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La zona d’interesse – un Oscar quasi scontato

Quasi scontato perché i membri dell’Academy che votano i vincitori sono da sempre assai sensibili ai tema della Shoah, non a caso nel 1999 hanno premiato con l’Oscar al miglior film straniero “La vita è bella” di Roberto Benigni, dunque arrivano assai riduttive se non inopportune le rozze semplificazioni alla Massimo Ceccherini che nel difendere il “suo” “Io Capitano” in quanto co-sceneggiatore ha detto in tv: “Sono molto fiero di aver lavorato con Garrone che ha fatto un film favoloso. Sappiate che il film della cinquina è più bello solo che non vincerà perché vinceranno gli ebrei. Quelli vincono sempre.”

Quelli, non vincono sempre, ma vincono spesso perché nell’industria cinematografica statunitense ci sono stati molti autori fuggiti in passato dalle persecuzioni naziste, che hanno lasciato una grande eredità sia simbolica che effettiva in termini generazionali: gli ebrei vincono spesso perché in quel settore sono tanti. Ma non vincono sempre e basta come esempio su tutti il grande Steven Spielberg che è stato preso in considerazione e premiato solo quando ha affrontato direttamente il tema con “Schlinder’s List” nel 1994 dopo trent’anni di onorata carriera costellata da molti capolavori.

Tornando a parlare di “Io capitano” di Matteo Garrone, il film italiano ha una cosa in comune con questo film vincitore: il punto di vista, un nuovo punto di osservazione. Garrone per raccontare il tema dell’immigrazione si addentra in Africa a filmare i punti di partenza, partendo proprio da racconti reali; Jonathan Glazer per il suo film sceglie di raccontare l’orrore dei campi di concentramento dal punto di vista banalmente umano, e per la sua umana banalità anche orribilmente feroce, dei nazisti: ci fa vedere che erano persone reali, ordinari nella ricerca dello status, della crescita sociale, e delle proprie soddisfazioni personali fatte di piccole lecite cose: la piscinetta su un prato perfettamente falciato, la serra sul retro della graziosa e altrettanto banale villetta, il benessere quotidiano semplificato da uno stuolo di silenziosi servitori, i bei figli da crescere in quella pace idilliaca, quasi arcadica: solo che il tutto si svolge a ridosso del muro del campo di concentramento di Auschwitz e la bella e perfetta famigliola è quella del comandante Rudolf Höß (scritto anche Höss) realmente esistito come creatore del campo e poi condannato e giustiziato nel 1946 come criminale di guerra.

L’inglese Jonthan Glazer, che ha scritto anche la sceneggiatura ispirandosi a un romanzo, ha debuttato nel 2000 con un film che lo ha subito portato alla ribalta, il gansteristico grottesco “Sexy Beast” da cui è nata una serie tv recentemente uscita su Paramount+. Cambia genere e prosegue, continuando a collezionare riconoscimenti, col fantasy-psicologico “Birth – Io sono Sean” e poi col fantascientifico “Under The Skin”, e oggi con questo suo quarto film cambia ancora una volta genere, ma non stile: nel film precedente aveva usato delle telecamere nascoste realizzando una sorta di candid camera, e qui accresce in modo esponenziale lo stratagemma tecnico: col direttore della fotografia, il polacco Łukasz Żal (già due volte candidato all’Oscar per i film di due suoi connazionali che erano sempre nella sezioni miglior straniero) piazza nell’appartamento minuziosamente ricostruito dallo scenografo inglese Chris Oddy più di dieci telecamere comandate da remoto come in una casa del “Grande Fratello”, senza l’invasiva presenza di nessun altro supporto tecnico o umano, utilizzando la luce naturale, di modo che gli attori potessero recitare muovendosi liberamente, anche improvvisando qua e là quando si aveva a che fare coi bambini o il cane, realizzando una serie di campi lunghi o medio lunghi senza alcun movimento di camera o di obiettivo: il risultato del materiale montato è quello di una raggelante casa di bambole dove i personaggi sono seguiti come insetti al microscopio, pochi i piani americani e pochissimi i primi piani. E il racconto filmico è su diversi livelli, come un palcoscenico teatrale diviso in più parti: mentre è centrale l’azione dei personaggi principali, di lato o sullo sfondo si muovono discreti e silenziosi i personaggi secondari che fanno funzionare il ben oliato marchingegno domestico: gli untermenschen, uomini e donne di razza inferiore, le serve cooptate fra le locali ragazze polacche e gli uomini di fatica fra i prigionieri del campo.

Questo studio quasi entomologico della famiglia crea un distacco emotivo sul pubblico, tanto che nessuno dei personaggi risulta simpatico – quando è risaputo che molti personaggi negativi di cinema e teatro diventano beniamini del pubblico: qui il male non è spettacolarizzato e reso accattivante ma semplicemente raccontato attraverso un’analisi distaccata; e se la distanza dai personaggi è raggelante non c’è però distanza dal film, che coinvolge e suscita sorpresa, dolore, indignazione, ansia – perché quei personaggi, com’è nelle intenzioni dell’autore, possono essere chiunque di noi perché noi siamo – noi più la circostanza in cui ci troviamo: la famiglia del comandante Höss si è trovata in quelle circostanze, in parte senza poter scegliere, com’è il caso dei figli, che però da adulti hanno poi difeso la memoria del padre celebrandolo come un eroe morto in guerra avendo compiuto soltanto il proprio dovere: dunque anche i bambini da adulti hanno fatto la loro banale scelta scegliendo di non scegliere.

La scena bucolica che apre il film

Il film comincia a schermo nero per un tempo che sembra interminabile mentre udiamo i rumori di fondo che sentiremo per l’intero film: per Jonathan Glazer anche noi pubblico siamo cavie, da abituare all’esercizio di stile che verrà, ovvero l’ascolto di quello che accade in sottofondo piuttosto che le banali conversazioni in primo piano – e qui il film si aggiudica il suo secondo meritatissimo Oscar per il miglior sonoro: il sound designer Johnnie Burn ha prima stilato un documento di ben 600 pagine in cui ha raccolto gli eventi più rilevanti accaduti nel campo di Auschwitz, insieme alle testimonianze dirette dei soravvissuti e una mappa del campo per meglio determinare le distanze e gli echi dei suoni; a quel punto ha impiegato ancora un anno per costruire una libreria sonora che includeva i suoni di macchinari, dei crematori, delle fornaci, di stivali, di spari e urla di dolore; la sua meticolosità si è spinta al punto da inserire le voci dalle proteste parigine del 2022 per ricreare gli echi delle voci dei francesi che in quel preciso momento storico erano stati deportati-importati nel campo; mentre per le voci delle guardie ha inserito quelle degli ubriachi che urlano per strada nel quartiere Reeperbahn di Amburgo: come ha giustamente considerato Glazer il suono è un altro film, probabilmente il vero film.

Era candidato anche per il miglior regista e la miglior sceneggiatura non originale dal romanzo omonimo di Martin Amis: la zona d’interesse è, a cominciare dalla Polonia di Auschwitz, tutto l’est russo in cu Adolf Hitler avrebbe voluto espandersi. Nel romanzo lo scrittore pur ispirandosi alla figura reale di Höss cambia il nome e ne fa una narrazione di fantasia. Glazer, partendo dal romanzo, ha ovviamente cominciato a fare le sue ricerche concentrandosi sempre più sulla figura reale del comandante nazista, e decidendo di togliere il filtro della finzione narrativa ha riesumato il vero personaggio e la sua famiglia aggiungendo dettagli storici e biografici che nel libro non c’erano, come la figura della suocera venuta in vacanza, genericamente e serenamente razzista nei confronti degli ebrei che stanno bene dove stanno, al di là del muro, fino a quando non si rende conto di quello che realmente accade nei forni crematori e scappa lasciando solo un biglietto alla figlia. Seguendo le note di Glazer, il suo lavoro è stato quello di costruire un film che demistificasse i nazisti ormai quasi sempre descritti come mitologicamente malvagi, raccontando l’Olocausto non “come qualcosa di sicuro nel passato” ma come “una storia del qui e ora” e facendo un riferimento diretto, anche nel discorso di accettazione dell’Oscar, a quanto sta accadendo in Medio Oriente: l’orrore delle persecuzioni e la capacità di infliggere sofferenze non si è mai eradicata dall’animo umano qualsiasi sia la fede religiosa o politica che la muove.

Con una produzione anglo-polacca e la decisione di girare il film nelle lingue originali dei luoghi descritti, tedesco polacco e yiddish, è stato contattato l’attore tedesco Christian Friedel che era assai restio avendo già rifiutato in passato di interpretare personaggi nazisti e avendo invece impersonato un oppositore attentatore alla vita di Hitler in “Elser – tredici minuti che non cambiarono la storia” di Oliver Hirschbiegel del 2015; fu però positivamente colpito dal nuovo approccio del regista e rendendosi disponibile suggerì per il ruolo della moglie la collega Sandra Hüller con cui aveva già felicemente lavorato, e poiché anche lei non era disponibile a interpretare figure naziste le fu inviato solo un estratto della sceneggiatura, un dialogo fra moglie e marito, senza alcun riferimento al reale contesto, che convinse l’attrice a leggere la sceneggiatura completa e a incontrare il regista… a quel punto fece scritturare anche il suo Weimaraner nero per interpretare Dilla, il cane della famiglia Höss, mentre Medusa Knopf fu scritturata per interpretare sua madre.

Momento d’oro per l’attrice dato che agli Oscar era personalmente candidata come protagonista per un altro film di produzione francese e girato in francese e inglese, “Anatomia di una caduta” di Justine Triet, regista già premiata in patria con la Palma d’Oro a Cannes, e che si è aggiudicata anche l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale insieme al suo compagno di vita Arthur Harari. Ma anche “La zona d’interesse” aveva trionfato a Cannes aggiudicandosi il Grand Prix Speciale della giuria, il Cannes Soundtrack Award e il FIPRESCI della critica cinematografica.

Insieme all’uso delle telecamere in stile “Grande Fratello” e al tappeto sonoro come film nel film, Glazer si spinge verso la ricerca sperimentale inserendo anche un paio di sequenze girate con una termocamera, una particolare telecamera di sorveglianza utilizzata dai militari e ufficialmente classificata come arma.

Telecamera termica con le quali rievoca le incursioni notturne di una ragazza che lascia delle mele dove i prigionieri le possano trovare. Anche queste sequenze, le uniche che danno un filo di speranza nel film, sono nate dalle ricerche dell’autore e si ispirano ad Aleksandra Bystroń-Kołodziejczyk che l’autore incontrò nel 2016 poco prima che l’ottantanovenne morisse: all’età di 12 era stata membro dell’Esercito Nazionale Polacco e andava in bicicletta per lasciare nei dintorni del campo, laddove i prigionieri venivano condotti per lavorare, le mele; come è raccontato nel film, ha scoperto uno spartito musicale scritto da un prigioniero, che poi la giovane attrice Julia Polaczek eseguirà al pianoforte in una scena girata nella vera casa di Aleksandra; e anche l’abito che indossa e la bicicletta che usa sono gli originali appartenuti alla protagonista reale, alla quale Glazer ha dedicato il film nel discorso di accettazione del premio. Il brano musicale era stato scritto da Joseph Wulf che poi sopravvisse al campo e fu uno dei primi a testimoniare le atrocità che aveva vissuto.

Sotto finale il comandante del campo accusa dei dolori allo stomaco – gastrite? rigurgiti di coscienza? – e il film fa un ardito salto in avanti, al Museo di Auschwitz da cui l’autore ha avuto completa collaborazione, mentre le donne delle pulizie preparano prima dell’apertura al pubblico; poi si torna al nazista sperduto negli squadrati meandri del palazzo del potere nel cui buio sta per discendere definitivamente.

Incidentalmente, il 19 maggio 2023 il film è stato presentato al Festival di Cannes ricevendo una standing ovation di sei minuti, mentre Martin Amis, l’autore del romanzo, moriva 73enne nella sua casa in Florida, da accanito fumatore per un cancro all’esofago. Da registrare anche che il discorso del regista che accomunava l’Olocausto a quello che sta accadendo nella Striscia di Gaza, facendo intendere che gli oppressori sono oggi gli ebrei, ha fatto infuriare molti a cominciare dal suo produttore esecutivo Danny Cohen che si è dissociato dichiarando che molti membri della comunità ebraica gli hanno confidato che le parole di Glazer hanno riaperto vecchie ferite nella loro storia etnica nonostante il film sia un capolavoro sulla Shoah: di fatto, è la mia opinione, piuttosto che continuare a ricattare il mondo con “le vecchie ferite” sarebbe necessario riflettere sulle nuove, e sulle nuove responsabilità.