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Teresa la ladra – opera prima di Carlo Di Palma

con Carlo Di Palma

Anche Monica Vitti se n’è andata dopo una lunga malattia debilitante, che le ha tolto la memoria e con la memoria la personalità. Il film è l’opera prima, di una serie di tre commedie, con la quale il direttore della fotografia Carlo Di Palma si fa regista per amore. Monica, che in Michelangelo Antonioni aveva trovato un pigmalione, e al contempo gli era stata musa ispiratrice, aveva conosciuto Carlo Di Palma proprio sul set di “Deserto Rosso”, l’ultimo film girato con Antonioni che segue la cosiddetta trilogia dell’incomunicabilità e che in qualche modo la completa e conclude con questo primo film a colori, per il quale il regista si rivolge a un differente direttore della fotografia.

Carlo Di Palma è già un grande e apprezzato professionista che aveva cominciato quindicenne come assistente alla fotografia sul set di “Ossessione” di Luchino Visconti, e che dovrà arrivare a 32 anni per firmare il suo primo film come direttore della fotografia, ma da lì in poi collaborerà con i migliori registi del suo panorama – Pietro Germi, Giuliano Montaldo, Elio Petri, Gillo Pontecorvo, Florestano Vancini – in cui dà eccellenti prove con il bianco e nero. Dunque “Deserto Rosso” sarà anche per lui una prima sperimentazione col colore, e poi dagli anni ’80 inizia la sua longeva continuativa collaborazione con Woody Allen che gli riaprirà il già frequentato mercato degli Stati Uniti.

con Michelangelo Antonioni

Regista per amore perché Monica Vitti si fa musa ispiratrice per gli uomini che la amano. All’inizio fu Michelangelo Antonioni, più vecchio di lei di 19 anni, che avendola notata in alcuni ruoli secondari in film comici, la lanciò nel firmamento internazionale – ma sarebbe più corretto dire che si lanciarono e sostennero insieme – con quel cinema di ricerca stilistica, film che affrontano temi quanto mai moderni nella cinematografia dell’epoca: l’alienazione e il disagio esistenziale; film che creano da un lato smarrimento nel pubblico mentre dall’altro rinnovano la drammaturgia filmica, con la critica che esalta le sue opere come innovative e divisorie al contempo. Conclusa l’avventura artistica con Antonioni, perché quegli intensi drammi cominciavano a starle stretti, si concluse anche quella sentimentale, e Monica Vitti torna ai ruoli brillanti da protagonista, ma con una serie di film dignitosi e non eccelsi finché nel 1966, grazie alla fama acquistata insieme ad Antonioni che la accompagna sul set londinese, è protagonista della produzione inglese “Modesty Blaise” dell’inglese Joseph Losey da un fumetto dell’inglese Peter O’Donnell.

Ma per Monica, che avrà altre frequentazioni internazionali che però resteranno delle parentesi nella sua carriera, una nuova svolta professionale avverrà col film “La ragazza con la pistola” di Mario Monicelli, 1968, che grazie al grande successo al botteghino ridefinisce presso il pubblico la sua immagine di interprete, ora di film brillanti con venature grottesche, che rimarranno il suo marchio di fabbrica e la faranno indicare come unica mattatrice comica capace di tenere testa ai colonnelli del cinema dell’epoca; le altre grandi interpreti del periodo – la più anziana Anna Magnani già premio Oscar con l’americano “La rosa tatuata” e Sofia Loren con più sostanziose frequentazioni internazionali e premiata con l’Oscar per “La Ciociara” diretta da Vittorio De Sica – passavano dal brillante al drammatico lasciando il comico spinto e il grottesco alla verve della Vitti. La Vitti e la Loren sono esponenti contemporanee di un mondo cinematografico parallelo, che come i binari di una ferrovia non si incontreranno mai, neanche ai gala fuori dai set.

“Teresa la ladra”, che arriva nelle sale nel 1973, viene dal romanzo di Dacia Maraini pubblicato l’anno prima “Memorie di una ladra” in cui la scrittrice, qui anche sceneggiatrice con Age e Scarpelli, racconta in prima persona le avventure di una donna che aveva conosciuto durante un’inchiesta sulle carceri femminili, una donna talmente interessante che aveva poi continuato a rivedere e frequentare, raccogliendo tutto il materiale delle sue avventure e unendolo ad altro orecchiato fra le altre carcerate. Nasce così Teresa Numa, protagonista di avventure patetiche e tragiche raccontate in chiave grottesca che nella Monica Vitti dell’epoca trova la sua espressione migliore. E, nulla togliendole, non posso fare a meno di ragionare che in un’immaginaria interpretazione di Sofia Loren il personaggio avrebbe acquisito profondità drammatica senza tuttavia perdere gli aspetti brillanti e, ancor più, in un’immaginaria interpretazione di Anna Magnani quella protagonista avrebbe assunto dei toni decisamente più tragici: questo esercizio di stile per raccontare in poche parole come veniva raccontato il cinema al femminile dell’epoca, quali gli aspetti e le prerogative delle differenti interpreti.

Protagonista assoluta racconta con voce fuori campo le sue vicende a cominciare dall’infanzia nei tardi anni ’30 in una numerosissima e miserevole famiglia dalla quale si affranca con un precoce e infelice matrimonio e, rimasta vedova di guerra, per sopravvivere si dà al crimine cominciando a sfilare i portafogli nel buio dei cinema a uomini arrapati, per poi passare al borseggio sugli autobus e ai furti con scasso. Una parabola tutta in discesa che la condurrà al manicomio criminale passando però per sprazzi di momentanea felicità che lei puntualmente commenta come il momento più felice della sua vita.

Il direttore della fotografia Carlo Di Palma, passando alla regia, mostra di conoscere a fondo il cinema e se il suo stile registico si rifà ai film di genere, mostra però il suo mestiere sin dalle prime inquadrature, curatissime nella luce nel colore e nella scelta del punto di vista della macchina da presa. Altro punto a suo favore è la composizione del cast, che avvalendosi di ottimi caratteristi e generici insieme a tipi presi dalla strada, non imbocca la via facile del doppiaggio tanto in uso all’epoca e fa parlare tutti in presa diretta o li fa auto doppiare dove necessario.

con Valeriano Vallone

La meteora Valeriano Vallone, che nello stesso anno è nel film “Mussolini ultimo atto” di Carlo Lizzani, è il giovane marito; la caratterista di lusso Isa Danieli è la prima maestra di borseggi mentre Luciana Turina fa parte della famiglia di piccoli criminali dai soprannomi coloriti che adotta la nostra, una famiglia spuria frequentata anche da un giovane Carlo Delle Piane, professionista danaroso e poco avvenente che spasima senza successo per la bella Teresa Numa.

con Franco Diogene felice di essere palpeggiato e con Carlo Delle Piane infelice di non poter palpeggiare

Un’altra giovane promessa, Michele Placido, è il belloccio per il quale Teresa perde la testa e vive il momento più felice della sua vita, asserzione che poi rinnova quando incontra un altro bello e possibile, Stefano Satta Flores, attore che avrà una bella carriera più da comprimario che da protagonista; in un ruolo secondario di malvivente un po’ ladra e un po’ puttana un’irriconoscibile Anna Bonaiuto mentre Franco Diogene è una delle vittime sapientemente palpeggiate e derubate nel buio della sala cinematografica. In un ruolo defilato ma ben segnalato nei manifesti e mei titoli è la partecipazione del caratterista Fiorenzo Fiorentini.

Monica Vitti nasce Maria Luisa Ceciarelli, romanissima, ma da bambina ha vissuto per circa otto anni a Messina a causa del lavoro del padre che era ispettore del commercio estero, e a quel periodo deve il soprannome di “setti vistini”, sette sottane, a causa della sua freddolosità che le faceva indossare i vestiti uno sull’altro, nomignolo che diverrà il titolo della sua prima autobiografia del 1993. Avendo frequentato l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, poi intitolata a Silvio D’Amico che fu allora suo maestro, comincia a muovere i primi passi in palcoscenico con un altro suo insegnante, Sergio Tofano, nelle di lui commedie favolistiche sul personaggio del Signor Bonaventura, il quale le suggerisce di trovarsi un nome d’arte, e tagliando a metà il cognome materno Vittiglia lo abbina a Monica che aveva letto in un libro. Negli anni Settanta farà quasi coppia fissa con Alberto Sordi, un altro interprete che eccelle nel grottesco, in molta commedia all’italiana, un genere che la avvicinerà sempre più a un pubblico nazional-popolare. Nel 1980 tornerà a lavorare con Antonioni, del quale era sempre rimasta amica, nel televisivo “Il Mistero di Oberwald” dal dramma di Jean Cocteau “L’aquila a due teste”.

con Roberto Russo

Nel 1983 fu protagonista di “Flirt” dell’esordiente Roberto Russo, già fotografo di scena, suo ultimo compagno di vita di sedici anni più giovane, col quale scrisse il film per il quale lui vinse il David di Donatello come miglior regista esordiente e lei l’Orso d’Argento al Festival di Berlino: una storia che segna il ritorno ma anche un nuovo debutto nelle storie sentimentali drammatiche e sofferte, ma della seconda età. Seguirà “Francesca è mia” e poi finalmente Monica firmerà la sua prima regia che sarà anche la sua ultima interpretazione, ancora sulle crisi coniugali dell’età di mezzo, “Scandalo segreto” del 1990. Nel 2000, dopo 27 anni di relazione, si sposarono e due anni dopo la coppia viene vista in pubblico per l’ultima volta. Hanno cominciato a circolare alcune voci circa una sua degenza in una clinica svizzera che solo nel 2016 lui ha smentito, dichiarando però pubblicamente che Monica Vitti era affetta da Alzheimer e che veniva accudita da una badante e da lui stesso. Una musa ispiratrice amata fino alla fine. Un corpo come una scatola vuota che ha resistito fino ai 90 anni, una scatola le cui memorie sono sparse in ognuno di noi.

Uno degli ultimi scatti