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Man of Tai Chi – opera prima di Keanu Reeves

L’opera prima, la prima regia di una star dello schermo, dice molto su quello che la star vuole dire di sé. Per esempio Robert Redford ha debuttato con “Gente Comune” nel 1980 vincendo l’Oscar: un film con cui, avendo curato solo la regia, si accredita come regista tout court e dunque senza narcisismi da asso pigliatutto, salvo poi essere anche attore nelle regie successive, dato che spesso accade che siano gli stessi produttori a insistere per il pacchetto completo e andare sul sicuro al botteghino.

La scelta di Keanu Reeves in qualche modo non sorprende: nel 2013 ha fatto un film cinese (per ambientazione, produzione e lingua parlata oltre all’inglese) poiché culturalmente è vicino a quel mondo: nel suo DNA confluiscono diverse popolazioni: cinese, appunto, ma anche hawaiane, portoghesi, irlandesi e inglesi; è stato protagonista di “Il Piccolo Buddha” di Bernardo Bertolucci e, soprattutto, è stato Neo nella trilogia di “Matrix” (1999-2003) dei fratelli Wachowski, Larry e Andy, che nel frattempo hanno cambiato sesso (non sono gemelli) e adesso sono le sorelle Wachowski, Lana e Lilly, che lo scorso anno, 2019, hanno annunciato un quarto capitolo della serie. Da quei set viene il coreografo di arti marziali Yuen Wo Ping, ma anche il look total black di Neo che Keanu sfoggia nell’interpretare il suo personaggio nel suo film: Donaka Mark, un oscuro individuo a capo di un’organizzazione segreta che gestisce combattimenti di arti marziali da mandare in streaming per una elitaria platea di ricchi amanti delle lotte, anche, e a volte soprattutto, mortali. Un altro di quei personaggi che Keanu interpreta senza spreco di espressioni e che hanno fatto di lui la star che è: Neo non brillava certo per espressività, come anche l’alieno del remake di “Ultimatum alla Terra” o lo stesso “Piccolo Buddha” la cui interpretazione non necessitava di grande mobilità facciale. Non a caso i premi e le nomination che ha collezionato sono quelle come Attore più attraente, Miglior bacio, Miglior coppia e Miglior combattimento.

Protagonista del film è un campione di Tai Chi (Tiger Chen Linhu) che, in disaccordo col suo vecchio maestro (Yu Hai), applica la tecnica di questa ginnastica-filosofia (fondamentalmente praticata per scopi salutistici) al combattimento inter genere fra diversi stili di arti marziali e, ovviamente, vince sempre nella competizione WuLin. Il giovane combattente viene notato dall’ineffabile Donaka Mark e, dietro ricchi compensi che aiutano il povero ragazzo a fare del bene, lo irretisce nel suo sistema di combattimenti a scopo di lucro e con finale violento. Sistema illegale su cui indaga una solerte ispettrice (Karen Mok) dalle cui indagini inizia il film.

Film che, coi suoi 18 combattimenti per la durata di 40 minuti sui 105 totali, si inserisce di diritto nel genere “arti marziali” inaugurato da Bruce Lee e poi proseguito dal figlio Brandon Lee e da tutte le super produzioni più recenti – è un colossale spreco di denaro e si vede: scenografie sontuose fanno da sfondo ai combattimenti (notevoli) e ai dialoghi (senza vita) di una sceneggiatura che risolve il dilemma del Tai Chi applicato alla lotta in poche battute. Keanu Reeves ha senz’altro la stoffa del regista che dirige con mano sicura grandi sequenze, ma il film, in competizione ravvicinata con capolavori del genere come “la Tigre e il Dragone” risulta perdente: critiche ondivaghe e miseri incassi: a fronte di un budget di 25 milioni di dollari ne incassa negli Stati Uniti solo 5 e mezzo. Dunque sarà difficile che vedremo un’altra regia di Keanu, a meno che per la sua opera seconda non si accontenti dei piccoli budget da cinema indipendente.