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Marcel! – opera prima di Jasmine Trinca

Aprivo l’articolo precedente dicendo che un mondo guidato dalle donne potrebbe essere un posto migliore… ma qui continuo affermando che un mondo governato solo da donne sarebbe ben triste. E il senso del mio ragionamento si chiarirà più avanti.

Jasmine Trinca debutta 19enne, scelta tra circa 2500 ragazze da Nanni Moretti per il film “La stanza del figlio” che subito le frutta il Ciak d’Oro alla migliore attrice non protagonista, il Globo d’Oro alla migliore esordiente e il Premio Guglielmo Biraghi ai Nastri d’Argento, oltre alla candidatura al David di Donatello: un inizio di carriera coi fiocchi che prosegue alla grande: è protagonista in “La meglio gioventù” di Marco Tullio Giordana, film che viene premiato per l’intero cast dei protagonisti ai Nastri d’Argento: i quattro attori e le quattro attrici, dove Jasmine condivide il premio con Adriana Asti, Sonia Bergamasco e Maya Sansa. E da lì in poi non sbaglia un colpo accumulando riconoscimenti e premi, fino a varcare la soglia delle Alpi francesi per allargare le sue prospettive professionali a Parigi. Nel 2017 fa parte della giuria del Festival del Cinema di Venezia e nel 2022 è nella giuria del Festival di Cannes dove presenta in anteprima nella sezione Proiezioni Speciali questo suo primo lungometraggio di fiction. E che fiction: finzione allo stato puro, favola surreale.

Nei titoli di coda dedica con amore il film ai suoi genitori, anche se in verità il film è tutto dalla parte della genitrice, come il cortometraggio che l’ha preceduto. Di questo suo esordio la neo-autrice ha detto: “A noi donne prende una strana sindrome. Per accettare di assumere una cosa ci mettiamo vent’anni. Un esordio che arriva dopo tanti incontri come interprete, elaborazioni, esempi, con registe importanti per me. Ho deciso di ribaltare lo sguardo sulle cose. Mi sono detta: mi piacerebbe farlo anche a me. Questa trasformazione creativa del vissuto mi ha dato grande entusiasmo, rendendo tutto più leggero e intenso. Il lungometraggio è il proseguimento di un viaggio già iniziato con il corto in cui eravamo tutte coinvolte, a parte Giovanna Ralli che si è aggiunta. Lo stesso gruppo, costituito da persone molto legate. L’abbiamo scritto con Alba in testa come protagonista. Non ho mai immaginato di interpretarlo in qualche ruolo. È talmente impegnativa la regia. Abbiamo violato la regola che dice che i film non vanno fatti con barche, bambini e bestie. Di queste solo la bestia ci ha dato problemi. È stato un cane in tutti i sensi, ma abbiamo deciso di metterlo poi nel film. Era la madre che proietta su questo cane oltre all’amore molto altro”.

Di queste considerazioni due cose saltano subito all’attenzione: è il proseguimento di un viaggio iniziato con un cortometraggio, e il “tutte coinvolte” che dichiara la quasi totale femminilità del cast artistico e tecnico: una scelta precisa anche nella narrativa del film dove le figure maschili, che restano marginali, sono non essenziali, se non addirittura ridicole e vissute con fastidio: il compagno di giochi che la bambina mal sopporta, il nonno buono (Umberto Orsini) che però non dice una parola e fa sempre i solitari con le carte, un grottesco spasimante della madre (Dario Cantarelli), il borghese supponente (Giuseppe Cederna) della cugina stronza – perché le donne non sono tutte buone e ci sono anche le bambine bullette di quartiere. A questo punto tocca recuperare il cortometraggio di cui si parla.

Jasmine Trinca scrive il film con la stessa sceneggiatrice con cui ha scritto il corto, Francesca Manieri; la produttrice del corto Olivia Musini torna a produrre insieme alle francesi Bérénice Vincent e Laure Parleani; tornano Daria D’Antonio alla fotografia e Marta Passarini ai costumi; e Chiara Russo al montaggio con Ilaria Sadun alla scenografia completano il cast tecnico principale al femminile. Solo lo svedese Matti Bye compositore delle musiche è l’unico uomo coinvolto nel cast tecnico principale. Ovviamente c’è del metodo e benché appaia comprensibile che un’autrice voglia circondarsi di altre donne, il film tuttavia dichiara una profonda disistima per le figure maschili, e a questo punto viene da chiedersi perché.

Partendo dunque dal cortometraggio intitolato “BMM – Beeing My Mom” in cui vediamo una madre, Alba Rohwacher, la figlia, Maayane Conti, che con una pesante valigia come palese metafora di un bagaglio interiore, percorrono una Roma assolata e deserta (è girato nel 2020 in piena pandemia) Jasmine dichiara di aver sviluppato quello spunto in questo lungometraggio, e se il film corto non era parlato questo lungo rimane poco parlato, se non fosse per i monologhi della nonna (Giovanna Ralli) che favoleggia di un uomo meraviglioso e che ovviamente è morto. Paradossalmente il lungometraggio sarebbe stato più interessante, a mio avviso, se anch’esso avesse fatto a meno dei dialoghi, mantenendo il rigore stilistico del corto, perché quei pochi che ci sono non sono davvero essenziali.

Va dato merito a Jasmine della sua scelta stilistica in assoluta controtendenza: quella di non dover piacere a tutti i costi al grande pubblico… o forse è così sicura di sé da non volersene curare affatto. Sia come sia, il film è assai ambizioso e manca clamorosamente il bersaglio. Se da un lato l’autrice dimostra di avere assoluta padronanza tecnica del mezzo e un raffinato gusto visivo coi quali compone bellissime inquadrature – dall’altro dimostra di non avere padronanza della scrittura filmica, e sorprende che non abbia aiutato la collaborazione di una qualificata professionista come Francesca Manieri, la quale annovera il premio intitolato a Nora Ephron al Tribeca Film Festival per la sceneggiatura di “Vergine giurata” di Laura Bispuri più altre candidature ai David di Donatello e ai Nastri d’Argento. Jasmine ha dichiarato di essersi ispirata a Charlie Chaplin (e qualcuno fra i critici nostrani ci ha voluto ritrovare anche Federico Fellini) e ai “Peanuts” di Charles M. Schulz per le scene dei bambini. Di fatto il film va da tutte le parti – intermezzi teatrali, fiere di paese, balli di gruppo – e allunga a dismisura i tempi, anche di sequenze secondarie e poco significative, col risultato che lo sbadiglio è sempre dietro l’angolo. Jasmine Trinca è talmente innamorata del suo racconto che non ne vede difetti e ridondanze: se si fosse trattato di un manoscritto avrebbe avuto bisogno di un rigoroso editing, e l’amica co-sceneggiatrice non è stata e severa dunque di nessun aiuto. Asservita è anche buona parte della critica ufficiale che è stata fin troppo generosa con questo bislacco debutto perché l’autrice è una cineasta giustamente amata e ben considerata: ma complimenti di circostanza e carezze affettuose non aiutano.

Alba Rohrwacher torna a indossare i panni della madre con la valigia e stavolta è una strampalata artista di strada che ama il suo cane Marcel più della figlia, e quando non è in giro si lascia andare a ragionamenti poetico-filosofici, quasi frasi da cioccolatino, e all’iperbole della divinazione. Mayaane Conti, che all’epoca del corto aveva otto anni e un bellissimo volto col quale amava muta la sua mamma altrettanto bambina, oggi ha undici anni e il suo volto rimasto bellissimo si è arricchito di una più matura espressività con la quale manifesta appieno le ombre di questo nuovo rapporto madre-figlia. Nella dilatazione sconclusionata della narrativa filmica, oltre ai già citati Giovanna Ralli e Umberto Orsini come nonni, lei logorroica lui taciturno, entrano nel cast altre amiche come Valentina Cervi, la cugina altoborghese e classista, Valeria Golino come analista e Paola Cortellesi che torna alle maschere dei suoi primordi e rifà una venditrice di gioielli paccottiglia in tivù: tutta roba che singolarmente ha un suo perché e una sua godibilità ma che tutta insieme è solo un minestrone mal riuscito. Per maneggiare il surreale ci vuole un gran mestiere perché anche nel surreale c’è bisogno di coerenza e unità narrativa, non bastano le belle inquadrature e le trovate bizzarre sparse qua e là come bricioline gettate a caso agli uccellini: Pollicino ci insegna che le bricioline vanno sparse con cura e attenzione se si vuole ritrovare la strada maestra.

La figlia oscura – opera prima di Maggie Gyllenhaal

Sono di quelli che pensano che se il mondo fosse governato dalle donne sarebbe un posto migliore… beh sto entrando nell’argomento per la via più lunga: Maggie Gyllenhaal, sorella di poco maggiore di Jake Gyllenhaal, debutta alla regia con un lungometraggio di gran classe, in linea con tutta la sua carriera, al contrario del fratello che si è ritagliato un profilo di star per tutte le stagioni, bravo e prestante giovanotto socialmente e politicamente impegnato, come la sorella, ma che artisticamente non ha ancora dato il suo colpo di coda.

Maggie e Jake sono gli ultimi rampolli di un’antica importante famiglia di origini svedesi. Il padre Stephen Gyllenhaal è un regista cinematografico non di prima grandezza che ha diretto entrambi i figli all’inizio delle loro carriere. Poi mentre Jake assurge alla fama nel 2001 come protagonista del cult fantasy “Donnie Darko” in cui Maggie recita in un ruolo minore, lei sarà protagonista l’anno dopo di un altro cult “Secretary”, per il quale riceverà candidature ai premi maggiori vincendo nelle sezioni dei premi minori, e da lì in poi, pur diversificando come il fratello, si ritaglia il ruolo di attrice più in linea col cinema di qualità che coi blockbusters, nulla togliendo alla qualità di questi. Poi nel 2015 vince il Golden Globe per la miniserie britannica “The Honourable Woman” e ancora, pur essendo ormai una punta di diamante nella cinematografia internazionale, continua a mancarle l’attenzione di quella grande fetta di pubblico che incorona le star. Fra il 2017 e il 2019 cop-roduce e co-interpreta con James Franco l’acclamata serie tv “The Deuce” sul mondo del porno negli anni ’70, riconfermandosi una cineasta di classe volta alla ricerca di produzioni non banali, e anche rischiose. Nel 2018 Maggie produce e interpreta “Lontano da qui”, remake di un film franco-israeliano incentrato sulla figura di una donna banale che cerca una via di fuga e di compensazione nella poesia. Il 2021 è l’anno di questo suo debutto di cui, oltre a essere regista, è anche produttrice e sceneggiatrice, e proprio con la sceneggiatura ha vinta il Premio Osella alla Mostra del Cinema di Venezia.

Il film è un adattamento del romanzo omonimo del 2006 dell’italiana Elena Ferrante, nom de plume di una scrittrice, certamente partenopea, che nonostante le indagini e le speculazioni, rimane anonima. Detto ciò il nome è stato inserito dal settimanale statunitense Time fra le cento persone più influenti al mondo, a dimostrazione del fatto che i suoi libri hanno larga diffusione oltreoceano. Il suo primo romanzo “L’amore molesto” già presenta le tematiche dell’autrice: l’indagine psicologica della mente femminile, senza compiacimenti e scudi morali o sociali, e il collasso psicologico delle protagoniste. Quel romanzo è diventato subito uno spiazzante film di Mario Martone, e anche il secondo romanzo “I giorni dell’abbandono” diventa un meno riuscito film diretto da Roberto Faenza. Segue “La figlia oscura” che diventa questo film, e poi inizia la serie di quattro romanzi di “L’amica geniale” opportunamente messa in cantiere come serie tv dall’americana HBO e poi coprodotta con l’italiana Fandango e con Rai Cinema, con la regia di Saverio Costanzo.

Maggie Gyllenhaal, pur avendo l’età giusta per interpretare la protagonista, preferisce restare dietro la macchina da presa e farsi regista pura, senza il fraintendimento dell’attrice che vuole mettersi al centro della scena, e offre il ruolo alla premio Oscar britannica Olivia Colman, che a sua volta in questo progetto che sia avvia a basso costo, si coinvolge anche come produttore esecutivo, che è colui o colei che ha la parola finale su tutto il progetto – probabilmente riducendo il suo compenso, il cui mancato introito va considerato come contributo economico alla produzione.

Nell’adattare il romanzo, Maggie, mantenendo il nome italiano della protagonista, Leda Caruso, che nella multietnicità americana ben si colloca, sposta dapprima l’azione dall’Italia – nel romanzo la protagonista è una professoressa in vacanza su una spiaggia dello Jonio – alla costa atlantica del New Jersey. Ma è già il 2020 e la pandemia Covid chiude tutti a casa, con l’aggravante che gli Stati Uniti saranno il territorio più colpito al mondo per la leggerezza e il ritardo con i quali vengono adottati i provvedimenti, dunque la produzione si blocca e l’autrice rischia di perdere i finanziamenti. Col virus in piena diffusione decide di spostare il set sull’isola greca di Spetses, che essendo a 35 miglia nautiche dalla terraferma era ancora abbastanza al riparo dai contagi e, come ha dichiarato lei stessa, non poteva permettersi di interrompere le riprese in caso qualcuno fosse risultato positivo, e che quindi ha girato il più velocemente possibile e in assoluta economia di mezzi, usando gli isolani al posto di figuranti e comparse professionisti. Di conseguenza anche i flashback, ambientati nel New Jersey, sono stati girati sull’isola.

Dakota Johnson, Maggie Gyllenhaal e Olivia Colman a Venezia

Il film, che ha un andamento lento e avvolgente è diretto con sicurezza dall’autrice esordiente, e vanno annotate le scene di intimità di coppia e di sesso che non sono mai banali quando sono dirette da una donna. E se da un lato il film si regge tutto sull’intensità di Olivia Colman, che riceve la candidatura all’Oscar nel 2022 (ha vinto Jessica Chastain per “Gli occhi di Tammy Faye“) per il resto ha lo spessore che gli conferiscono tutti gli altri interpreti di rango, a cominciare dalla protagonista Leda Caruso di vent’anni prima interpretata dall’irlandese Jessie Buckley, attrice talentuosa e pluripremiata non ancora nota al grande pubblico, anche lei candidata come non protagonista (ha vinto Ariana DeBose per il “West Side Story” di Steven Spielberg). Nel cast anche il veterano di lusso Ed Harris e il marito di Maggie, Peter Sarsgaard, anche grande amico del cognato Jake. L’ex modella Dakota Johnson, assurta a discusso sex symbol cinematografica con la trilogia delle “Cinquanta Sfumature di…” grigio rosso e nero, impersona la giovane madre nonché donna inquieta in cui la protagonista si identifica e che ne scatena il crollo psicologico. Completano il cast i britannici Oliver Jackson-Cohen, Paul Mescal e Jack Farthing (chi se lo ricorda come cattivissimo George Warleggan nella serie tv “Poldark”?). Chiudono il cast principale la polacca naturalizzata statunitense Dagmara Domińczyk e l’italiana Alba Rohrwacher già legata al mondo di Elena Ferrante per essere stata la voce narrante delle prime stagioni di “L’amica geniale” come voce matura della protagonista Elena, detta Lenù, e che vedremo in video nella quarta e ultima stagione.

Atri riconoscimenti andati al film: candidatura a Maggie Gyllenhaal per la migliore sceneggiatura non originale agli Oscar; candidatura ai Golden Globe per regista e protagonista, e a seguire altre candidature ai Critics’ Choice Awards, ai BAFTA e Screen Actors Guild Award. Al botteghino non ha avuto il riscontro meritato confermandosi per quello che è: un film di nicchia e d’autore; e Maggie, debuttando come autrice senza volersi mettere dentro anche attrice, merita tutta l’attenzione.


Grazie zia – opera prima di Salvatore Samperi

Enzo Doria come Gionata in “Il vecchio testamento” del 1962 diretto dal generalista Gianfranco Parolini, dove ha ricoperto anche il ruolo di segretario di produzione

Il prode Enzo Doria, già attore belloccio che dopo essere apparso sugli schermi ha voluto fare le cose per bene frequentando il Centro Sperimentale di Cinematografia dal quale si è diplomato nel 1960, sin da subito aveva mostrato interesse per gli altri aspetti delle produzioni ricoprendo vari ruoli dietro le quinte, fino a farsi anche sceneggiatore e regista, ma il cui ruolo più importante rimane quello di produttore il cui primo avventuroso impegno sarà l’andare a braccetto col debuttante autore Marco Bellocchio alla ricerca di finanziamenti per “I pugni in tasca”. Ci ha preso gusto e a tambur battente ha prodotto altri due debutti, Silvano Agosti col censuratissimo “Il giardino delle delizie” e Salvatore Samperi con questo “Grazie zia”.

Di qualche anno più giovane del suo indiscusso modello, quel Marco Bellocchio appena giunto al successo, come lui viene da un’agiata famiglia borghese, di Padova, abbandona l’università per andare a iscriversi al Centro Sperimentale di Roma, che però lascia senza concludere il biennio per buttarsi nel movimento studentesco del 1968 e dichiararsi antiborghese e anti familista, più dichiaratamente di Bellocchio che invece esprimeva tormenti più personali; nel frattempo è assistente volontario, dunque non pagato, di Marco Ferreri, mentre gira anche da regista dei documentari industriali. Così, quando a 25 anni s’impegnerà in questo suo primo lungometraggio di finzione, conosce già bene il mestiere: si tratta solo di raccontare una storia. E la sua storia parte appunto dal suo modello, Marco Bellocchio con “I pugni in tasca”, di cui reimpiega lo svogliato attore feticcio Lou Castel in una vicenda dai tratti simili, l’implosione della famiglia borghese con un protagonista che ancora sogna la strage e anela il suicidio; ma mentre Bellocchio creava senza saperlo un paradigma cinematografico e sociale, Samperi è già sulle barricate del ’68, che è l’anno di produzione del film, e le istanze politiche sono tutte lì, dichiarate, anche con autocritica: il suo protagonista è un figlio di papà altrettanto disturbato come il protagonista di Bellocchio, che come molti giovani dell’epoca cavalca l’onda della rivoluzione sociale per dare sfogo solo ai suoi personali istinti autodistruttivi e nichilisti, senza progettualità né prospettive; gli fa da contraltare la figura dell’intellettuale di sinistra interpretata da Gabriele Ferzetti, seriamente impegnato e motivato, che però il giovane disprezza solo perché mosso da personale gelosia. Alvise è un paraplegico psicologico che è in grado di alzarsi dalla sedia a rotelle se motivato da momentanei impulsi e personali motivazioni, che fa la sua battaglia da adulto bambino su un plastico del Vietnam le cui vittime annota minuziosamente su una lavagna. Esemplare l’inizio del film: dopo l’elettrochoc cui viene sottoposto, panacea pseudo medica di quegli anni, intravediamo in una breve sequenza il suo autoritario padre sempre inquadrato di spalle o, se in campo lungo, nascosto alla nostra vista da una pianta: a simboleggiare la sua effettiva assenza come genitore.

C’è di nuovo, in Samperi rispetto a Bellocchio, l’aspetto erotico, e poi incestuoso in seconda istanza, a mettere in discussione l’impianto familiare benestante e borghese: il 17enne Alvise (ma l’attore è di quasi dieci anni più grande) è verosimilmente con gli ormoni in subbuglio, oltre a tutto il resto dell’armamentario di disturbi veri o presunti, e la bella zia fisioterapista presso cui viene mandato acuisce le sue già distorte fantasie. Molto bella la sequenza in cui il ragazzo osserva gli ospiti della zia cogliendone gli aspetti più intimi ed erotici: un erotismo di gran classe fatto di piccoli gesti inconsapevoli, sguardi e tensioni, che sfoceranno negli inevitabili rapidi amplessi che si consumeranno anche in modo un po’ arruffato.

Annie Girardot fu la prima scelta dell’autore ma rifiutò la parte che andò a Lisa Gastoni, attrice perfetta per il ruolo, giusta al momento giusto. “Io sono convinta che ciascuno di noi ha una sua età. Ci sono dei momenti fisici – perché nel cinema è soprattutto questione di momenti fisici – che ci sono più adatti, più giusti. In genere si chiamano ‘incontro col personaggio’. In fondo il mio vero incontro col personaggio è avvenuto quando avevo ventinove anni, girando ‘Grazie zia’. All’età quindi di una donna nella sua pienezza, alla soglia della trentina. Non ero vecchia ma neppure giovane. Però ero fisicamente ed emotivamente giusta per il ruolo.”

Una giovanissima Lisa Gastoni a inizio carriera

Lei, nata nel 1935 da padre italiano e madre irlandese, nel dopoguerra si trasferisce a Londra dove comincia come fotomodella e anche attrice senza mai sfondare davvero. Torna in Italia dove continua a fare cinema ancora senza grossi exploit fino a “Svegliati e uccidi” del 1966 di Carlo Lizzani dove – e bisogna ricordare che è sentimentalmente legata al produttore Joseph Fryd – interpreta la compagna del “solista del mitra” Luciano Lutring e si aggiudica il Nastro d’Argento; e per il ruolo di questa zia riceverà la Targa d’Oro ai David di Donatello, rilanciando la sua carriera come stella di prima grandezza; ma nei successivi prossimi anni Settanta sceglie di lavorare poco ma bene con registi e film di qualità, e vince un secondo Nastro d’Argento per “Amore amaro” di Florestano Vancini; ma per la sua scelta stilosa perde un po’ il contatto col grande pubblico sempre affamato di facili emozioni, e sul finire di quegli anni ’70 si ritira dalle scene lasciando il campo libero alla più giovane Laura Antonelli che lo stesso Samperi porterà al successo con “Malizia”; mentre da un altro lato si affermerà come diva sexy dei B movie Edwige Fenech. Lisa Gastoni tornerà di nuovo in gran spolvero nel nuovo millennio e fra cinema e tv ottiene altre candidature a premi prestigiosi, a cominciare dalla sua partecipazione a “Cuore sacro” di Ferzan Ozpetek, autore nella cui cifra stilistica va notato che ama reimpiegare vecchie glorie: Lucia Bosè, Erika Blanc, Massimo Girotti, Ilaria Occhini, Anna Proclemer…

Nella bella intervista di Mario Sesti, Lisa Gastoni dice una cosa non banale e interessante: che quando su una sceneggiatura ci sono troppe firme qualcosa non va. Viene citato anche il suo ultimo film diretto da Ferzan Ozpetek

Il film, nonostante nelle intenzioni dell’autore sia un manifesto politico di quegli anni, passerà alla storia come un cult che ha innestato il filone erotico nella commedia all’italiana, e anche Samperi, esaurita l’ispirazione politica che non ha portato grandi incassi alle sue imprese, si alternerà fra la commedia, anche sperimentale, vedi “Sturmtruppen”, e quel filone sexy di qualità che tanta immediata fama gli ha dato al suo debutto, tornando a deliziare le platee maschili con “Malizia” appunto, “Peccato veniale”, “Scandalo” e via discorrendo, un elegante erotismo sempre innestato sul disfacimento dell’istituzione della famiglia. Nel 1991 l’autore, evidentemente ormai col fiato corto, tenta col sequel “Malizia 2mila“, film assai problematico con tristi strascichi oltre che clamoroso insuccesso. Per Samperi è un personale colpo di grazia e smette di fare cinema, tornando solo dopo una decina d’anni a dirigere fiction per Canale 5, fino alla sua morte improvvisa a 68 anni.

Interessante il commento musicale di Ennio Morricone che ha composto un’inconsueta filastrocca cantilenante che torna quasi ossessiva nell’arco dell’intero film: “Guerra e pace, pollo e brace”; inoltre c’è anche l’altrettanto inconsueta “Filastrocca vietnamita” di Sergio Endrigo. Al montaggio torna il recalcitrante Silvano Agosti che stavolta si firma Alessandro Giselli e il film viene ammesso alla sezione ufficiale del Festival di Cannes del 1968, edizione che fu però cancellata dalle agitazioni studentesche del Maggio Francese: un dispiacere per autore e produttore mentre il protagonista di certo se la rideva sotto i baffi. Oltre alla Targa d’Oro a Lisa Gastoni il film si aggiudica anche il Nastro d’Argento per la miglior fotografia in bianco e nero di Aldo Scavarda. Salvatore Samperi si aggiudicherà l’attenzione di critica e pubblico, anche se per ragioni differenti: il titolo diventa subito sinonimo di situazioni scabrose ed erotismo pruriginoso, e avviando il filone della commedia sexy all’italiana resterà suo malgrado il capostipite del proficuo sotto-filone familiare in cui si contano: “Grazie… nonna” di Marino Girolami con Edwige Fenech, “Le dolci zie” di Mario Imperioli, “La cognatina” di Sergio Bergonzelli, “La cugina” di Aldo Lado, “Cugini carnali” di Sergio Martino, “Il vizio di famiglia” di Mariano Laurenti, “Peccati in famiglia” di Bruno Gaburro, “Cara dolce nipote” di Andrea Bianchi, “Bello di mamma” di Rino Di Silvestro, “Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno” di Luciano Salce e “Oh mia bella matrigna” di Guido Leoni che segna l’unica interpretazione cinematografica della valletta Sabina Ciuffini; qui tralasciando molti altri film che pur senza riferimenti alla famiglia nel titolo si inseriscono di diritto in questo sotto-filone cui lo stesso Samperi ha continuato a dare il suo contributo con “Peccato veniale” “Nenè” e “Casta e pura”.

Lou Castel, che fin dal primo set che ha frequentato, “Il Gattopardo” di Luchino Visconti, ha mostrato di non essere particolarmente interessato al concetto di “carriera” perché è un estremo eccentrico che non intende sottomettersi a un sistema di auto celebrazione in cui ci si auto rappresenta; già col successo di “I pugni in tasca” si defilò dai classici dibattiti con pubblico e stampa che seguirono, mettendo la scusa che non parlava bene l’italiano: in realtà era depresso dall’esito oltremodo positivo del film perché il successo gli dimostrava che anche quel film d’autore era un’impresa commerciale come tutte le altre. Idealista duro e puro dunque, fino al nichilismo del paradosso secondo cui un film di qualità, politicamente e socialmente impegnato, non deve avere successo commerciale. Ma suo malgrado diventa un celebrità transalpina e così comincia ad accettare qualsiasi cosa, che si tratti di film artistici o di serie B tutto fa brodo per permettergli di finanziare le cause di quell’estrema sinistra a cui ha aderito con tutte le scarpe, e versa tutti i suoi guadagni nell’organizzazione maoista “Servire il popolo” con questa motivazione: “Molti giovani della borghesia hanno fatto lo stesso, vendendo la loro auto o il loro appartamento. D’altro canto, di attori che hanno fatto lo stesso, ce n’erano pochi o niente.” E fu espulso dal democristiano e cattolicissimo governo italiano come indesiderato. Il disgusto per la popolarità che gli deriva dal suo lavoro di attore si esprime ancora in questo racconto: “Ricordo una volta che stavo chiacchierando con un ragazzo che mi aveva visto il giorno prima in ‘Grazie zia’ di Salvatore Samperi, un dramma piuttosto sulfureo ed erotico dove interpretavo un ragazzo che seduceva la zia. Io stavo cercando di convincerlo della necessità di una rivolta, ma la sua unica ossessione era se avessi scopato o meno l’attrice, Lisa Gastoni.” E ha raccontato pure allegramente che Louis Malle lo cercava senza trovarlo perché lui era a fare la sua rivoluzione, e non lo ha più trovato. Nonostante ciò la sua carriera di attore non-attore ha continuato, e anche se l’emergenza estremista si è acquietata lui rimane sempre un uomo controcorrente. Oggi ha 79 anni e nel 2016 Pierpaolo De Santis ha realizzato su di lui il documentario biografico “A pugni chiusi”.

I pugni in tasca – opera prima di Marco Bellocchio

Il film completo

1965, il ’68 è dietro l’angolo, e Marco Bellocchio realizza questo suo primo lungometraggio dando voce a disagi assai personali, senza sapere che stava realizzando un manifesto sociale: il suo malessere è lo stesso di tanti suoi coetanei che scenderanno per le strade a manifestare un diffuso disagio per una società fatta di schemi prestabiliti ancora radicati su vecchi modelli antecedenti il secondo conflitto mondiale se non addirittura ottocenteschi, che spingeranno la massa della nuova forza lavoro, studenti e operai, cui si affiancheranno gli intellettuali, verso la rottura con le rigide tradizioni, Dio Patria Famiglia, attraverso il comunismo l’anarchismo e il nichilismo.

“Volevo raccontare una storia molto personale, nella quale potessi riconoscermi. Pensai a un tema che aveva attraversato la mia adolescenza, quell’aspetto infelice della vita di famiglia in cui alcuni, soprattutto mio fratello Paolo, distruggevano ogni possibilità di gioia, obbligandomi a nascondermi. In partenza c’era il protagonista, che vuole restare in famiglia e dominarla eliminando i fratelli ‘imperfetti’ o improduttivi. Poi ho costruito gli altri personaggi, in particolare la madre. Alcune cose venivano dalla mia famiglia, altre erano frutto di fantasia. Ho attinto anche alla mia cultura, un po’ al surrealismo, un po’ alla letteratura, un po’ a quel che era diventata la mia vita. La storia è nata così. Sapevo anche di dover realizzare un film piuttosto intimo, perché i soldi erano pochi. Quindi il grosso del film andava girato all’interno di una casa. Si partì in modo tradizionale, proponendo il progetto a piccoli produttori e distributori, ma nessuno ne voleva sapere. Per le riprese avevamo preventivato venti milioni di lire. Andai da mio fratello: la sceneggiatura non gli piaceva, ma mi lasciò una parte del nostro patrimonio e ottenne un prestito bancario. Così mi ritrovai a essere di fatto produttore del film, con Doria come produttore esecutivo. Non era un grosso budget, anche se oggi si realizzano opere prime con ancor meno. Il soggetto dei ‘Pugni in tasca’ l’ho scritto a Londra, dove ero andato forse perché non sapevo bene che fare (frequentai dei corsi di cinema di Thorold Dickinson, era questa la scusa, con una piccola borsa di studio). L’idea del soggetto era la condensazione di fantasticherie di anni, di tutta una storia di solitudine dentro la famiglia. Eravamo testimoni, io e i miei fratelli, di una follia cui nessuno poteva mettere rimedio, e che veniva subita con reazioni nostre sempre uguali. Dalle fantasticherie di allora nacque un intreccio, crebbero dei personaggi. Poi naturalmente la storia si sviluppò diversamente, quando doveva diventare un film e ancora mentre il film veniva girato.” Bellocchio ha poi raccontato la sua famiglia nel documentario autobiografico “Marx può aspettare”.

In questo suo primo film la figura paterna è assente (come suo padre già morto da anni) e la figura materna, che come quella reale è una fervente cattolica che negli anni ha accumulato una collezione della rivista Pro Familia che vedremo nel film, è una donna cieca, simbolicamente cieca verso i bisogni e la natura dei figli, e narrativamente funzionale al racconto che l’autore sviluppa. I quattro figli sono altrettanto simbolicamente e sinteticamente sviluppati dalla sua realtà familiare: Leone, il piccolo, è un disagiato mentale che soffre anche di epilessia, il male di famiglia di cui soffre anche Alessandro su cui s’incentra il racconto, e il maggiore Augusto è quello che ha assunto, com’era d’uso, il ruolo di capofamiglia in assenza del pater familias: è l’unico che lavora e ha una sana vita sociale, va anche a puttane come tutti i maschi esempio cardine della società, mentre gli altri tre oziano in casa fra claustrofobie reali e mentali in cui si acuiscono i disagi e le tare latenti. “In quella villa sono tutti malati” è una battuta del film.

E la villa che fa da set è la casa dell’eredità materna fuori città dove i Bellocchio andavano in estate. Una casa in cui sono del tutto assenti la radio e soprattutto la televisione con la Rai che aveva avviato le trasmissioni ufficiali dieci anni prima, e l’apparecchio era ancora un bene di lusso da tutti ambito; così nella famiglia che Bellocchio mette insieme, la sera si legge ancora un libro o si gioca a carte, come non è inusuale ascoltare dischi di musica classica. In questa famiglia-tipo, provinciale benestante e oziosa, a mio avviso la figura meno definita è quella di Giulia, l’unica sorella, come se Bellocchio non sapesse come raccontare il mondo femminile, e ne fa un’entità indistinta, sottomessa, donna e bambina, che legge l’Almanacco Topolino e ha sulla testiera del letto la fotografia di Marlon Brando in “Fronte del porto”, una donna-bambina alternativamente tentata dal machismo di Augusto e dall’inafferrabile inconsistenza di Alessandro, Ale o Sandro, che però prende una posizione ed esprime il suo punto di vista solo nel finale.

In quei primi anni ’60 era arrivata dalla Francia la Nouvelle Vague, la nuova ondata, anch’essa nata da movimenti giovanili con l’intento di rifondare la narrativa cinematografica francese che sul finire degli anni ’50, in risposta a una crisi sociale interna, era diventata estremamente moraleggiante con situazioni e personaggi e dialoghi molto idealizzati e poco realistici; così una nuova generazione di registi, tutti intorno ai vent’anni, cominciano a girare film a basso costo e con mezzi di fortuna, nelle case private o per strada, come una sorta di diario intimo collettivo che esprime, insieme alla sincerità, la loro giovanile inquietudine. I nome di quei ventenni sono Claude Chabrol, Jean-Luc Godard, Jacques Rivette, Éric Rohmer, François Truffaut… Così anche da noi si avviarono delle produzioni che promuovessero dei nuovi debutti, e se da un lato ci fu l’opera prima, nonostante quasi quarantenne e già poeta e intellettuale affermato, di Pier Paolo Pasolini con “Accattone”, avevano debuttato anche Elio Petri con “L’assassino”, i Fratelli Taviani in co-regia con Valentino Orsini firmarono “Un uomo da bruciare” e l’opera seconda estremamente politica “Prima della rivoluzione” di Bernardo Bertolucci che ancora più giovane di Bellocchio aveva debutta con “La commare secca” sotto l’egida di Pasolini. Tutte produzioni ed esperimenti meritevoli di attenzioni ma che al botteghino non ebbero l’esito sperato, così quando Bellocchio fu pronto per presentare il suo progetto, nei produttori non c’era più l’entusiasmo dei primissimi anni ’60.

Enzo Doria

“Per mesi ho cercato insieme a Doria persone che potessero partecipare con dei quattrini al progetto. Non le abbiamo trovate. Allora i miei fratelli, Tonino e Piergiorgio, hanno chiesto un piccolo prestito alla banca e l’hanno garantito. Il prestito era di circa 20 milioni e con questi venti milioni è stato fatto il film. Loro erano convinti di perdere questi soldi, ma che comunque valesse la pena di perderli anche perché erano un mio diritto patrimoniale, dal momento che mancando mio padre io ero padrone di alcuni beni immobili, nessuno mi regalava niente. I produttori non accettavano il progetto perché ritenevano la storia incredibilmente scadente, non vendibile.” Enzo Doria racconterà: “Io venivo da Genova, ero a Roma già da qualche anno, dove avevo fatto il Centro Sperimentale con Bellocchio. Ho cominciato come attore, poi ho fatto l’aiuto regista, un po’ di edizione e casualmente il produttore, perché non avevo nessun altro sbocco. ‘I pugni in tasca’ è stato scritto a Londra, dove eravamo andati tutti a studiare l’inglese. Mi è piaciuto il tipo di storia, in quanto anche la mia famiglia viene dalla zona collinosa fra l’Emilia e la Liguria. Anch’io ho avuto strane storie in famiglia, tabù di malattie e cose del genere. Mi ha affascinato questa storia anche perché andando su da lui, da Bellocchio, dove poi abbiamo girato il film, ho visto questa villa isolata con degli alti cipressi intorno che rendono il posto protetto e solitario. È stato faticosissimo trovare una distribuzione. Nessuno capiva perché volevamo fare questo film.” Per lui questa sarà la prima impresa produttiva che gli varrà il Nastro d’Argento e produrrà i debutti di Silvano Agosti e di Salvatore Samperi. Mentre Tullio Kezich, critico e sceneggiatore, a quei tempi anche produttore, racconterà: “Al culmine della mia carriera di direttore artistico della società cinematografica 22 Dicembre, non partecipai a un’impresa che mi avrebbe dato gloria imperitura. All’epoca il fatto di aver realizzato fra l’altro un paio di film di Olmi, ‘I basilischi’ (1963) di Lina Wertmüller e ‘II terrorista’ (1963) di De Bosio attirava nei nostri uffici tutti gli esordienti del cinema italiano, incluso il giovanotto ad honorem Roberto Rossellini con il quale allestimmo ‘L’età del ferro’ (1964). E così in mezzo a tanti altri si presentarono un giorno, con l’aria di darsi coraggio reciprocamente, due timidi. Mi sottrassi alla loro vista barricandomi nella mia stanza (erano troppi, in quei giorni, gli illusi e i frustrati che facevano perdere tempo) e dopo un po’ mi raggiunse il nostro brutale organizzatore dicendo: ‘Te li ho risparmiati, ringraziami, erano proprio due imbranati. Quello che vuole fare il regista, figurati, mi ha raccontato un soggetto pazzesco, la storia di uno che ammazza tutta la famiglia’. Passò molto tempo prima che mi rendessi conto di aver mandato via insalutati Marco Bellocchio e il suo produttore Enzo Doria.” La sedicente gloriosa 22 Dicembre chiuse i battenti proprio l’anno di uscita di “I pugni in tasca”.

Se le cose fossero andate diversamente il film avrebbe avuto come protagonisti la coppia nazional-popolare Gianni Morandi e Raffaella Carrà, e avrebbe certamente funzionato. Il duo Bellocchio-Doria, rendendosi conto di doversi presentarsi al botteghino con un film difficile, opera prima di uno sconosciuto, ebbe la brillante idea di coinvolgere nel cast quei beniamini del pubblico televisivo per garantirsi una più facile visibilità. Morandi aveva vent’anni, era un ex bambino prodigio che aveva cantato nelle feste e nelle sagre di paese e ormai sfornava un successo dietro l’altro, da “Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte” a “Non son degno di te” sulla scia dei quali aveva girato un paio di musicarelli. Raffa, già attrice bambina, ancora 17enne si era diplomata al Centro Sperimentale di Cinematografia ma fra cinema teatro e radio, benché lavorando molto e anche molto apprezzata, stentava ancora a raggiungere il grande successo, che le arrivò solo negli anni ’70 con la tv. Ma mentre su di lei Bellocchio ci aveva solo fatto un pensiero, con Gianni ci furono delle vere e proprie trattative: il giovane cantante voleva assolutamente fare il film ma la casa discografica con cui era sotto contratto, la RCA, glielo impedì perché quel film rischiava di rovinare la sua immagine di bravo ragazzo di successo. Fine dei giochi nazional-popolari.

“Marco Bellocchio, che stava preparandosi a girare ‘I pugni in tasca’, mi propose per la parte del protagonista. Su due piedi rimasi incerto, poi l’idea mi interessò moltissimo. Tutti mi sconsigliavano, Lionetti, il mio scopritore, in testa, la casa discografica eccetera. In effetti, era una parte del tutto opposta al mio personaggio così come si era affermato in quegli anni. Ma io la volevo fare a tutti i costi. Bellocchio mi cercava e tutti gli altri facevano il possibile per fargli perdere le mie tracce. Io però ero deciso. A quel punto, visto che non c’era altra strada, Lionetti mi affrontò e mi disse: ‘Se lo fai, ti spezzo una gamba’. La parte fu affidata a Lou Castel.”

Bellocchio aveva sognato anche interpreti internazionali come Susan Strasberg fresca di Golden Globe per “Le avventure di un giovane” di Martin Ritt; mentre per il ruolo del fratello maggiore aveva pensato al francese Maurice Ronet, anch’egli all’epoca nome di punta specializzato in ruoli di giovani borghesi ambigui e tormentati. Intanto non aveva ancora trovato il suo protagonista, per il quale aveva anche provinato senza successo il 24enne Franco Nero da un paio d’anni sul mercato cinematografico già con ruoli in cui metteva in risalto la sua prestanza fisica più che il tormento interiore che il personaggio di Bellocchio richiedeva. Fu per caso che il giovane autore si imbatté in Lou Castel, che frequentava come auditore straniero il corso di regia al Centro Sperimentale: lo vide in mensa e incuriosito dalla sua espressione assorta gli propose un provino, benché poi non fosse davvero convinto: gli sembrava troppo timido e tranquillo, e anche lento. Ma durante la prova accadde un piccolo contrattempo tecnico: l’operatore aveva dimenticato di attaccare alla presa di corrente la spina della batteria della macchina da presa, e al momento di girare, in un silenzio carico di tensione, all’ordine del regista “motore! azione!” non successe nulla; e ciò fece scoppiare la tensione accumulata da Castel in un irrefrenabile risata liberatoria, un po’ isterica, che convinse Bellocchio a dargli la parte: “È lui, è lui, è spaccato!” si era messo a gridare entusiasta. Una risata che sarà ripetuta nel film insieme a tutte le altre personalizzazioni che l’interprete apporterà arricchendo il personaggio che nella scrittura non aveva la disarmante dolcezza che gli profonderà l’interprete, rendendo ancora più agghiacciante e incomprensibile la psicopatia di Alessandro. Fu così permeante l’adesione dell’attore al personaggio che durante la lavorazione Bellocchio si adattò all’improvvisazione dell’interprete, cambiando anche le scene, e accadde pure che per le reazioni isteriche e addirittura violente di Castel più volte si dovettero interrompere le riprese, tanto che Marino Masè, nel ruolo del fratello maggiore, assai irritato arrivò a schiaffeggiare il collega, e un esempio di questo scoppio d’ira è rimasto montato in una scena del film. “Volevo diventare regista – dirà l’attore – ma poi con Bellocchio sono diventato alleato di un regista: l’attore deve fare sempre la regia interna di una scena”.

Nato Ulv Quarzéll a Bogotà da un padre diplomatico svedese e da madre irlandese ha, come Marco Bellocchio, un fratello gemello: “Ulv è ‘lupo’ in norvegese. E ho un fratello gemello di nome Björn, ‘orso’. È stata nostra madre che in seguito ha francesizzato i nostri nomi, per evitare problemi amministrativi”. Il padre, che aveva scelto quei nomi dalla natura e dalle fiabe norrene, nel privato era un sognatore e idealista, e come tale aveva deciso di trascorrere il resto della sua vita in Colombia mentre la madre, divorziando, riportò con sé i figli in Europa. Dai 6 anni Ulv frequentò dapprima i college londinesi, ma poi seguendo la madre giramondo crebbe anche in Giamaica e a New York, finché approdò in patria alla rigida Royal Sweden dove subì atti di bullismo. Intanto la madre, inquieta artista comunista, era approdata a Roma entrando nel mondo del cinema come collaboratrice a sceneggiature di autori come Federico Fellini e Mario Monicelli. Lou, 17enne lascia gli studi e va a fare il contadino in Germania, breve parentesi conclusasi per una lite col padrone – è già un giovane ribelle in linea con quello che sarà – e infine si riunisce con la madre nella Roma cinematografica. Frequenta i corsi di recitazione di Alessandro Fersen e poi entra al Centro Sperimentale di Cinematografia.

Lou Castel in “Il Gattopardo”

Aveva debuttato con un piccolissimo ruolo non accreditato in “Il Gattopardo” di Luchino Visconti, il quale avendolo notato gli chiese di restare oltre le riprese, per conoscersi meglio, ma il ragazzo rispose che aveva fatto le sue otto ore per avere la sua busta paga e se ne andò, sempre insofferente irriverente e sovversivo, voltando forse le spalle a un altro tipo di carriera. “I pugni in tasca” sarà il suo vero debutto cinematografico nel quale, pur recitando in italiano, per il suo forte accento straniero verrà doppiato da Paolo Carlini. Continuerà con una bella carriera nel cinema italiano, lavorando con Damiano Damiani, Carlo Lizzani, Liliana Cavani, e infilando un altro successo con “Grazie zia” del debuttante Salvatore Samperi; fino alla sua espulsione dall’Italia nel 1972 come indesiderato per la sua militanza nell’estrema sinistra in un’Italia fortemente democristiana: fu portato quasi a braccetto dai militari su un aereo che lo riportò a Stoccolma dove non conosceva più nessuno, e da lì comincia un’altra carriera, più internazionale, anche tornando clandestinamente in Italia: fondamentalmente è un individuo poliglotta e senza patria.

Anche Paola Pitagora, di due anni più grande di Lou, ha frequentato i corsi di Fersen e il Centro ed è un’attrice emergente, pure in teatro, molto eclettica: comincia come presentatrice alla Rai e scrive anche canzoncine di successo per lo Zecchino d’Oro ed è proprio con la sua partecipazione a questo film che s’impone definitivamente all’attenzione di critica e pubblico; all’inizio aveva pensato di rifiutare per le situazione crude e sul piano morale anche scabrose, ma fu l’allora fidanzato, il pittore e attore Renato Mambor, a convincerla ad accettare. Un paio d’anni più tardi diventerà beniamina del pubblico televisivo come Lucia in “I Promessi Sposi” di Sandro Bolchi. Il belloccio Marino Masè è il fratello maggiore, l’unico la cui vita ha un senso nel sentire dell’alienato Alessandro; l’attore, scomparso 83enne nel maggio di quest’anno, anch’egli figurante nel Gattopardo viscontiano, era appena stato protagonista per Jean-Luc Godard nel controverso “Les Carabiniers” e si avvierà anche a una brillante carriera internazionale. La madre cieca è interpretata dalla caratterista napoletana Liliana Gerace, mentre il figlio piccolo è interpretato dall’attore per caso Pier Luigi Troglio, eclettico personaggio che sarà poi storico scrittore e filantropo nella sua nativa Bobbio, patria anche di Bellocchio, dove è poi stato segretario della Democrazia Cristiana locale; e l’intero cast partecipò al film solo con un rimborso spese. Per il cast tecnico, il compagno di corso dell’autore Silvano Agosti si occupa del montaggio, ma si fece mettere nei titoli col nome di un suo amico, Aurelio Mangiarotti, probabilmente perché non intendeva accreditarsi come montatore dato che lui stesso aveva studiato regia e avrebbe presto debuttato sotto l’egida del medesimo produttore e assicurandosi pure il divo francese che era sfuggito all’amico Bellocchio. E come per il suo cortometraggio di debutto anche per questo primo lungometraggio il nuovo giovane autore si assicura il commento sonoro di un grande professionista, Ennio Morricone. All’inizio il titolo del film avrebbe dovuto essere il più semplice ed esplicativo “Epilessia”, poi si pensò a “L’età verde” e infine venne cambiato col più evocativo “I pugni in tasca” per dire della rabbia repressa, nascosta, compressa; senza sapere – è la magia dell’ispirazione – che quel titolo era l’inconsapevole citazione di un altro ribelle, Arthur Rimbaud, nella sua poesia “La mia bohème (fantasia):

Me ne andavo, i pugni nelle tasche sfondate;
E anche il mio cappotto diventava ideale;
Andavo sotto il cielo, Musa! ed ero il tuo fedele;
Oh! quanti amori splendidi ho sognato!
 
I miei unici pantaloni avevano un largo squarcio.
Pollicino sognante, nella mia corsa sgranavo
Rime. La mia locanda era sull'Orsa Maggiore.
- Nel cielo le mie stelle facevano un dolce fru-fru
 
Le ascoltavo, seduto sul ciglio delle strade
In quelle belle sere di settembre in cui sentivo gocce
Di rugiada sulla fronte, come un vino di vigore;
 
Oppure, rimando in mezzo a fantastiche ombre,
Come lire tiravo gli elastici
Delle mie scarpe ferite, un piede vicino al cuore!

Una copia del film appena montato ma senza la post produzione, dunque incompleto di musiche e col sonoro imperfetto della presa diretta, venne presentata alla commissione di ammissione al Festival di Venezia, che la rifiutò; ma in seguito vinse il Premio Città di Imola attribuito a opere che rappresentassero la provincia italiana e vinto in precedenza da Pier Paolo Pasolini, Ermanno Olmi ed Eriprando Visconti; per gratitudine Marco Bellocchio girò a Imola il suo secondo lungometraggio “La Cina è vicina”. Vinse poi il Nastro d’Argento per il miglior soggetto e la Vela d’Argento a Locarno per la miglior regia. Dopodiché fu distribuito anche in Francia (Les poings dans les poches), nella Germania Occidentale (Mit der Faust in der Tasche), Regno Unito e Stati Uniti (Fist in His Pocket).

Dal punto di vista formale il film risente ancora del morente neorealismo ma si fa nuovo psicodramma e sicuramente attinge alla Nouvelle Vague, senza una precisa trama però, con scene e moduli che si ripetono come cercando di risolvere un puzzle in cui mancano dei pezzi, in cui la narrativa è l’assurdo assunto del protagonista: liberare il fratello maggiore, l’unico individuo sano e produttivo, dal fardello di una famiglia malata. Un orrore venato di sarcasmo quanto d’inquietante disarmante dolcezza che ancora oggi rende il film uno spettacolo esemplare, nonostante tutti gli orrori più espliciti cui ci ha assuefatti la cinematografia moderna: se lo si guarda in cerca di forti emozioni il film è datato, ma ai suoi tempi dev’essere stato davvero angosciante perché era ancora (per poco) l’epoca di un cinema rassicurante dove l’istituto della famiglia era un caposaldo indiscusso. Oggi i nostri ragazzi sterminano la famiglia per ripicca, per la paghetta, per accedere subito a una risibile eredità, mentre l’antieroe di Bellocchio si fa esecutore materiale di un malessere collettivo, narrativamente simbolizzato nel suo individuale, che sta per spazzare via le rassicuranti ma già marcescenti idee di Dio Patria e Famiglia.

La passeggiata – opera prima di Renato Rascel

Opera prima e anche unica dato che fu un clamoroso insuccesso per l’artista che volle fare il passo più lungo della gamba, ma andiamo con ordine.

Su YouTube il film completo… anzi no, incompleto: manca il vero finale

Renato Rascel nato Renato Ranucci nel 1912, dunque quest’anno sono 110 anni dalla nascita, fu un figlio d’arte che casualmente nacque a Torino dove i genitori romani erano in tournée: il padre cantante d’operetta e la madre ballerina. Il bambino crebbe a Roma affidato a una zia dati i continui spostamenti dei genitori, e poiché il frutto non cade mai lontano dall’albero, Renatino già a dieci anni canta nel coro delle voci bianche della Cappella Sistina, poiché crescendo nel rione Borgo a ridosso del Vaticano frequentava la Scuola Pontificia Pio IX; e sempre in quegli anni preadolescenziali si esibisce addirittura alla batteria di un complessino jazz di dilettanti, e a seguire debutta come attore bambino sotto la direzione del padre che nel frattempo era divenuto direttore di una compagnia filodrammatica. Ma papà Ranucci, che sulle sue spalle aveva la consapevolezza di quanto potesse essere dura una carriera artistica, interruppe lì l’esperimento attoriale del ragazzino e tentò di avviarlo verso mestieri più tradizionali, ancorché umili: garzone di barbiere, muratore e anche apprendista calderaio; ma il danno era già fatto, il ragazzo aveva già assaggiato il velenoso brivido dell’esibirsi in pubblico, ed essendo anche talentuoso, ancora tredicenne venne scritturato come musicista presso un locale capitolino, e due anni dopo entra a far parte di un complesso musicale e lì un impresario teatrale, notando la sua simpatica esuberanza, lo spinge ad esibirsi in improvvisazione estemporanee durante le pause del complesso, numeri di arte varia e balletti inventati lì per lì che divertono molto la platea con la sua freschezza naïf. Nasce così l’arte varia di Renato Rascel: attore, comico, ballerino, musicista, cantante, cantautore e più avanti conduttore televisivo e anche giornalista. La sua comicità sarà di un segno nuovo rispetto al classico panorama dell’epoca, dove la risata era strappata grazie a doppi sensi sessuali più o meno espliciti, e comunque sempre di grana grossa; lui, che ancora bambino aveva imparato a improvvisare, crea un personaggio originale, una nuova maschera: un omino dall’aria candida che esprime una comicità più ingenua – ma anche finta ingenua all’occorrenza – attraverso monologhi surreali ricchi di ardite sperimentazioni linguistiche che lasciano molto indietro la comicità fin lì fatta di più grevi qui pro quo; le sue esibizioni verbali sono invenzioni estemporanee con repentini cambi di prospettiva che spiazzano il pubblico, che sulle prime non lo comprende, e anche fisicamente si impegna con pantomime grottesche al limite dell’acrobatico, possedendo nella piccola statura doti atletiche non comuni.

Scatola vintage madreperlata di cipria Diadermina della Rachel

Ventenne, all’inizio degli anni Trenta e già con un lungo tirocinio in compagnie di varietà di second’ordine, il giovanotto decide di scegliersi un nome d’arte, e come si usava all’epoca ispirandosi al favoloso e favoleggiato varietà d’oltralpe con quei nomi scivolosi ed eleganti: sceglie il nome di una cipria francese che usava in camerino, la Rachel con pronuncia rascèl, ma poiché quel nome, stampato sui manifesti veniva erroneamente letto così com’era scritto, all’italiana, Rachel con accento sulla A e dunque pronunciato ràkel, Renato pensò bene di italianizzare il segno CH in SC, quantunque il nome finì con l’essere pronunciato sempre Ràscel. Italianizzazione che però non bastò a quei dettami fascisti emanati da Achille Starace secondo i quali tutti i nomi tronchi dovevano finire con una vocale per essere italianizzati, e gli fu intimato di cambiare il nome in Rascèle, ma il giovanotto pare che non si fece passare la mosca sotto al naso e replicò: “Cambiate prima Manin in Manino e poi ne riparliamo!” e da lì in poi i suoi rapporti col regime non furono dei più cordiali.

È del 1939, dunque a ridosso della Seconda Guerra Mondiale, l’invenzione di “È arrivata la bufera” in cui, all’interno di quei versi surreali, il ritornello “È arrivata la bufera / è arrivato il temporale / chi sta bene e chi sta male / e chi sta come gli par” fa presagire l’arrivo di ben altra bufera, e in quattro versi tutta l’espressione dei vari comportamenti sociali e politici. E i burocrati fascisti, che come tutti gli estremisti d’ogni fede mancano di fantasia e ironia, lo braccano ripetutamente perché si ostinano a voler leggere nei testi bizzarri delle sue canzoncine chissà quali significati nascosti ed eversivi; stiamo parlando di titoli come “Torna a casa che mamma ha buttato la pasta” e “La canzone della zanzara tubercolotica“. Ma Renato Rascel si prenderà la sua rivincita nel film a episodi “Gran varietà” del 1953 diretto da Domenico Paolella, in cui fa la parodia di uno di quei burocrati nell’episodio “Il censore” in cui interpreta se stesso e in doppio ruolo il censore fascista, di certo partecipando alla sceneggiatura anche se non accreditato.

Aveva debuttato come attore cinematografico nel 1942 in “Pazzo d’amore”, un film che Vittorio Metz, anche regista, scrisse per lui dopo averlo visto al varietà, ma con scarsi risultati, dato che il film è piuttosto goffo e non mette a fuoco la comicità di Rascel, che inspiegabilmente è anche doppiato, forse perché al momento del doppiaggio l’attore era impegnato in tournée, cosa che all’epoca e in quegli ambienti accadeva sovente. Con la successiva caduta del fascismo e l’occupazione nazista di Roma, Rascel e la sua novella sposa, la showgirl Tina De Mola, sono costretti a darsi alla macchia perché invisi al regime e riparano, ovviamente dati i trascorsi del ragazzo Renato Ranucci, in Vaticano. Con gli anni ’50 continua la sua attività sia teatrale che cinematografica con una punta di diamante nel 1952: “Il cappotto” diretto da Alberto Lattuada e tratto dal racconto omonimo di Gogol è la sua prima interpretazione drammatica che gli frutterà il Nastro d’Argento ma anche la delusione per avere sfiorato il premio come migliore attore a Cannes, che quell’anno andò a Marlon Brando per “Viva Zapata!” di Elia Kazan, e scusate se è poco.

A quel punto, e siamo nel 1953, Rascel si mette in testa di voler continuare su quella strada per accreditarsi come un vero attore, uno di quelli seri e drammatici da premi prestigiosi, e per dare continuità al suo nuovo percorso appena iniziato si focalizza su un altro racconto di Gogol, “La prospettiva Nevskij”, con l’intento di assumerne anche la regia, ahilui, perché la strada si fa tutta in salita dato che per i produttori lui rimane un attore comico, da varietà, casualmente passato al drammatico e, soprattutto, ben diretto da un vero regista: che ora anche lui aspirasse alla regia non era credibile, anche perché Rascel non era scrittore né men che meno sceneggiatore e per scrivere il film aveva messo insieme una corposa squadra di tutto rispetto coinvolgendo i professionisti che avevano partecipato al progetto di “Il cappotto”: il neoregista Franco Rossi che aveva debuttato l’anno prima col poliziesco “I falsari” scritto da Ugo Guerra, e da cui Rascel si farà affiancare nella sua regia per la parte tecnica: era consapevole dell’inesperienza; lo stesso Ugo Guerra, anch’egli a inizio carriera e che si affermerà come sceneggiatore e produttore; e gli scrittori e drammaturghi Diego Fabbri, Turi Vasile e Giorgio Prosperi; ma fu col coinvolgimento del veterano Cesare Zavattini che riuscì a chiudere il pacchetto vincente e si assicurò la produzione della cattolica – guarda un po’ – Film Costellazione che con lungimiranza aveva già in produzione un altro regista debuttante, Antonio Pietrangeli con “Il sole negli occhi”, e la lavorazione del film prese il via, con la vicenda di nuovo trasferita da San Pietroburgo a Roma e con tante di quelle libertà narrative da far dire alla critica dell’epoca che il film non aveva più nulla a che vedere col racconto di Gogol che, per chi lo volesse leggere, lo trova a questo link.

Il racconto russo si apre con una lunga descrizione della più importante via di Pietroburgo, la Prospettiva Nevskij appunto, brulicante di varia umanità nella quale l’autore sceglie i suoi protagonisti. Rispettando l’ispirazione il film italiano viene intitolato “La passeggiata”, ma impropriamente perché nel film non c’è nessuna introduzione descrittiva di qualsivoglia centrale via romana altrettanto brulicante di varia umanità, e l’unica passeggiata che vi si racconta è quella che avviene alla fine del film, in calesse, sull’Appia Antica. E da lì in poi il racconto sviluppato da Rascel e dalla sua squadra di sceneggiatori vive di vita propria, con il clamoroso errore di aver voluto inserire in una vicenda drammatica dei momenti di comicità surreale, fatti di pantomime, il cui accostamento immediato e dichiarato è quello con Charlie Chaplin, senza però averne la grandezza narrativa e senza padroneggiare il linguaggio cinematografico: se con Charlot i momenti surreali si integravano nel dramma, qui rimangono siparietti a sé stanti. A questo si aggiunge il problema della censura, assai pressante all’epoca: passando dal fascismo al catto-centrismo della Democrazia Cristiana non era cambiato praticamente nulla nell’imposizione di direttive morali, e gli sceneggiatori si autocensurano già in sede di scrittura scegliendo di non raccontare la tossicodipendenza del protagonista, e di fare della prostituta e delle sue volgarità una elegantissima e forbita dama, un po’ principessa delle favole e un po’ fata madrina, alla quale vengono pure immillati afflati di maternità insoddisfatta e dolente; ma per la censura il punto più scabroso sul quale intervenne con uno specifico divieto fu il suicidio del protagonista alla fine della storia, quando il poverino non riesce a realizzare il suo sogno d’amore e si suicida: giammai un suicidio poteva essere raccontato al cinema, ché se durante il Ventennio di vent’anni prima era da pusillanimi senza nerbo, in quell’oggi era perverso e anti cristiano.

La prostituta del film, assai sui generis e molto gran dama, è interpretata da una bravissima Valentina Cortese, già diva del cinema e del teatro, che recita con grande naturalezza, assai moderna, un personaggio assai improbabile nella scrittura. Paolo Stoppa, altro divo cine-teatrale dell’epoca sempre caratterista al cinema, rifà uno dei suoi tanti riusciti cliché come preside del collegio dove il protagonista insegna. Altri volti riconoscibile da chi ha superato gli anta sono Francesco Mulè come altro insegnante e l’elegante Tino Bianchi, volto assai noto degli sceneggiati Rai, qui come politico affascinato dalla folgorante bellezza della prostituta in libera uscita come donna dei sogni d’ognuno.

All’inizio del film programmato dalla meritevole Cine34 – che facendo passare film d’ogni genere sia vintage che vecchi e stravecchi ha il merito di proporre vere rarità – c’è un cartello che spiega: “La copia del film che state per vedere è il risultato di un lavoro di ‘collazione’ basato sulle due copie d’archivio 35mm conservate dalla Cineteca Nazionale, di cui una a colori e con sottotitoli in inglese, e l’altra in bianco e nero. La prima copia di un ‘autarchico ed inconfondibile Ferraniacolor’ – corrisponde ad una versione breve del film – forse accorciata per la distribuzione estera oppure ‘mutilata’ per ragioni di censura a noi sconosciute. Il taglio dei 20 minuti del finale sono stati quindi ricollocati proprio nel punto dove il protagonista viene cacciato dal collegio, scena che concludeva il film… Nel proseguimento in bianco e nero – Paolo interpretato da Renato Rascel – prosegue la sua vicenda d’amore con la prostituta Lisa interpretata da Valentina Cortese… Il lavoro di ricostruzione è stato realizzato dalla Cineteca Nazionale.” La versione disponibile su YouTube è quella breve, mutila, mentre per la versione completa bisogna stare al passo con la programmazione tv di Cine34 che ripropone ciclicamente tutti i film che ha in repertorio, e anche se un film imperfetto e velleitario vale la pena vederlo come documento d’epoca, e opera unica di un personaggio altrettanto unico come Renato Rascel.

Che, va detto, acquisì anche fama internazionale con la sua canzone “Arrivederci Roma” che spopolerà in America, tanto da spingere un produttore di Hollywood a metterlo in coppia col tenore italo-americano Mario Lanza e nel 1957 viene confezionato il film “The Seven Hills of Rome”, con Marisa Allasio nel cast e Roy Rowland alla regia, che da noi verrà distribuito col titolo della canzone di Rascel che Lanza canta nel film, e a seguire sarà un successo che canteranno anche Dean Martin, Johnny Mathis, Perry Como, Nat King Cole… In quello stesso anno Rascel viene contattato dal cantant’attore francese Tino Rossi che gli chiede l’autorizzazione a incidere in francese quella canzone, e poiché da cosa nasce cosa con stima reciproca, Renato Rascel finì con lo scrivere tutta la partitura musicale dell’operetta “Naples au baiser de feu” da un racconto di Auguste Bailly che già era diventato un film americano come “La fiamma e la carne” di Richard Brooks con Lana Turner; e quando l’operetta andò in scena a Parigi, il piccolo grande Renato Rascel salì sul podio nell’inusuale ruolo di direttore d’orchestra.

E nel 1960 vince a Sanremo con “Romantica” cantata in doppio con Tony Dallara, la cui versione da cantante urlatore avrà più successo di quella sussurrata e romantica dell’autore Rascel, che se ci rimane male come cantante è però contento di incassare i diritti d’autore; per quella canzone viene però accusato di plagio da tale Nicola Festa, veterinario e musicista, autore di “Angiulella” dalla quale a suo dire Rascel avrebbe copiato: a dirimere la disputa musical-legale venne addirittura interpellato Igor Stravinski che emise sentenza a favore del nostro. Il suo ultimo impegno come attore sarà nel 1977 con un piccolo ma significativo ruolo nella miniserie tv “Gesù di Nazareth” di Franco Zeffirelli. Tutto il resto saranno partecipazioni nei varietà televisivi dove sempre più anziano riproporrà i suoi successi di sempre. Muore 79enne in conseguenza a un’arteriosclerosi.

Il mantenuto – opera prima di Ugo Tognazzi

Il film completo

In questo 2022 cade anche il centenario della nascita di Ugo Tognazzi, di cui avevo precedentemente parlato nel beffardo “Vogliamo i colonnelli” bucando la notizia dell’anniversario, ma eccomi a rimediare con la sua prima regia che, detto con l’ammirazione di sempre, non è un capolavoro. Di passaggio va detto che Tognazzi, Ottavio all’anagrafe, nacque il 23 marzo del 1922 a Cremona dove da adulto lavorerà come ragioniere presso il salumificio Negroni, recitando nella filodrammatica del dopolavoro aziendale. Durante la Seconda Guerra Mondiale, chiamato alle armi, organizza spettacoli di varietà per i commilitoni, e concluso il conflitto si trasferisce a Milano con l’intento di avviarsi definitivamente nella carriera artistica e lì, partecipando a una serata per dilettanti, viene notato e scritturato per la compagnia della divina Wanda Osiris, e solo nel 1950, già 27enne e con una solida carriera teatrale alle spalle, debutta al cinema facendo coppia con Walter Chiari nel filmetto “I cadetti di Guascogna” diretto da Mario Mattoli; e una decina di anni e molti film dopo, nessuno dei quali ancora da antologia, Tognazzi si fa regista di se stesso con questo film di segno amorfo, non più neorealismo e non del tutto commedia all’italiana benché come tale sia stato scritto. In questo classico ritratto dell’italiano medio, nello specifico un ragioniere come lui stesso era stato, è molto a suo agio, e anche come regista ha buone intuizioni: eccellente ritmo nell’inizio del film che inquadra dalle ginocchia in giù le gambe di una donna, che sul treno prima rifiuta con fastidio l’approccio di un uomo dalle mani lunghe e poi, avendo cambiato scompartimento ed essendosi andata a sedere di fronte a un prete, lo fa scappare non appena lei accavalla le gambe: un ritrattino accattivante ma fine a se stesso perché, pure introducendo la protagonista femminile, nulla ha a che vedere con la storia del film, scritto da Luciano Salce con Castellano e Pipolo insieme alla meno nota coppia Giulio Scarnicci ed Enzo Tarabusi che avevano scritto per Tognazzi quando aveva fatto coppia in tv con l’amico Raimondo Vianello; Vianello che nel film, non accreditato nei titoli, gli regala un divertito cameo dove interpreta un altro italiano medio che in auto va alla ricerca serale di prostitute.

E l’intera sceneggiatura prosegue così, fra momenti che vogliono essere surreali, come quando il ragioniere litiga con la calcolatrice impazzita, ma che non vengono spinti all’estremo in una regia che mantiene l’intera struttura entro i limiti, qui angusti, della sobrietà: una tendenza al naturalismo che nuoce a una commedia che è stata concepita come commedia degli inganni, dove un banale ragioniere (il Fantozzi creato da Paolo Villaggio riuscirà a spingere al limite massimo il grottesco insito nel personaggio) vive solo come un cane e con un cane, nel seminterrato di un palazzo elegante, ed è innamorato della bella segretaria del capo; in solitudine la sera porta a spasso il cane e lì, una prostituta che esercita il mestiere senza la protezione di un pappone, lo indica come tale per togliersi dai guai; da qui tutta una serie di qui pro quo in uno sciorinarsi di scene che si dilatano e accavallano senza riuscire ad amalgamarsi in una storia pienamente godibile, né particolarmente divertente e neanche umanamente coinvolgente, in una chiave secondo la quale Ugo Tognazzi avrebbe forse voluto accreditarsi come interprete maturo.

Coprotagonista nel ruolo della prostituta che lo coinvolge anche sentimentalmente è Ilaria Occhini, attrice che darà il meglio di sé a teatro e in televisione; mentre la bionda segretaria è la bionda modella norvegese Margarete Robsahm, che poi non ha fatto molto altro, e c’è da segnalare che in tempi recenti, nel 2008, la signora ha attirato l’attenzione dei media norvegesi per aver ricevuto dal governo, in sedici anni, ben 2,3 milioni di corone per finanziamenti artistici, soldi coi quali lei non ha prodotto neanche un film: i norvegesi, gente composta, non hanno mosso a lei personalmente nessuna critica ma è sorto un dibattito pubblico sul sistema dei finanziamenti governativi, roba che da noi avrebbe fatto volare stracci e fango a destra e a sinistra; la modella restò in Italia a fare altri tre film non indispensabili dando a Tognazzi un secondo figlio (il primo era stato Ricky avuto con la ballerina britannica Pat O’Hara) che ha preso il cognome della madre e che a tre anni, quando la relazione fra i genitori finì, la madre portò con sé per crescerlo in Norvegia: oggi Thomas Robsahm è un regista e produttore cinematografico anch’egli figura non indispensabile nella cinematografia internazionale.

Margarete e Ugo, l’inarrivabile segretaria e il banale ragioniere
La segretaria col capo, ovviamente anch’egli innamorato

Come capo aziendale ritroviamo il sempre in linea e autorevole Mario Carotenuto mentre nel ruolo della ricca vedova vogliosa c’è una coinvolgente Marisa Merlini che finirà con l’accalappiare quest’uomo medio senza reale fascino, e che renderà quel mantenuto che è nel titolo. Nel resto del cast il ragioniere Armando Bandini col personaggio scritto per lui e col suo nome, che già abbiamo trovato sempre come ragioniere in “Il mattatore”; Gianni Musy come pappone in concorrenza, Franco Giacobini come commissario di polizia, Pinuccia Nava e Olimpia Cavalli come coppia di prostitute finte sboccate; Franco Ressel, Franco Ciuchini, Aldo Berti e il pittore attore Renato Mambor, nei ruoli di malviventi.

Nel 1990 Ugo Tognazzi morirà nel sonno a 68 anni per emorragia cerebrale, dopo aver sofferto negli ultimi anni di depressione; ultimi anni nei quali era tornato al teatro con spettacoli e ruoli impegnativi: “Sei personaggi in cerca d’autore” di Luigi Pirandello, “L’avaro” di Molière e il contemporaneo “M. Butterfly” di David Henry Hwang che pochi anni dopo diverrà il film omonimo diretto da David Cronenberg con Jeremy Irons. Dopo questa sua prima regia dirigerà altri quattro film, nessuno dei quali memorabili, e la miniserie tv dove è anche protagonista “FBI – Francesco Bertolazzi Investigatore” del 1970 – non riuscendo ad accreditarsi nell’immaginario collettivo cinematografico anche come autore, non scrivendo lui i suoi film, a differenza dei colleghi Nino Manfredi che da autore ha debuttato con il notevole “Per grazia ricevuta” e Alberto Sordi che rimane il più prolifico come regista fra i cinque grandi divi del cinema italiano della seconda metà del Novecento. Potremmo dire che Ugo se n’è andato troppo presto ma voglio ricordare il consolante adagio secondo il quale un artista muore quando ha già dato tutto di sé.

Faustina – opera prima di Luigi Magni

il film completo

Nel 1968 il 40enne Luigi Magni è già in attività da più di dieci anni avendo cominciato come soggettista e sceneggiatore sotto la guida della coppia Age & Scarpelli e si distinse subito lavorando con e per i migliori registi dell’epoca e a film di successo come “Le voci bianche” di Pasquale Festa Campanile ambientato in quella Roma papalina che sarà il marchio di fabbrica di Magni; e proprio lo stesso anno del suo debutto come regista esce un con un’altra sceneggiatura di successo: “La ragazza con la pistola” di Mario Monicelli. Per la sua opera prima scrive e dirige una commedia che, benché ambientata nella Roma moderna (ovviamente di quel 1968) già si colloca per gusto e ispirazione nella Roma storica di cui lui è grande studioso e cultore: un triangolo amoroso che sembra uscito dai sonetti romaneschi di Giuseppe Gioachino Belli, il quale a proposito della sua produzione aveva scritto: “Io qui ritraggo le idee di una plebe ignorante, comunque in gran parte concettosa ed arguta, e le ritraggo, dirò, col concorso di un idiotismo continuo, di una favella tutta guasta e corrotta, di una lingua infine non italiana e neppur romana, ma romanesca.” E Magni, supportato dalla moglie Lucia Mirisola, che sarà costumista e scenografa di tutti i suoi lavori, ambienta la vicenda in una Roma ancora più antica, quella dei siti archeologici a cielo aperto, coi Mercati di Traiano in testa, dove colloca scenografiche strutture posticce per creare le abitazioni dei suoi romani di borgata su quell’antica Via Biberatica, direttamente con affaccio sugli scavi e con libertà di movimento, anche di automezzi, oggi assai improbabili data la rigorosa protezione di cui quei siti attualmente godono; una sorta di periferia romana molto idealizzata e di nobili ascendenze, assai diversa dalle periferie fatiscenti dei primi film di Pier Paolo Pasolini che raccontavano storie di turpi borgatari; il popolino di Luigi Magni, benché altrettanto sinceramente romanesco e altrettanto dedito agli intrallazzi, è più gioioso e romantico e piuttosto che muoversi solo nella violenza dell’ignoranza e della fame, si ispira alla storia antica, quella gloriosa e imperiale cui il recente fascismo si era ispirato con ben altri intenti e risultati; uno dei protagonisti di Magni è un tombarolo che ben conosce la materia che tratta disquisendo con ricettatori e collezionisti stranieri di etruschi e Roma antica; l’altro è uno stornellatore da osteria che però avendo perso la chitarra in un incidente non può più esibirsi ed è alla fame assoluta. Fra loro l’autore colloca un’ambigua figura femminile, ambigua perché d’impatto ma poi poco definita: una ragazza mulatta frutto dell’amore estemporaneo fra una romana e uno di quei soldati di colore del vittorioso esercito americano che lasciarono su tutto il suolo italiano, e specialmente da Roma in giù, stuoli di nascituri dal colorito scuro, fatto che già nel 1944 aveva ispirato la napoletana “Tammuriata nera” al giornalista e paroliere Edoardo Nicolardi che era anche direttore amministrativo dell’ospedale Loreto Mare e lì vide nascere decine di bambini neri; la musica è del suo consuocero E. A. Mario che fu anche autore della “Canzone del Piave”: “È nato nu criaturo, è nato niro, / e ‘a mamma ‘o chiamma Ciro, / sissignore ‘o chiamma Ciro.”

La Tammuriata Nera nella personalissima interpretazione di Peppe Barra
Il debuttante Luigi Magni posa con la debuttante Vonetta McGhee
Enzo Cerusico e Vonetta MacGhee
Vittoria Febbi a 10 anni nel suo film di debutto “Campane a martello” del 1949 diretto da Luigi Zampa

Il personaggio della mulatta di Luigi Magni è d’impatto perché il nostro cinema ha raccontato molto poco quell’esperienza sociale, ma è un’occasione che lui spreca e, benché raccontando la storia della ragazza, non ne esplicita le implicazioni socialogiche e i drammi personali, che pure ci furono, e la sua protagonista è solo una bella ragazza mulatta che parla romanesco col doppiaggio di Vittoria Febbi, ex attrice bambina dal colorito altrettanto scuro in quanto figlia di un italiano e di un’eritrea. L’interprete della Faustina che dà il titolo al film dell’autore, fuorviando lo spettatore poiché il personaggio non è la chiave di volta del film, è un’altra debuttante, l’americana Vonetta MacGee, molto efficace sul piano espressivo, che quello stesso anno sarà anche protagonista dello spaghetti-western di Sergio Corbucci “Il grande silenzio”; tornata in patria sarà brevemente una star in film del genere blaxploitation e nel 1975 lavorerà con e per Clint Eastwood in “Assassinio sull’Eiger” in mezzo a un carriera di film di serie B. Morirà 65enne per attacco cardiaco.

Anche Enzo Cerusico è un ex attore bambino figlio di un direttore di produzione che debutta a 10 anni e nei successivi cinque anni recita in ben undici film. Svoltando l’adolescenza si ferma per un paio d’anni e studia recitazione col russo italianizzato Alessandro Fersen (nato Aleksander Fajrajzen che con la famiglia era giunto in Italia a 2 anni) e da lì in poi i suoi ruoli si fanno più impegnativi e recita anche in teatro dove già 30enne si mette in luce nella commedia musicale “Meo Patacca”: viene notato da due funzionari della rete tv americana NBC che cercavano il protagonista di un telefilm, e così il giovanotto pel di carota è andato alla scoperta dell’America dove con il personaggio di Tony Novello ha preso parte accanto a James Whitmore a una puntata della serie “The Danny Thomas Hour” dove ogni puntata era una storia auto conclusa; il suo episodio ebbe un tale successo che divenne il pilot di una nuova serie che poi arrivò in Rai col titolo “Il mio amico Tony” e Cerusico divenne un protagonista della televisione italiana dove, insieme al teatro, si svolgerà la gran parte della sua carriera. Per un tumore al midollo spinale muore a 54 anni. Qui è doppiato da Massimo Turci, probabilmente perché impegnato a registrare per la Rai e la regia di Ugo Gregoretti le sei puntate di “Il Circolo Pickwick” da Charles Dickens.

Renzo Montagnani in un raro scatto col figlio Daniele

Il terzo protagonista è il toscano Renzo Montagnani, attore di rango che ha speso il resto della sua carriera prevalentemente nel filone della commedia sexy; di lui, Indro Montanelli che da debuttante regista lo aveva diretto come debuttante attore cinematografico in “I sogni muoiono all’alba” da un suo testo teatrale, disse: “Come attore ha sacrificato il suo talento, che era grande, accettando qualsiasi cosa. Una vita disgraziatissima, la sua, da questo punto di vista.” Mentre Mario Monicelli ha ribadito: “Uno straordinario professionista, molto attento e intelligente come attore; purtroppo sottovalutato. Purtroppo per ragioni di famiglia non poteva rinunciare a lavorare, e doveva accettare qualunque proposta gli arrivasse.” “I film grossolani sono una scelta remunerativa, ma io uso definirmi migliore dei miei film.” è quanto Montagnani si è sentito di dichiarare. Nei fatti lui ha lavorato per gran parte della sua carriera, in cui non sono mancati i film importanti, nelle commedie trash proprio perché gli portavano lauti e facili guadagni per poter coprire le ingenti spese per le cure del figlio Daniele segnato da una lesione subita durante la nascita a causa del forcipe, e ricoverato in permanenza presso una clinica di Londra; inglese era la moglie Eileen Jarvis che aveva conosciuto quando lei ballava nelle Bluebell Girls, che nell’epoca del loro splendore furono anche trampolino di lancio per showgirl come Gloria Paul o le Gemelle Kessler. Renzo Montagnani è morto 66enne per un tumore ai polmoni ed è sepolto nel cimitero del paesello inglese Stockton-on-Tees insieme al figlio che lo ha raggiunto sette anni dopo e alla moglie che si è spenta 90enne nel 2021.

Il film di Magni è una favola sugli affamati del dopoguerra, che sintetizza nel sognatore stornellatore, un po’ alla Charlot, Enea Troiani (così lo nomina dato che il mitologico principe Enea era troiano) e nell’intrallazzista Quirino (insieme a Faustina altro nome tipico dell’antica Roma) che per tirarsi fuori dalla miseria fa di mestiere il tombarolo e che, al contrario del principe dei poveri puro di spirito, è un uomo dall’indole violenta, sempre in chiave di commedia; chiude il terzetto, come detto, la figlia del peccato e dell’amore inter-etnico (termine che dovremmo imparare a usare sostituendo l’inappropriato inter-razziale dato che non di razze si tratta ma di diverse etnie all’interno della stessa razza umana). E Magni, con la precisione della sua messa in scena di una romanità di nobili ascendenze ma corrotta dai tempi, si fa notare da quella critica e da quel pubblico che decreteranno la sua definitiva affermazione col suo successivo film “Nell’anno del Signore” col quale inizierà la sua proficua collaborazione con Nino Manfredi. Nel resto del cast Franco Acampora come aiutante di Quirino, Clara Bindi come madre di Faustina ed Ernesto Colli come patrigno; una giovane Ottavia Piccolo è impegnata nel ruolo di una ragazza che sospira d’amore per il bel cantastorie morto di fame. Produce Gianni Buffardi, prevalentemente produttore di film con Totò e autore di un unico curioso film, “Number One”, che raccontò il malaffare attorno ai locali notturni romani con precisi riferimenti alla cronaca; anche lui morto prematuramente a 49 per una leptospirosi contratta durante un bagno nel Tevere. Musiche importanti fin dalle prime note di Armando Trovajoli.

Per tentare un’indagine sul disagio dei nostri primi bambini mulatti bisogna andare a un altro film del 1954, il melodramma “Il grande addio” di Renato Polselli.

Ostia – opera prima di Sergio Citti

Il film completo

L’ex imbianchino Sergio Citti già dalla metà degli anni ’50 aveva casualmente cominciato a collaborare con Pier Paolo Pasolini, prima come dizionario romanesco vivente per i suoi romanzi di ambientazione romana “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta”, poi come sceneggiatore e aiuto regista, finché nel 1970 compie il gran salto e si mette in proprio, si fa per dire, e debutta come regista con un film che riprende le tematiche dei primi film di Pasolini: l’autore friulano è passato oltre e adesso lavora al suo nuovo progetto che sarà chiamato trilogia della vita e che sarà improntato a un erotismo esplicito: “Il Decameron” “I racconti di Canterbury” e “Il fiore delle Mille e una Notte”. Qui soggetto e sceneggiatura sono di entrambi ma come leggiamo subito nei titoli di testa “Pier Paolo Pasolini presenta” e infine, dopo la voce regia che in genere è l’ultima, leggiamo ancora “supervisione tecnica e artistica di P.P.P.” che da un lato vuole rassicurare lo spettatore dato che ormai Pasolini è ufficialmente anche un autore cinematografico di tutto rispetto, e dall’altro è una sorta di imprimatur e viatico al suo delfino che si sta buttando nel mare degli squali.

Alla produzione e distribuzione due nomi secondari dell’ambiente: il direttore della fotografia Alvaro Mancori, che si è anche cimentato come regista in due soli film, e Anna Maria Chrietien che aveva provato a fare la costumista nel peplum “Ercole l’invincibile” del 1964 diretto dallo stesso Mancori, e che poi entrerà nella produzione di altri due film prima di scomparire dal mondo cinematografico: evidentemente la liaison con Mancori si era conclusa; se ne deduce, ed è evidente, che il film è realizzato in assoluto risparmio, ma questo diventa un pregio se a muovere l’intero apparato c’è un regista che sa quello che fa, e il debuttante Sergio Citti, benché supervisionato dal suo maestro, lo è.

Anche la coppia dei protagonisti è assolutamente in linea: Franco Citti, fratello di Sergio, che Pasolini aveva voluto come debuttante “Accattone” nel suo debutto da regista, e il francese già apprezzato il patria Laurent Terzieff che era approdato a Cinecittà nel 1959 con “La notte brava” di Mauro Bolognini sceneggiato da Pasolini da un suo racconto; e poi sempre Pasolini lo aveva diretto dieci anni dopo nella sua “Medea”, dove gli aveva affidato il ruolo del centauro Chirone; quindi possiamo dire che al momento l’attore francese era di casa nell’entourage pasoliniano e sembra naturale che sia entrato da protagonista e primo nome in cartellone nel cast del debuttante Sergio Citti; forse anche con l’intento di riuscire a vendere il film oltralpe dove Pasolini era molto amato. I due protagonisti funzionano bene come fratelli borgatari ladruncoli e sedicenti anarchici come il padre ubriacone, ma non ferventi cattolici come era la madre che, significativamente, è finita al manicomio dove il film comincia: la religione non salva l’anima e piuttosto la corrompe – più pasoliniano di così! Il vero borgataro Citti e l’aristocratico attore teatrale francese Terzieff, a discapito dell’enorme differenza che intercorre fra loro, funzionano bene come coppia di fratelli disfunzionale; il primo perché è assolutamente se stesso nel personaggio che gli ha scritto il fratello, senza i tragici tormenti esistenziali, di derivazione borghese, che il borghese Pasolini immetteva nel mondo dei sottoproletari come lui li vedeva e raccontava; e Franco diretto da Sergio acquista una credibilità che a mio avviso non aveva ancora espresso sotto la direzione del maestro. Laurent Terzieff si mimetizza nel personaggio lontanissimo dalla sua natura proprio perché attore di razza, e la sua faccia scavata e non immediatamente bella lo aiuta a diventare un delinquente ignorante senza tormenti esistenziali, o meglio: con dei tormenti che nel racconto di Citti rimangono puro stato magmatico perché in quel mondo non si conoscono le parole e i processi di auto analisi per esprimerli.

Esemplare la scena in cui Rabbino – è il soprannome del personaggio di Citti in un mondo in cui i soprannomi assurgono a nomi propri – ricorda a Bandiera quella volta in cui da ragazzi, dopo aver fatto i guardoni spiando un vecchio che scopava con una mignotta, si sono baciati sulla bocca e fatto insieme le zozzerie come se fossero stati due fidanzati; e Bandiera non ricorda o non vuole ricordare: noi borghesi intellettuali diremmo rimuove. Scena cardine che all’epoca la critica ha messo al centro della discussione individuando nei due protagonisti una latente omosessualità – senza peraltro parlare dell’incesto fraterno perché essendo gioco fra maschi non c’è rischio di procreazione, che è il tabù principale. A mio avviso l’omosessualità raccontata da Citti è fittizia perché coatta, espressione di necessità contingente, del far di necessità virtù, mancanza di migliori opportunità; omosessualità di ripiego quando – tanto per restare romaneschi – non c’è trippa per gatti, la stessa omosessualità che talvolta si esprime nei luoghi chiusi a lungo corso come le carceri, le navi di una volta, i collegi degli adolescenti, le caserme delle reclute: sfogo di naturali istinti all’accoppiamento che si rivolge al simile in mancanza del diverso, esplosione di testosterone, sperimentazioni sul proprio corpo – anche fra femmine – che però non necessariamente conducono all’omosessualità conclamata e da lì in poi praticata: finita l’emergenza della cattività si torna ai rapporti reali. E di fatto nei due fratelli raccontati da Sergio attraverso suo fratello Franco e il francese cui lui stesso dà la voce al doppiaggio, guarda un po’, non c’è desiderio di natura omosessuale, tutt’altro: diventano rivali quando nella loro vita irrompe una bionda esplosiva; anche il gioco del travestimento con le parrucche, cui la donna li sottopone, benché spinga il nostro giudizio nel verso dell’omosessualità, rimane un’altra divertente sperimentazione: è una posizione ambigua, ancorché coraggiosa, quella del nuovo autore cinematografico che successivamente nelle sue sceneggiature e regie tornerà sull’argomento, come in cerca di pacificazione con un argomento spinoso: esemplare sarà il suo ultimo film “Fratella e sorello”, film oggi riconosciuto di interesse nazionale ma clamoroso fiasco al botteghino.

Meno riuscita, anzi non riuscita affatto – e non ci è dato sapere chi l’abbia doppiata – è l’introduzione nel cast della svedese Anita Sanders, modella molto a suo agio col nudo – poserà diverse volte per Playmen – e nel film ce ne dà ampie dimostrazioni; è scesa in Italia per cercare di bissare il successo di un’altra Anita sua conterranea, quell’Anita Ekberg che in Federico Fellini troverà un pigmalione, il quale però riserverà a quest’Anita numero due solo un piccolo ruolo in topless in “Giulietta degli spiriti”; e ricordiamo che in quegli anni approdò da noi un’altra Anita svedese, Anita Strindberg, che spopolò nei nostri thriller-sexy: il mediterraneo nome Anita era all’epoca molto in voga nelle terre del nord. Anita Sanders, che qui interpreta una di quelle borgatare mignotte per diletto come si sono già viste in altri film d’impronta pasoliniana, è troppo bionda e troppo ben truccata con quegli occhioni da fotomodella in un epoca in cui purtroppo al cinema le belle donne erano sempre ben truccate anche se il personaggio e il contesto non lo richiedevano: che fossero appena alzate dal letto o uscite dalle onde del mare il make-up era sempre perfetto; e la svedesona è troppo nordica e ammaliatrice per essere credibile in una cruda vicenda di borgate. Pasolini la utilizzerà due anni dopo in “I Racconti di Canterbury” e il suo ultimo film sarà “Quell’età maliziosa” del 1975 dove a soli 33 anni interpreta la madre di Gloria Guida che ne ha 20 e allora decide di chiudere lì con la recitazione; nel 1977 fa da assistente alla regia a Sergio Citti sul set di “Casotto” probabilmente solo per metterla a foglio paga e aiutarla a sopravvivere. Importante il commento musicale di Francesco De Masi, compositore attivissimo negli spaghetti-western con talmente tante produzioni all’attivo da essere annoverato tra i nostri più significativi compositori perché ha anche avuto il talento, e il gusto, di non scopiazzare il maestro del momento Ennio Morricone ma di portare avanti uno stile suo personale.

Nel resto del cast, oltre al solito manipolo di veri borgatari attori per caso che non si avvieranno a una carriera professionistica, tornano Ninetto Davoli e l’ex protagonista di “Ladri di biciclette” di Vittorio De Sica che da romano verace si è in quel periodo riciclato con piccoli ruoli nel cinema pasoliniano: Lamberto Maggiorani, come padre della bionda. Altri professionisti sono Gianni Pulone come prete che tenta di confessare i due fratelli al gabbio, e al suo debutto cinematografico la teatrale, poi anche professionista del doppiaggio, Lily Tirinnanzi qui ancora accreditata come Luisa, nel ruolo della madre dei due, e che probabilmente è anche la voce della Sanders.

Il film di debutto di Sergio Citti è dunque un’operina che, pur risentendo dell’ispirazione del maestro, già viaggia su una strada tutta sua introducendo un gusto per il grottesco e il surreale che sembra mediato dal teatro dell’assurdo di un Samuel Beckett e del suo “Aspettando Godot” dove due individui, come i nostri due fratelli, compiono sempre le stesse azioni: Bandiera e Rabbino vivono una vita senza senso dove il senso è proprio quella mancanza di significato, esistenze senza dio e intrise di un’ideologia anarchica solo copiata da un padre pessimo esempio di autorità maschile e, come a teatro, entrambi in attesa che qualcosa accada, e accade quando fra loro s’introduce l’aliena bionda. E Citti sceglie una narrazione altrettanto alienata dove le scene e le sequenze si rincorrono anche senza uno sviluppo logico e con risvolti improvvisi e surreali, come quando la donna comincia improvvisamente a suonare una fisarmonica e i due fratelli si mettono a ballare il tango. E c’è nel film quella verità che è sempre mancata al friulano Pasolini che si è fatto romano per passione dei borgatari romani che ha raccontato dal suo privilegiato punto di vista, sempre borghese ahilui, e secondo le sue necessità narrative socio-filosofiche; Sergio Citti è un vero borgataro romano e la sua verità, che racconta con leggerezza una favola turpe, è sincera e tragicamente disarmante perché lascia intuire sprazzi di autobiografia i cui dettagli non sapremo mai.

Accattone – opera prima di Pier Paolo Pasolini

Per il suo debutto come regista cinematografico Pier Paolo Pasolini scrive una sceneggiatura che è il compendio dei suoi precedenti romanzi, per i quali, sia i romanzi che questa sceneggiatura, si avvale del fondamentale aiuto del romanissimo Sergio Citti per il glossario romanesco, perché lui era cresciuto in Friuli (ma nato a Bologna) e aveva esordito ventenne come poeta proprio con un libretto in versi friulani, “Poesie a Casarsa”, amato luogo della sua infanzia, ancora prima di laurearsi in Lettere con 110 e lode, a Bologna, dove era tornato per concludere gli studi. Intanto, mentre studiava, frequentava il cineclub dove si è appassionato ai film di René Clair, un cinema misto di realtà quotidiana abitata da gente comune e di una componente fantastica e onirica, tematiche che caratterizzeranno il cinema del futuro regista Pasolini.

Primo numero di Il Setaccio di cui Pasolini disegnò la copertina

Viveva già i suoi tormenti interiori di omosessuale in un’epoca e in un ambiente caratterizzato dagli uomini duri e puri di stampo fascista: siamo alla fine degli anni ’30. Nell’ambiente universitario comincia a frequentare il GUF, Gruppi Universitari Fascisti, i Campeggi della Milizia e, essendo un ottimo sportivo, le Competizioni Littoriali della Cultura. Aderì anche alla GIL, Gioventù Italiana del Littorio, che avviò la pubblicazione della rivista “Il Setaccio” di cui il ventenne Pasolini fu subito viceredattore, un viceredattore che entrò immediatamente in conflitto col direttore responsabile Giovanni Falzone che, benché la rivista si occupasse di arte, era molto ligio ai dettami del regime e usò la rivista come mezzo di propaganda, quella propaganda tanto a cuore ai vertici del Fascio. La rivista vivrà per soli cinque numeri.

Nell’autunno del 1942 aveva partecipato a un viaggio organizzato nella Germania nazista, affinché le gioventù universitarie dei paesi nazifascisti si potessero incontrare e confrontare – ma in Pasolini, che aveva già sviluppato una sua coscienza sociale, quell’esperienza lo condusse a riflessioni antitetiche a quelle del regime, e tornato a Bologna pubblicò sulla rivista del GUF l’articolo “Cultura italiana e cultura europea a Weimar” in cui si tracciava quello che sarà il Pasolini sempre controcorrente; e di seguito sul “Setaccio” cominciò a tracciare le linee di un programma culturale i cui principi erano quelli dello sforzo di autocoscienza e del travaglio interiore, sia individuale che collettivo, e di un’autonoma e sofferta sensibilità critica: un percorso che di fatto lo poneva già al di fuori del fascismo, ma che intimamente riecheggiava i suoi umani tormenti.

Il primo settembre del 1943 il ventunenne Pasolini fu chiamato alle armi, solo due giorni prima che l’Italia firmasse a Cassibile l’Armistizio con gli Alleati perdendo la guerra e voltando le spalle all’ex alleata Germania; ma essendo di fatto già un militare coscritto, il giovane era sottoposto alle regole dei combattenti, e appena una settimana dopo avere indossato la divisa si vide costretto a consegnare le armi agli ex alleati tedeschi: già allora, e come sempre nel corso della sua vita, Pasolini non consegnò le armi, non le consegnerà mai e vivrà sempre come sulle barricate, e all’epoca per non venire deportato si travestì da contadino tornando a rifugiarsi nella friulana Casarsa. Ma la guerra, coi suoi ultimi colpi di coda, portò una tragedia in casa Pasolini: Guido, il suo amato fratello minore che si era unito ai partigiani mentre in quel Nord Italia ancora resisteva la Repubblica di Salò, venne ucciso in quello che verrà ricordato come l’eccidio di Porzûs che verrà rievocato nel film del 1997 di Renzo Martinelli “Porzûs”. Nel 1947 Pier Paolo aderisce al Partito Comunista. Intanto si era conclusa la carriera militare del padre, che tornando da una prigionia in Kenya affetto da alcolismo e paranoie, oggi diremmo stress post traumatico da combattimento, renderà la vita difficile alla moglie e al figlio superstite al quale, lui che era stato orgogliosamente un militare fascista anche nella guardia personale di Mussolini, non perdona il voltafaccia comunista.

Nel ’49 ci fu il primo scandalo: Pier Paolo venne imputato per atti osceni in luogo pubblico avendo pagato tre ragazzi per una masturbazione collettiva, e la famiglia pagò ad ognuno centomila lire, circa due milioni e mezzo delle ultime lire in valuta di fine millennio, oppure circa mille e trecento euro attuali; ma poiché uno dei minorenni era anche minore di 16 anni, l’imputazione si aggravò in corruzione di minore, ma non essendo sopravvenuta la denuncia della famiglia dell’interessato l’accusa decadde. Ma l’infamia restò: il PCI lo espulse “per indegnità morale e politica” e, come previsto in quei casi, fu anche sospeso dall’insegnamento, professione che aveva fin lì esercitato con competenza e passione. A quel punto non gli rimaneva che l’esilio, o la fuga.

Nel 1950 si trasferisce a Roma con la madre e per le ristrettezze economiche la donna va a lavorare come cameriera. Lui trovò lavoro come insegnante in una scuola privata a Ciampino e per arrotondare andò a fare la comparsa a Cinecittà. Riprese a riscrivere i suoi lavori incompiuti, “Atti impuri” “Amado mio” e “La meglio gioventù”, ma soprattutto cominciò la stesura di “Ragazzi di vita” ispirato dalle conoscenze che via via faceva ora che stava cominciando a vivere con accettazione l’omosessualità, e con un nuovo complice amico, il poeta Sandro Penna, andava su e giù per il lungotevere in passeggiate notturne in cerca di avventure clandestine; fu così che conobbe un giovane imbianchino che, per il suo coloritissimo romanesco, lui elesse a suo dizionario vivente: si chiamava Sergio Citti.

Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano
di Pier Paolo Pasolini

Li osservo, questi uomini, educati
ad altra vita che la mia: frutti
d’una storia tanto diversa, e ritrovati,
quasi fratelli, qui, nell’ultima forma
storica di Roma. Li osservo: in tutti
c’è come l’aria d’un buttero che dorma
armato di coltello: nei loro succhi
vitali, è disteso un tenebrore intenso,
la papale itterizia del Belli,
non porpora, ma spento peperino,
bilioso cotto. La biancheria, sotto,
fine e sporca; nell’occhio, l’ironia
che trapela il suo umido, rosso,
indecente bruciore. La sera li espone
quasi in romitori, in riserve
fatte di vicoli, muretti, androni
e finestrelle perse nel silenzio.
È certo la prima delle loro passioni
il desiderio di ricchezza: sordido
come le loro membra non lavate,
nascosto, e insieme scoperto,
privo di ogni pudore: come senza pudore
è il rapace che svolazza pregustando
chiotto il boccone, o il lupo, o il ragno;
essi bramano i soldi come zingari,
mercenari, puttane: si lagnano
se non ce n’hanno, usano lusinghe
abbiette per ottenerli, si gloriano
plautinamente se ne hanno le saccocce piene.
Se lavorano – lavoro di mafiosi macellari,
ferini lucidatori, invertiti commessi,
tranvieri incarogniti, tisici ambulanti,
manovali buoni come cani – avviene
che abbiano ugualmente un’aria di ladri:
troppa avita furberia in quelle vene…
Sono usciti dal ventre delle loro madri
a ritrovarsi in marciapiedi o in prati
preistorici, e iscritti in un’anagrafe
che da ogni storia li vuole ignorati…
Il loro desiderio di ricchezza
è, così, banditesco, aristocratico.
Simile al mio. Ognuno pensa a sé,
a vincere l’angosciosa scommessa,
a dirsi: “È fatta,” con un ghigno di re…
La nostra speranza è ugualmente ossessa:
estetizzante, in me, in essi anarchica.
Al raffinato e al sottoproletariato spetta
la stessa ordinazione gerarchica
dei sentimenti: entrambi fuori dalla storia,
in un mondo che non ha altri varchi
che verso il sesso e il cuore,
altra profondità che nei sensi.
In cui la gioia è gioia, il dolore dolore.

Da lì in poi, coi suoi primi successi nonché scandali letterari, Pasolini divenne una figura centrale della cultura italiana e si avviò anche alla scrittura cinematografica collaborando alla sua prima sceneggiatura nel 1955 per il film “Il prigioniero della montagna” dell’altoatesino Luis Trenker. Seguono le collaborazioni a “Marisa la civetta” di Mauro Bolognini e “Le notti di Cabiria” di Federico Fellini, esperienze fondamentali per la sua futura discesa in campo come regista cinematografico: arriva il momento di “Accattone”. In realtà aveva già scritto una sua sceneggiatura con la quale pensava di debuttare come regista, “La commare secca”; ma per gli impegni professionali, altre sceneggiature e articoli, collaborazioni e attivismo politico, passò il progetto al figlio del poeta suo sostenitore Attilio Bertolucci, il giovane Bernardo Bertolucci, che gli farà da assistente alla regia sul set di questo “Accattone” e che aiuterà a debuttare come regista già l’anno dopo.

Propose il soggetto alla casa di produzione Federiz che il suo amico Federico Fellini aveva fondato con Angelo Rizzoli; Fellini con “Le notti di Cabiria” alla cui sceneggiatura Pasolini aveva collaborato, aveva appena vinto l’Oscar come miglior film straniero. La neo casa produttrice chiese a Pasolini di girare un paio di scene di prova, che non piacquero a Rizzoli e men che meno all’altro socio Clemente Fracassi più angosciato dai numeri che dalle visioni artistiche; ma fu Fellini a dover dire di no a Pasolini: “Fui costretto a dire Pier Paolo non la verità, ma che era meglio aspettare ma lui, intelligente com’era, capì che c’erano resistenze anche da parte mia, cosa non vera, e sorridendo con un po’ di mestizia mi disse: “Certamente non posso fare del cinema come lo fai tu”. Per fortuna incontrò subito Alfredo Bini e il loro sodalizio funzionò. Cercai di farmi perdonare quella presa di distanza, apprezzai persino esageratamente il film e soprattutto mi diedi di fare perché venisse liberato dal blocco della censura. Pasolini scrisse in quell’occasione un articolo sul “Giorno” in cui raccontava tutta la storia con onestà, con molta acutezza e anche con un po’ di umorismo, che non era da lui. In quell’articolo fui da lui battezzato come “l’elegante vescovone” per il modo in cui, con grande imbarazzo, gli diedi la notizia negativa sul film.Mi rimane il rimpianto di non averlo visto più spesso, di non aver approfittato della sua generosità, della sua cultura. E poi, forse, mi illudo, se c’era qualcuno con cui confidarsi, credo che con me l’avrebbe fatto volentieri, probabilmente soltanto per stupirmi. O anche per tentare, come qualche volta è successo, di avere un punto di vista diverso dal suo, che in qualche mondo gli si presentava sempre più atroce, indecifrabile, minaccioso. Una volta mi disse: “la verità è che tutto è caos”, ma in contrasto con questa frase che mi colpì per la sincerità beffarda che conteneva, c’era l’accettazione rassegnata e sconfitta. Aveva una sorta di dolcezza ferita che suggeriva quel fascino misterioso e segreto che ho sempre immaginato avesse Kafka.” Da un’intervista del 1992 di Rita Cirio per L’Espresso.

Così si rivolge al produttore Alfredo Bini che aveva appena debuttato come produttore di “Il bell’Antonio” dal romanzo di Vitaliano Brancati, diretto da Mauro Bolognini e sceneggiato da Pasolini, e il film finalmente si fa secondo la visione del neoregista: molti primi piani, prevalenza dei personaggi sul paesaggio e soprattutto grande semplicità. Nel ruolo del protagonista fece debuttare il fratello minore di due anni di Sergio Citti, Franco Citti, che subito a seguire girerà anche “Una vita violenta”; e se nella sua seconda interpretazione il non-attore è già più a suo agio, in questo debutto risulta davvero impacciato e come tutti gli altri interpreti presi dalla strada corre le battute senza neanche pensarle, a pappagallo, buttandole via nella fretta di liberarsene come accade a chi è impegnato in un progetto che supera le sue capacità e anche la sua comprensione. Fu doppiato da Paolo Ferrari così come Monica Vitti, già uscita dall’anonimato con “L’avventura” di Michelangelo Antonioni, doppia la moglie del protagonista, rendendo di fatto traballante la visione di Pasolini (ma non soltanto sua) secondo cui solo i non-professionisti potevano interpretare sé stessi, perché soggetti incontaminati, puri, privi delle sovrastrutture imposte dalla società: ma se bisogna ricorrere a dei professioni per farli parlare, quanto si mantiene di quella purezza e quanto si può parlare di interpretazione? penso alle vere interpretazioni neorealiste di Lamberto Maggiorani in “Ladri di biciclette” 1948, e Carlo Battisti in “Umberto D.” del 1952 entrambi diretti da Vittorio De Sica, che evidentemente sapeva come dirigere gli attori e insegnare a recitare ai non professionisti. Il meritevolissimo lavoro di Pasolini consiste soprattutto nella scrittura del film, esplosiva per l’epoca, e nella sua realizzazione precisa e pulita, senza voli pindarici stilistici; ma non essendo un attore si limita a mettere in bocca ai suoi borgatari le battute, passando al doppiaggio dove non si poteva fare altrimenti.

Il film fu presentato alla Mostra di Venezia dove ebbe un’accoglienza tempestosa, e a seguire fu il primo film italiano a essere vietato a minori di anni 18. Alla prima romana al cinema Barberini, un gruppo di neofascisti interruppe la proiezione aggredendo gli spettatori con lanci di bombette carta e di finocchi, vandalizzando la sala e arrivando a lanciare bottiglie di inchiostro sullo schermo – dando ragione a Pasolini che così li descriveva. All’uscita nelle sale di tutto il territorio nazionale, il film fu bloccato dalla censura e tutte le copie ritirate. La critica si divise ma in massima parte il film non piacque mentre in una proiezione parigina fu molto apprezzato da Marcel Carné; a seguire vinse il Primo Premio per la Regia al Festival Internazionale del Cinema di Karlovy Vary, in Cecoslovacchia; inoltre Alfredo Bini vinse il Nastro d’Argento come miglior produttore, mentre Franco Citti vinse il Laceno d’Oro al Festival del Cinema Neorealistico e l’inglese BAFTA – a dispetto del mio parere sulla sua recitazione. Nel resto del cast le non professioniste che continueranno a lavorare con Pasolini: Franca Pasut e Silvana Corsini, l’eclettica professionista Adriana Asti che sul set allacciò una relazione con Bernardo Bertolucci più giovane di lei di dieci anni, l’amica scrittrice Elsa Morante che si presta nella figurazione di una detenuta che legge fotoromanzi, e in ruoli minori lo stesso Sergio Citti come cameriere del ristorante sul barcone e il fratello più piccolo Silvio Citti nel naturale ruolo di fratello minore del protagonista. Il resto della masnada di borgatari sono volti che torneranno nel cinema pasoliniano. Archiviata questa sua prima avventura cinematografica, Pier Paolo Pasolini si ritira in una villa al Circeo, ospite di un’amica, per scrivere con Sergio Citti la sceneggiatura del suo secondo film “Mamma Roma” pensando ad Anna Magnani come protagonista.

Il film è disponibile su YouTube.

The Father – il cinema 2020-21 disperso nella pandemia

Nel 2020 i cinema hanno timidamente riaperto in estate per richiudere subito dopo. Nel 2021 si va al cinema col green pass ma le sale sono praticamente deserte: gli spettatori sono decimati dalla pandemia e non mancano solo quelli che non hanno il green pass; fra quelli che ce l’hanno non tutti ritengono opportuno, o necessario, tornare al cinema, e i pochi volenterosi spettatori rimasti sono ulteriormente scoraggiati dall’obbligo della mascherina FFP2. I film usciti in sala passano subito sulle piattaforme web e in tv.

Come “Comedians” un altro film tratto, ma forse è più corretto dire sviluppato, da un’opera teatrale, e che è anche l’opera prima cinematografica del suo autore, il drammaturgo francese Florian Zeller, che ha scritto un’opera sorprendente ma che è stato anche capace, in pochi anni, di raccogliere il massimo dei consensi mondiali con il massimo dell’esposizione.

Immagine di ricerca visiva
Alessandro Haber con Lucrezia Lante Della Rovere

Dopo l’acclamato debutto francese nel 2012, la pièce è stata tradotta dal britannico Christopher Hampton che l’ha messa in scena a Londra l’anno successivo, e da lì in poi – forte della veicolazione della lingua inglese – il dramma teatrale è stato rappresentato in tutto il mondo; in Italia è stato realizzato dal regista Piero Maccarinelli nel 2017 con l’interpretazione di Alessandro Haber e Lucrezia Lante Della Rovere.

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Jean Rochefort

Del 2015 è il primo adattamento cinematografico, il francese “Florida” diretto da Philippe Le Guay con protagonista l’eclettico commediante, anche frequentatore dei set italiani, Jean Rochefort, alla sua ultima interpretazione; un film che nella scrittura non vede coinvolto il suo autore teatrale e che prende lo spunto del dramma per farne una storia con altre ispirazioni, sin dal titolo.

Quell’operazione non deve aver soddisfatto Florian Zeller, che ora coinvolge l’inglese che l’ha fatto conoscere al mondo, Christopher Hampton, per scrivere la sceneggiatura di un nuovo film; e per non sbagliare stavolta lo dirige pure, debuttando come regista cinematografico con un film in lingua inglese, con grandi interpreti già premiati con l’Oscar, e pronto già sulla carta a raccogliere ulteriori consensi. Ne è protagonista il grandioso Anthony Hopkins, premio Oscar nel 1992 per “Il Silenzio degli Innocenti”, cui gli sceneggiatori pensano sin da subito chiamando Anthony il suo personaggio. La figlia è interpretata da Olivia Colman, Oscar 2019 per “La Favorita”, e per entrambi mi limito a ricordare solo gli Oscar dato che gli scaffali dei loro premi sono più che pieni.

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Frank Langella e Kathryn Erbe nella messa in scena di Broadway del 2016

Il film, come il dramma teatrale, racconta la perdita della memoria, e dell’intera personalità, a causa della degenerazione progressiva dovuta all’Alzheimer, ma è nuovo e vincente, oltre che narrativamente affascinante e coinvolgente, il racconto dal punto di vista del malato: il dramma comincia come un thriller psicologico in cui l’uomo sembra al centro di un oscuro complotto per cui gli vengono tolti i suoi punti di riferimento, e viene inspiegabilmente ingannato da estranei che si sostituiscono ai suoi familiari: qui c’è il colpo di genio dell’autore, quello di fare interpretare a dei doppi i ruoli dei coprotagonisti, facendoci così precipitare all’interno dello spaesamento del protagonista che non riconosce più le persone: sua figlia, che nel film è fisicamente doppiata da un’altra attrice di gran classe, Olivia Williams, mentre il genero ostile interpretato da un altro protagonista del cinema internazionale, Rufus Sewell, ha il suo doppio nel caratterista di provenienza brillante Mark Gatiss, il quale dà alla sua interpretazione un ghigno che vuole essere rassicurante ma che è molto inquietante; conclude il ristretto cast la più giovane Imogen Poots nel ruolo della badante.

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L’autore regista debuttante firma un film di altissimo livello, coinvolgente e spiazzante, come deve essere stato il suo dramma teatrale per chi ha avuto l’opportunità di vederlo: uno spazio scenico che a poco a poco si spogliava di tutti i suoi arredi, come espediente concettuale e visivo della progressione dello svuotamento della mente del protagonista, che alla fine si ritrovava nella stanza di un ospizio per lungo degenti; e se nel dramma teatrale c’era la figlia ad assisterlo, nel film resta a prendersi cura di lui la sconosciuta che ora è un’infermiera. Uno svuotamento di spazi che non è possibile rendere al cinema dove il racconto deve essere più naturalistico e meno simbolico, così la scrittura esplora altre vie narrative: i silenzi, le solitudini dei personaggi e i dettagli minimi, i sogni e le visioni che arrivano improvvisi dietro porte che si aprono su altri spazi e altre epoche, in uno spiazzamento che una scrittura esemplare diventa interpretazione magistrale. Premio Oscar ad Anthony Hopkins, candidature a Olivia Colman e alla sceneggiatura, candidature anche come Miglior Film, Miglior Montaggio e Migliore Scenografia. E ancora mi limito agli Oscar. Qui da noi la BiM ha ritenuto opportuno distribuire il film con lo stupido sottotitolo “Nulla è come sembra” facendolo sembrare una sciocca commedia degli equivoci. Era stato presentato in anteprima al Sundance Film Festival nel gennaio 2020 e successivamente è uscito nelle sale di New York e Los Angeles, poi chiuse per la pandemia, così è stato distribuito on demand; in Europa si è affacciato nelle sale nel 2021 e in qualsiasi uscita ha fatto sempre eccellenti incassi.

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Fra le curiosità va detto che Hopkins con i suoi 83 anni si è piazzato come il più vecchio a ricevere il premio da protagonista: il detentore del primato per anzianità era il 76enne Henry Fonda che però aveva ricevuto nel 1981 l’Oscar onorario e l’anno dopo quello come Non Protagonista per “Sul Lago Dorato”; per trovare il protagonista più anziano bisogna risalire al 1970 e al 62enne John Wayne “Il Grinta”. Il miglior Non Protagonista più vecchio al momento è il recentemente scomparso Christopher Plummer per “Beginners” 2012. Fra le donne le più anziane detentrici del primato sono Jessica Tandy, 80 anni, protagonista per “A spasso con Daisy” 1980 e Peggy Ashcroft, 77 anni, non protagonista in “Passaggio in India” 1985.

Vale la pena ricordare che questo non è il primo film sull’Alzheimer, benché sia il primo che racconta il punto di vista del malato. Per chi volesse recuperarli ci sono stati l’inglese “Iris – Un Amore Vero” del 2001 con Judi Dench e Kate Winslet nel ruolo di Iris nelle diverse età e con Jim Broadbent vincitore dell’Oscar, diretti da Richard Eyre. “Lontano da Lei” del 2006 diretto da Sarah Polley con Julie Christie candidata all’Oscar e premiata con il Golden Globe. Del 2010 è il Sud Coreano “Poetry” di Lee Chang-dong, premiato per la sceneggiatura a Cannes. Del 2011 è l’iraniano “Una Separazione” di Asghar Farhadi, Orso d’Oro a Berlino, Golden Globe e Oscar.

Se ne conclude che l’Alzheimer, restando un dramma per chi lo vive su di sé e per le loro famiglie, si conferma un dramma sempre vincente per l’industria dell’intrattenimento.