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Il cattivo poeta – il cinema 2020-21 disperso nella pandemia

Nel 2020 i cinema hanno timidamente riaperto in estate per richiudere subito dopo. Nel 2021 si va al cinema col green pass ma le sale sono praticamente deserte: gli spettatori sono decimati dalla pandemia e non mancano solo quelli che non hanno il green pass; fra quelli che ce l’hanno non tutti ritengono opportuno, o necessario, tornare al cinema, e i pochi volenterosi spettatori rimasti sono ulteriormente scoraggiati dall’obbligo della mascherina FFP2. I film usciti in sala passano subito sulle piattaforme web e in tv.

Meritevolissima opera prima del 49enne napoletano, laurea in filosofia, Gianluca Jodice, anche autore di soggetto e sceneggiatura: un nuovo autore che ha già all’attivo premi e riconoscimenti per i suoi cortometraggi e il cui merito è, oltre a quello di confezionare un film importante molto ben fatto, quello di tornare a raccontarci il nostro primo novecento, sempre meno recente e per questo più necessario da ritrovare, anche o forse soprattutto, attraverso figure secondarie: qui il vero protagonista, benché nel titolo si richiami al Gabriele D’Annunzio interpretato da Sergio Castellitto, è il giovane federale bresciano Giovanni Comini interpretato da un altro debuttante, il genovese Francesco Patanè dal cognome siciliano: faccia di bravo ragazzo della porta accanto molto funzionale al ruolo scritto dall’autore ma che manca, a mio avviso, di quel particolare fascino magnetico che devono avere i protagonisti (a meno che non parliamo di film di serie B e questo non lo è) ferma restando la sua interpretazione molto aderente e partecipata; del resto Patanè è stato candidato come migliore attore esordiente, insieme a Castellitto migliore protagonista e Gianluca Jodice miglior regista esordiente, ai Nastri d’Argento 2021 dove il film ha ricevuto solo i premi tecnici per la fotografia dell’eclettico Daniele Ciprì e i costumi di Andrea Cavalletto.

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Il film, che va decisamente recuperato, è un’occasione per esplorare le figure che racconta, a cominciare dal protagonista che è un federale, dispregiativamente definito nel film federalino per la sua giovane età: trent’anni. Il federale, come il podestà e il gerarca, sono figure oggi sparite ma assai specifiche dell’allora apparato fascista. Il podestà, come termine, esiste sin dal medioevo ma con le cosiddette leggi fascistissime il podestà tornò in vita sostituendo la figura del sindaco democraticamente eletto e a capo di una giunta: il podestà era nominato per regio decreto e non aveva intorno una giunta con cui confrontarsi o da cui farsi sostenere e di fatto era un’autorità unica che rispondeva al governo centrale; Il termine gerarca indicava gli alti dirigenti del Partito Nazionale Fascista (PNF) fondato nel 1921; il federale era il quarto in grado di importanza in quella gerarchia e dirigeva sul territorio le federazioni di fasci di combattimento, un po’ le sezioni di partito odierne che però, data la specifica natura di quel partito, fungeva anche da ufficio para militare e para poliziesco.

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Giovanni Comini è ricevuto da Achille Starace che si allena al vogatore nell’enorme sala che gli fa da ufficio all’interno di Palazzo Venezia; di lato quello che oggi diremmo il suo personal trainer insieme a una di quelle donne tuttofare a servizio dell’apparato fascista: un racconto cinematografico fatto di dettagli laterali che danno profondità e spessore all’intero racconto

Un ruolo assai impegnativo per il giovane Comini, già vice podestà di Brescia, che si sente addirittura un miracolato quando Achille Starace in persona, segretario del PNF, lo incarica di spiare Gabriele D’Annunzio introducendosi alla sua corte come ammiratore, e credibilmente, data la sua personale predisposizione alla poesia. Per il Vate, come tutti rispettosamente lo chiamano (appellativo dato anche a Giosuè Carducci) sono gli ultimi anni: il film si apre nel 1936 e si conclude nel 1938 con la sua morte, a 75 anni. D’Annunzio vive da auto esiliato nel complesso del Vittoriale degli Italiani, come ribattezzò una villa nella provincia bresciana, a Gardone Riviera, deluso dall’esito della sua impresa fiumana: nel 1919, alla fine della Prima Guerra Mondiale, si era improvvisato condottiero per riconquistare la città di Fiume che le potenze vincitrici avevano assegnato alla Jugoslavia: un’occupazione avvenuta senza fare vittime, denominata Reggenza Italiana del Carnaro come momento di passaggio all’effettiva annessione politica all’Italia; la reggenza si protrasse per quattro anni fino a quando il Regno d’Italia e il Regno dei Serbi Croati e Sloveni, desiderosi di normalizzare i rapporti, dichiararono Fiume stato libero e indipendente; ma D’Annunzio si rifiutò di ritirarsi e la città fu attaccata dall’esercito italiano che allontanò i legionari dannunziani lasciando sul campo una cinquantina di vittime: eventi specifici la cui conoscenza, nel film, è raccontata per sommi capi, ma altrimenti non poteva essere: la figura di D’Annunzio è gigantesca e nel ripercorrerne un breve periodo non si può fare altro che sfoltire, anche pesantemente. Un D’Annunzio che in questa stessa stagione cinematografica è stato tratteggiato nell’episodio di un film dal tono completamente differente: “Qui rido io” di Mario Martone.

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D’Annunzio deve essere controllato perché è una figura ingombrante che il regime non sa come gestire: la sua ristretta cerchia del Vittoriale lo chiama ancora Capitano con memorie e rimpianti fiumani, e di fatto il suo atteggiamento è quello di una personalità pericolosamente alternativa a quella del Duce: sono entrambi dei superuomini, come erano di moda all’epoca, con richiami gloriosi allo Sturm und Drang e ai concetti filosofici di Friedrich Nietzsche, e il sommo poeta non può che disprezzare l’ex vigile urbano: il suo patriottismo, benché muscolare, è più sincero e pregno di valori più alti e spirituali di quelli di Mussolini, il quale in realtà sta solo costruendo il culto della propria personalità in parallelo a quello di quell’altro superuomo che si credeva di essere Hitler. Sono tempi oscuri per la gente ordinaria. Il Vate tenta di far ragionare il Duce che pericolosamente si sta avvicinando al Fuhrer: non vede di buon occhio quell’alleanza ma soprattutto disprezza la politica rozza e anti libertaria di Mussolini, benché sia stato e ancora sia additato come precursore ideologico del fascismo: inizialmente aderì al movimento fondato da Mussolini nel 1919, i Fasci Italiani di Combattimento, e fu uno dei primi firmatari del Manifesto degli Intellettuali Fascisti, ma non si iscrisse mai al PNF consapevole che l’affiliazione avrebbe minato la sua autonomia intellettuale e politica sempre protesa verso il primo posto di ogni podio: D’Annunzio e Mussolini erano come i classici due galli in un pollaio. E diversissimi fra loro. Già nel 1900 il Vate era stato eletto deputato nel Regio Parlamento fra le fila dell’estrema destra ma passò subito all’estrema sinistra con questa celebre frase: “Vado verso la vita”. Poi, nel suo governo provvisorio di Fiume varò una costituzione assai liberale e progressista che prevedeva, oltre ai diritti per i lavoratori e le pensioni di invalidità, il suffragio universale maschile e femminile, la libertà di opinione e di religione, nonché libertà di orientamento sessuale con la depenalizzazione dell’omosessualità, e del nudismo e dell’uso di droga: aperture assai in anticipo su qualsiasi altra carta costituzionale dell’epoca, e toccando argomenti assai invisi al fascismo. Di fatto D’Annunzio esprimeva nella sua visione politica la sua intima natura di gaudente, di uomo sessualmente promiscuo e abituale consumatore di cocaina. Non che i fascisti fossero tutti eterosessuali o non facessero uso di droghe, ma vigeva il sempre diffuso atteggiamento del “predica bene e razzola male”. D’Annunzio, con tutti i suoi difetti, era un libertario perché era intimamente libero. Una figura troppo ingombrante e sempre potenzialmente esplosiva che il Duce pensò bene di tenere sotto controllo accordandogli cariche pubbliche anche non gradite e un perenne sostegno economico, purché se ne stesse buono nel suo Vittoriale.

In questi suoi ultimi due anni di vita percorsi dal film lo vediamo vecchio e malato, minato dall’abuso delle droghe e fortemente amareggiato dalla politica di Mussolini. Gli sono accanto le sue due fedeli muse-amanti Luisa Baccara, detta anche “la Signora del Vittoriale”, e la francese Amélie Mazoyer, figlia di contadini e “bruttina assai” secondo una precisa definizione del Vate, che pare avesse i meriti di “una mano donatrice d’oblio” e “una bocca meravigliosa” per la quale la rinominò Aélis, poetico richiamo al francese hélice, elica, dove per elica intendeva la sua lingua guizzante sulla sua intima virilità. Del resto D’Annunzio usava così, rinominava con epiteti curiosi e poetici di colte ispirazioni le varie contadinotte e prostitute che Aélis gli andava procurando, anche a dispetto della Baccara: le due donne non si sopportavano ma convivevano per amore del Vate.

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Sergio Castellitto lo rende con grande dolorosa partecipazione ma nella sua interpretazione così magistralmente intimistica mancano, a mio avviso, i guizzi del vecchio leone che, pure stanco e malato, non può avere del tutto abbandonato i suoi impeti, le ultime zampate; del dolente discorso che fa ai fedeli ex combattenti fiumani che sono venuti a omaggiarlo fa un encomiabile esercizio di stile interpretativo “di sottrazione”, rende il plateale intimistico, ma mancano così i toni retorici e solenni come io immagino lo stile di D’Annunzio, che era anche lo stile di Mussolini come di Hitler e di tutti coloro che parlavano in pubblico, perché era lo stile dell’epoca, pomposo nei toni come nel vocabolario: siamo negli anni ’30 del ‘900 e anche la gente comune non parlava come parliamo oggi, e mi pare che l’intero cast del film risenta di una mancanza di direzione artistica che indirizzi in uno stile comune preciso e ben riconoscibile. Basta tornare a vedere il lavoro che hanno fatto Mario Martone con gli interpreti del suo “Qui rido io” e Paolo Sorrentino con l’intero cast di “È stata la mano di Dio”, entrambi i film ambientati a Napoli, ma il primo in un primo ‘900 assai teatrale e il secondo nei più recenti anni ’80: recitazione senza sbavature.

Più in linea con lo stile dell’epoca l’Achille Starace di Fausto Russo Alesi, e Tommaso Ragno che interpreta l’architetto del Vittoriale Giancarlo Maroni, nel film raccontato come braccio destro del Vate. Le due femmes fatales sono molto adeguatamente interpretate dalla prevalentemente teatrale Elena Bucci che è Luisa Baccara, mentre nel ruolo della francese Amélie Mazoyer c’è la francese Clotilde Courau naturalizzata italiana, anzi savoiarda avendo sposato l’inutile Emanuele Filiberto di Savoia. Massimiliano Rossi è lo sfuggente commissario Giovanni Rizzo messo al Vittoriale da Mussolini in persona perché D’Annunzio senta la sua presenza istituzionale; Lino Musella tratteggia la necessaria e retorica figura dell’irreprensibile fascista, duro puro e banalmente violento, col quale deve misurarsi la purezza ideologica del giovane Giovanni Comini, che alla morte del Vate verrà rimosso da tutti i suoi incarichi nell’apparato di regime per aver vacillato nel credo fascista. Paolo Graziosi tratteggia la figura del di lui padre. L’ucraina Lidiya Liberman, benché padroneggiando un ottimo italiano, è un po’ stonata nel ruolo dell’amante del protagonista che coinvolge in un dramma personale.

Elena Bucci con Francesco Patanè e Clotilde Courau

Nel suo primo fine settimana di programmazione il film si è piazzato al primo posto incassando 198.730 euro: un primo posto decisamente povero se si pensa agli incassi si facevano in era pre-covid. Dunque eccolo adesso in tivù a racimolare i diritti dei passaggi televisivi.

Cronaca di un amore – opera prima di Michelangelo Antonioni

Per parlare di un film del 1950, che a prima vista sembra un dramma sentimentale neanche tanto originale, è necessario inserirlo nel suo contesto senza fare il semplicistico errore di giudicarlo con gli occhi di uno spettatore odierno, e poi parliamo anche di un altro di quei film che è stato inserito fra i 100 film italiani da salvare e come tale è stato restaurato in 4k nel 2020.

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Il regista coi protagonisti

Il ferrarese Michelangelo Antonioni ha già 38 anni quando dirige questo suo primo lungometraggio e la guerra, la Seconda Guerra Mondiale, è finita da appena cinque anni; nelle sale cinematografiche è il tempo del neorealismo, il cinema povero con attori presi dalla strada, quello fatto con pochi soldi, il cinema che racconta drammatiche storie realistiche dove i personaggi sono parte dell’ambiente reale che li esprime, il cinema che crea una frattura con la precedente cinematografia detta dei telefoni bianchi, che era quello delle commedie vezzose e dei drammoni strappalacrime con i quali il regime fascista distraeva la massa dalle brutture quotidiane: il neorealismo aveva dunque mandato al macero quel genere di film più o meno di regime per raccontare finalmente la realtà fatta di miseria e disperazione: un titolo su tutti è “Ladri di biciclette” di Vittorio De Sica su soggetto di Cesare Zavattini.

Michelangelo Antonioni era, e sarà ancora, un innovatore: per lui era giunto il momento di liberarsi di questi altri vincoli, dello stile povero, e indirizzare il cinema italiano verso nuovi orizzonti, e come disse lui stesso: “Non potevo più sopportare il tempo reale. Non sono partito con una teoria precisa, volevo soltanto rompere con una certa sintassi che sentivo ormai superata. Il gioco dei campi e dei controcampi da tempo era diventato per me insopportabile. In questo primo film me ne sono in buona parte liberato con lunghissimi movimenti. Muovendo la macchina da presa in tutti i sensi e dovendo stare sempre sui personaggi, sia in campo lungo che in campo ravvicinato, avevo bisogno di usare certi obiettivi che non mi consentivano di avvicinarmi troppo al personaggio, quindi il primo piano era escluso. Veramente, non ne sentivo la necessità, anche perché certi atteggiamenti del corpo dell’attore, certi suoi modi di muoversi e di camminare, anche di guardare, prendono il posto del primo piano.” E in effetti spesso sembra che gli attori si muovano come in palcoscenico, con movimenti precisi che a turno li mettono a favore del pubblico-cinepresa. E anche le inquadrature, i punti di vista, sono frutto di una precisa costruzione.

Dieci anni più tardi verrà acclamato per la sua trilogia dell’incomunicabilità, o dell’esistenzialismo ma anche dell’intimismo, in cui analizzò le crisi di coppia sempre con la figura femminile in primo piano, che fu un esperimento sia dal punto di vista narrativo che stilistico sul piano tecnico della cinematografia. E in questo suo debutto ci sono già gli elementi primari della sua sperimentazione: è la cronaca di un amore malato, dove il cinismo dei personaggi impera, così come il loro distacco dalla realtà, con un’adesione totale al personaggio che si sono costruiti intorno alla loro stessa persona – tale da renderli quasi degli automi.

Della guerra appena passata non vediamo le macerie e le ricostruzioni, ma se ne evidenziano le tracce nella vita intima di questi personaggi-automi: la loro miseria, economica e/o morale nasce proprio da lì. Antonioni ne indaga i sentimenti e la psicologia e li mette in scena in quella Milano in cui si sta già costruendo il boom economico del dopoguerra ma, vezzo autobiografico, i suoi personaggi provengono dalla sua Ferrara. Lei è la bellissima Paola, 27enne, come dice alla sua prima apparizione che avviene un quarto d’ora dopo l’inizio del film – ma in realtà l’attrice Lucia Bosè ne aveva appena 18 durante la lavorazione del film, e qui è alla sua seconda esperienza cinematografica dopo avere appena finito di girare “Non c’è pace tra gli ulivi”, dramma neorealista di Giuseppe De Santis che esce quello stesso 1950 e che con quest’altro film fa di lei una nuova diva.

Non sappiamo molto del passato di Paola ma probabilmente, come nella realtà dell’attrice che da ragazza lavorava in una pasticceria, viene dalla classe operaia e ha fatto il gran salto sposando un ricchissimo commerciante di tessuti, e dio sa se nel dopoguerra ci sia bisogno di nuovi tessuti. Il marito ha però ingaggiato un investigatore per indagare sul passato della sua giovane e bella moglie: lui più che amarla la possiede al prezzo di costosissimi regali e come un trofeo la sfoggia, lei più che amarlo si compenetra nel ruolo della ricca signora cui tutto è dovuto, altezzosa e strafottente. L’indagine che apre il film e che prosegue di pari passo con la conoscenza che facciamo dei personaggi, ci rende via via partecipi degli oscuri dettagli sulla precedente vita sentimentale della ragazza: una sua amica è morta in circostanze misteriose mentre lei aveva una tresca col fidanzato di lei. Tresca che riprende a Milano, dove lui è venuto a cercarla, e va da sé che ben presto, ossessionati dalla loro passione proibita, organizzeranno anche la morte del danaroso marito. E’ un noir, che in qualche modo mi richiama alla mente l’hollywoodiano “Un posto al sole” girato lo stesso anno, nel 1949, ma uscito nel 1951, un dramma in cui c’è qualcuno da eliminare nell’utopia della ricerca della felicità; lì il perno narrativo è il personaggio di Montgomery Clift e lo stile è senza dubbio quello del noir, serrato, con inquadrature in un bianco e nero tagliente, e accompagnamento musicale ad effetto. Ma Antonioni non sa e neanche vuole fare un noir, lui è solo deciso a indagare la psicologia e la deriva morale dei suoi personaggi e difatti il suo film non ha il ritmo del classico noir e la stessa colonna sonora, il suono pacato di un sax, richiama alla mente la solitudine più che la psicopatia.

Il soggetto è di Antonioni che poi scrive la sceneggiatura con altre quattro firme fra cui Francesco Maselli anche aiuto regista, che sarà noto come Citto Maselli e che tornerà a dirigere Lucia Bosè nel suo film d’esordio “Gli sbandati” ambientato nel recente passato bellico. Benché il primo nome sia quello del già affermato divo Massimo Girotti la narrazione, come in tutta la successiva cinematografia dell’autore, ruota attorno alla figura di lei. Girotti, già campione di nuoto e canottaggio, era anche stato portiere nella squadra di pallanuoto della S.S. Lazio Nuoto in serie A. Consapevole che la carriera sportiva non poteva durare e consapevole anche del suo fisico ben tornito e di un innegabile fascino, prese lezioni di recitazione e si avviò al teatro dove fu prima notato da Mario Soldati che lo fece debuttare nel cinema con un piccolo ruolo; poi fu notato da Luchino Visconti che lo volle protagonista di “Ossessione” e fu la vera svolta; arrivò a girare ben cinque film nel 1941 e mantenendo poi una media di tre film l’anno divenne così famoso e ammirato dalle donne tanto da insidiare ad Amedeo Nazzari il titolo di più amato dalle italiane. L’ultimo suo film è “La finestra di fronte” di Ferzan Özpetek del 2003: morì per una crisi cardiaca subito dopo la fine delle riprese e gli venne assegnato postumo il David di Donatello come Migliore Attore Protagonista.

Massimo Girotti in “Fabiola” di Alessandro Blasetti, 1949
Massimo Girotti in “La finestra di fronte”

La voce di Lucia Bosè in questo film fa subito pensare a dive d’oltreoceano, e infatti è doppiata dalla palermitana Rosetta Calavetta che fu doppiatrice di star hollywoodiane come Doris Day, Ava Gardner, Marilyn Monroe, Lana Tuner e tante altre. La Bosè è ancora troppo acerba per questo ruolo così complesso e pur facendo del suo meglio, molto meglio di tante semi debuttanti odierne, qua e là non sfugge la sua aria da brava ragazza che recita a fare la sciura cinica e arrogante; però indossa a meraviglia gli sfavillanti abiti – uno per ogni scena, una vera e propria sfilata di moda – creati per lei dal conte stilista Ferdinando Sarmi (nel film anche attore come marito di Paola) con cappellini dalle fogge più eclettiche ad accompagnare le numerose pellicce Rivella che negli anni ’50 indosseranno tutte le nostre dive. Un look esagerato a rimarcare la ricchezza sfarzosa – un vero e proprio insulto alla povertà – che fa di Paola un manichino quasi grottesco: uno sfoggio di talento creativo dello stilista che dev’essere sfuggito di mano al rigoroso Michelangelo Antonioni, che dirigerà di nuovo Lucia Bosè tre anni dopo in “La signora senza camelie”, un altro film che va oltre il neorealismo per creare un nuovo filone, quello del cinema di critica sociale. Antonioni muore 94enne il 30 luglio 2007, lo stesso giorno in cui è morto Ingmar Bergman. Lucia Bosè è morta 89enne nel marzo 2020 per una polmonite da Covid-19.

Lucia Bosè - Wikipedia
Lucia Bosè eletta Miss Italia nel 1947
È morta Lucia Bosè. La ragazza di piazza di Spagna amata da Visconti e  Antonioni - la Repubblica
Lucia Bosè in uno degli ultimi scatti

Chi lavora è perduto – opera prima di Tinto Brass

Il giovane Tinto Brass in un ritratto di Ugo Mulas

Anni ’60, cinema e lavoro. Dopo “La giornata balorda” ecco il film d’esordio del trentenne Tinto (Giovanni) Brass, con un cognome di origini austriache. Nato a Milano è cresciuto a Venezia e in quella città con quella parlata colloca questo suo primo film, subito censurato per ragioni politiche e siamo ancora lontani dalla deriva erotica del suo cinema. Come “La giornata balorda” è una coproduzione franco-italiana e francese è l’attore protagonista, ma la coproduzione non è soltanto un affare commerciale quanto davvero una conseguenza culturale avendo avuto Brass proficue frequentazioni oltralpe: si era laureato in giurisprudenza con la tesi “Rapporti di lavoro con imprese della produzione cinematografica”, perché nel cinema vedeva già il suo futuro, e trascorse un biennio come archivista presso la “Cinémathèque” di Parigi dove ebbe modo di avvicinarsi anche agli ambienti della nascente Nouvelle Vague che influenzerà i suoi primi film.

Come assistente del documentarista olandese Joris Ivens e del nostro Roberto Rossellini deve avere imparato molto se al suo debutto fa tutto da solo e scrive dirige e monta il suo primo film, oltre a fare da controfigura al protagonista nella voga durante la regata, e a doppiare con accento veneto il romano (di Frascati) Tino Buazzelli. Era il 1963 e il suo film si intitolava “In capo al mondo” e, cosa abbastanza nuova per l’epoca, recava un claim in veneto abbastanza vistoso: “Mondo can, mondo boia, se crepa de fam, se crepa de noia. Mondo boia, mondo can, che ernia per un toco de pan”, che in pratica è la filosofia spicciola su cui è costruito il film. La censura intervenne subito bollando così il lavoro: “Il film, oltre a essere offensivo del buon costume sessuale, è altamente offensivo di quello morale e sociale, è distruttore di tutti i valori spirituali, è scurrile nel linguaggio” e impose all’autore dei pesanti tagli. Che fece Tinto Brass? cambiò titolo e non tagliò nulla, operazione di re-styling tutta esteriore che gli fu resa possibile dall’insediamento del governo di centro-sinistra in quegli anni, con preciso riferimento al ministero dello spettacolo in mano ai socialisti. E fece di più: se il titolo “In capo al mondo” poteva significare tutto e il contrario di tutto, re-intitolando il suo film “Chi lavora è perduto” rende più esplicito il messaggio che contiene e si fa beffa dell’istituzione della censura.

La guerra è finita da meno di vent’anni e gli adulti dell’epoca l’hanno vissuta insieme al regime fascista: queste radici sono presenti nel film; gli anni della contestazione, il ’68, sono di là da venire ma Tinto, che ha viaggiato e ha sentito gli umori che serpeggiavano oltre l’arco alpino, anticipa i tempi con un’opera sperimentale e assolutamente nichilista. Il suo film è un monologo, non autobiografico come ha precisato in seguito, ma certamente significativo del suo sentire. Il protagonista si chiama Bonifacio, come il figlio dell’autore, e il film si apre mentre scappa correndo via da un colloquio di lavoro, con la voce dell’esaminatore che lo insegue col timbro grottesco di un personaggio da cartone animato, mentre lui snocciola una filastrocca a mo’ di sberleffo. E per tutto il film, un one day movie, vaga per una Venezia estiva ricordando eventi della sua vita che vediamo in flash back o fotografando col suo sguardo la realtà che lo circonda, e che commenta, snocciolando nel mezzo tre parole chiave che sono il suo credo: erotomania, pornomorale, abortocredo.

Scena del film "Chi lavora è perduto" - Regia Tinto Brass - 1963 - Gli attori Pascale Audret e Sady Rebbot scherzano tra loro in una stanza
Una scena del film

Il monologo come voce fuori campo del personaggio è recitato da Tonino Micheluzzi, che fu ultimo erede delle compagnie del teatro di tradizione veneto, e solo qua e là le scene sono dialogate, nei ricordi, nelle fantasie grottesche e negli incontri odierni. Si parte dall’infanzia quando il bambino al catechismo era carezzato con troppa insistenza dalla mano moscia, che immaginiamo anche sudaticcia, del prete, e il protagonista si chiede, osservando una confessione, che senso ha quella cosa. Poi passando da un cimitero fra le tombe ancora aperte viene redarguito da un guardiano perché sta fumando, e le tombe non sono posacenere, e il nostro allora si chiede che differenza ci sia fra cenere e ceneri. Già basta questo a sconvolgere la censura. Ricordando la sua relazione con Gabriella, Bonifacio fa l’elogio del sesso senza amore e le scene che vediamo, benché oggi vediamo molto di più nelle serie tv, sono per l’epoca davvero sensuali, carnali, avvolgenti: i baci sono a labbra aperte e umide e c’è una naturalezza, anche una scompostezza, non ancora usuale per gli schermi dell’epoca: Tinto Brass è ancora ben lontano dal divenire il maestro del cinema erotico italiano, ma è subito chiaro sin da questo suo primo film – erotomania, pornomorale, abortocredo – che ha una sua precisa visione del corpo e del libero uso che ognuno ne deve fare, e del libero linguaggio col quale un cineasta lo può raccontare, e non casualmente parla anche di aborto.

Bonifacio-Tinto è in guerra contro tutto, è comunista – suo maestro di partito è il Claudio interpretato da Tino Buazzelli – ma è soprattutto un nichilista che non trova valore in nulla e a nulla sembra dare valore, e spende la sua giornata a bighellonare per la città osservando le persone che vivono le loro vite senza senso. E in questo è anche il guardone che Tinto sarà esplicitamente un paio di decenni più tardi: il protagonista spia col cannocchiale una donna discinta alla finestra, ma si aggira in spiaggia spiando anche i bagnanti, e le riprese sono rubate su soggetti reali, persone in costume in pose scomposte, coppiette che si appartano fra i cespugli dell’entroterra, un gruppo di reduci della guerra che espongono gli arti mancanti e le storpiature rimaste; lui stesso fa il bagno nudo liberandosi delle mutande come ultimo vincolo con la società in cui si sente alieno. Non sa se il colloquio di lavoro è andato bene ma soprattutto non sa se accetterà quel lavoro, perché come ammonisce il nuovo titolo “chi lavora è perduto” anche in una repubblica democratica fondata sul lavoro, come recita il primo comma della nostra costituzione che lui manda al macero; e non può non ricordare la scritta beffardamente tragica sui cancelli dei lager tedeschi: il lavoro rende liberi.

Il film, oggi selezionato fra i 100 film film italiani da salvare, non è facile da seguire per il suo profluvio di pensieri spesso in un veneto stretto, per il montaggio alla ricerca di soluzioni sperimentali e molto frammentato, un film già molto dinamico nelle riprese con l’ampio uso di zoom e carrellate, e che sin dalle prime immagini risulta ardito e poco convenzionale, anche oggi che abbiamo visto di tutto. Tinto Brass anticipa i tempi ed è già un contestatore con un film che è l’apologia dell’insofferenza al potere, qualsiasi esso sia. E non si può non considerare che alla sua opera prima fa un film assolutamente personale, che ha l’urgenza di dire la sua visione della realtà senza preoccuparsi di dover piacere, di essere accettato e premiato, tutt’altro… E’ vero, quelli erano altri tempi, la società stava cambiando i propri modelli culturali e un giovane cineasta non poteva non tenerne conto (tanto quando quelli meno giovani, beninteso) ma facendo un arditissimo parallelo col cinema odierno c’è da osservare che i registi di oggi alla loro opera prima non confezionano altro che un compito bene eseguito con l’intento di farsi accettare nel sistema: non mancherebbero gli spunti per odierne contestazioni sociali ma oggi non ci sono più debuttanti che hanno il coraggio di dire che sono dei ragazzacci e che il mondo fa schifo. Per lo meno non nel cinema nostrano.

Sady Rebbot è l’attore francese che presta volto e fisicità al protagonista di Tinto Brass, e che forse a causa di questo personaggio poco allineato e a tratti anche irritante non avrà una carriera in Italia, al contrario di tanti altri suoi colleghi, vedi il Jean Sorel di “La giornata balorda”; era già stato protagonista per Jean-Luc Godard in “Questa è la mia vita” e avrà una buona carriera in patria, passando anche per il doppiaggio e la televisione; è morto di cancro 59enne. Stesso discorso per l’altra francese, Pascale Audret, che interpreta la Gabriella del trascorso di Bonifacio, e la cui carriera resterà entro in confini nazionali. Anche lei morirà prematuramente in un incidente stradale, 63enne. Stessa morte prematura per l’altro nome di punta, Tino Buazzelli, equamente diviso fra teatro cinema tv e radio, scomparso a 58 anni per una patologia infiammatoria del sistema linfatico. L’eclettico Franco Arcalli – che non accreditato collabora alla sceneggiatura del film che Brass ha firmato insieme all’altro eclettico Giancarlo Fusco – qui interpreta l’amico finito al manicomio proprio a causa del suo pensiero non allineato alla morale vigente; Brass lo introduce anche al lavoro di montatore e come tale, oltre che come sceneggiatore, avrà una brillante carriera collaborando con grandi registi in importanti film. Altri interpreti sono Piero Vida e Nando Angelini.

L’ottantottenne Tinto Brass ha scelto di abbandonare il cinema serio, o serioso come lui dice, per dedicarsi quasi completamente al cinema erotico: non era più tempo di contestazioni e, seguendo certamente una sua personale passione, l’unico modo di fare contestazione ed eversione è stato per lui l’erotismo, fino alla deriva dell’eros fine a se stesso nel soft porn dove si compiace di mostrare molte vagine mentre gli uomini sfoggiano solo falli di silicone: ci spinge ad immaginare un mondo erotico dove nel suo harem lui è l’unico reale beneficiario mentre i suoi figuranti non sono altro che eunuchi dalla virilità fittizia… ma questa è un’altra materia per altre riflessioni. Cinematograficamente aveva già ampiamente sperimentato con “Salon Kitty”, 1975, nel cast Helmut Berger e Ingrid Thulin, e “Caligola”, 1979, con Malcom McDowell, John Gielgud, Peter O’Toole e altri interpreti eccellenti: il primo denso delle atmosfere morbose già viste in Luchino Visconti o Liliana Cavani, il secondo come personalissima ricostruzione storica e oggi considerato come uno dei più malfamati film cult. Segue “Action”, una sorta di grottesca riflessione sul rapporto fra pornografia e cinema, e poi si dedica completamente al cinema non serio o serioso denudando una non più giovane Stefania Sandrelli in “La chiave” dal romanzo di Tanizaki Jun’ichirō. Dal successivo “Miranda” liberamente ispirato a “La locandiera” di Goldoni che crea il fenomeno Serena Grandi, e si libera dalle limitazioni che gli attori di rango impongono, è tutto un percorso in discesa in cui il discorso eversivo resta sempre più sullo sfondo, messo in ombra dalla gioiosa carnalità delle sue interpreti, dive di un cinema per guardoni in cui lui stesso si mette in scene come tale in diversi camei. Si prende una sola pausa nel 1988 con l’interessante “Snack Bar Budapest” interpretato da Giancarlo Giannini. Sulla recente pandemia ha dichiarato: “State a casa e dedicatevi ai giochi erotici. Meglio morire godendo che di coronavirus. Il sesso è vita. Bisogna scegliere di vivere senza avere indecisioni. Ho 88 anni e non ho più tempo per cambiare idea”. Il suo ultimo film “Monamour” è del 2005 e da allora praticamente non esce più di casa e sta lavorando insieme alla moglie alla sua autobiografia: ne leggeremo di tutti i colori.

Con la moglie Caterina Varzi

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Teresa la ladra – opera prima di Carlo Di Palma

con Carlo Di Palma

Anche Monica Vitti se n’è andata dopo una lunga malattia debilitante, che le ha tolto la memoria e con la memoria la personalità. Il film è l’opera prima, di una serie di tre commedie, con la quale il direttore della fotografia Carlo Di Palma si fa regista per amore. Monica, che in Michelangelo Antonioni aveva trovato un pigmalione, e al contempo gli era stata musa ispiratrice, aveva conosciuto Carlo Di Palma proprio sul set di “Deserto Rosso”, l’ultimo film girato con Antonioni che segue la cosiddetta trilogia dell’incomunicabilità e che in qualche modo la completa e conclude con questo primo film a colori, per il quale il regista si rivolge a un differente direttore della fotografia.

Carlo Di Palma è già un grande e apprezzato professionista che aveva cominciato quindicenne come assistente alla fotografia sul set di “Ossessione” di Luchino Visconti, e che dovrà arrivare a 32 anni per firmare il suo primo film come direttore della fotografia, ma da lì in poi collaborerà con i migliori registi del suo panorama – Pietro Germi, Giuliano Montaldo, Elio Petri, Gillo Pontecorvo, Florestano Vancini – in cui dà eccellenti prove con il bianco e nero. Dunque “Deserto Rosso” sarà anche per lui una prima sperimentazione col colore, e poi dagli anni ’80 inizia la sua longeva continuativa collaborazione con Woody Allen che gli riaprirà il già frequentato mercato degli Stati Uniti.

con Michelangelo Antonioni

Regista per amore perché Monica Vitti si fa musa ispiratrice per gli uomini che la amano. All’inizio fu Michelangelo Antonioni, più vecchio di lei di 19 anni, che avendola notata in alcuni ruoli secondari in film comici, la lanciò nel firmamento internazionale – ma sarebbe più corretto dire che si lanciarono e sostennero insieme – con quel cinema di ricerca stilistica, film che affrontano temi quanto mai moderni nella cinematografia dell’epoca: l’alienazione e il disagio esistenziale; film che creano da un lato smarrimento nel pubblico mentre dall’altro rinnovano la drammaturgia filmica, con la critica che esalta le sue opere come innovative e divisorie al contempo. Conclusa l’avventura artistica con Antonioni, perché quegli intensi drammi cominciavano a starle stretti, si concluse anche quella sentimentale, e Monica Vitti torna ai ruoli brillanti da protagonista, ma con una serie di film dignitosi e non eccelsi finché nel 1966, grazie alla fama acquistata insieme ad Antonioni che la accompagna sul set londinese, è protagonista della produzione inglese “Modesty Blaise” dell’inglese Joseph Losey da un fumetto dell’inglese Peter O’Donnell.

Ma per Monica, che avrà altre frequentazioni internazionali che però resteranno delle parentesi nella sua carriera, una nuova svolta professionale avverrà col film “La ragazza con la pistola” di Mario Monicelli, 1968, che grazie al grande successo al botteghino ridefinisce presso il pubblico la sua immagine di interprete, ora di film brillanti con venature grottesche, che rimarranno il suo marchio di fabbrica e la faranno indicare come unica mattatrice comica capace di tenere testa ai colonnelli del cinema dell’epoca; le altre grandi interpreti del periodo – la più anziana Anna Magnani già premio Oscar con l’americano “La rosa tatuata” e Sofia Loren con più sostanziose frequentazioni internazionali e premiata con l’Oscar per “La Ciociara” diretta da Vittorio De Sica – passavano dal brillante al drammatico lasciando il comico spinto e il grottesco alla verve della Vitti. La Vitti e la Loren sono esponenti contemporanee di un mondo cinematografico parallelo, che come i binari di una ferrovia non si incontreranno mai, neanche ai gala fuori dai set.

“Teresa la ladra”, che arriva nelle sale nel 1973, viene dal romanzo di Dacia Maraini pubblicato l’anno prima “Memorie di una ladra” in cui la scrittrice, qui anche sceneggiatrice con Age e Scarpelli, racconta in prima persona le avventure di una donna che aveva conosciuto durante un’inchiesta sulle carceri femminili, una donna talmente interessante che aveva poi continuato a rivedere e frequentare, raccogliendo tutto il materiale delle sue avventure e unendolo ad altro orecchiato fra le altre carcerate. Nasce così Teresa Numa, protagonista di avventure patetiche e tragiche raccontate in chiave grottesca che nella Monica Vitti dell’epoca trova la sua espressione migliore. E, nulla togliendole, non posso fare a meno di ragionare che in un’immaginaria interpretazione di Sofia Loren il personaggio avrebbe acquisito profondità drammatica senza tuttavia perdere gli aspetti brillanti e, ancor più, in un’immaginaria interpretazione di Anna Magnani quella protagonista avrebbe assunto dei toni decisamente più tragici: questo esercizio di stile per raccontare in poche parole come veniva raccontato il cinema al femminile dell’epoca, quali gli aspetti e le prerogative delle differenti interpreti.

Protagonista assoluta racconta con voce fuori campo le sue vicende a cominciare dall’infanzia nei tardi anni ’30 in una numerosissima e miserevole famiglia dalla quale si affranca con un precoce e infelice matrimonio e, rimasta vedova di guerra, per sopravvivere si dà al crimine cominciando a sfilare i portafogli nel buio dei cinema a uomini arrapati, per poi passare al borseggio sugli autobus e ai furti con scasso. Una parabola tutta in discesa che la condurrà al manicomio criminale passando però per sprazzi di momentanea felicità che lei puntualmente commenta come il momento più felice della sua vita.

Il direttore della fotografia Carlo Di Palma, passando alla regia, mostra di conoscere a fondo il cinema e se il suo stile registico si rifà ai film di genere, mostra però il suo mestiere sin dalle prime inquadrature, curatissime nella luce nel colore e nella scelta del punto di vista della macchina da presa. Altro punto a suo favore è la composizione del cast, che avvalendosi di ottimi caratteristi e generici insieme a tipi presi dalla strada, non imbocca la via facile del doppiaggio tanto in uso all’epoca e fa parlare tutti in presa diretta o li fa auto doppiare dove necessario.

con Valeriano Vallone

La meteora Valeriano Vallone, che nello stesso anno è nel film “Mussolini ultimo atto” di Carlo Lizzani, è il giovane marito; la caratterista di lusso Isa Danieli è la prima maestra di borseggi mentre Luciana Turina fa parte della famiglia di piccoli criminali dai soprannomi coloriti che adotta la nostra, una famiglia spuria frequentata anche da un giovane Carlo Delle Piane, professionista danaroso e poco avvenente che spasima senza successo per la bella Teresa Numa.

con Franco Diogene felice di essere palpeggiato e con Carlo Delle Piane infelice di non poter palpeggiare

Un’altra giovane promessa, Michele Placido, è il belloccio per il quale Teresa perde la testa e vive il momento più felice della sua vita, asserzione che poi rinnova quando incontra un altro bello e possibile, Stefano Satta Flores, attore che avrà una bella carriera più da comprimario che da protagonista; in un ruolo secondario di malvivente un po’ ladra e un po’ puttana un’irriconoscibile Anna Bonaiuto mentre Franco Diogene è una delle vittime sapientemente palpeggiate e derubate nel buio della sala cinematografica. In un ruolo defilato ma ben segnalato nei manifesti e mei titoli è la partecipazione del caratterista Fiorenzo Fiorentini.

Monica Vitti nasce Maria Luisa Ceciarelli, romanissima, ma da bambina ha vissuto per circa otto anni a Messina a causa del lavoro del padre che era ispettore del commercio estero, e a quel periodo deve il soprannome di “setti vistini”, sette sottane, a causa della sua freddolosità che le faceva indossare i vestiti uno sull’altro, nomignolo che diverrà il titolo della sua prima autobiografia del 1993. Avendo frequentato l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, poi intitolata a Silvio D’Amico che fu allora suo maestro, comincia a muovere i primi passi in palcoscenico con un altro suo insegnante, Sergio Tofano, nelle di lui commedie favolistiche sul personaggio del Signor Bonaventura, il quale le suggerisce di trovarsi un nome d’arte, e tagliando a metà il cognome materno Vittiglia lo abbina a Monica che aveva letto in un libro. Negli anni Settanta farà quasi coppia fissa con Alberto Sordi, un altro interprete che eccelle nel grottesco, in molta commedia all’italiana, un genere che la avvicinerà sempre più a un pubblico nazional-popolare. Nel 1980 tornerà a lavorare con Antonioni, del quale era sempre rimasta amica, nel televisivo “Il Mistero di Oberwald” dal dramma di Jean Cocteau “L’aquila a due teste”.

con Roberto Russo

Nel 1983 fu protagonista di “Flirt” dell’esordiente Roberto Russo, già fotografo di scena, suo ultimo compagno di vita di sedici anni più giovane, col quale scrisse il film per il quale lui vinse il David di Donatello come miglior regista esordiente e lei l’Orso d’Argento al Festival di Berlino: una storia che segna il ritorno ma anche un nuovo debutto nelle storie sentimentali drammatiche e sofferte, ma della seconda età. Seguirà “Francesca è mia” e poi finalmente Monica firmerà la sua prima regia che sarà anche la sua ultima interpretazione, ancora sulle crisi coniugali dell’età di mezzo, “Scandalo segreto” del 1990. Nel 2000, dopo 27 anni di relazione, si sposarono e due anni dopo la coppia viene vista in pubblico per l’ultima volta. Hanno cominciato a circolare alcune voci circa una sua degenza in una clinica svizzera che solo nel 2016 lui ha smentito, dichiarando però pubblicamente che Monica Vitti era affetta da Alzheimer e che veniva accudita da una badante e da lui stesso. Una musa ispiratrice amata fino alla fine. Un corpo come una scatola vuota che ha resistito fino ai 90 anni, una scatola le cui memorie sono sparse in ognuno di noi.

Uno degli ultimi scatti

Per grazia ricevuta – opera prima di Nino Manfredi

E’ il 1971 e Saturnino Manfredi detto Nino ha cinquant’anni quando debutta in regia col suo primo lungometraggio in cui però ne dichiara quaranta scarsi, credibilissimi per carità, e si fa esageratamente truccare come un divo da operetta, ma ci sta perché comincia a mostrare una lieve sindrome della palpebra cadente sull’occhio sinistro, che mostrerà cinque anni dopo, accentuata dal trucco, nella sua memorabile interpretazione in “Brutti, sporchi e cattivi” di Ettore Scola. Primo lungometraggio, dicevo, perché Manfredi si era già cimentato dieci anni prima dirigendo e interpretando il cortometraggio “L’avventura di un soldato” da un racconto di Italo Calvino nel film a episodi “L’amore difficile”.

#nino manfredi from Bianco&Nero
Nino Manfredi con Luigi Magni

Per questo debutto sviluppa un suo soggetto originale, con riferimenti autobiografici che fanno da struttura portante a un’opera di fantasia, e si fa aiutare nella sceneggiatura da Leo Benvenuti e Piero De Bernardi, ma soprattutto dall’amico regista Luigi Magni, col quale spesso aveva lunghe piacevoli chiacchierate sulla religione il clero e il potere temporale, regista per il quale era stato protagonista di “Nell’anno del Signore” cui seguiranno “In nome del Papa Re”, “Secondo Ponzio Pilato” e “In nome del popolo sovrano”, tutti film anticlericali. Perché di questo tratta questo suo primo film semi autobiografico: di dubbi sulla fede religiosa, un argomento assai importante per chiunque vi si fosse impegnato, e particolarmente spinoso in quel periodo perché sono gli anni in cui l’Italia si avvia verso le contestazioni sociali e la libertà sessuale; ma è anche un periodo appena successivo al Concilio Vaticano II, su cui certamente Manfredi e Magni si saranno confrontati, un concilio di apertura, sempre entro i limiti sistematici, che non fu in grado di approfondire l’argomento del momento, la contraccezione, né men che meno vi si parlò di divorzio, altro argomento caldo. Argomenti che allora come oggi riguardano la vita sociale e sui quali, come oggi succede riguardo al DDL Zan, la chiesa pone i suoi veti – ammesso che sia lecito – senza mai essersi ufficialmente interrogata e/o confrontata su quegli argomenti.

Nino Manfredi parte dalla sua reale esperienza di bambino ciociaro con radici contadine, assai vivace, e trasferisce nel film la sua vera esperienza come semi internista in un collegio cattolico da cui scappa molte volte per poi finire nella reclusione forzata di un sanatorio quando sedicenne si ammala di tubercolosi. Sono gli anni formativi della personalità e di quella coscienza religiosa con la quale si confronta: quella intrisa di superstizioni nell’ambito contadino che trova pure riscontro nel buon senso e nel cattolicesimo addomesticato e molto casalingo dei fraticelli che racconta nella prima parte del film, quella dell’infanzia del protagonista, che sopravvissuto indenne a una terribile caduta viene fatto oggetto di culto perché miracolato da Sant’Eusebio. Il bambino è anche sopravvissuto alla religione punitiva e terrorizzante impartita dalla procace zia con cui vive – è orfano – la quale, zitella, intrattiene quella che un tempo era definita relazione illecita, e il bambino la scopre nuda mentre si fa il bagno: eventi che lo segneranno per sempre con l’esplosivo dualismo della religione persecutoria e del sesso illecito e proibito che ne faranno un adulto disadattato… ma non racconterò la trama del film, che va visto.

Mario Scaccia, al centro

Parlerò dell’ironica simpatia con cui mostra i fraticelli che come garrule casalinghe si affollano attorno all’Ape del venditore ambulante che si avventura per borghi e vallate sperdute; dell’attenzione che mette nel ritrarre tutti i personaggi di contorno con attori di vaglia che purtroppo, all’epoca, dovevano fare i conti con la piaga pervasiva del doppiaggio; dell’abilità con cui dosa commedia e dramma, gestendo con grande equilibrio anche un momento esilarante a ridosso della tragedia del tentato suicidio; la sua interpretazione sempre spaurita da uomo sempre fuori contesto che però ha gli sguardi e i tentennamenti di un’intelligenza sempre volta a comprendere, sempre tesa a dipanare i dubbi esistenziali che devono essere stati gli stessi dubbi del Nino Manfredi uomo. “Per grazia ricevuta” è un film riuscitissimo che gli valse a Cannes il premio per la migliore opera prima, il Nastro d’Argento a soggetto e sceneggiatura e un David di Donatello speciale per il suo esordio da regista insieme ad Enrico Maria Salerno che quello stesso anno esordiva con “Anonimo veneziano”. Ma gli valse anche il favore del pubblico che in quella stagione cinematografica, ’70-71, con quasi quattro miliardi di lire di incassi si piazzò al primo posto e a tutt’oggi detiene il 32° posto nella lista dei film italiani più visti.

Anche se io al cinema non lo vidi perché ero un preadolescente e in famiglia non si andava al cinema, e mi sarei mosso da solo dopo i 16 anni, conoscevo benissimo il film per le tante volte che se ne era parlato in televisione dove Nino Manfredi era anche una star dei varietà del sabato sera, nelle interviste e nei servizi dei telegiornali che registravano l’enorme successo, e per la canzone della processione “Viva viva sant’Eusebio” che passava continuamente alla radio e che ormai tutti canticchiavamo, musica di Guido e Maurizio De Angelis e parole di Manfredi che la canta; autori anche dell’altro successo “Me pizzica, me mozzica”.

Nel cast il ruolo più di rilievo e andato all’americano Lionel Stander doppiato da Corrado Gaipa, e l’attrice più famosa è un’ancora sconosciuta Mariangela Melato nel ruolo della maestrina della colonia, qui doppiata da Angiola Baggi così bene che a un primo ascolto sembrava la vera voce della Melato che abbiamo imparato a conoscere, e che diventerà prestissimo famosa perché protagonista in “La classe operaio va in paradiso” di Elio Petri ma soprattutto in “Mimì metallurgico ferito nell’onore” di Lina Wertmuller. Nel ruolo femminile principale c’è Delia Boccardo, attrice assai interessante e decisamente bella utilizzata al cinema per lo più nei poliziotteschi e che ebbe una carriera più interessante negli sceneggiati Rai, senza mai assurgere all’ambito ruolo di stella di prima grandezza. Mario Scaccia è il priore dell’abbazia e Paola Borboni, detta dal marito scenico Lionel Stander la iena come anche l’avvoltoio, dà il meglio di sé con sguardi severi ma doppiata però, forse a causa di impegni teatrali, dall’altrettanto valida Pina Cei. Fausto Tozzi è l’autorevole chirurgo ed Enzo Cannavale è il lungodegente dalla malattia che non si sa che cos’è, che al richiamo dell’infermiera Fiammetta Baralla che gli ordina di rientrare perché fa fresco, risponde: Almeno muoio di qualcosa che si sa! La francese Véronique Vendell, oggi del tutto dimenticata anche perché già nel 1979 si ritirò dalle scene, nel significativo ruolo di una prostituta che si auto definisce ragazza chiacchierata e che tenta senza successo le reali virtù del protagonista. Il messinese Tano Cimarosa, doppiato da Pino Caruso, è il venditore ambulante.

Nel ruolo del divertente ingenuo Fra’ Gesuino c’è l’invecchiato fenomeno noto come Mister O.K., l’italo-belga Rick De Sonay che diede l’inizio alla tradizione di tuffarsi nel Tevere, vorticoso e gelido, a capodanno subito dopo lo sparo di cannone di mezzogiorno del Gianicolo. La gente affacciata al parapetto di Ponte Cavour, che misura sul fiume circa 18 metri, stava pochi secondi col fiato sospeso finché l’eccentrico tuffatore non riappariva facendo il gesto dell’O.K. per dire che stava bene, e da lì il soprannome che lo rese famoso insieme all’impresa che negli anni raccolse altri adepti. Già nel 1968 aveva debuttato nel cinema salvando proprio Nino Manfredi che si era buttato nel Tevere in “Straziami, ma di baci saziami” di Dino Risi.

Nino Manfredi, che resterà nella nostra memoria come il primo e in assoluto migliore Geppetto nel Pinocchio televisivo, firmerà anche altre regie ma questa rimarrà la sua opera migliore, per la sincerità dell’spirazione e la complessità del tema trattato con esemplare equilibrio fra leggerezza e approfondimento. Del famoso quartetto che ha dominato la nostra cinematografia lui era quello che ha dato voce ai personaggi più sinceri e popolari, laddove Alberto Sordi era la maschera più infida ma nel contempo divertente, Vittorio Gassman il fanfarone, Ugo Tognazzi il più eccentrico; contemporaneo a quel quartetto ma fuori dagli schemi per la sua particolare inclassificabile complessità è stato Marcello Mastroianni, sempre in fuga dalla star system. Solo Nino Manfredi, con Sordi e Tognazzi, si cimenteranno nella regia, e lui è quello che fra tutti si è espresso più chiaramente sui sempre scomodi temi della fede. Alla sua morte, 83enne, nel 2004, benché dichiaratamente ateo ebbe un funerale religioso che la famiglia avrebbe potuto evitare se solo si fosse ricordata del finale di “Per grazia ricevuta”.

Qui il film completo su YouTube (dove curiosamente, come in tv, manca il nome di Lionel Stander nei titoli, forse per la perdita di un paio di fotogrammi).

La Battaglia di Alamo – opera prima di John Wayne

Non ho mai amato John Wayne e da quando ho potuto scegliere (da adolescente) non ho più visto un suo film, ed estensivamente tutti i film western e di guerra, perché nel mio immaginario portavano tutti il marchio di John Wayne, che da bambino non mi piaceva per istinto e solo da adulto ho saputo trovare le parole per spiegare la mia antipatia: non mi piaceva il suo atteggiamento da super uomo, quello del “so tutto io” e, peggio, da suprematista bianco; ma i miei non erano precoci ragionamenti politici quanto piuttosto, sempre, il mio istinto, la mia natura, il mio personale sentire che mi faceva dubitare che gli indiani fossero così gratuitamente cattivi e feroci, tanto quanto non riuscivo a capire perché i negri dovessero fare gli schiavi. Solo con i film degli anni ’70 – “Corvo rosso non avrai il mio scalpo” “Soldato blu” “Un uomo chiamato cavallo” – per citare i primi tre titoli che mi vengono in mente, film che hanno cominciato a raccontare in modo diverso ragionato revisionista i conflitti con i pellerossa, ho fatto pace con il genere western perché finalmente trovavo alcune risposte ai miei dubbi, e potevo tornare a guardare i vecchi classici sospendendo il mio spirito critico e apprezzandoli per ciò che erano e sono: film spettacolari che raccontano dal punto di vista dei conquistatori l’America da conquistare.

La Battaglia di Alamo sta alla storia degli Stati Uniti d’America come da noi sarebbe, ad esempio, la Battaglia del Piave: una sconfitta territoriale nel percorso bellico di formazione di un’intera nazione. Gli Stati Uniti d’America all’inizio erano 13 colonie inglesi situate sulla costa atlantica, che avevano conquistato l’indipendenza dalla Corona Britannica nel 1776, e non furono tutte rose e fiori dato che i 13 già litigavano fra loro sulla schiavitù dei neri, dividendosi fra abolizionisti a nord e schiavisti a sud. Successivamente si pensò bene di ampliare i territori verso ovest, il selvaggio west, entrando in conflitto con gli abitanti autoctoni che via via gli americani incontravano, ovvero le popolazioni native, che sterminarono in una sorta di vera e propria pulizia etnica che durò fino al 1830, anno in cui fu varata una legge che regolamentava la deportazione dei nativi sopravvissuti in determinate aree di confinamento, dette riserve, e anche quegli stessi territori divennero campi di battaglia per le ricchezze minerarie che nascondevano e perché agli americani sembrava non bastare mai lo spazio conquistato: si sarebbero fermati solo sull’altra sponda, sull’oceano Pacifico.

In questo percorso di conquista, nel 1835 i nostri misero gli occhi sul territorio del Texas che solo pochi anni prima, il 1821, aveva conquistato la sua indipendenza dagli Spagnoli che a loro volta l’avevano strappato ai Francesi, e non dimentichiamo che Francesi e Spagnoli erano anche loro dei conquistatori venuti dall’Europa a soppiantare i nativi. Il Texas faceva gola perché vi erano ricchi giacimenti di argento – il petrolio era di là da venire – e a prescindere dal governo in carica vi si installavano genti di ogni nazionalità europea, compresi i nuovi coloni sedicenti Americani, molti dei quali erano ricchi commercianti possidenti di schiavi che vivevano chiusi nei loro ranch senza rispettare le leggi dello stato che aveva abolito la schiavitù su tutto il territorio messicano. Per contrastarli il presidente Anastasio Bustamante minacciò interventi militari nelle enclave anglo-americane, e per evitare ulteriori colonizzazioni di territori texani da parte dei confederati ne proibì l’immigrazione e, ulteriormente, fece costruire delle fortificazioni lungo il confine: il muro che avrebbe voluto Donald Trump lo avevano già pensato i messicani per difendersi dall’invasione americana. Questo però non fermò l’immigrazione fino al punto che contro 7800 residenti texani si contavano 30000 americani e a quel punto la questione si fece assai spinosa: gli speculatori americani non volevano più dover rendere conto al governo texano e il governo americano già pensava a un’annessione, anche per dare altro spazio a sud agli schiavisti e tenere buoni gli abolizionisti nordisti. Così fra manovre politiche e varie battaglie si giunse ad Alamo.

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La missione di Alamo presso cui si svolse la famosa battaglia raccontata nel film, prima era la missione religiosa di San Antonio de Valero e prese il nuovo nome dalla città Alamo de Parras da cui provenivano le truppe che la trasformarono in presidio militare, poi abbandonato in rovina. All’interno di quelle rovine si erano installati meno di duecento di quelli che la storia chiamerà eroi texani, ma in realtà i veri nativi texani erano solo 13 di cui 11 con ascendenze messicane; 41 combattenti erano di provenienza europea e il restante centinaio o poco più erano coloni americani che provenivano da altri stati dell’unione, e con loro due neri schiavi. Il film ricorda che erano 185 americani che si sono battuti con forze messicane che li superavano in un numero dieci volte superiore. Nel tempo l’evento si è caricato di enfasi e retorica nella memoria statunitense alimentata dalla fiction cine-televisiva, mentre i messicani la ricordano appena come un episodio secondario di tutto il conflitto con gli Stati Uniti.

Il film fortemente voluto da John Wayne tace tutti i retroscena che metterebbero in ombra il fulgido esempio di patriottismo americano, a cominciare dalla realtà dello schiavismo che fu fra le cause principali del conflitto e, in questo senso, l’opera è un classico della cinematografia dell’epoca con i buoni e i cattivi nettamente schierati su fronti opposti. Ma non del tutto perché Wayne (col suo sceneggiatore James Edward Grant) trova il modo di far dire a uno dei personaggi che i messicani sono brave persone che combattono per le loro idee, mentre dopo la battaglia mostra anche i morti sul campo messicano con un primo piano a una donna anziana che piange, in un apprezzabile tentativo di visione totale sul conflitto. Per il resto John Wayne è il John Wayne che ricordavo, quello “so tutto io” che non disdegna a donne e bambini messicani i suoi sorrisi di amabile superiorità.

John Wayne e Richard Widmark

Erano anni che il divo – al tredicesimo posto fra le più grandi star americane, che per un trentennio,1940-1970, è stato fra gli attori più famosi nel mondo ma che aveva già cominciato a recitare nel cinema muto degli anni ’20 – voleva fare questo film, una storia carica di spirito eroico con protagonisti mitici, a cominciare dall’avventuriero Davy Crockett divenuto eroe popolare protagonista di molta letteratura. E poiché nessuna major era interessata a realizzare il suo film, decide di metterci soldi di tasca sua appoggiandosi alla Republic Pictures che fino ad allora aveva prodotto western di serie B; a quel punto va da sé che sarà anche regista oltre che protagonista. Ma il film costò talmente tanto che il grande successo al botteghino gli fece solo recuperare i soldi spesi e per vedere un po’ di guadagno dovette attendere gli introiti dai passaggi televisivi. Vinse un solo Oscar tecnico per il Miglior Sonoro nonostante fosse candidato anche come Miglior Film, premio che quell’anno, il 1961, andò a “L’appartamento” di Billy Wilder. Non fu candidato come Miglior Regia dato che nell’ambiente era noto a tutti, benché non ufficialmente dichiarato, che l’amico John Ford regista di tanti film di Wayne gli aveva dato più di una mano durante le riprese. Il film che circola in tv è la versione corta di quasi tre ore a fronte di quella originale di ben quattro ore che meglio spiegherebbe gli attriti fra i personaggi di Bowie e Travis, nonché l’avventura romantica di Davy Crockett e, in ogni caso, le tre ore di film scorrono velocemente, ancora oggi, a riprova della sua validità anche a sessant’anni di distanza.

Chill Wills

Il film non gli portò neanche la candidatura come Attore Protagonista ma solo quella al Non Protagonista Chill Wills, un vecchio caratterista canterino che nel film ha il compito di alleggerire la vicenda. Nel ruolo dell’altro eroe Jim Bowie a capo di un drappello di volontari irregolari, Wayne avrebbe voluto Charlton Heston che invece rifiutò proprio perché non voleva essere diretto dal collega e, diciamola tutta, in un ruolo secondario rispetto a quello di Wayne, così la parte andò a Richard Widmark, ottimo attore che passava dai protagonisti agli antagonisti e che diede al personaggio quel tono un po’ canagliesco che l’aureo Charlton Heston non avrebbe potuto dare: non dimentichiamo che Jim Bowie fu anche un attivo schiavista. L’altro protagonista, il colonnello dell’esercito regolare William Travis, è interpretato dal meno noto Lawrence Harvey, in quegli anni apprezzato interprete di personaggi freddi e apparentemente senz’anima, dunque un’altra ottima scelta nel terzetto dei protagonisti, fra i quali gigioneggia al suo solito modo il solito John Wayne, quanto mai intriso di tutta la sua retorica, che qui sfoggia il famoso cappello di pelliccia di opossum alla Davy Crockett con tanto di testa dell’animale sulla fronte a mo’ di stemma.

LAURENCE HARVEY & PATRICK WAYNE in "The Alamo" Original
Richard Boone, Lawrence Harvey e Patrick Wayne

Fra gli altri personaggi realmente esistiti Richard Boone interpreta il Generale Sam Houston che non riuscì a inviare gli aiuti per tempo ma sconfisse il generale messicano Antonio López de Santa Anna in una successiva battaglia e poi eletto primo presidente del Texas americanizzato; mentre il Capitano James Butler Bonham lo interpreta il primogenito Patrick Wayne, che dal padre aveva ereditato altezza e fascino ma non a sufficienza da farlo emergere come stella di prima grandezza.

Aissa Wayne e Joan O’Brien

Nel resto del cast il giovane cantant’attore Frankie Avalon (all’anagrafe Francis Avallone) immaginato come unico superstite maschio adulto della battaglia perché inviato a chiedere aiuto al Generale Houston. L’argentina Linda Cristal (Marta Victoria Moya Burges) e l’americana Joan O’Brien hanno il compiuto di alleggerire il film con la loro femminilità, la prima facendo intuire una storia d’amore con Davy Crokett, la seconda come superstite al massacro insieme a uno schiavetto nero e alla bionda figlioletta interpretata da Aissa Wayne, figlia di terzo letto del patriarca John.

La quale, proseguendo negli ideali politici del padre, da anziana bella signora bionda ha appoggiato un altro patriarca della destra americana, Donald Trump, fino a dichiarare che gli attivisti progressisti americani odiano la figura di suo padre perché fu un uomo forte e indipendente, un odio che si estende a tutto il cinema western considerato veicolo di razzismo e suprematismo bianco. E probabilmente ha pure ragione dato che da quelle parti il revisionismo ad alzo zero del politically correct è una piaga che non conosce mezze misure né contestualizzazione dei fatti e dei personaggi nel loro tempo. Di fatto, the Duke, come veniva rispettosamente chiamato John Wayne, era talmente di destra da fondare la “Società Cinematografica per la Salvaguardia degli Ideali Americani” che si poneva lo scopo di difendere l’industria del cinema, e attraverso essa l’intera società, dalla perniciosa infiltrazione del pensiero comunista e, sulla carta, anche fascista. Nel loro statuto, fra le altre cose, si leggeva: “Nel nostro speciale campo della cinematografia, siamo allarmati dalla crescente impressione che questa industria sia composta e dominata da comunisti, radicali e pazzi. Noi crediamo di rappresentare la stragrande maggioranza delle persone che servono in questo grande mezzo di comunicazione. Ma purtroppo essa è stata una maggioranza disorganizzata…” Può sorprendere che vi aderirono beniamini del nostro immaginario cinematografico come Walt Disney, Gary Cooper, Clark Gable, Barbara Stanwyck, Ginger Rogers e, ma lui non sorprende, Ronald Reagan. La società ebbe vita fino al 1974.

The Duke era nato come Marion Robert Morrison e aveva all’incirca quattro anni quando i vicini di casa cominciarono a chiamarlo Big Duke perché andava sempre in giro col suo cagnolino Little Duke, e poiché quel soprannome gli piaceva più del nome Marion, se lo tenne e così si fece conoscere crescendo. Ma il completo nome d’arte John Wayne gli venne dalla casa di produzioni dove aveva cominciato con piccoli ruoli nei film della star del muto Tom Mix. Al suo primo ruolo da protagonista in “Il grande sentiero” del 1930, il regista Raoul Walsh gli suggerì il nome d’arte Anthony Wayne in onore al generale che aveva combattuto nella Guerra d’Indipendenza dall’Inghilterra, e se ne deduce che i due si fossero già riconosciuti come osservanti patrioti; ma poiché al boss dello studio il nome Anthony suonava troppo italiano alla fine scelsero John, John Wayne. Peccato che l’interessato non fosse presente alla scelta del nome che lo avrebbe consacrato star internazionale per i successivi quarant’anni!

Melodrammore – opera prima di Maurizio Costanzo

Melodrammore (1978) - IMDb

E’ il 1978 e da almeno un decennio Maurizio Costanzo – giornalista, conduttore e autore radio-tv – scrive anche per il cinema, niente di indimenticabile per carità, ma dignitose partecipazioni a più mani, registrando la frequentazione più assidua con Pupi Avanti con “Bordella” e altri sei titoli fra cinema e tv, mentre all’apice partecipa alla scrittura di “Una giornata particolare” di Ettore Scola del 1977 e l’anno dopo finalmente decide di darsi alla regia: la sua unica regia dato che a tutt’oggi, è 83enne, non ne ha firmate altre e quasi certamente non lo farà. Unica, perché a dire il vero, davvero infelice.

Le intenzioni erano buone ma erano tante, forse troppe, e alla fine confuse e bislacche. Come ci avvisano i titoli di testa il film nasce da un’idea del press-agent – e creatore di molte carriere cinematografiche per le quali ha inventato numerosi scandali da copertina – l’ineffabile Enrico Lucherini: si sa che se il personaggio è famoso e giornalisticamente potente i tributi vanno pagati e anche le sole idee messe in risalto; di fatto Lucherini poi è accreditato fra i soggettisti; a scrivere la sceneggiatura ci pensano il regista Maurizio Costanzo e il protagonista Enrico Montesano che, a vedere il film, si è certamente occupato delle improvvisazioni.

Un film più unico che raro per la struttura che vede due film in uno e la cui genesi possiamo immaginare in una chiacchierata fra appassionati di cinema, il cinema in bianco e nero del buon tempo andato, appassionati di cinema che sono anche degli umoristi buontemponi, i quali partendo dai melodrammi sentimentali anni ’50 – detti dal pubblico strappalacrime e dalla critica colta neorealismo d’appendice anche se non c’è nulla di realistico mentre è, sì, tutta narrazione d’appendice – partendo da quei melodrammi, il nostro immaginario cenacolo di scrittori dalla penna brillante e corrosiva, pensa di celebrarli e farne al contempo una parodia: ma celebrazione e parodia sono un connubio quanto mai velleitario da tenere insieme se non si ha il genio di un Mel Brooks.

Immaginano quindi nell’antefatto che un attore, Enrico Montesano, dovendo interpretare un film strappalacrime ambientato negli anni ’50 – non dice però che sarà una parodia – invita sul set un divo simbolo di quel cinema, Amedeo Nazzari, al quale chiedere consigli, del tutto inascoltati come vedremo, sullo stile interpretativo. E’ solo un espediente per farci vedere quasi per intero il film in questione, “Appassionatamente” diretto da Giacomo Gentilomo nel 1954. Inopinatamente Enrico Montesano interrompe e commenta per sintetizzare la trama, rivolgendosi in camera e a noi pubblico con battute da avanspettacolo che infrangono la quarta parete derogando al rigore narrativo, semmai ce ne fosse stato uno, battute banali e fastidiose laddove “Appassionatamente” ci stava davvero appassionando.

Appassionatamente

Tratto dal dramma teatrale “La Dame de Saint-Tropez” di Auguste Anicet-Bourgeois e Adolphe d’Ennery, nella trama si ispira a “Il padrone delle ferriere” classico romanzo d’appendice di Eugene Ohnet dal quale sono stati tratti tre film, l’ultimo dei quali sarà l’italiano diretto da Anton Giulio Majano nel 1959. Ne sono protagonisti Amedeo Nazzari, appunto, e la francese Myriam Bru.

Lei, Miriam Bru, all’anagrafe Myriam Rosita Bruh, è una francese subito adottata dal cinema italiano grazie ai produttori Carlo Ponti e Dino De Laurentiis che hanno l’occhio attento per le belle ragazze, e italianizzata Bru gira una quindicina di film, fino a quando su un set incontra il suo futuro marito, il tedesco Horst Buchholz che le chiede di dedicarsi esclusivamente alla famiglia, così la Bru, che non ha mai imparato a recitare in italiano e sarà sempre doppiata, gira il suo ultimo film nel 1958, l’interessante “Nella città l’inferno” di Renato Castellani con Giulietta Masina e Anna Magnani, e poi va a fare la madre di famiglia.

Lui, nato Amedeo Carlo Leone Buffa, in arte prende il cognome materno facendosi omonimo del nonno che fu presidente della Corte d’Appello. Scopre la passione per il palcoscenico presso i salesiani, dove studia; grazie anche alla sua prestanza fisica viene notato da Elsa Merlini che lo fa debuttare al cinema, ma il film non ebbe successo, e di nuovo un’altra prima donna si accorge del suo potenziale: è la giovane emergente Anna Magnani che lo segnala al marito Goffredo Alessandrini per il suo prossimo film, film che la giornalista Guglielmina Setti su “Il Lavoro” del 1936 recensisce così: “Cavalleria si regge sull’interpretazione, singolarmente efficace e ben affiatata nell’insieme, sulla bella fotografia, su quello stile pacato e simpatico che è caratteristico di Goffredo Alessandrini. Amedeo Nazzari, questo eccellente interprete, rivelatosi in un brutto film, Ginevra degli Almieri, si afferma con questa sua seconda fatica cinematografica come il più interessante dei nostri primi attori dello schermo.”

Amedeo Nazzari • Altezza (altura), Peso, Misure, Età, Biografia, Wiki

E da lì in poi Amedeo Nazzari sarà un divo che attraverserà i periodi dell’avventuroso e romantico anteguerra, dei telefoni bianchi di regime, e del dopoguerra dove insieme a film colti e impegnati riprende il fortunato filone dei melodrammi, mentre si affacciano all’orizzonte volti nuovi come quello di Vittorio Gassman. Nel 1957 interpreta se stesso, come in questo “Melodrammore” ma con differente spirito ed esito, nel felliniano “Le notti di Cabiria” dove fa autoironia presentandosi come un attore in declino, e la verità è purtroppo dietro l’angolo, come diceva Maurizio Costanzo nel suo show tv: prima Alberto Lattuada gira un remake di “La figlia del Capitano” diretto da Mario Camerini nel 1947, e gli era stato promesso che avrebbe ripreso il suo ruolo da protagonista, ma poi la parte va all’americano Van Heflin; in seguito gli viene proposto il ruolo del Principe di Salina nel “Gattopardo” di Luchino Visconti ma il ruolo andrà a Burt Lancaster per ottenere dei finanziamenti americani; da Hollywood gli arriva la proposta di un film con Marilyn Monroe e stavolta sarà lui a rifiutare, primo perché non si ritiene all’altezza di recitare in inglese, e poi perché si sarebbe sentito ridicolo nelle scene di canto e ballo dato che il film era il musicale “Facciamo l’amore” che poi Marilyn girò con Yves Montand facendo davvero l’amore fuori dal set. Con gli anni ’60 in Italia si apre la stagione della commedia all’italiana e salvo sporadiche partecipazioni Nazzari rifiuta i copioni, che mancano di buon gusto, e per il rispetto che deve a se stesso e al suo pubblico. Chapeau! E’ stato uno dei pochi divi della sua epoca a recitare con la sua vera voce, profonda e potente, benché non esente da difetti di dizione: famoso il suo “Chi non beve peste lo colga!” da “La cena delle beffe” del 1939 dove pronuncia colga con la o chiusa anziché aperta come vuole la corretta dizione, frase che ironicamente rifà nel carosello dell’amaro Biancosarti. Morirà l’anno dopo essersi messo in gioco in questo film, 72enne, e nell’antefatto dove chiacchiera con Enrico Montesano è assai evidente che, un po’ divertito e un po’ sconcertato dal comico che non comprende appieno, si stia chiedendo: Che ci faccio qui?

Nelle sequenze di “Appassionatamente” è riconoscibile Andrea Checchi, volto noto anche per gli sceneggiati Rai, il quale, rivisto oggi, se ne apprezza la recitazione asciutta e moderna, già oltre lo stile manierato e pomposo di tutti gli altri interpreti in linea con lo stile dell’epoca. Altre interpreti di “Appassionatamente” erano la bionda Vera Carmi qui con capigliatura nera per indurirla nel ruolo della cattiva, e l’altra bionda qui ossigenata per renderla più briosa Isa Barzizza.

Melodrammore

Conclusa la visione di “Appassionatamente” comincia il secondo film con nuovi titoli di testa. Protagonista assoluto è Enrico Montesano che costruisce il suo personaggio come una delle sue macchiette: l’imbranato con voce nasale che è sopportabile nel breve tempo di una scenetta televisiva ma che infastidisce in un film intero. Ed è subito evidente che la buona intenzione della parodia sull’amato film strappalacrime precipita nello sgradevole sberleffo. La comicità è quella della commedia all’italiana già degenerata da quella più sincera degli anni ’60, e fatta di trite gag da avanspettacolo. Enrico Montesano, romaneggia da buon romano della Garbatella, e pur sbagliando tutto è assai sicuro di sé, ha dalla sua il pedigree, essendo l’ultimo di una famiglia di teatranti: il trisnonno Nicola era un attore comico, il bisnonno creò insieme al fratello una compagnia di operette, il nonno Enrico fu direttore d’orchestra e la nonna Bianca Castagnetta era un’attrice. Dunque per il giovane Enrico i giochi erano fatti, la recitazione e la comicità ce li aveva nel DNA. Dal teatro passa negli spettacoli di varietà in tv, come comico e imitatore, e i primi ruoli da protagonista al cinema li ottiene insieme all’altro grande imitatore, Alighiero Noschese, e si impone come simpaticone romanaccio che non disdegna le commedie scollacciate tanto in voga all’epoca: in sintesi è il volto becero di una cinematografia che in quegli anni esprime i talenti di Gassman, Manfredi, Mastroianni, Sordi, Tognazzi.

Il progetto di Maurizio Costanzo e compagni di gioco è un prodotto nazional-popolare che però scontenta tutti: i cineasti colti, o comunque quelli che hanno memoria del glorioso cinema anni ’50, si sentono traditi e presi in giro, gli altri, quelli di bocca buona che sono corsi in massa a vedere Montesano nei film a episodi scollacciati “40 gradi all’ombra del lenzuolo” e “Spogliamoci così senza pudor…”, sono rimasti delusi perché in “Melodrammore” non c’è traccia di volgarità, vivaddio, né di ammiccamenti erotici. Dunque il film non è piaciuto a nessuno, men che meno alla critica, e rimane un’intuizione bislacca che solo un lucido processo di intelligente scrittura avrebbe potuto dargli forma e senso.

Luciana Turina

Oggetto dell’appassionato amore, non ricambiato va da sé, del macchiettistico protagonista, è una macchiettistica contessina cicciona interpretata dall’americana Fran Fullenwider già nel cast, con un piccolo ruolo, di “The Rocky Horror Picture Show”; affidatasi a un’agenzia per modelle e attrici dal fisico abbondante approda in Italia quando cercavano una protagonista cicciona per “Una sera c’incontrammo” di Piero Schivazappa con Johnny Dorelli, e poi sarà scritturata per “Melodrammore” come unica straniera in un cast nazional-popolare di tutto rispetto ma, ahimè, nessuna utilità; e considerando che nel film recitano la Regina (questo il nome proprio del personaggio) e il Reuccio della canzonetta italiana, Nilla Pizzi e Claudio Villa, restando nell’ambito musicarello non posso fare a meno di considerare che in quegli anni avevamo in Italia, per la stessa stazza, la cantante Luciana Turina detta “la Fitzgerald italiana” per la sua voce calda e potente, già anche attrice in tanti film, e resterà senza risposta la mia domanda: Perché Fran Fullenwider e non Luciana Turina? Nilla Pizzi, bontà sua, interpreta la cameriera nella casa della Contessa di Belluogo con la quale, la classe non è acqua, gareggia in signorilità, e fa strano vederla apparecchiare; Claudio Villa è molto credibile come commerciante di salumi arricchito che per l’invadente figlia Priscilla sogna un matrimonio con blasone. Priscilla è Genny Tamburi, attrice di film sexy e noir nonché showgirl in tv, morta prematuramente a 53 anni di cancro. La Contessa madre è Liana Trouché, moglie di Aldo Giuffrè, anch’essa morta prematuramente in un incidente automobilistico a 43 anni. Completano il cast altri tre caratteristi di lusso: Mino Bellei, Vincenzo Crocitti e Stefania Spugnini. Un insieme di assoluta qualità se non fosse che la sceneggiatura fa acqua da tutte le parti ed Enrico Montesano porta quell’acqua solo al suo mulino.

Oggi, 76enne, ha necessariamente diradato la sua presenza al cinema mentre la commedia all’italiana si è rivestita ma anche incattivita, e la sua ultima partecipazione è in “Vivere” del 2019 di Francesca Archibugi. Attendiamo anche per lui, dopo quella di Renato Pozzetto in “Lei mi parla ancora” la santificazione ad attore di culto per i comici giunti alla terza età, dato che da noi un’aureola non la si nega a nessuno.

Sia “Appassionatamente” che “Melodrammore” sono interamente visibili su YouTube.

The Happy Prince – opera prima di Rupert Everett

Rupert Everett: Una vita anti-Brit - Amica

2018. Il 59enne Rupert Everett è alla sua prima regia cinematografica ma ha faticato non poco a trovare i soldi per realizzarla, tanto che la BBC, coproduttrice, ha anche girato un documentario sulla lunga e difficile ricerca dei fondi: una storia nella storia; alla fine insieme al Regno Unito producono USA, Italia che è anche location, e Belgio. Una scelta quasi scontata per l’attore, omosessuale orgoglioso di esserlo, che scrive la sceneggiatura e poi la interpreta e la dirige mostrando grande padronanza del linguaggio cinematografico, conoscenza della figura di Wilde nonché adesione pressoché totale. Rupert Everett, di buonissima famiglia, a 15 anni lascia i normali corsi di studio nel natio Hampshire, o meglio scappa dal rigoroso collegio benedettino dove la famiglia lo aveva relegato, per iscriversi alla Central School of Speech and Drama di Londra, dove però resiste un paio d’anni e poi viene espulso per i suoi vivaci disaccordi col corpo docente. In rottura con la famiglia vive in miseria e di espedienti e per sopravvivere si prostituisce; riprende gli studi alla Royal Shakespeare Company e da lì in poi comincia la sua carriera di attore e raggiunge la fama con il protagonista omosessuale di “Another Country” che impressiona positivamente pubblico e critica. Nel 2002 il suo primo incontro professionale con Oscar Wilde, come protagonista insieme a Colin Firth, di “L’importanza di chiamarsi Ernest” diretto da Oliver Parker, dalla commedia “The Importance of Being Earnest” dove c’è un gioco di parole intraducibile poiché earnest sta per onesto, serio, irreprensibile oltre che come nome proprio. Nel 2012 torna in scena a Londra con il dramma “The Judas Kiss” in cui interpreta Oscar Wilde ancora con grande successo di pubblico e critica. Dunque possiamo immaginare che da lì in poi abbia lavorato a questo film.

Bosie e Oscar

“Nel 1895, Oscar Wilde era l’uomo più noto di Londra. Bosie Douglas, figlio del famoso Marchese di Queensberry, era il suo amante. Furioso per la loro relazione, Queensberry, lasciò un biglietto al club di Wilde: A Oscar Wilde che si atteggia a sodomita. Su istigazione di Douglas, Wilde lo querelò per diffamazione, finendo poi sul banco degli imputati con l’accusa di oscena indecenza. Fu condannato a due anni di carcere e lavori forzati.” Questa la scritta esplicativa all’apertura del film, a ricordarci le circostanze che conducono agli ultimi anni di vita del discusso artista qui ritratto subito dopo l’uscita di prigione e in miseria. Morirà nel 1900 appena 46enne.

Oscar Wilde è una figura enorme di cui si possono raccontare solo pochi dettagli in una sola opera, proprio come ebbe a dire il suo amico Reggie Turner affermando che secondo lui “mai si sarebbe scritto un libro che potesse essere considerato tanto soddisfacente da contenere un personaggio così grande come Oscar Wilde”. Su di lui e sulle sue opere c’è molto e vale la pena considerare anche il film del 1997 diretto da Brian Gilbert “Wilde” interpretato da Stephen Fry con Jude Law come Alfred “Bosie” Douglas, un ruolo che lo lancerà nell’empireo delle star.

Ma Wilde, probabilmente più grazie ai suoi pungenti aforismi che alla sua intera opera, si è conquistato suo malgrado un posto di rilievo nella cultura di massa. I suoi aforismi sono estrapolati dalle sue opere e in una battuta rappresentano la quintessenza del suo spirito, del suo stile di vita, la sua critica sociale. Nel film, moribondo, Rupert Everett gli fa dire il famoso: “Muoio al di sopra delle mie possibilità”. Wilde ebbe l’idea di farne una raccolta ma non vi diede seguito e, proprio perché probabilmente ne aveva parlato agli amici, venne dato alle stampe un “Phrases and Philosophies for the use of the Young” che è possibile scaricare in PDF da questo link: https://www.sas.upenn.edu/~cavitch/pdf-library/Wilde_Phrases_and_Philosophies.pdf; e anche la prefazione alla prima edizione del romanzo “The Picture of Dorian Gray” era interamente composta da aforismi. Mentre era in prigione il suo amico e curatore letterario Robbie Ross per sostenerlo economicamente pubblicò “Sebastian Melmoth Aphorisms” che è possibile scaricare in PDF da qui: http://mgtundoedu.altervista.org/Sebastian%20Melmoth%20Aphorisms%20GAME.pdf; ricordando che Sebastian Melmoth è uno pseudonimo che Wilde aveva usato e sotto il quale si nasconderà una volta uscito di prigione e andato in esilio in Francia, dalla quale si sposterà in Italia e non farà più ritorno nell’isola natia.

Del Wilde nella cultura di massa c’è da ricordare che a un secolo dalla morte si organizzano ancora conferenze internazionali su di lui, mentre a Londra esistono agenzie turistiche che organizzano tour nei luoghi dell’autore, per non dire dell’enorme merchandising che sfrutta le sue celebri frasi. Come fatto curioso c’è da riferire che nel tempo numerose sue estimatrici sono andate sulla sua tomba monumentale nel cimitero parigino di Père-Lachaise lasciandovi, come traccia del loro passaggio, impronte di baci, ma questa romantica tradizione finì quando nel 2011 fu eretta una barriera di vetro per proteggere la scultura dalle tracce degli innumerevoli rossetti: avrebbe mai immaginato Oscar Wilde di suscitare tanta passione postuma nelle donne? La sua prima tomba fu però nel cimitero di Bagneaux, nella Borgogna, dove i pochi amici rimastigli avevano fatto erigere un modesto monumento funerario. Solo successivamente, nel 1909, le sue spoglie furono trasferite nel cimitero parigino dove poi venne sepolto anche il fedelissimo Robert Ross. Come dice una seconda scritta alla fine del film: “Robbie pagò i debiti di Oscar e dedicò il resto della vita a risollevare l’opera e la reputazione dell’amico. Morì nel 1918. Le sue ceneri sono sepolte insieme a Oscar. Bosie morì povero e solo nel 1945. Insieme ad altri 75.000 uomini condannati per omosessualità, Oscar è stato riabilitato nel 2017.”

Ma già nel 1995 nella cattedrale di Westminster a Londra era stata installata nel cosiddetto “angolo dei poeti” una vetrata a lui dedicata come simbolica riabilitazione da parte del governo inglese che solo negli anni ’60 del Novecento aveva depenalizzato l’omosessualità, che però nei fatti è stata ancora perseguita dai giudici preposti che hanno applicato la legge in modo assai restrittivo e arbitrario fino a una nuova regolamentazione del 2000.

Il film che Rupert Everett ha reallizato si inserisce nella tradizione celebrativa di questo genio come un’opera molto ben riuscita, apprezzata dalla critica ma scarsamente considerata dal pubblico se si considera che fra Canada e USA insieme ha incassato solo 464.495 dollari, come dire che la stessa comunità gay lo ha ignorato. Per noi italiani degna di nota la vacanza napoletana che Wilde trascorse col ritrovato amato Bosie, soggiornando a Villa Del Giudice in via Posillipo 27. In quel periodo, ma non ce n’è traccia nel film, conobbe Eleonora Duse e subito le fece avere una estemporanea traduzione italiana della sua “Salomè”, un’opera mai rappresentata in patria dato che il Lord Ciambellano l’aveva considerata scandalosa per quella scena biblica rappresentata in modo così sfrenatamente lascivo. L’unica messa in scena in vita dell’opera era avvenuta nella più liberale Francia ma lui non aveva potuto assistervi perché in prigione. Wilde sperò molto nell’interesse della Duse, poiché necessitava di un rilancio artistico ed economico, ma la diva italiana restò sconcertata dalla pièce e la rifiutò categoricamente. Anche la scrittrice Matilde Serao non era una fan del discusso inglese tanto da scrivere sul “Mattino”: “Come? Oscar Wilde a Napoli? Ma sarebbe una calamità la presenza tra noi dell’esteta britannico”.

Oltre a Rupert Everett che presta a Oscar Wilde anche il suo corpo inevitabilmente appesantito dagli anni insieme al suo vissuto e alla sua consapevolezza di omosessuale, nel cast altri nomi di spicco della cinematografia britannica, che l’attore regista, da gran signore, nei titoli di coda mette tutti prima di sé: Colin Firth è l’amico Reggie Turner e Emily Watson interpreta la scrittrice irlandese Constance Lloyd che fu moglie, infelice va da sé, di Wilde. Tom Wilkinson interpreta il prete che Wilde vedrà alla fine dei suoi giorni, con la curiosità che l’attore aveva interpretato il Marchese di Queensberry nel film “Wilde” del 1997. Alfred “Bosie” Douglas lo interpreta un irriconoscibile Colin Morgan biondo e con le lentine azzurre, per chi l’ha conosciuto come protagonista del giovane mago Merlino nella fortunata serie tv “Merlin”, e ne fa un marchettaro d’alto bordo davvero inquietante, con quello sguardo penetrante di giovane omosessuale sfacciato pericoloso e sgradevole. Edwin Thomas, qui al suo debutto cinematografico, è l’amico e fedele innamorato Robbie Ross. Nel quadro napoletano ci sono Franca Abategiovanni e Antonio Spagnuolo. Nel piccolo ruolo della proprietaria del caffè francese ritroviamo Béatrice Dalle, una modella che debuttò con grande successo nel 1986 in “Betty Blue” dell’allora fidanzato Jean-Jacques Beineix, ma il suo carattere a dir poco esplosivo e le sue cattive abitudini hanno fatto della sua carriera un percorso assai accidentato tutto in discesa. E’ stata anche una delle fidanzate di Rupert Everett, che come Oscar Wilde si è concesso frequentazioni eterosessuali: le altre fidanzate di cui si ha notizia sono la conduttrice tv Paula Yates e la star americana Uma Thurman. In conclusione: un ottimo film che coi suoi scarsi incassi difficilmente darà al suo autore l’opportunità di una seconda regia, sempre che Rupert Everett ce l’abbia in mente.

Ternosecco – opera prima di Giancarlo Giannini

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1987, Giancarlo Giannini è già un divo del cinema italiano e internazionale, la sua fortunata avventura con Lina Wertmuller iniziata nel 1966 con “Rita la zanzara” si è conclusa nel 1978 con “Fatto di sangue fra due uomini per causa di una vedova…” a causa dell’inaridimento della vena creativa dell’autrice e dei troppi impegni dell’attore; torneranno a lavorare insieme nel televisivo “Francesca e Nunziata” del 2002. E’ anche un rinomato doppiatore e ha dato la voce italiana soprattutto ad Al Pacino, ma anche a Michael Douglas e in ordine sparso a Gerard Depardieu, Dustin Hoffman, Harvey Keitel, Donald Sutherland e all’Amleto di Mel Gibson diretto da Franco Zeffirelli, per il quale aveva recitato in teatro in “Romeo E Giulietta” grande successo anche a Londra, e in “La lupa” accanto ad Anna Magnani. E non dimentichiamo la sua passione per l’elettronica (è diplomato perito elettronico) che lo porta a creare vere e proprie invenzioni, la più importante della quali è la giacca parlante e piena di gadget che Robin Williams ha indossato nel film del 1992 “Toys” di Barry Levinson.

Dunque, a conti fatti, a Giannini mancava solo di cimentarsi come regista e sceglie di debuttare dirigendo questa storia interamente scritta da Lino Jannuzzi, importante giornalista politico, fondatore di Radio Radicale e inquisito per avere criticato a mezzo stampa la magistratura nell’occasione della condanna di Enzo Tortora per traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico, accuse poi rivelatesi tardivamente false. Jannuzzi, come co-sceneggiatore, aveva dato eccellente prova scrivendo insieme a Tonino Guerra e al regista Francesco Rosi “Lucky Luciano” e “Cadaveri eccellenti”, 1974 e 1976; nel 1985 co-scrive insieme al regista Pasquale Squitieri e altri tre sceneggiatori il meno riuscito “Il pentito” sulla figura di Tommaso Buscetta, e in ogni caso è chiaro che prevale il suo impegno come sceneggiatore di film drammatici di forte impatto e impegno politico-sociale. Qui, con questo “Ternosecco”, soggetto e sceneggiatura interamente suoi, ma anche sua ultima scrittura cinematografica, è chiaro che si è voluto cimentare nella commedia, specificatamente grottesca, realizzando un suo personale divertissement. Giancarlo Giannini afferra al volo l’occasione e mettendosi al centro della vicenda come protagonista assoluto fa chiaramente un omaggio all’amica Lina Wertmuller alla quale, sono parole sue, deve tutto; l’omaggio si spinge al punto di chiamare il protagonista Mimì, come il metallurgico ferito nell’onore, e a dargli lo stesso aspetto con capigliatura riccia e occhi spiritati. Ma l’omaggio finisce qui perché la sceneggiatura, benché scritta da un grande professionista, non è a punto, non c’è la mano felice del commediografo di scuola, ricorre a gag alle quali Giannini dà il lustro delle gag del cinema muto ma che in definitiva rimangono gag da cinema dei fratelli Vanzina; lo stesso impianto narrativo è debole e ridondante, e raccontando un intrigo di camorristi del gotha partenopeo non graffia, rimane sui luoghi comuni e su tante maschere già viste e riviste; unica invenzione degna di nota è quella della suora camorrista latrice di pizzini. Giannini dirige da vero regista, la sua mano è sicura e il ritmo è sempre giusto, ma il risultato è uno spreco di talenti.

Lina Polito e Victoria Abril

Com’era in voga, ma lo sarà ancora per poco, due ruoli da comprimari sono affidati a degli attori stranieri. Brigida, la moglie di Mimì, è la spagnola Victoria Abril, che onestamente qui sembra una copia dell’italiana Lina Polito, Grolla d’Oro come Migliore Attrice Esordiente nel 1973 per “Film d’amore e d’anarchia” della Wertmuller; e il boss Don Salvatore è il finlandese naturalizzato americano George Gaynes (George Jongejans) che in quegli anni era arrivato alla fama con la serie slapstick “Scuola di polizia”, e che in questo ruolo di boss della camorra ha davvero un aspetto troppo nordico e poco credibile; lo doppia l’immancabile Carlo Croccolo. In altri ruoli di spicco ci sono i caratteristi Lino Troisi e Franco Angrisano, mentre l’ineffabile suora camorrista è Gea Martire.

Ternosecco un film di Giancarlo Giannini, con Giancarlo Giannini
Ternosecco un film di Giancarlo Giannini, con Giancarlo Giannini

All’epoca il film non ebbe successo: i cultori della filmografia della Wertmuller, come me, non vi si ritrovarono, gli altri, quelli in cerca di una commedia spensierata, rimasero delusi; la critica ufficiale lo bocciò perché si aspettava dal Giannini regista una visione più personale, meno legata ai personaggi che lo avevano portato alla fama, e più in linea col rinnovamento artistico che come attore stava sperimentando con successo: ma non si può fare il processo alle intenzioni, e visto oggi, col senno di poi, il film rimane un ottimo debutto dell’attore nelle vesti di regista, ma su una sceneggiatura sbagliata e, forse, in un momento sbagliato. Di fatto sceneggiatore e regista rimasero scottati: il primo non scrisse più niente per il cinema, il secondo attenderà 26 anni prima di cimentarsi ancora come regista: è del 2013 “Ti ho cercata in tutti i necrologi” (I Looked in Obituaries) che ha personalmente coprodotto col Canada e girato in lingue inglese e, purtroppo, anche questo passato praticamente inosservato, perché film bislacco e irrisolto, frutto del suo gusto per l’eccentrico e la mimica, la mimesi dell’attore nel personaggio, che evidentemente non trovano la giusta collocazione stilistica. Per il resto Giancarlo Giannini, oltre a bizzeffe di premi, nel 2009 ha ricevuto una stella sulla “Italian Walk of Fame” di Toronto, mentre nel 2020 è stata annunciata anche l’assegnazione della stella sulla celebre “Hollywood Walk of Fame” prevista per oggi, 17 giugno 2021. A dimostrazione del fatto che se anche il ternosecco non uscì sulla ruota di Napoli, e non tutte le ciambelle riescono col buco, Giancarlo Giannini gode di imperituri stima e affetto su entrambi i lati dell’Atlantico.

Taverna Paradiso – opera prima di Sylvester Stallone

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220 SLY ideas | sylvester stallone, sylvester, sly

Michael Sylvester (come il nonno Silvestro di Gioia del Colle, Bari) Gardenzio Stallone voleva farcela a tutti i costi, la vita non era stata generosa con lui ma l’aveva dotato di grande volontà e, va da sé, talento; ma chi l’avrebbe mai detto che l’adolescente sofferente di rachitismo, bullizzato dai suoi coetanei perché mingherlino e malaticcio, e con il lato sinistro della faccia semiparalizzato dal forcipe che alla nascita gli aveva reciso il nervo facciale, sarebbe poi diventato la star pluripremiata tutta muscoli e grinta che oggi sappiamo? Inoltre la madre abbandona il marito coi due figli, il secondogenito è Frank Jr. che senza assurgere alle vette di fama del fratello maggiore sarà anche lui attore ma ancor più musicista oltre che appassionato di boxe. Jacqueline Labofish, la madre, figlia di un ebreo ucraino e di una cattolica francese, era uno spirito inquieto, faceva l’astrologa e aveva molti sogni nel cassetto che la inseguivano come demoni in quanto sogni irrealizzati, demoni che lei cercò di annegare nell’alcol col risultato del dissolvimento della famiglia. I due ragazzi rimasero col marito, onesto barbiere di Hell’s Kitchen, New York, che aveva trasferito la famiglia nel Maryland forse in cerca di un luogo più tranquillo dove la moglie potesse guarire le sue inquietudini, ma lì si separarono e l’uomo, nel crescere i figli, non seppe fare altro che mostrarsi rigido e severo.

12 Rocky ideas | charles atlas, bodybuilding, steve reeves
Charles Atlas

Non furono anni facili quelli col padre. A 15 anni Sylvester, insieme al fratello di quattro anni più piccolo, si trasferisce a Philadelphia dalla madre che nel frattempo era guarita dall’alcolismo e si era risposata con un altro italoamericano avendo un’altra figlia che da adulta tenterà anche lei la via della recitazione. Lì il ragazzo inizia ad allenarsi nella palestra per sole donne, Barbella’s, che l’eclettica mamma aveva aperto, praticando anche scherma e football. C’è da dire che Jacqueline, Jackie, da ragazza aveva anche fatto la trapezista in un circo e la corista in un night club, ma soprattutto va detto che era cresciuta in un appartamento che la sua famiglia condivideva con l’italoamericano Angelo Siciliano che come body-builder era assurto alla notorietà come Charles Atlas, il quale aveva avviato tutta la famiglia Labofish all’attività fisica; non sappiamo se la giovane Jackie ha avuto una relazione o solo una cotta per il body builder ma sicuramente nasce lì la sua passione per gli italiani; in ogni caso per lei quelli furono anni assai formativi sul piano sportivo, che ispireranno il suo futuro e soprattutto il suo primogenito Sylvester che aveva tanto bisogno di esercizio fisico e per il quale l’ormai anziano Charles Atlas diverrà un modello. Seguendo il suo modello, il ragazzo diventa a suo modo un modello, modello di serietà e determinazione oltre che anche modello fisico, e dopo il diploma ottiene una borsa di studio per meriti sportivi all’American College in Svizzera, dove comincia a calcare il palcoscenico negli spettacoli scolastici mettendosi in luce nel ruolo di Biff in “Morte di un commesso viaggiatore” di Arthur Miller.

L’adolescente Stallone, ancora Michael come primo nome, nell’annuario del collegio svizzero dove Studley è il suo nickname e la frase che segue è del personaggio che interpreta; nell’altra foto durante un’azione sportiva

Ma gli manca l’America e lascia la Svizzera, sempre con la sua borsa di studio, per iscriversi all’Università di Miami in Florida presso la facoltà di arte drammatica; si mantiene con diversi lavoretti ma ancora una volta, a 22 anni, nel 1969, lascia gli studi per tornare alla sua natale New York per intraprendere la carriera cinematografica, e ha già messo mano alla stesura di un romanzo, “Paradise Alley” che nessuno gli pubblicherà, mentre intanto recita nei teatrini off di Broadway. Ma sta letteralmente facendo la fame, non ha un tetto e dorme in una stazione di autobus, e per 200 dollari si esibisce – recitare è una parola impropria – in un film porno soft i cui generosi nudi nulla lasciano all’immaginazione ma in cui davvero gli amplessi sono solo ginnastica e il giovane Stallone non mostra mai il membro in erezione, anche quando è impegnato in azioni specifiche: con un po’ di pazienza è possibile trovare online il film completo, e affinando la ricerca si trovano pure degli spezzoni montati con dettagli di vero sesso che non provengono dal film originale. Il film uscì nel 1970 come “The Party at the Kitty Stud’s” arrivato in Italia come “Porno proibito”, ma quando pochi anni dopo Sylvester Stallone divenne famoso fu rieditato come “Italian Stallion” e venduto in tutto il mondo cosicché quegli oscuri produttori vinsero praticamente alla lotteria.

Sylvester Stallone e il suo fisico all'epoca di Rocky

Comincia a fare il cinema, quello vero, alternando piccoli ruoli a ruoli da protagonista in film minori; si trasferisce a Hollywood e nel 1976 diventa una star scrivendo e interpretando “Rocky” diretto da John G. Avildsen, e da lì parte un’altra storia che sarebbe bello raccontare ma non è questo il luogo, quindi rimando ad un’altra occasione più specifica. Dopo Rocky tutti lo vogliono perché come dice un adagio: quando il ruscello diventa fiume nessuno pensa più a fermarlo ma ad utilizzarlo. Tira fuori la sceneggiatura che aveva tratto dal suo stesso romanzo inedito, che adesso finalmente gli pubblicano, e nel 1978 esordisce anche come regista. Il Paradise Alley del titolo da noi è stato impropriamente tradotto come Taverna Paradiso ma quel locale più che una taverna dove si mangia e si beve è un club come non ce ne sono da noi: si mangia si beve ma anche si gioca d’azzardo e soprattutto vi si svolgono incontri di lotta libera, qui assai simili allo spettacolare wrestling, per scommettitori di ogni risma e livello di onestà. La storia si colloca nel 1946, anno di nascita di Sly come verrà chiamato amichevolmente, e momento topico della storia americana come del mondo intero essendo da poco conclusa la Seconda Guerra Mondiale.

Sono protagonisti i tre fratelli Carbone, orfani e assai diversi fra loro: Lenny, il maggiore, interpretato da Armand Assante qui al suo secondo film, è un reduce di guerra zoppo e chiuso in se stesso che sembra aver rinunciato alla vita e all’amore, e che gestisce un’impresa di pompe funebri; il fratello di mezzo, Cosmo, interpretato da Stallone, è uno sbruffone senz’arte né parte che vive di espedienti; il piccolo, Victor, è quello che si dice un cuore semplice nella stazza di un armadio, che si guadagna da vivere vendendo e caricandosi grossi blocchi di ghiaccio, e per interpretarlo Sly chiama il pugile professionista Lee Canalito che, curiosamente, sul ring aveva il soprannome di Italian Stallion, lo stesso che Stallone utilizzerà per il suo Rocky Balboa; con quel titolo è di nuovo tornato nelle sale il film delle sue ben esposte nudità, e da lì in poi l’appellativo di Italian Stallion, a dispetto di Stallone e del suo Rocky, sarà definitivamente consegnato all’immaginario pornografico e se ne fregeranno diversi atleti del sesso fino al più famoso Rocco Siffredi.

Paradise Alley original lobby card Sylvester Stallone A

Anne Archer è qui al suo quarto film nel ruolo della bella contesa dai fratelli Lenny e Cosmo. Insieme a Lee Canalito altro debutto cinematografico è quello del cantautore Tom Waits, qui praticamente nei panni di se stesso, che ha anche scritto la colonna sonora del film insieme a Frank Stallone che interpreta il cantante della band, e all’altro italoamericano Bill Conti che aveva debuttato come compositore della colonna sonora di “Rocky” con quella famosa marcia che si apre con gloriosi squilli di tromba, e che da lì in poi sarà un maestro delle colonne sonore.

Il film è una favola nostalgica piena di buoni sentimenti messi a dura prova dai cattivi che però sono delle macchiette, e zeppa di retorica e luoghi comuni che tradiscono l’origine dell’ispirazione di un autore poco più che ventenne; ma è anche sincera e ben strutturata oltre che ricca di una carrellata di tipi pittoreschi che l’autore guarda con ironia ma senza un vero e proprio gusto per la commedia, che sembra mancargli. Fu un insuccesso commerciale, e parzialmente di critica, che neanche lontanamente soddisfece le aspettative createsi dopo l’exploit di Rocky. Qualche anno dopo Stallone accusò la Universal Studio di aver manipolato il montaggio del film per renderlo più simile a Rocky per bissarne il successo ma tradendone l’intima natura e struttura: “Non mi perdonerò mai il modo in cui mi sono lasciato manipolare durante il montaggio del film. C’erano molte scene pensate per dare atmosfera e carattere ma hanno solo voluto accelerare il ritmo. Complessivamente hanno rimosso 40 scene…”

Jackie e Sly

In ogni caso Sylvester Stallone col suo primo film da regista racconta il suo mondo collocandolo nel passato prossimo, quello di un ragazzo disposto a tutto pur di fare fortuna ma senza per questo vendersi l’anima; spaziando nel mondo del wrestling che sarà anche quello della madre che fino ad ora, memore degli eccessi passati, se n’è stata buona, ma ora che il figlio è famoso decide di diventare famosa in proprio e va in tv nel programma “Gorgeous Ladies of Wrestling” dove si esibiscono le signore del wrestling e Jackie Stallone, riprendendo il cognome del primo marito e padre del figlio più famoso, ha sull’argomento molto da dire essendo da tempo proprietaria della palestra Barbella; ovviamente ha anche pubblicato libri di astrologia e ha anche lanciato una “hotline psichica” dove raggirava persone instabili a costi telefonici da truffa. Per un periodo ha affermato di saper dialogare coi cani per predire il futuro; si è anche inventata il rumpology, una pseudo scienza simile alla lettura della mano ma che legge le chiappe delle persone, scienza che a suo dire praticavano i Babilonesi, gli antichi Greci e Romani e perché no anche gli Indiani; per finire, ma anche no, è stata coinvolta in una truffa nell’industria cosmetica avendo lanciato sul mercato maschere facciali e prodotti vari che a suo dire curavano i problemi della pelle. In un’apparizione televisiva litigò col primo marito, Frank Stallone, in diretta telefonica rinfacciandogli di essere pessimo a letto ma, cosa ancora più grave, accusandolo di averla spinta ad abortire quando era incinta di Sylvester, ma lei finse di avere abortito e nascose la gravidanza fino alla fine: dichiarazioni sopra le righe di una donna notoriamente millantatrice. Fu inserita come “concorrente a sorpresa” nel “Celebrity Big Brother” inglese per farla litigare con la ex nuora Brigitte Nielsen, che non aveva mai amato, ma il voto dei telespettatori la buttò fuori dalla casa dopo quattro giorni. E’ morta 98enne serenamente nel sonno nel settembre 2020.

Tornando al film devo annotare un clamoroso errore nel doppiaggio: il termine sensitive che si traduce con sensibile e col quale Cosmo si definisce più volte, protestando di essere un sensibile incompreso, viene ripetutamente tradotto col “falso amico linguistico” sensitivo che in inglese sarebbe psychic, così che sentiamo il povero Cosmo ripetere: “Ma io sono un sensitivo!”… Se l’avesse saputo Jackie lo avrebbe ingaggiato per vendere i suoi libri in una hot line italiana!