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Medea – la tragedia di Euripide, il film di Pasolini, la cronaca nera

Il film completo

Da “Uccellacci e uccellini” un salto di tre anni al 1969 nel mio racconto della cinematografia di Pier Paolo Pasolini per arrivare direttamente alla sua “Medea” e farla scorrere in concomitanza alla cronaca nera che vede l’ennesima madre assassina rinominata Medea, appunto, perché pare che dietro il suo gesto estremo ci sia la gelosia. Ma così come è sempre riduttivo incorniciare un dramma umano dentro le etichette che viaggiano su quotidiani e social, lo è altrettanto – e soprattutto – per la tragedia di Euripide che Pasolini ha messo in film.

Ma cosa sappiamo davvero della tragedia? Μήδεια (Médeia) è andata in scena per la prima volta 2453 anni fa, nel 431 avanti Cristo ad Atene nel corso delle Grandi Dionisie, che erano delle celebrazioni dedicate al dio Dioniso durante le quali venivano rappresentate opere in competizione sia tragiche che comiche; Medea si classificò al terzo posto dietro opere oggi perdute, e se oggi la consideriamo un capolavoro chissà cosa devono essere stati gli altri due testi. Molto in sintesi la trama è questa: La maga Medea, originaria della Colchide (l’odierno stato della Georgia sulle rive del Mar Nero, quindi a nord della Grecia) aiuta con i suoi incanti il marito Giasone (figlio di re, ma in disgrazia perché lo zio gli ha usurpato il trono) a conquistare un prezioso vello d’oro, e poi si trasferisce con lui a Corinto; ma lì Giasone, sempre in cerca di riscatto, decide di ripudiare Medea, dalla quale ha avuto due figli, per sposare Glauce, la figlia di Creonte re di Corinto, e accedere alla successione del regno; il resto lo si legge in cronaca: Medea uccide i suoi due figli (oltre alla sposina) per gelosia e vendetta.

Medea è una figura mitica che appartiene all’antichissima cultura greca e pare che Euripide non fosse il primo né l’unico a drammatizzare sulla sua figura, così come mitici sono anche gli altri personaggi e le loro ascendenze che risalgono alle epoche misteriche in cui gli Dei dell’Olimpo si accoppiavano con gli umani. Miti che sono metafore di realtà più concrete: ad esempio pare che il vello d’oro, la sua ricerca e la sua conquista, racconti la più prosaica carenza di grano, oro vegetale, di quelle terre.

Nella tragedia di Medea c’è la particolarità, al contrario della tradizione scenica, che non ci sono Dei fra i personaggi: essi latitano, tacciono, tanto che Giasone inveisce contro di loro per la loro assenza nel tragico finale. L’altra particolarità, caratteristica di grande modernità, è che non ci sono i due classici personaggi a dibattere, a scontrarsi in un dualismo scenico, la tesi e l’antitesi, ma c’è la sola Medea che si dibatte nel dualismo dei suoi istinti: quello di madre e quello di assassina che si alternano, nevroticamente diremmo oggi, anche all’interno della stessa scena: una complessità emotiva che rende il personaggio drammaturgicamente sfaccettato e culturalmente esemplare, tanto da venire richiamato alla memoria nelle tristi cronache contemporanee e aver dato il nome alla Sindrome di Medea. Un’altra cosa da considerare del personaggio è la sua alterità, la sua estraneità al luogo di azione e ai comprimari: è una maga, quindi cultrice di oscuri misteri, ed è straniera, quindi portatrice di tradizioni sconosciute: 2453 anni fa un personaggio – o persona – del genere, innescava paure ancestrali che ancora oggi non sono sopite, purtroppo: la paura dello straniero e del diverso da noi, con l’incapacità colpevole del rifiuto alla comprensione e alla conoscenza, e alla serena accoglienza. Inoltre c’è già all’interno della tragedia l’espressione di un preciso modello familiare: quello greco e moderno (di Euripide) che contrasta con quello antico e barbaro di Medea; Giasone spiega la sua necessità di dare nuovi figli alla patria (Mussolini ribadirà il concetto) e ottenere per sé un’emancipazione, un riscatto sociale, rinfacciando alla donna di averla portata via da un mondo barbaro onorandola col matrimonio; è uno scontro di culture che oggi (e dalle nostre parti) si complica dell’emancipazione della donna (a volte più teorica che pratica) dove la donna non è più la custode del focolare domestico intanto che l’uomo va alla conquista del mondo: entrambi hanno pari incarichi ed opportunità, entrambi possono tradire e farsi nuove famiglie – e se oggi una donna si fa Medea sta anche portando indietro di migliaia di anni il suo e il nostro calendario. Questo sul piano sociale. Ma sul piano strettamente umano, sentimentale, non si può che fare i conti con la natura umana, gli istinti – l’amore, l’odio, la paura, la fame, il bisogno di riprodursi – che sono identici nei millenni a prescindere dall’evoluzione sociale e tecnologica.

Altri autori hanno scritto del mito di Medea: Seneca, Ovidio, Quinto Ennio, e dall’Ottocento in poi: l’austriaco Franz Grillparzer, il francese Jean Anouilh, il nostro Corrado Alvaro, la tedesca Christa Wolf. E il film di Pasolini può anch’esso essere considerato una riscrittura: in un periodo in cui il teatro classico veniva (e tutt’oggi viene) modernizzato, lui ne fa un’opera assolutamente antimoderna; asciuga all’estremo i versi e l’azione parlata per ricollocare la sua Medea in un mondo premoderno, con azioni e riti di natura arcaica come i sacrifici umani, e una ritualità tanto affascinante quanto per noi spettatori intellettivamente incomprensibile, perché misterica; cui hanno contribuito in modo determinante gli straordinari costumi di Piero Tosi (Gabriella Pescucci futuro premio Oscar ne è assistente al suo debutto) e la scenografia di Dante Ferretti qui al suo primo lavoro da titolare dopo essere stato assistente sugli altri set di Pasolini “Il vangelo secondo Matteo” “Uccellacci e uccellini” ed “Edipo Re”, in location di straordinario fascino e alterità, dove anche Pisa sembra un misterioso altrove.

Pasolini compone dunque un film più visivo che parlato, con lunghe sequenze certo frutto di minuziosissime ricerche in cui racconta e rende reale sullo schermo un’arcaicità che realmente possiamo però solo immaginare, ed è talmente ben riuscita e affascinante che non ci resta che prenderla per buona. Sulla stessa linea è il commento musicale con brani etnici alla cui ricerca e selezione ha contribuito l’amica Elsa Morante. E il film si presenta come un percorso immersivo in quell’arcaicità in cui lui colloca la vicenda della sua Medea, più fruibile sul piano sensoriale che su quello prosaicamente narrativo. Pasolini apre il film con un lungo monologo filosofeggiante che il centauro Chirone – personaggio inesistente nella tragedia di Euripide – fa al piccolo Giasone mentre scorrono gli anni e il bambino diventa uomo: testo tutto in linea con la visione pasoliniana del mondo e poco appetibile dal punto di vista spettacolare; è il suo “teatro di parola” dove le idee hanno più importanza dell’azione: una sua intellettualistica teorizzazione del teatro che però non ha fatto scuola e nella quale i suoi testi teatrali rimangono congelati. Nel film ne consegue che se non si conosce alla perfezione la storia narrata, la banale trama, ci si perde, anche perché gli altri personaggi, muti o comunque molto silenziosi, non sono neanche nominati e non ci resta che intuirne identità e relazioni. Un’estremizzazione tipica di un Pasolini idealista che nell’assoluta certezza del suo punto di vista non concede nulla allo spettatore, così come all’interlocutore nelle dispute intellettuali sulle pagine stampate.

Giuseppe Gentile, Maria Callas e Pasolini in uno degli assolati set sparsi fra Turchia e Siria

A interpretare l’ingombrante personaggio Pasolini chiama Maria Callas, che non ha bisogno di presentazioni; si può solo contestualizzare che la soprano aveva reso famosa nel mondo l’opera omonima di Luigi Cherubini già legando a sé, così, il nome di Medea; ma sono anche gli anni del suo declino e accetta il ruolo cinematografico come una forma di riscatto dalle tante cocenti delusioni, non ultima quella di Aristotele Onassis che la lascia per sposare Jacqueline Bouvier vedova Kennedy.

E Maria Callas, nell’interpretare questa Medea pasoliniana, è statuaria, magnificamente vestita e truccata come si evince dai titoli di testa: “Il trucco della Sig.ra Callas è stato curato da GOFFREDO ROCCHETTI e la pettinatura da MARIA TERESA CORRIDONI”; e nell’essere statuaria, oltre a dare importanza fisica e morale al suo personaggio, è anche apparentemente inespressiva proprio perché asciuga, cinematograficamente, gli eccessi espressionistici tipici del teatro d’opera dove pure brillava come interprete oltre che come cantante, e calibra espressioni e sguardi furenti quasi da diva del cinema muto – che è un po’ l’impostazione di Pasolini. Anche la sua recitazione, pur nel doppiaggio di Rita Savagnone che ne segue le cadenze, è di alto livello ed esiste un’altra versione del film in cui è lei stessa a doppiarsi.

Per il ruolo di Giasone viene scelto un aitante sportivo con una bella faccia da cinema, l’olimpionico (due medaglie d’argento e due di bronzo) triplista e lunghista Giuseppe Gentile, un metro e novanta di corpo asciutto e tornito che Pasolini adocchiò sui rotocalchi, allorché l’atleta se la spassava sulla Spider donatagli dalla Fiat per le sue imprese alle Olimpiadi del 1968 di Città del Messico, dove aveva segnato due record mondiali, durati però solo 26 ore. Anche Mario Monicelli gli aveva proposto il cinema ma lui aveva rifiutato spiegando che preferiva saltare, ma quando Pasolini si fece avanti con la sua proposta, e con la produzione di Franco Rossellini che gli offriva 10 milioni di lire, accettò di recitare; sentendo però sul set il peso della sua inesperienza e ritrovandosi non più campione da podio ma matricola che doveva ricorrere ai suggerimenti dei professioni del set; e per la scena del bacio con la Callas, il regista perse pure la pazienza: “Se io piegavo il volto a destra – ha ricordato l’atleta – Maria Callas lo girava a sinistra, e viceversa. Fu allora che Pasolini, dopo sei o sette tentativi, si alterò: Vi volete baciare sí o no?” e allora il bacio divenne giocoforza appassionato e fu finalmente “buono” per l’autore. In seguito a questa sua interpretazione gli arrivarono altre offerte che lui rifiutò tutte perché non le riteneva all’altezza dell’esperienza fatta con Pasolini. È doppiato da Pino Colizzi. L’atleta prestato al cinema negli anni a seguire scrisse un libro di memorie, “La medaglia (con)divisa, il triplo, Pasolini e Maria Callas” in cui ricorda erroneamente che a doppiarlo fu Nino Castelnuovo perché a Pasolini non piaceva la sua parlata romanesca, e confessa che con la paga del film si comprò un appartamento, lui che da atleta prendeva dal Coni 140mila lire al mese; e comunque era benestante per nascita essendo figlio del questore di Roma e pronipote del filosofo Giovanni Gentile che fu ministro dell’istruzione per Mussolini; in seguito gli furono offerti altri film, soprattutto spaghetti-western, in uno dei quali doveva sculacciare una donna e lui da gentiluomo rifiutò; ma racconta soprattutto che la sua scrittura doveva essere approvata dalla divina Callas che volle incontrarlo preventivamente, e valutarlo; valutazioni artistiche che lo stesso Pier Paolo le chiedeva sul set, riconoscendole un’esperienza artistica lunga decenni e di vastità mondiale, una condiscendenza che non aveva per nessun altro, ed era con tutti rigido e intransigente.

Anche il resto del cast è nello stile pasoliniano che mischia la manovalanza locale ad attori professionisti, e professioni in altri campi che diventano attori occasionali. Dal mondo sportivo arriva anche un carissimo amico di Giuseppe Gentile, il discobolo Gianni Brandizzi che con i suoi quasi due metri d’altezza è Ercole negli Argonauti guidati da Giasone; lo studente Luigi Barbini, già apostolo in “Il Vangelo secondo Matteo” è un altro degli Argonauti; il francese Laurent Terzieff è il centauro Chirone doppiato da Enrico Maria Salerno; e Massimo Girotti, che l’anno prima era stato nel cast di “Teorema” torna a lavorare con Pasolini nel ruolo di Creonte; un’altra francese, Margareth Clémenti, moglie di Pierre Clémenti, è Glauce; Annamaria Chio è la nutrice, Sergio Tramonti debutta come Apsirto, il fratello che Medea uccide e fa a pezzi al fine di rallentare suo padre Eete che la sta inseguendo dopo che lei ha aiutato Giasone a trafugare il vello d’oro – e già lì Medea promette male; Maria Cumani Quasimodo, moglie del poeta, è una sacerdotessa; il cantautore americano Paul Jabara è Pelia, lo zio cattivo di Giasone; e c’è anche una quasi debuttante Piera Degli Esposti che si fa fatica a riconoscere nella corte di donne che accudisce la protagonista.

Il film, apprezzato dai critici, fu snobbato dal pubblico come fin qui tutti i film di Pasolini. Nel 1988 il danese Lars Von Trier realizza una Medea per la televisione basata sulla sceneggiatura di Carl Theodor Dreyer che era già stata offerta a Maria Callas.

Massimo Girotti
Laurent Terzieff con Pasolini
Piera Degli Esposti
Sergio Tramonti

Luigi Barbini
Margareth Clémenti

Il Vangelo secondo Matteo

1964. Dopo le aspre polemiche e la denuncia per vilipendio alla religione del suo cortometraggio “La ricotta” che compone il film “Ro.Go.Pa.G.”, Pier Paolo Pasolini torna nelle sale con un film intensamente religioso, frutto di meditazioni personali che risalgono a quando adolescente era stato tentato dalla via ecclesiale – segno di una tormentata e intensa vita interiore – poi dirazzata nel comunismo più spinto nella sua presa di coscienza sociale secondo la quale metteva gli ultimi al centro del suo pensiero speculativo: dirazzata perché era un’epoca in cui dichiararsi comunisti significava automaticamente dirsi anche atei. Era l’epoca delle barricate ideologiche perché ancora bruciavano le ferite del fascismo che i quarantenni come Pasolini avevano vissuto sulla loro pelle, un fascismo nero e cattivo che era stato rimpiazzato dal totalitarismo del fascismo bianco accogliente e rassicurante della Democrazia Cristiana, una democrazia che ispirata appunto al cristianesimo metteva al bando e perseguitava anche con l’uso della forza qualsiasi pensiero che avesse radici a oriente, nel comunismo russo e cinese: erano gli anni in cui si temeva che i cosacchi venissero ad abbeverare i loro cavalli in San Pietro, il libero stato del Vaticano che eterodirigeva (e ancora lo fa, anche se a fatica) lo stato italiano.

Ma va considerato che la Democrazia sedicente Cristiana era in realtà soltanto cattolica, sapendo che fra cristianesimo e cattolicesimo ci sono delle sostanziali differenze che non sfuggivano certo all’attenzione di Pasolini che, da questo punto di vista, si poteva definire più cristiano dei sedicenti cristiani di fede cattolica: Cristiano è colui che segue gli insegnamenti del Cristo e sono Cristiani anche i Protestanti e gli Ortodossi che non riconoscono l’autorità del Papa cattolico dato che il Cattolicesimo è una delle tante confessioni che sono nate nel nome di Cristo, la più pervasiva ma non l’unica e assoluta; e laddove il Cattolicesimo si è imposto come una sovrastruttura politica con le sue classi dirigenti con propri palazzi del potere che nulla hanno da invidiare ai palazzi reali – il Cristianesimo, quello puro, si può vedere come la religione dei poveri e degli ultimi a cui il Cristo ha dato attenzione e voce: quel Cristo che ha cacciato i mercanti dal tempio è qui Pasolini che mette i cattolici di fronte a quella stessa scomodissima realtà.

Elsa Morante, Pasolini, Bini e Margherita Caruso e Marcello Morante come Maria e Giuseppe

Pasolini aveva dichiarato: “La mia idea è questa: seguire punto per punto il Vangelo secondo Matteo, senza farne una sceneggiatura o riduzione. Tradurlo fedelmente in immagini, seguendone senza una omissione o un’aggiunta il racconto. Anche i dialoghi dovrebbero essere rigorosamente quelli di San Matteo, senza nemmeno una frase di spiegazione o di raccordo: perché nessuna immagine o nessuna parola inserita potrà mai essere all’altezza poetica del testo. E’ quest’altezza poetica che così ansiosamente mi ispira. Ed è un’opera di poesia che io voglio fare. Non un’opera religiosa nel senso corrente del termine, né un’opera in qualche modo ideologica. In parole molto semplici e povere: io non credo che Cristo sia figlio di Dio, perché non sono credente, almeno nella coscienza. Ma credo che Cristo sia divino: credo cioè che in lui l’umanità sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di là dei comuni termini dell’umanità. Per questo dico ‘poesia’: strumento irrazionale per esprimere questo mio sentimento irrazionale per Cristo.”

Enrique Irazoqui, Pasolini e accovacciato sul fondo l’aiuto regista Maurizio Lucidi

Secondo il suo stile compone un film scarno con la fotografia in bianco e nero del fidato Tonino Delli Colli, fatto di molti primi piani che si alternano a campi lunghi e lunghissimi, e occasionali carrellate a scoprire i soggetti fermi e fissi come in posa per dei ritratti o a seguire i movimenti lunghi delle processioni. Scrive da solo la sceneggiatura dal Vangelo di Matteo senza aggiungere nulla, e da quel punto di vista è inattaccabile; però non sa rinunciare alla sua visione delle cose e nel primo film che consegna al produttore Alfredo Bini non ci sono i miracoli né la resurrezione perché il suo film intendeva raccontare solo un uomo, l’uomo Gesù, che spogliato dai fenomeni soprannaturali è soltanto trascinatore di quelle masse cui raccontava una nuova verità: per Pasolini il cosiddetto Verbo di Cristo aveva più valore della parte più fantastica e accattivante del racconto. Il produttore invitò alla visione privata il suo amico Monsignor Francesco Angelicchio, che da Giovanni XXIII era stato messo a dirigere il Centro Cattolico Cinematografico, ruolo che lui svolgeva senza piglio censorio ma in modo amichevole ascoltava le persone per meglio aiutarle a indirizzare i loro messaggi, e per questo era diventato intimo di molte personalità del mondo cinematografico fra cui Fellini, Rossellini, Olmi oltre ai più barricadieri Liliana Cavani e Pasolini appunto. Qui di seguito l’intervista Rai su quell’incontro.

Pasolini aveva scelto come set naturali la Basilicata e la Calabria, come anche le desertiche pendici sassose dell’Etna per la sequenza della tentazione del demonio, perché la Palestina, dove aveva fatto un sopralluogo, si era troppo occidentalizzata e lì anche le eventuali comparse non erano più credibili, lui che cercava l’arcaicità e riusciva a trovarla solo nel sottoproletariato, la bassa manovalanza, gli analfabeti, e trova volti segnati, di grande efficacia espressiva anche laddove non esprimono nulla perché il segno è nelle rughe, nei denti poco curati, negli sguardi attoniti e inconsapevoli, e a tutti lui dedica un primo piano. In questo senso è magistrale la sua ricerca dei volti, come lo fu quella di Fellini, ma Fellini truccava e vestiva i suoi figuranti per farli diventare grottescamente simili ai pupazzi che disegnava mentre Pasolini li lascia tragicamente integri.

Così, dopo la chiacchierata con Checco Angelicchio, tornò ai Sassi di Matera e rimise in piedi i set, cercando fra i locali dei veri storpi: anche i miracoli sono quanto di più scarno si possa cinematograficamente immaginare ma sono in linea, e dunque efficaci, col racconto fortemente voluto dall’autore che, va svelato, aveva raggelato i primi entusiasmi del produttore che si era immaginato un kolossal in Technicolor addirittura con Burt Lancaster protagonista, una roba hollywoodiana insomma, che l’anno dopo sarebbe arrivata puntuale con “La più grande storia mai raccontata” di George Stevens. E nonostante il beneplacito del monsignore e dunque del Vaticano, siccome c’erano e sempre ci sono quelli più realisti del re, il film scatenò sulle pagine dei giornali aspri confronti fra sostenitori e detrattori fra i quali si riaffacciarono quelli che ancora gridavano allo scandalo e di nuovo invocavano il vilipendio: l’animosità non era contro il film ma contro Pasolini in quanto scomodissimo intellettuale. Ambiguo fu il giudizio dell’Unità: “Il nostro cineasta ha soltanto composto il più bel film su Cristo che sia stato fatto finora, e probabilmente il più sincero che egli potesse concepire. Di entrambe le cose gli va dato obiettivamente, ma non entusiasticamente atto”: da notare il riduttivo soltanto e la formale e obiettiva mancanza di entusiasmo. Misurato fu il giudizio dell’organo di stampa vaticano, l’Osservatore Romano: “Fedele al racconto non all’ispirazione del Vangelo” che però alla fine chiosa: “Il più bel film su Gesù di tutti i tempi” consegnando ai posteri ma soprattutto ai contemporanei un giudizio positivo che varrà al film il Leone d’Argento Gran Premio della Giuria a Venezia, i Nastri d’Argento alla regia, alla fotografia e ai costumi davvero molto belli di Danilo Donati, e le candidature all’Oscar sempre per i costumi, la scenografia di Dante Ferretti e Luigi Scaccianoce e la colonna sonora con le musiche originali di Luis Bacalov oltre al repertorio classico tanto caro a Pasolini.

Il ruolo di Gesù lo offre a un diciannovenne catalano, Enrique Irazoqui, che per le sue origini italiane dal lato materno, era stato mandato dal sindacato universitario clandestino di Barcellona presso un’organizzazione di studenti fiorentini in cerca di aiuti economici per coprire un grosso debito che gli studenti antifranchisti avevano accumulato con i tipografi della loro città. Da Firenze la raccolta fondi universitaria si spostò a Roma e lì Enrique conobbe Pasolini e la Morante in casa di lui che fu subito intrigato dal suo viso e gli propose il ruolo, telefonando di corsa al produttore: “Ho trovato Gesù! Gesù è in casa mia!” Lo studente però aveva rifiutato l’offerta perché in contrasto con la sua ideologia, ma fu convinto da Elsa Morante e dal produttore Alfredo Bini che gli indicarono la via: interpretare un Gesù gramsciano, politicamente vicino agli ultimi – ma anche l’entità del compenso fu determinante all’accettazione del ruolo, compenso che versò interamente nelle casse del movimento studentesco antifranchista. Rientrato in patria fu punito dal regime per avere interpretato un film di “propaganda comunista” col ritiro del passaporto e l’espulsione dall’università. Divenuto a suo modo una estrella del cine girò altri due lungometraggi della scuola oggi detta barcellonese, entrambi con l’italiana in trasferta Serena Vergano già interprete di “Una vita violenta” di Heusch-Rondi e dunque appartenente a quella che oggi possiamo definire la factory di Pasolini per parafrasare quella newyorkese di Andy Warhol. Poi Enrique si spostò a Parigi per laurearsi in economia e successivamente andò negli Stati Uniti dove conseguì una seconda laurea in letteratura spagnola, materia che insegnò nelle università statunitensi. Ma sin da bambino era stato anche un appassionato di scacchi, tanto che nel 1968 era riuscito a battere il numero tre della squadra olimpica francese, e in seguito, non trovando degni avversari nelle università, cominciò a giocare contro un computer – era l’epoca in cui quelle macchine cominciavano a diffondersi nelle università americane – ma non ritenendolo all’altezza predispose partite fra due pc, apportando così importanti migliorie alle capacità del dispositivo. Nel 2011 è tornato in Italia per una mostra dedicata a Pasolini e in quell’occasione ha ricevuto la cittadinanza onoraria di Matera; ha dichiarato che Pasolini avrebbe voluto fare un film da un suo testo intitolato “Il padre selvaggio” solo a condizione di averlo ancora come protagonista, ma Irazoqui aveva rifiutato dicendosi ormai più interessato a fare la rivoluzione che il cinema. Negli ultimi anni è tornato però davanti alla macchina da presa, prima nel video musicale di Vinicio Capossela “Il povero Cristo” interpretato anche da Marcello Fonte e Rossella Brescia, e poi nel progetto multimediale materano, film più performance dal vivo, di Milo Rau “Il nuovo vangelo”. È morto 76enne nel 2020 ed è ancora inedito il suo ultimo film, “Cenestesia” di Joan Vall Karsunke, ispirato all’omonimo e semi-autobiografico libro di José María Nunes.

L’interpretazione del ragazzo è intensa e convincente ma necessitando di essere doppiato viene chiamato a dargli voce Enrico Maria Salerno che è di 22 anni più anziano e questo si sente, la voce non corrisponde al volto in quello che in gergo si dice voce scollata; ma c’è di buono che stavolta il lavoro del professionista svolto nel buio della saletta di registrazione viene riconosciuto sin nei titoli di testa. Il resto del cast, come detto, è formato dalla manovalanza locale e dagli intellettuali amici di Pasolini che ormai fanno la fila per apparire nei suoi film. In testa c’è la maschera tragica di Susanna Pasolini, madre dell’autore nel ruolo della vecchia dolente Maria.

La giovane Maria è interpretata dalla studentessa 14enne Margherita Caruso, che subito dopo avere preso parte al film ricevette una proposta dal già hollywoodiano Dino De Laurentiis per interpretare una nuora di Noè in “La Bibbia” di John Huston; Margherita, che nel frattempo è divenuta perito chimico e vive a Milano, racconta 50 anni dopo che a scattarle alcune fotografie ai giardini comunali fu il padre, ma non era il book professionale che avevano richiesto gli americani e la cosa finì lì. L’ex ragazzina racconta che Pasolini era giunto da quelle parti accompagnato dal 16enne Ninetto Davoli: i due già si frequentavano a Roma ma Ninetto era nativo proprio della Calabria e gli avrebbe fatto da gancio con i locali; nello specifico si era avvicinato alla ragazzina guardandola con fare ammiccante e lei, abbassando lo sguardo intimidita era tornata nella comitiva dei suoi amici: quello era stato il primo provino. Subito dopo si sentì bussare su una spalla: era lui, Pasolini, che le dice: “Mi conosci?”. “No”, aveva risposto lei. “Sono Pasolini, ti piacerebbe fare un film?”. Ci fu un boato tra gli amici, più per la parola film che per il nome Pasolini. I provini lui li aveva fatti così, per strada: mandava Ninetto Davoli a fare domande provocatorie a quelli che aveva puntato e se ne stava in disparte a guardare come reagivano, come si muovevano: li sceglieva per l’espressività e poi sul set si lavorava senza copione, diceva all’ultimo momento quello che bisognava fare. “Ma io ho fatto un provino anche a casa sua; c’erano Morante, Moravia, Siciliano, Maraini.” Anche suo padre fece il figurante e interpretò il fariseo che dice del Cristo: “Dobbiamo trovare un modo per farlo morire”.

L’importante ruolo di Giuseppe va invece allo scrittore Marcello Morante fratello della più nota Elsa Morante già carcerata in “Accattone”, e padre dell’attrice Laura Morante, qui doppiato da Gianni Bonagura. Un altro scrittore e poeta, Mario Socrate, interpreta il Battista doppiato da Pino Locchi e a discesa tutti gli altri ruoli, grandi e piccoli, interpretati da intellettuali e affini: Natalia Ginzburg è Maria di Betania e Enzo Siciliano è Simone; Giacomo Morante, figlio di Marcello e fratello di Laura, interpreta Giovanni l’Apostolo; il filosofo Giorgio Agamben è Filippo; lo scrittore e giornalista Francesco Leonetti è Erode Antipa; il poeta scrittore pittore Alfonso Gatto è Andrea; il principe palermitano Alessandro Tasca di Cutò è Ponzio Pilato; il contadino partigiano e rivoluzionario intellettuale Rosario Migale è Tommaso; il poeta scrittore argentino naturalizzato italiano Rodolfo Wilcock è Caifa; gli attori professionisti Elio Spaziani e Renato Terra interpretano Taddeo e un fariseo; Amerigo Bevilacqua da borgataro di “Accattone” assurge al ruolo di Erode il Grande; lo studente 17enne Luigi Barbini è Giacomo di Zebedeo, e dopo quest’esperienza continua per altri pochi anni la carriera di attore girando anche una mezza dozzina di film di nuovo con Pasolini ma anche con un piccolo ruolo in “Giulietta degli spiriti” di Fellini e un paio di peplum, ma alla fine ha lasciato la carriera cinematografica per laurearsi in Teologia; la 12enne Paola Tedesco debutta come Salomè e la notorietà le arriva in tv come valletta di Pippo Baudo, cui seguirà una carriera di attrice in film di secondo piano; Rossana Di Rocco è l’angelo, e se lo aggiudicherà lei il ruolo della nuora di Noè in “La Bibbia” che era sfuggito a Margherita Caruso, e avrà anche una particina nel film di Alessandro Blasetti con Walter Chiari “Io… io… io… e gli altri” prima di tornare alla vita cosiddetta civile. Anche Ninetto Davoli debutta come pastorello e subito dopo sarà coprotagonista con Totò in “Uccellacci e uccellini”: da notare che fra i giovani proletari lanciati da Pasolini lui è l’unico che appare sempre apertamente sorridente, nelle fotografie in posa gli altri hanno molto più spesso uno sguardo sfuggente o un sorriso amaro o di sola circostanza: già in quello sguardo aperto e senza vergogna si vede che sarà vicino a Pier Paolo fino alla fine.

“Il miglior film su Cristo, per me, è Il Vangelo secondo Matteo, di Pasolini. Quando ero giovane, volevo fare una versione contemporanea della storia di Cristo ambientata nelle case popolari e per le strade del centro di New York. Ma quando ho visto il film di Pasolini, ho capito che quel film era già stato fatto.” Martin Scorsese. Su YouTube il film completo.

Mamma Roma

Per il suo secondo film Pier Paolo Pasolini alza il tiro e inserendo nel suo immaginario la diva Anna Magnani scrive per lei un personaggio inedito, come scrisse Antonello Trombadori, in cui ammorbidisce la traccia scandalosa di quella sua narrativa da cui ha tratto l’opera prima “Accattone” e a cui si è ispirato il film “Una vita violenta”. Ancora una volta esplora la periferia romana coi suoi borgatari sempre pronti all’illecito e alla scelleratezza, ma al centro del racconto ora c’è una prostituta di mezza età che lascia il mestiere e recupera il figlio adolescente dato a balia a Guidonia, comune a nord-est della capitale, all’epoca centro campagnolo abitato da burini secondo la visione romanocentrica. Essendo protagonista Anna Magnani – è già premio Oscar 1956 per “La Rosa Tatuata” di Daniel Mann e non si contano tutti gli altri riconoscimenti – la sua Mamma Roma non può che essere una donna schietta e di buon cuore, esuberante sia come personaggio che come attrice, e sul set di Pasolini porta, insieme alla spiccata romanità, una grande presenza scenica che è un misto di magnetismo e professionalità, e a tal proposito è esemplare l’inizio del film dove al matrimonio del suo pappone dà il via agli stornelli sberleffo che improvvisano su “fior di…” e cambiando il fiore di volta in volta cambia la rima e il contenuto della strofa: da antica frequentatrice di rumorosi palcoscenici d’avanspettacolo, prima di cominciare fa una brevissima pausa saliente aspettando che tutti i burini alla tavolata facciano silenzio: zitti tutti parla la Magnani!

MAMMA ROMA
Fior de gaggia,
quando canto io canto con allegria,
ma se io dico tutto rovino ‘sta compagnia!
CARMINE
Fiore de sabbia,
tu ridi, scherzi, fai la santa donna,
e invece in petto schiatti da la rabbia.
MAMMA ROMA
Fiore de menta,
fèrmete lingua, chè ce sta n’innocente:
è mejo che nun veda e che nun senta!
SPOSA
Fior de cocuzza,
‘na donna per ‘sti baffi andava pazza,
e adesso che li perde ce va in puzza!
MAMMA ROMA
Fiore de merda,
io me so’ libberata da ‘na corda,
adesso tocca a ‘n’altra a fà la serva!

E finalmente l’autore può scrivere per lei dei bei monologhi in quel romanesco a cui sempre collabora Sergio Citti, lasciando al coro dei borgatari le solite battute colorite e riservando al personaggio del figlio coprotagonista un’attenzione più cinematograficamente fatta di immagini mentre lo segue, e quasi lo spia amorevolmente, per pratoni e distese desolate. In questo ruolo fa debuttare il 15enne (17enne nel film) Ettore Garofolo che scopre mentre serve ai tavoli di un ristorante e al cui personaggio dà il suo stesso nome, di fatto disegnandoglielo addosso, e il ragazzo risulta più convincente – con la sua voce in presa diretta – di quanto non sia stato l’altro debuttante, Franco Citti, qui munito di baffo malandrino e messo nel ruolo secondario ma significativo di Carmine, il protettore dell’anziana prostituta. Nel cast torna Silvana Corsini nell’interessante ruolo di una ragazza maliziosa, leggera nel comportamento ma soprattutto nello spirito, forse un po’ tarda e allegramente inconsapevole di prostituirsi anche per dei ciondoli da nulla, che allegramente accetta il sesso di gruppo molto simile a una violenza. Un altro ruolo di rilievo, la prostituta Biancofiore, va a Luisa Loiano, altra frequentazione pasoliniana, un volto assai somigliante alla siciliana Daniela Rocca. Dalla famiglia Citti stavolta è il momento del padre, Santino Citti come padre della sposa che è Maria Bernardini. L’ex protagonista di “Ladri di biciclette” di De Sica, Lamberto Maggiorani, fa qui la figurazione di un malato all’ospedale.

Come in “Accattone” per l’accompagnamento musicale Pasolini usa la musica classica barocca che crea un interessante contrasto con la povertà delle sue borgate, ma qui la vera colonna sonora è la canzone “Violino tzigano” di Bixio-Cherubini nella versione cantata dal bambino spagnolo Joselito, il cui 45 giri è il preferito da Roma Garofolo. Sul piano visivo, benché Pasolini abbia contestato gli ovvi accostamenti, è evidente che per la tavola a U degli sposi a inizio film si sia ispirato a “Le nozze di Cana” di Paolo Veronesi spogliandola del fasto e della scenografia, mentre per il ragazzo morente nel finale, inquadrato dai piedi, ancora più esplicito è il riferimento è “Il Cristo morto” di Andrea Mantegna.

In concorso al Festival del Cinema di Venezia, non vince niente ma neanche crea lo scandalo dell’opera prima: pubblico e critica sanno già cosa aspettarsi e c’è la curiosità di vedere la Magnani che percorre le periferie di Pasolini, il quale per la prima volta fa muovere la macchina da presa e inventa per lei due belle lunghe carrellate all’indietro con l’attrice che procede dritta e spavalda verso la cinepresa mentre dal buio della notte entrano ed escono dal campo visivo e si accompagnano a lei per un tratto, succedendosi gli uni agli altri, le figure tipiche di quelle notti e di quell’ambiente che Pasolini ben conosce e frequenta, fatto di prostitute, ragazzotti sfaccendati, omosessuali effeminati: un momento di cinematografia da antologia. Ma la critica non si smentisce e attacca il film concentrandosi su Pasolini che avrebbe dovuto continuare a fare il poeta senza immischiarsi nel cinema, e sulla Magnani troppo esuberante e indomabile per quel regista di poca o nulla esperienza, consegnando ai posteri un film giudicato “indecoroso” e vietato stavolta solo ai minori di anni 14.

Su quello che succedeva sul set rimane preziosa la testimonianza dell’aiuto regista Carlo Di Carlo che ha redatto giorno per giorno il “Diario di lavorazione del film Mamma Roma” e lascia note preziose sulla recitazione, quella voluta dall’autore in contrasto con quella con cui era abituata ad esprimersi l’attrice: “La Magnani è di un altro umore, ora che si è “rodata” e si è intesa con Tonino (Tonino Delli Colli, direttore della fotografia). Ha indovinato le luci per il suo naso, che lei chiama “la sciabola”. Seguita però a discutere con Pier Paolo perché insiste a farle recitare le battute staccate e mai unite. Mai una scena intera. Dice che “recita” e non è naturale come la vuole lui, girando in questo modo inconsueto. L’odio, la rabbia, l’umore, insomma, improvviso e secco – com’è richiesto dal copione – non può essere “estratto” battuta per battuta. Ma Pasolini insiste. Le discussioni seguiteranno anche nei giorni a venire e Anna alla fine prenderà l’abitudine e ne sarà contenta.” Questo tipo di lavoro si vede nei dialoghi che Pasolini gira con l’alternanza dei primi piani, botta e risposta, senza costruire mai una vera e propria fluida conversazione fra i due interpreti. Questo dice molto sul Pasolini regista, che sapeva quello che voleva e sapeva tenere testa anche a cotanta Magnani che di sé soleva dire con allegra arroganza: “Io so’ a Magnani, embè?”

Anche Pasolini teneva un suo diario, il “Diario al registratore” dove registrava le conversazioni, e trascrive:
Anna: “Io ho capito benissimo che tu funzioni con degli attori che prendi e plasmi come una materia grezza. Essi, pur con la loro intelligenza istintiva, sono dei robot nelle tue mani. Ora, io non sono un robot.”
Io: “Ma questo è una difficoltà che io avevo calcolato, Anna. Amalgamare te con gli altri era il problema principe del mio nuovo lavoro di regista: ne avevo piena coscienza all’inizio del film. Non sarebbe meglio, su questo, essere reticenti?”
Anna: “No, io credo che occorra avere dei piccoli conflitti di chiarificazione. La via d’intesa tra due persone intelligenti si trova sempre. Altrimenti io ho la sensazione di funzionare senza avere la coscienza di quello che faccio; invece io ho bisogno, assoluto, di avere questa coscienza.”
Più avanti lui confermerà: “In realtà dopo un giorno soltanto, e non più, di crisi, i rapporti tra me e lei sono corsi via lisci, limpidi, leali”.
Se ne deduce che entrambi scesero a compromessi nel rispetto reciproco, arricchendosi entrambi nell’esperienza e arricchendo la storia della nostra cinematografia.

Vale la pena ripercorrere le tappe che hanno segnato l’incontro e la collaborazione fra i due. 1945, a Udine si proietta il film “Roma città aperta” di Roberto Rossellini e il 23enne Pier Paolo percorre in bicicletta 40 km da Casarsa per andare a vederlo. Film che rivedrà nel ’53 quando già si è trasferito a Roma e stavolta si compenetra talmente che ci scrive anche dei versi, che lui stesso leggerà durante una delle tante premiazioni dell’attrice.

Ma che colpo al cuore quando, su un liso
cartellone… Mi avvicino, guardo il colore
già d’un altro tempo, che ha il caldo viso
ovale dell’eroina, lo squallore
eroico del povero, opaco manifesto.
Subito entro: scosso da un interno clamore,
deciso a tremare nel ricordo,
a consumare la gloria del mio gesto.
Entro nell’arena, all’ultimo spettacolo,
senza vita, con grigie persone,
parenti, amici, sparsi sulle panche,
persi nell’ombra in cerchi distinti
e biancastri, nel fresco ricettacolo…
Subito, alle prime inquadrature,
mi travolge e rapisce… l’intermittence
du coeur. Mi trovo nelle scure
vie della memoria, nelle stanze
misteriose dove l’uomo fisicamente è altro,
e il passato lo bagna col suo pianto…
Eppure, dal lungo uso fatto esperto,
non perdo i fili: ecco… la Casilina,
su cui tristemente si aprono
le porte della città di Rossellini…
Ecco l’epico paesaggio neorealista,
coi fili del telegrafo, i selciati, i pini,
i muretti scrostati, la mistica
folla perduta nel daffare quotidiano,
le tetre forme della dominazione nazista…
Quasi emblema, ormai, l’urlo della Magnani,
sotto le ciocche disordinatamente assolute,
risuona nelle disperate panoramiche,
e nelle sue occhiate vive e mute
si addensa il senso della tragedia.
è lì che si dissolve e si mutila
il presente, e assorda il canto degli aedi.

Nel 1960 lui prepara per “Il reporter” un articolo sulla comicità degli attori italiani, e tornerà a riflettere su Anna Magnani che assimila, per la romanità, ad Alberto Sordi. Ma dicendo che le qualità artistiche dell’attrice erano state negli anni svuotate di senso e travisate. Scrive: “Eppure la Magnani ha avuto tanto successo, anche fuori d’Italia: il suo «particolarismo» è stato subito compreso, è diventato subito, come si usa dire, universale, patrimonio comune di infiniti pubblici. Lo sberleffo della popolana di Trastevere, la sua risata, la sua impazienza, il suo modo di alzare le spalle, il suo mettersi la mano sul collo sopra le zinne, la sua testa scapijata, il suo sguardo di schifo, la sua pena, la sua accoratezza: tutto è diventato assoluto, si è spogliato del colore locale ed è diventato merce di scambio, internazionale. È qualcosa di simile a quello che succede per i canti popolari: basta trascriverli, aggiustarli un po’, toglierci la selvatichezza e l’eccessivo sentore di miseria, ed eccoli pronti per lo smercio a tutte le latitudini.”

Dunque anche in lei Pasolini tentava di difendere quella naturalezza che tanto amava nei non professionisti e la stava avvertendo sul rischio di omologazione. E torna a omaggiarla quando è chiamato a collaborare alla realizzazione del volume “Donne di Roma”: “Dall’aria di sfida di Anna, può nascere qualsiasi cosa: ma quello che ci si aspetta sempre, comunque, è che canti. Uno stornello. Di quello vecchi, appena rinnovato da qualche allegra invenzione, e che finisce ridendo. Lei non può che esprimersi cantando, perché ciò che ha da esprimere è una cosa indistinta e intera: la pura vita, sua, e delle generazioni di donne romane che sono state al mondo prima di lei.”

1961, si proietta a Venezia “Accattone” con tutto quel che segue. Alla prima Anna Magnani è fra gli spettatori e in seguito dichiarerà: “Pasolini è un poeta. Mi è bastato vedere Accattone per convincermene. Uno che al primo film riesce a scrivere in quel modo con la macchina da presa, come regista dà tutte le garanzie.” tanto che uscendo dalla sala, ancora esaltata dalla visione, va di corsa dal produttore Alfredo Bini per dirgli: “Mi devi far fare un film con Pier Paolo!” e c’è da ricordare che era ferma da due anni dopo “Risate di gioia” con Totò di Mario Monicelli, film non riuscito, e ora era attentissima alle proposte per non rovinarsi la carriera. Pasolini, che aveva già cominciato a scrivere il film, quando il produttore gli riferì dell’interesse della Magnani ne fu assai felice, dirà più avanti: “Non potevo sperare una protagonista migliore. Nel mondo ci sono cinque o sei attori veramente grandi. Una è Anna Magnani.” anche se Alfredo Bini aveva in realtà della perplessità: “Speravo che Anna Magnani non facesse Mamma Roma perché era come un wurstel su una torta di panna o una ciliegina su un goulash. Ma Pasolini si era fissato con lei. Così andai a trovarla e le dissi che se voleva fare quel film, doveva lavorare gratis, con un 20 per cento sugli utili. All’inizio, urlò e se la prese col suo agente per l’affronto della proposta. Me ne andai convinto che la faccenda fosse archiviata e invece il giorno dopo lei mi chiamò per dirmi che accettava.”

Ancora Pier Paolo su Nannarella: “La vedevo distratta: continuava a fissare una chitarra appesa al muro. “Chi la suona?”, chiedeva ogni tanto al cameriere. E il ragazzo, intimidito dal fatto di trovarsi di fronte l’attrice, non le rispondeva. Ad un tratto chiese che gliela portasse, e cominciò, accompagnandosi con quel povero strumento da trattoria, a modulare impercettibilmente, a fior di labbra, melodie napoletane e siciliane: non ho mai sentito cantare con maggior dolcezza e delicatezza. È questa Magnani assolutamente nuova che voglio portare sullo schermo in Mamma Roma, il mio secondo e ultimo film d’ambiente romano.”

Il suo prossimo impegno cinematografico sarà il cortometraggio “La ricotta” dal film a episodi “Ro.Go.Pa.G.” il cui titolo mette insieme le lettere iniziali dei registi: Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti. E le sue citazioni figurative saranno più esplicite.

Accattone – opera prima di Pier Paolo Pasolini

Per il suo debutto come regista cinematografico Pier Paolo Pasolini scrive una sceneggiatura che è il compendio dei suoi precedenti romanzi, per i quali, sia i romanzi che questa sceneggiatura, si avvale del fondamentale aiuto del romanissimo Sergio Citti per il glossario romanesco, perché lui era cresciuto in Friuli (ma nato a Bologna) e aveva esordito ventenne come poeta proprio con un libretto in versi friulani, “Poesie a Casarsa”, amato luogo della sua infanzia, ancora prima di laurearsi in Lettere con 110 e lode, a Bologna, dove era tornato per concludere gli studi. Intanto, mentre studiava, frequentava il cineclub dove si è appassionato ai film di René Clair, un cinema misto di realtà quotidiana abitata da gente comune e di una componente fantastica e onirica, tematiche che caratterizzeranno il cinema del futuro regista Pasolini.

Primo numero di Il Setaccio di cui Pasolini disegnò la copertina

Viveva già i suoi tormenti interiori di omosessuale in un’epoca e in un ambiente caratterizzato dagli uomini duri e puri di stampo fascista: siamo alla fine degli anni ’30. Nell’ambiente universitario comincia a frequentare il GUF, Gruppi Universitari Fascisti, i Campeggi della Milizia e, essendo un ottimo sportivo, le Competizioni Littoriali della Cultura. Aderì anche alla GIL, Gioventù Italiana del Littorio, che avviò la pubblicazione della rivista “Il Setaccio” di cui il ventenne Pasolini fu subito viceredattore, un viceredattore che entrò immediatamente in conflitto col direttore responsabile Giovanni Falzone che, benché la rivista si occupasse di arte, era molto ligio ai dettami del regime e usò la rivista come mezzo di propaganda, quella propaganda tanto a cuore ai vertici del Fascio. La rivista vivrà per soli cinque numeri.

Nell’autunno del 1942 aveva partecipato a un viaggio organizzato nella Germania nazista, affinché le gioventù universitarie dei paesi nazifascisti si potessero incontrare e confrontare – ma in Pasolini, che aveva già sviluppato una sua coscienza sociale, quell’esperienza lo condusse a riflessioni antitetiche a quelle del regime, e tornato a Bologna pubblicò sulla rivista del GUF l’articolo “Cultura italiana e cultura europea a Weimar” in cui si tracciava quello che sarà il Pasolini sempre controcorrente; e di seguito sul “Setaccio” cominciò a tracciare le linee di un programma culturale i cui principi erano quelli dello sforzo di autocoscienza e del travaglio interiore, sia individuale che collettivo, e di un’autonoma e sofferta sensibilità critica: un percorso che di fatto lo poneva già al di fuori del fascismo, ma che intimamente riecheggiava i suoi umani tormenti.

Il primo settembre del 1943 il ventunenne Pasolini fu chiamato alle armi, solo due giorni prima che l’Italia firmasse a Cassibile l’Armistizio con gli Alleati perdendo la guerra e voltando le spalle all’ex alleata Germania; ma essendo di fatto già un militare coscritto, il giovane era sottoposto alle regole dei combattenti, e appena una settimana dopo avere indossato la divisa si vide costretto a consegnare le armi agli ex alleati tedeschi: già allora, e come sempre nel corso della sua vita, Pasolini non consegnò le armi, non le consegnerà mai e vivrà sempre come sulle barricate, e all’epoca per non venire deportato si travestì da contadino tornando a rifugiarsi nella friulana Casarsa. Ma la guerra, coi suoi ultimi colpi di coda, portò una tragedia in casa Pasolini: Guido, il suo amato fratello minore che si era unito ai partigiani mentre in quel Nord Italia ancora resisteva la Repubblica di Salò, venne ucciso in quello che verrà ricordato come l’eccidio di Porzûs che verrà rievocato nel film del 1997 di Renzo Martinelli “Porzûs”. Nel 1947 Pier Paolo aderisce al Partito Comunista. Intanto si era conclusa la carriera militare del padre, che tornando da una prigionia in Kenya affetto da alcolismo e paranoie, oggi diremmo stress post traumatico da combattimento, renderà la vita difficile alla moglie e al figlio superstite al quale, lui che era stato orgogliosamente un militare fascista anche nella guardia personale di Mussolini, non perdona il voltafaccia comunista.

Nel ’49 ci fu il primo scandalo: Pier Paolo venne imputato per atti osceni in luogo pubblico avendo pagato tre ragazzi per una masturbazione collettiva, e la famiglia pagò ad ognuno centomila lire, circa due milioni e mezzo delle ultime lire in valuta di fine millennio, oppure circa mille e trecento euro attuali; ma poiché uno dei minorenni era anche minore di 16 anni, l’imputazione si aggravò in corruzione di minore, ma non essendo sopravvenuta la denuncia della famiglia dell’interessato l’accusa decadde. Ma l’infamia restò: il PCI lo espulse “per indegnità morale e politica” e, come previsto in quei casi, fu anche sospeso dall’insegnamento, professione che aveva fin lì esercitato con competenza e passione. A quel punto non gli rimaneva che l’esilio, o la fuga.

Nel 1950 si trasferisce a Roma con la madre e per le ristrettezze economiche la donna va a lavorare come cameriera. Lui trovò lavoro come insegnante in una scuola privata a Ciampino e per arrotondare andò a fare la comparsa a Cinecittà. Riprese a riscrivere i suoi lavori incompiuti, “Atti impuri” “Amado mio” e “La meglio gioventù”, ma soprattutto cominciò la stesura di “Ragazzi di vita” ispirato dalle conoscenze che via via faceva ora che stava cominciando a vivere con accettazione l’omosessualità, e con un nuovo complice amico, il poeta Sandro Penna, andava su e giù per il lungotevere in passeggiate notturne in cerca di avventure clandestine; fu così che conobbe un giovane imbianchino che, per il suo coloritissimo romanesco, lui elesse a suo dizionario vivente: si chiamava Sergio Citti.

Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano
di Pier Paolo Pasolini

Li osservo, questi uomini, educati
ad altra vita che la mia: frutti
d’una storia tanto diversa, e ritrovati,
quasi fratelli, qui, nell’ultima forma
storica di Roma. Li osservo: in tutti
c’è come l’aria d’un buttero che dorma
armato di coltello: nei loro succhi
vitali, è disteso un tenebrore intenso,
la papale itterizia del Belli,
non porpora, ma spento peperino,
bilioso cotto. La biancheria, sotto,
fine e sporca; nell’occhio, l’ironia
che trapela il suo umido, rosso,
indecente bruciore. La sera li espone
quasi in romitori, in riserve
fatte di vicoli, muretti, androni
e finestrelle perse nel silenzio.
È certo la prima delle loro passioni
il desiderio di ricchezza: sordido
come le loro membra non lavate,
nascosto, e insieme scoperto,
privo di ogni pudore: come senza pudore
è il rapace che svolazza pregustando
chiotto il boccone, o il lupo, o il ragno;
essi bramano i soldi come zingari,
mercenari, puttane: si lagnano
se non ce n’hanno, usano lusinghe
abbiette per ottenerli, si gloriano
plautinamente se ne hanno le saccocce piene.
Se lavorano – lavoro di mafiosi macellari,
ferini lucidatori, invertiti commessi,
tranvieri incarogniti, tisici ambulanti,
manovali buoni come cani – avviene
che abbiano ugualmente un’aria di ladri:
troppa avita furberia in quelle vene…
Sono usciti dal ventre delle loro madri
a ritrovarsi in marciapiedi o in prati
preistorici, e iscritti in un’anagrafe
che da ogni storia li vuole ignorati…
Il loro desiderio di ricchezza
è, così, banditesco, aristocratico.
Simile al mio. Ognuno pensa a sé,
a vincere l’angosciosa scommessa,
a dirsi: “È fatta,” con un ghigno di re…
La nostra speranza è ugualmente ossessa:
estetizzante, in me, in essi anarchica.
Al raffinato e al sottoproletariato spetta
la stessa ordinazione gerarchica
dei sentimenti: entrambi fuori dalla storia,
in un mondo che non ha altri varchi
che verso il sesso e il cuore,
altra profondità che nei sensi.
In cui la gioia è gioia, il dolore dolore.

Da lì in poi, coi suoi primi successi nonché scandali letterari, Pasolini divenne una figura centrale della cultura italiana e si avviò anche alla scrittura cinematografica collaborando alla sua prima sceneggiatura nel 1955 per il film “Il prigioniero della montagna” dell’altoatesino Luis Trenker. Seguono le collaborazioni a “Marisa la civetta” di Mauro Bolognini e “Le notti di Cabiria” di Federico Fellini, esperienze fondamentali per la sua futura discesa in campo come regista cinematografico: arriva il momento di “Accattone”. In realtà aveva già scritto una sua sceneggiatura con la quale pensava di debuttare come regista, “La commare secca”; ma per gli impegni professionali, altre sceneggiature e articoli, collaborazioni e attivismo politico, passò il progetto al figlio del poeta suo sostenitore Attilio Bertolucci, il giovane Bernardo Bertolucci, che gli farà da assistente alla regia sul set di questo “Accattone” e che aiuterà a debuttare come regista già l’anno dopo.

Propose il soggetto alla casa di produzione Federiz che il suo amico Federico Fellini aveva fondato con Angelo Rizzoli; Fellini con “Le notti di Cabiria” alla cui sceneggiatura Pasolini aveva collaborato, aveva appena vinto l’Oscar come miglior film straniero. La neo casa produttrice chiese a Pasolini di girare un paio di scene di prova, che non piacquero a Rizzoli e men che meno all’altro socio Clemente Fracassi più angosciato dai numeri che dalle visioni artistiche; ma fu Fellini a dover dire di no a Pasolini: “Fui costretto a dire Pier Paolo non la verità, ma che era meglio aspettare ma lui, intelligente com’era, capì che c’erano resistenze anche da parte mia, cosa non vera, e sorridendo con un po’ di mestizia mi disse: “Certamente non posso fare del cinema come lo fai tu”. Per fortuna incontrò subito Alfredo Bini e il loro sodalizio funzionò. Cercai di farmi perdonare quella presa di distanza, apprezzai persino esageratamente il film e soprattutto mi diedi di fare perché venisse liberato dal blocco della censura. Pasolini scrisse in quell’occasione un articolo sul “Giorno” in cui raccontava tutta la storia con onestà, con molta acutezza e anche con un po’ di umorismo, che non era da lui. In quell’articolo fui da lui battezzato come “l’elegante vescovone” per il modo in cui, con grande imbarazzo, gli diedi la notizia negativa sul film.Mi rimane il rimpianto di non averlo visto più spesso, di non aver approfittato della sua generosità, della sua cultura. E poi, forse, mi illudo, se c’era qualcuno con cui confidarsi, credo che con me l’avrebbe fatto volentieri, probabilmente soltanto per stupirmi. O anche per tentare, come qualche volta è successo, di avere un punto di vista diverso dal suo, che in qualche mondo gli si presentava sempre più atroce, indecifrabile, minaccioso. Una volta mi disse: “la verità è che tutto è caos”, ma in contrasto con questa frase che mi colpì per la sincerità beffarda che conteneva, c’era l’accettazione rassegnata e sconfitta. Aveva una sorta di dolcezza ferita che suggeriva quel fascino misterioso e segreto che ho sempre immaginato avesse Kafka.” Da un’intervista del 1992 di Rita Cirio per L’Espresso.

Così si rivolge al produttore Alfredo Bini che aveva appena debuttato come produttore di “Il bell’Antonio” dal romanzo di Vitaliano Brancati, diretto da Mauro Bolognini e sceneggiato da Pasolini, e il film finalmente si fa secondo la visione del neoregista: molti primi piani, prevalenza dei personaggi sul paesaggio e soprattutto grande semplicità. Nel ruolo del protagonista fece debuttare il fratello minore di due anni di Sergio Citti, Franco Citti, che subito a seguire girerà anche “Una vita violenta”; e se nella sua seconda interpretazione il non-attore è già più a suo agio, in questo debutto risulta davvero impacciato e come tutti gli altri interpreti presi dalla strada corre le battute senza neanche pensarle, a pappagallo, buttandole via nella fretta di liberarsene come accade a chi è impegnato in un progetto che supera le sue capacità e anche la sua comprensione. Fu doppiato da Paolo Ferrari così come Monica Vitti, già uscita dall’anonimato con “L’avventura” di Michelangelo Antonioni, doppia la moglie del protagonista, rendendo di fatto traballante la visione di Pasolini (ma non soltanto sua) secondo cui solo i non-professionisti potevano interpretare sé stessi, perché soggetti incontaminati, puri, privi delle sovrastrutture imposte dalla società: ma se bisogna ricorrere a dei professioni per farli parlare, quanto si mantiene di quella purezza e quanto si può parlare di interpretazione? penso alle vere interpretazioni neorealiste di Lamberto Maggiorani in “Ladri di biciclette” 1948, e Carlo Battisti in “Umberto D.” del 1952 entrambi diretti da Vittorio De Sica, che evidentemente sapeva come dirigere gli attori e insegnare a recitare ai non professionisti. Il meritevolissimo lavoro di Pasolini consiste soprattutto nella scrittura del film, esplosiva per l’epoca, e nella sua realizzazione precisa e pulita, senza voli pindarici stilistici; ma non essendo un attore si limita a mettere in bocca ai suoi borgatari le battute, passando al doppiaggio dove non si poteva fare altrimenti.

Il film fu presentato alla Mostra di Venezia dove ebbe un’accoglienza tempestosa, e a seguire fu il primo film italiano a essere vietato a minori di anni 18. Alla prima romana al cinema Barberini, un gruppo di neofascisti interruppe la proiezione aggredendo gli spettatori con lanci di bombette carta e di finocchi, vandalizzando la sala e arrivando a lanciare bottiglie di inchiostro sullo schermo – dando ragione a Pasolini che così li descriveva. All’uscita nelle sale di tutto il territorio nazionale, il film fu bloccato dalla censura e tutte le copie ritirate. La critica si divise ma in massima parte il film non piacque mentre in una proiezione parigina fu molto apprezzato da Marcel Carné; a seguire vinse il Primo Premio per la Regia al Festival Internazionale del Cinema di Karlovy Vary, in Cecoslovacchia; inoltre Alfredo Bini vinse il Nastro d’Argento come miglior produttore, mentre Franco Citti vinse il Laceno d’Oro al Festival del Cinema Neorealistico e l’inglese BAFTA – a dispetto del mio parere sulla sua recitazione. Nel resto del cast le non professioniste che continueranno a lavorare con Pasolini: Franca Pasut e Silvana Corsini, l’eclettica professionista Adriana Asti che sul set allacciò una relazione con Bernardo Bertolucci più giovane di lei di dieci anni, l’amica scrittrice Elsa Morante che si presta nella figurazione di una detenuta che legge fotoromanzi, e in ruoli minori lo stesso Sergio Citti come cameriere del ristorante sul barcone e il fratello più piccolo Silvio Citti nel naturale ruolo di fratello minore del protagonista. Il resto della masnada di borgatari sono volti che torneranno nel cinema pasoliniano. Archiviata questa sua prima avventura cinematografica, Pier Paolo Pasolini si ritira in una villa al Circeo, ospite di un’amica, per scrivere con Sergio Citti la sceneggiatura del suo secondo film “Mamma Roma” pensando ad Anna Magnani come protagonista.

Il film è disponibile su YouTube.