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Il Vangelo secondo Matteo

1964. Dopo le aspre polemiche e la denuncia per vilipendio alla religione del suo cortometraggio “La ricotta” che compone il film “Ro.Go.Pa.G.”, Pier Paolo Pasolini torna nelle sale con un film intensamente religioso, frutto di meditazioni personali che risalgono a quando adolescente era stato tentato dalla via ecclesiale – segno di una tormentata e intensa vita interiore – poi dirazzata nel comunismo più spinto nella sua presa di coscienza sociale secondo la quale metteva gli ultimi al centro del suo pensiero speculativo: dirazzata perché era un’epoca in cui dichiararsi comunisti significava automaticamente dirsi anche atei. Era l’epoca delle barricate ideologiche perché ancora bruciavano le ferite del fascismo che i quarantenni come Pasolini avevano vissuto sulla loro pelle, un fascismo nero e cattivo che era stato rimpiazzato dal totalitarismo del fascismo bianco accogliente e rassicurante della Democrazia Cristiana, una democrazia che ispirata appunto al cristianesimo metteva al bando e perseguitava anche con l’uso della forza qualsiasi pensiero che avesse radici a oriente, nel comunismo russo e cinese: erano gli anni in cui si temeva che i cosacchi venissero ad abbeverare i loro cavalli in San Pietro, il libero stato del Vaticano che eterodirigeva (e ancora lo fa, anche se a fatica) lo stato italiano.

Ma va considerato che la Democrazia sedicente Cristiana era in realtà soltanto cattolica, sapendo che fra cristianesimo e cattolicesimo ci sono delle sostanziali differenze che non sfuggivano certo all’attenzione di Pasolini che, da questo punto di vista, si poteva definire più cristiano dei sedicenti cristiani di fede cattolica: Cristiano è colui che segue gli insegnamenti del Cristo e sono Cristiani anche i Protestanti e gli Ortodossi che non riconoscono l’autorità del Papa cattolico dato che il Cattolicesimo è una delle tante confessioni che sono nate nel nome di Cristo, la più pervasiva ma non l’unica e assoluta; e laddove il Cattolicesimo si è imposto come una sovrastruttura politica con le sue classi dirigenti con propri palazzi del potere che nulla hanno da invidiare ai palazzi reali – il Cristianesimo, quello puro, si può vedere come la religione dei poveri e degli ultimi a cui il Cristo ha dato attenzione e voce: quel Cristo che ha cacciato i mercanti dal tempio è qui Pasolini che mette i cattolici di fronte a quella stessa scomodissima realtà.

Elsa Morante, Pasolini, Bini e Margherita Caruso e Marcello Morante come Maria e Giuseppe

Pasolini aveva dichiarato: “La mia idea è questa: seguire punto per punto il Vangelo secondo Matteo, senza farne una sceneggiatura o riduzione. Tradurlo fedelmente in immagini, seguendone senza una omissione o un’aggiunta il racconto. Anche i dialoghi dovrebbero essere rigorosamente quelli di San Matteo, senza nemmeno una frase di spiegazione o di raccordo: perché nessuna immagine o nessuna parola inserita potrà mai essere all’altezza poetica del testo. E’ quest’altezza poetica che così ansiosamente mi ispira. Ed è un’opera di poesia che io voglio fare. Non un’opera religiosa nel senso corrente del termine, né un’opera in qualche modo ideologica. In parole molto semplici e povere: io non credo che Cristo sia figlio di Dio, perché non sono credente, almeno nella coscienza. Ma credo che Cristo sia divino: credo cioè che in lui l’umanità sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di là dei comuni termini dell’umanità. Per questo dico ‘poesia’: strumento irrazionale per esprimere questo mio sentimento irrazionale per Cristo.”

Enrique Irazoqui, Pasolini e accovacciato sul fondo l’aiuto regista Maurizio Lucidi

Secondo il suo stile compone un film scarno con la fotografia in bianco e nero del fidato Tonino Delli Colli, fatto di molti primi piani che si alternano a campi lunghi e lunghissimi, e occasionali carrellate a scoprire i soggetti fermi e fissi come in posa per dei ritratti o a seguire i movimenti lunghi delle processioni. Scrive da solo la sceneggiatura dal Vangelo di Matteo senza aggiungere nulla, e da quel punto di vista è inattaccabile; però non sa rinunciare alla sua visione delle cose e nel primo film che consegna al produttore Alfredo Bini non ci sono i miracoli né la resurrezione perché il suo film intendeva raccontare solo un uomo, l’uomo Gesù, che spogliato dai fenomeni soprannaturali è soltanto trascinatore di quelle masse cui raccontava una nuova verità: per Pasolini il cosiddetto Verbo di Cristo aveva più valore della parte più fantastica e accattivante del racconto. Il produttore invitò alla visione privata il suo amico Monsignor Francesco Angelicchio, che da Giovanni XXIII era stato messo a dirigere il Centro Cattolico Cinematografico, ruolo che lui svolgeva senza piglio censorio ma in modo amichevole ascoltava le persone per meglio aiutarle a indirizzare i loro messaggi, e per questo era diventato intimo di molte personalità del mondo cinematografico fra cui Fellini, Rossellini, Olmi oltre ai più barricadieri Liliana Cavani e Pasolini appunto. Qui di seguito l’intervista Rai su quell’incontro.

Pasolini aveva scelto come set naturali la Basilicata e la Calabria, come anche le desertiche pendici sassose dell’Etna per la sequenza della tentazione del demonio, perché la Palestina, dove aveva fatto un sopralluogo, si era troppo occidentalizzata e lì anche le eventuali comparse non erano più credibili, lui che cercava l’arcaicità e riusciva a trovarla solo nel sottoproletariato, la bassa manovalanza, gli analfabeti, e trova volti segnati, di grande efficacia espressiva anche laddove non esprimono nulla perché il segno è nelle rughe, nei denti poco curati, negli sguardi attoniti e inconsapevoli, e a tutti lui dedica un primo piano. In questo senso è magistrale la sua ricerca dei volti, come lo fu quella di Fellini, ma Fellini truccava e vestiva i suoi figuranti per farli diventare grottescamente simili ai pupazzi che disegnava mentre Pasolini li lascia tragicamente integri.

Così, dopo la chiacchierata con Checco Angelicchio, tornò ai Sassi di Matera e rimise in piedi i set, cercando fra i locali dei veri storpi: anche i miracoli sono quanto di più scarno si possa cinematograficamente immaginare ma sono in linea, e dunque efficaci, col racconto fortemente voluto dall’autore che, va svelato, aveva raggelato i primi entusiasmi del produttore che si era immaginato un kolossal in Technicolor addirittura con Burt Lancaster protagonista, una roba hollywoodiana insomma, che l’anno dopo sarebbe arrivata puntuale con “La più grande storia mai raccontata” di George Stevens. E nonostante il beneplacito del monsignore e dunque del Vaticano, siccome c’erano e sempre ci sono quelli più realisti del re, il film scatenò sulle pagine dei giornali aspri confronti fra sostenitori e detrattori fra i quali si riaffacciarono quelli che ancora gridavano allo scandalo e di nuovo invocavano il vilipendio: l’animosità non era contro il film ma contro Pasolini in quanto scomodissimo intellettuale. Ambiguo fu il giudizio dell’Unità: “Il nostro cineasta ha soltanto composto il più bel film su Cristo che sia stato fatto finora, e probabilmente il più sincero che egli potesse concepire. Di entrambe le cose gli va dato obiettivamente, ma non entusiasticamente atto”: da notare il riduttivo soltanto e la formale e obiettiva mancanza di entusiasmo. Misurato fu il giudizio dell’organo di stampa vaticano, l’Osservatore Romano: “Fedele al racconto non all’ispirazione del Vangelo” che però alla fine chiosa: “Il più bel film su Gesù di tutti i tempi” consegnando ai posteri ma soprattutto ai contemporanei un giudizio positivo che varrà al film il Leone d’Argento Gran Premio della Giuria a Venezia, i Nastri d’Argento alla regia, alla fotografia e ai costumi davvero molto belli di Danilo Donati, e le candidature all’Oscar sempre per i costumi, la scenografia di Dante Ferretti e Luigi Scaccianoce e la colonna sonora con le musiche originali di Luis Bacalov oltre al repertorio classico tanto caro a Pasolini.

Il ruolo di Gesù lo offre a un diciannovenne catalano, Enrique Irazoqui, che per le sue origini italiane dal lato materno, era stato mandato dal sindacato universitario clandestino di Barcellona presso un’organizzazione di studenti fiorentini in cerca di aiuti economici per coprire un grosso debito che gli studenti antifranchisti avevano accumulato con i tipografi della loro città. Da Firenze la raccolta fondi universitaria si spostò a Roma e lì Enrique conobbe Pasolini e la Morante in casa di lui che fu subito intrigato dal suo viso e gli propose il ruolo, telefonando di corsa al produttore: “Ho trovato Gesù! Gesù è in casa mia!” Lo studente però aveva rifiutato l’offerta perché in contrasto con la sua ideologia, ma fu convinto da Elsa Morante e dal produttore Alfredo Bini che gli indicarono la via: interpretare un Gesù gramsciano, politicamente vicino agli ultimi – ma anche l’entità del compenso fu determinante all’accettazione del ruolo, compenso che versò interamente nelle casse del movimento studentesco antifranchista. Rientrato in patria fu punito dal regime per avere interpretato un film di “propaganda comunista” col ritiro del passaporto e l’espulsione dall’università. Divenuto a suo modo una estrella del cine girò altri due lungometraggi della scuola oggi detta barcellonese, entrambi con l’italiana in trasferta Serena Vergano già interprete di “Una vita violenta” di Heusch-Rondi e dunque appartenente a quella che oggi possiamo definire la factory di Pasolini per parafrasare quella newyorkese di Andy Warhol. Poi Enrique si spostò a Parigi per laurearsi in economia e successivamente andò negli Stati Uniti dove conseguì una seconda laurea in letteratura spagnola, materia che insegnò nelle università statunitensi. Ma sin da bambino era stato anche un appassionato di scacchi, tanto che nel 1968 era riuscito a battere il numero tre della squadra olimpica francese, e in seguito, non trovando degni avversari nelle università, cominciò a giocare contro un computer – era l’epoca in cui quelle macchine cominciavano a diffondersi nelle università americane – ma non ritenendolo all’altezza predispose partite fra due pc, apportando così importanti migliorie alle capacità del dispositivo. Nel 2011 è tornato in Italia per una mostra dedicata a Pasolini e in quell’occasione ha ricevuto la cittadinanza onoraria di Matera; ha dichiarato che Pasolini avrebbe voluto fare un film da un suo testo intitolato “Il padre selvaggio” solo a condizione di averlo ancora come protagonista, ma Irazoqui aveva rifiutato dicendosi ormai più interessato a fare la rivoluzione che il cinema. Negli ultimi anni è tornato però davanti alla macchina da presa, prima nel video musicale di Vinicio Capossela “Il povero Cristo” interpretato anche da Marcello Fonte e Rossella Brescia, e poi nel progetto multimediale materano, film più performance dal vivo, di Milo Rau “Il nuovo vangelo”. È morto 76enne nel 2020 ed è ancora inedito il suo ultimo film, “Cenestesia” di Joan Vall Karsunke, ispirato all’omonimo e semi-autobiografico libro di José María Nunes.

L’interpretazione del ragazzo è intensa e convincente ma necessitando di essere doppiato viene chiamato a dargli voce Enrico Maria Salerno che è di 22 anni più anziano e questo si sente, la voce non corrisponde al volto in quello che in gergo si dice voce scollata; ma c’è di buono che stavolta il lavoro del professionista svolto nel buio della saletta di registrazione viene riconosciuto sin nei titoli di testa. Il resto del cast, come detto, è formato dalla manovalanza locale e dagli intellettuali amici di Pasolini che ormai fanno la fila per apparire nei suoi film. In testa c’è la maschera tragica di Susanna Pasolini, madre dell’autore nel ruolo della vecchia dolente Maria.

La giovane Maria è interpretata dalla studentessa 14enne Margherita Caruso, che subito dopo avere preso parte al film ricevette una proposta dal già hollywoodiano Dino De Laurentiis per interpretare una nuora di Noè in “La Bibbia” di John Huston; Margherita, che nel frattempo è divenuta perito chimico e vive a Milano, racconta 50 anni dopo che a scattarle alcune fotografie ai giardini comunali fu il padre, ma non era il book professionale che avevano richiesto gli americani e la cosa finì lì. L’ex ragazzina racconta che Pasolini era giunto da quelle parti accompagnato dal 16enne Ninetto Davoli: i due già si frequentavano a Roma ma Ninetto era nativo proprio della Calabria e gli avrebbe fatto da gancio con i locali; nello specifico si era avvicinato alla ragazzina guardandola con fare ammiccante e lei, abbassando lo sguardo intimidita era tornata nella comitiva dei suoi amici: quello era stato il primo provino. Subito dopo si sentì bussare su una spalla: era lui, Pasolini, che le dice: “Mi conosci?”. “No”, aveva risposto lei. “Sono Pasolini, ti piacerebbe fare un film?”. Ci fu un boato tra gli amici, più per la parola film che per il nome Pasolini. I provini lui li aveva fatti così, per strada: mandava Ninetto Davoli a fare domande provocatorie a quelli che aveva puntato e se ne stava in disparte a guardare come reagivano, come si muovevano: li sceglieva per l’espressività e poi sul set si lavorava senza copione, diceva all’ultimo momento quello che bisognava fare. “Ma io ho fatto un provino anche a casa sua; c’erano Morante, Moravia, Siciliano, Maraini.” Anche suo padre fece il figurante e interpretò il fariseo che dice del Cristo: “Dobbiamo trovare un modo per farlo morire”.

L’importante ruolo di Giuseppe va invece allo scrittore Marcello Morante fratello della più nota Elsa Morante già carcerata in “Accattone”, e padre dell’attrice Laura Morante, qui doppiato da Gianni Bonagura. Un altro scrittore e poeta, Mario Socrate, interpreta il Battista doppiato da Pino Locchi e a discesa tutti gli altri ruoli, grandi e piccoli, interpretati da intellettuali e affini: Natalia Ginzburg è Maria di Betania e Enzo Siciliano è Simone; Giacomo Morante, figlio di Marcello e fratello di Laura, interpreta Giovanni l’Apostolo; il filosofo Giorgio Agamben è Filippo; lo scrittore e giornalista Francesco Leonetti è Erode Antipa; il poeta scrittore pittore Alfonso Gatto è Andrea; il principe palermitano Alessandro Tasca di Cutò è Ponzio Pilato; il contadino partigiano e rivoluzionario intellettuale Rosario Migale è Tommaso; il poeta scrittore argentino naturalizzato italiano Rodolfo Wilcock è Caifa; gli attori professionisti Elio Spaziani e Renato Terra interpretano Taddeo e un fariseo; Amerigo Bevilacqua da borgataro di “Accattone” assurge al ruolo di Erode il Grande; lo studente 17enne Luigi Barbini è Giacomo di Zebedeo, e dopo quest’esperienza continua per altri pochi anni la carriera di attore girando anche una mezza dozzina di film di nuovo con Pasolini ma anche con un piccolo ruolo in “Giulietta degli spiriti” di Fellini e un paio di peplum, ma alla fine ha lasciato la carriera cinematografica per laurearsi in Teologia; la 12enne Paola Tedesco debutta come Salomè e la notorietà le arriva in tv come valletta di Pippo Baudo, cui seguirà una carriera di attrice in film di secondo piano; Rossana Di Rocco è l’angelo, e se lo aggiudicherà lei il ruolo della nuora di Noè in “La Bibbia” che era sfuggito a Margherita Caruso, e avrà anche una particina nel film di Alessandro Blasetti con Walter Chiari “Io… io… io… e gli altri” prima di tornare alla vita cosiddetta civile. Anche Ninetto Davoli debutta come pastorello e subito dopo sarà coprotagonista con Totò in “Uccellacci e uccellini”: da notare che fra i giovani proletari lanciati da Pasolini lui è l’unico che appare sempre apertamente sorridente, nelle fotografie in posa gli altri hanno molto più spesso uno sguardo sfuggente o un sorriso amaro o di sola circostanza: già in quello sguardo aperto e senza vergogna si vede che sarà vicino a Pier Paolo fino alla fine.

“Il miglior film su Cristo, per me, è Il Vangelo secondo Matteo, di Pasolini. Quando ero giovane, volevo fare una versione contemporanea della storia di Cristo ambientata nelle case popolari e per le strade del centro di New York. Ma quando ho visto il film di Pasolini, ho capito che quel film era già stato fatto.” Martin Scorsese. Su YouTube il film completo.