono mentre la figlia quindicenne non è più una bambina innocente ma un’adolescente con gli ormoni in subbuglio che sta scoprendo la sua sessualità, e questo personaggio prende il risalto maggiore con una scena intensa e riuscitissima in cui il lupo ammantato da pecorella tenta la ragazza con illeciti pensieri di libertà ed emancipazione, e a questa ragazza viene affidata la voce fuori campo che introduce il racconto e poi lo conclude dando al film un punto di vista inedito. Altrettanto la moglie non è più la signora borghese dai capelli sempre a posto che lava i piatti ma una professionista in carriera disegnatrice d’interni che mal sopporta il trasferimento in periferia in una villa isolata proprio a Cape Fear, accanto al fiume omonimo dove è ormeggiato il battello di famiglia. Anche la vittima dell’inaudita violenza non è più la prostituta del film originale ma una cancelliera del tribunale dove lavora l’avvocato Bowden e di cui è dichiaratamente innamorata, ma che lui tiene a distanza perché già colpevole in passato di aver tradito la moglie. In sintesi un intrico di rapporti pronti ad esplodere al passaggio del ciclone Max Cody. E la scena finale, il corpo a corpo che fra i due protagonisti avveniva nelle acque basse della palude, qui diventa una scena da film catastrofico con l’imbarcazione in balia delle rapide del fiume in una notte di tempesta: il meglio del meglio che si poteva immaginare in una storia che da thriller freddo e ragionato diventa un film d’azione.

Episode 1: Bridge Of Spies with Steven Spielberg and Martin Scorsese by The  Director's Cut
Martin Scorsese e Steven Spielberg

Inizialmente la regia doveva essere di Steven Spielgberg, che da anni stava lavorando al progetto di “Schlinder’s List” per la regia del quale si era pensato a Martin Scorsese dopo che era fallita la prospettiva di riportare sul set l’ultraottantenne ebreo ashkenazita Billy Wilder, il cui ultimo film era stato, e resterà, la commedia del 1981 con Jack Lemmon e Walter Matthau “Buddy Buddy”. Anche Roman Polański, ateo di origine ebraica che bambino era riuscito a sfuggire dal ghetto di Cracovia durante l’occupazione nazista, si defilò per l’impegno molto personale che il film richiedeva, dedicandosi alla preparazione di un film a suo dire più “leggero”: “Il Pianista”. Tornando a “Cape Fear” Spielberg ritenne il film troppo violento e pur restando nel parterre dei produttori lasciò la regia a Martin Scorsese che dal canto suo aveva rinunciato a “Schindler’s List”: insomma fecero un cordiale scambio fra amici. Poi anche Scorsese, come il precedente regista J. Lee Thompson, omaggerà Hitchcock nello stile delle riprese.

Scrivere per il cinema e la televisione: i 10 consigli di Billy Wilder
Billy Wilder

Inizialmente Scorsese avrebbe voluto Harrison Ford nel ruolo dell’avvocato ma l’attore voleva fare il cattivo, ruolo per il quale Spielberg aveva già contattato Bill Murray: una scelta che all’epoca poteva sembrare bislacca dato che l’attore era un divo di successi comici e brillanti, ma se guardiamo a questa scelta insieme a quella di volere affidare la regia a Billy Wilder si legge chiaramente l’intenzione di voler dare una svolta drammatica a delle carriere spese nel cinema brillante: un salto di steccato che nel caso di Bill Murray abbiamo avuto l’opportunità di apprezzare il seguito, mentre per Billy Wilder non ci furono altre occasioni di tornare sul set: morì dieci anni dopo nel 2002.

Nick Nolte nei panni di un pugile nella serie tv “Il ricco e il povero”, 1976 che gli valse l’Emmy Award

Fu Nick Nolte a proporsi per il ruolo dell’avvocato e a spuntarla. Veniva da una carriera altalenante fra ruoli di protagonista e altri di supporto come caratterista, e questo ruolo gli darà la giusta considerazione e collocazione nello star system hollywoodiano: l’anno dopo sarà chiamato da Barbra Streisand regista e interprete di “Il principe delle maree” a interpretare il tormentato sensibilissimo protagonista che gli regalerà la nomination all’Oscar e la vittoria ai Golden Globe.

Robert De Niro - Cape Fear" T-shirt by FLIXPIX | Redbubble

Va da sé che il ruolo del cattivo sarà dell’attore feticcio di Scorsese, Robert De Niro. Come per il film del 1962 c’è un gap fisico fra i due protagonisti: Nick Nolte che è anche più alto ha dovuto perdere peso, mentre De Niro si è allenato per mettere su massa muscolare e non solo: pagò 5000 dollari a un dentista per farsi limare i denti e avere un aspetto più minaccioso e poi gliene diede altri 20.000 per farseli rimettere a posto, normale prassi per l’attore che per “Toro scatenato” del 1980 sempre Scorsese alla regia, era ingrassato e poi dimagrito di 30 kili.

Juliette Lewis and Jessica Lange

Nel ruolo dell’inquieta moglie moderna Jessica Lange in un ruolo che rimane di servizio nonostante i funzionali e funzionanti aggiornamenti alla sceneggiatura. Per il molto ampliato ruolo della figlia erano state provinate Drew Barrymore e Reese Witherspoon ma ebbe la meglio l’ancora poco nota Juliette Lewis che si assicurerà insieme a De Niro le nomination a Oscar e Golden Globe, vincendo un paio di premi minori e assicurandosi una carriera in cui con “Natural Born Killers” di Oliver Stone due anni dopo riceverà il Premio Pasinetti a Venezia; è stata una delle attrici più promettenti di fine millennio ma poi si è in parte persa per strada e negli anni 2000 intraprende anche la carriera di musicista e cantante – non sapremo mai se come ripiego alla carriera di attrice che langue, o proprio come motivo di questo languire. Illeana Douglas, in quegli anni compagna di Martin Scorsese, è la vittima del maniaco che, al contrario della prostituta del 1962 che scappa, è una legale che decide di non parlare perché conosce dall’interno le trappole del sistema giudiziario e non vuole dare in pasto alla stampa la sua passione non ricambiata per Bowden.

Negli altri ruoli Joe Don Backer nella parte del detective che fu di Telly Savalas; Robert Mitchum, invecchiato e stazzonato, è ancora molto efficace tornando nel ruolo del poliziotto che fu di Martin Balsam, il quale a sua volta passa al ruolo del giudice; Gregory Peck, qui alla sua ultima apparizione cinematografica, morirà 87enne nel 2003, gigioneggia nell’unica breve scena in cui è l’avvocato difensore del criminale.

Robert Mitchum and Gregory Peck who played Max Cady and Sam Bowden in Cape  Fear (1962) have cameos in Martin Scorsese's remake (1991). In a role  reversal of sorts Mitchum plays a


“Il promontorio della paura” restano due bei film, ognuno per la sua epoca, da rivedere possibilmente uno di seguito all’altro, per evidenziarne le differenze e apprezzare il generoso ritorno delle vecchie star in ruoli secondari.

Muscular Remakes: Ben-Hur e I Magnifici Sette

Questa stagione cinematografica si apre coi remake di due grandi film che rimangono nella storia del cinema: il “Ben-Hur” del 1959 di William Wyler che con i suoi 11 Oscar ha mantenuto il primato fino a che non è stato affondato dal “Titanic” e “I Magnifici Sette” di John Sturges ispirato al magnifico “I Sette Samurai” di Akira Kurosawa.

Diciamo subito che il “Ben-Hur” 2016 è una scorreggetta. Regge il confronto la scena della corsa delle quadrighe, momento clou di entrambi i film, ma mentre nel ’59 era una cosa mai vista – sbagliarla oggi, con tutti gli effetti speciali a disposizione, sarebbe stato gravissimo. Per il resto è un piatto rifacimento con gli ovvi “distinguo” della sceneggiatura, necessariamente più moderna e aggiornata, ma non sempre con scelte convincenti: da un lato il ridicolo incidente della tegola che cade sul console e che scatena l’ira dei Romani viene giustamente rivista come un più credibile attentato contro l’usurpatore, dall’altro il linguaggio si fa addirittura troppo moderno mettendo in bocca a Messala una parola come progressista; inoltre: laddove il Cristo veniva sempre mostrato di schiena, come a mantenere le distanze data la grandezza della sua figura, qui viene ampiamente mostrato col volto emaciato e vagamente fastidioso di quel Rodrigo Santoro che in “300” ha giganteggiato come il cattivissimo macho-trans fashion-sadomaso Serse. Ma è incredibile il cast: accantonando il sempre ottimo Morgan Freeman che qui è uno sceicco che prende il posto del favolistico Magio Baldassarre del ’59, spendiamo qualche parola sui protagonisti: a sostituire l’ingombrante Charlton Heston è stato chiamato Jack Huston, un interessante e bravo attore inglese nobile per parte di madre e nipote d’arte per parte di padre: il regista John Huston era suo nonno e Anjelica Huston è sua zia. Ma che ci fa un bravo attore con carriera di qualità, faccia da bravo ragazzo e fisico mingherlino – prima a remare in una galera romana e poi a correre su una quadriga? non ci crede nessuno. Nel ruolo dell’amico-nemico Messala c’è un altro inglese di belle speranze ma già più credibile nel ruolo: Toby Kebbell. Dirige la baracca, anzi il baraccone, Timur Bekmambetov. Ovviamente in questa versione i due protagonisti tornano di nuovo amici e tutti vissero felici e contenti.

Meglio, “I Magnifici Sette” diretto da Antoine Fuqua. Nel ’60 non ci sono stati Oscar con cui fare oggi i conti oggi, e anche qui ci sono le star a sostituire le star dell’epoca: Yul Brynner a capo dei sette e Eli Wallach come il cattivissimo, e scusate se è poco. Oggi il cattivo è Peter Sarsgaard, ottimo attore con un bel faccino non nuovo a ruoli di cattivo. A capo della banda di eroi-malgrado-loro oggi c’è il nero Denzel Washington in un contesto storico in cui un nero non avrebbe mai potuto ricoprire quel ruolo, e poiché siamo nel politically correct più spinto di un Paese che deve sempre fare i conti con le sue belligeranti tribù, oggi i magnifici sette sono di tutti i colori: c’è l’ispanico (ma c’era già) e c’è pure il cinese ma – e qui John Wayne si rivolterebbe nella tomba – alla fine si aggiunge anche il pellerossa Comanche. L’insalata è gradevole perché dove c’è diversità c’è sempre più gusto, e l’azione è condita con quel pizzico di ironia che non guasta mai e aggiunge pepe alla polvere da sparo. Denzel passa sullo schermo inespressivo perché già il fatto di essere il nero fa spettacolo. Ethan Hawke tratteggia bene il suo magnifico tormentato e Chris Pratt fa bene la sua canaglia. Vincent D’Onofrio, interessantissimo attore che ricordiamo giovane recluta “palla di lardo” in “Full Metal Jacket” di Stanley Kubrick; essendo stato per anni protagonista della serie tv “Law & Order”, le sue uscite sul grande schermo sono sempre all’insegna della ricerca di personaggi in cui possa indossare pelli diverse e qui è praticamente irriconoscibile come villico barbuto e definitivamente grasso. Manuel Garcia-Rulfo è l’ispanico, Lee Byung-hun il giallo, Martin Sensmeier il rosso. Con l’impavida Haley Bennett i magnifici sette fanno sette e mezzo e completano il cast: Luke Grimes, Cam Gigandet e Matt Bomer che all’inizio del film sembra il protagonista ma muore nei primi cinque minuti: ruolo cameo per un attore, acclamato protagonista della serie tv “White Collar” che avendo dichiarato la sua omosessualità adesso paga lo scotto di una Hollywood dove tutto si fa ma nulla si dice: don’t ask don’t tell, purissima ipocrisia di un paese che si è inventato il politically correct perché profondamente sessuofobo, razzista e classista. E questo non è un altro discorso, perché questo discorso si rispecchia nelle produzioni cinematografiche per il grande pubblico dove si devono accontentare tutti e non offendere nessuno. In questo caso ci sono riusciti con un prodotto coinvolgente e a divertente.