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La terra dell’abbastanza, opera prima dei Fratelli D’Innocenzo

Il titolo indubbiamente riecheggia “La terra dell’abbondanza” che nel 2004 il tedesco Wim Wnders ha girato negli Stati Uniti, una terra detta dell’abbondanza con amara ironia: Wenders fa un altro dei suoi film socio-politici in cui parla di senzatetto e reduci di guerra.

I Fratelli D’Innocenzo, così si firmano, sono i gemelli 32enni Damiano e Fabio, romani de Roma, come si dice, nativi di “Torbella”, ovvero il popolare Tor Bella Monaca, e sin da ragazzi sono portati per l’arte, spaziando dalla scrittura alla fotografia e alla pittura. Senza una specifica formazione realizzano dei video e uno spettacolo teatrale, mentre si guadagnano la pagnotta con lavoretti vari di bassa manovalanza. Fra le cose che scrivono ci sono delle sceneggiature e finalmente trovano dei lungimiranti produttori che investono in loro, ed ecco nel 2018 quest’opera prima che li proietta immediatamente sui podi della cinematografia italiana: Nastri d’Argento come migliori registi esordienti, per la sceneggiatura e migliore opera prima; candidature ai David di Donatello, ma quell’anno i premi principali vanno a “Dogman” di Matteo Garrone, che però ha avuto i due fratelli come collaboratori alla sceneggiatura; e poi “La terra dell’abbastanza” raccoglie altri riconoscimenti in giro per l’Italia. In seguito al successo del film pubblicano un libro di poesie, “Mia madre è un’arma”, e il libro fotografico “Farmacia notturna”, a riprova del fatto che i giovanotti hanno molte cartucce da sparare.

Anche il loro film, come quello che orecchiano nel titolo, è un’opera socio-politica, ambientata in una periferia romana in cui non si vede mai la Roma delle cartoline, una periferia come ce ne sono in tutto il mondo; solo il linguaggio, un romanesco veracissimo, colloca e ambienta la storia. Protagonisti sono due amici che frequentano una scuola alberghiera senza precise prospettive, corrono in macchina e corrono la vita senza una direzione, e con la macchina investono e uccidono un pentito di mafia: quello che sembra un dramma è invece il lasciapassare per un salto di qualità all’interno della criminalità organizzata, dove diventano, col soprannome a sberleffo di Cip e Ciop, bassa manovalanza: omicidi e a tempo perso traffico di droga e prostitute e minorenni; tutti compiti che eseguono senza coinvolgimento emotivo, sempre come su un’auto in corsa, fino all’inevitabile incidente successivo: la presa di coscienza.

I due protagonisti sembrano, come si diceva una volta nel neorealismo, presi dalla strada, ma così non è, e anche per questo il neorealismo dei Fratelli ha un valore in più. I ragazzi hanno studiato e fatto cinema e reggono gli intensissimi lunghi primi piani come e anche meglio di tanti attori quotati, per non dire che il loro romanesco è quello vero delle periferie, a tratti biascicato e incomprensibile come è giusto che sia un vero dialetto – con tutto il rispetto per la bella dizione che deve abitare altrove. Andrea Carpenzano, senza studi specifici, debutta da protagonista in “Tutto quello che vuoi” di Francesco Bruni nel 2017 e subito si aggiudica una menzione speciale ai Nastri d’Argento; sarà poi protagonista nel 2019 di un’altra opera prima, “Il campione” di Leonardo D’agostini. Matteo Olivetti è invece al suo debutto: è nato in Inghiterra e parla l’inglese come lingua madre – e a sentire il suo romanesco davvero non si direbbe! – e frequenta scuole di recitazione che lo conducono a questo ruolo che gli varrà un paio di riconoscimenti minori; sarà protagonista in “Occhi blu”, opera prima dell’attrice Michela Cescon, lavorazione ferma per pandemia. Pandemia che ha fermato anche l’uscita dell’opera seconda dei Fratelli D’Innocenzo, “Favolacce”, in cui raccontano – e qui pesco da quello che si legge in giro – le medesime periferie romane ma con uno stile assai diverso, quello da favola appunto, una favola nera che ancora una volta racconta disagi e inadeguatezze umane; una storia che i due avrebbero scritto a 19 anni e che ha avuto il tempo di essere presentata al Festival di Berlino dove ha vinto per la sceneggiatura.

Nel cast troviamo Max Tortora che a mio avviso paga il pegno della sua sovraesposizione come comico: nel ruolo del padre, miserevole e miserabile, di uno dei due, sembra fuori posto perché la sua faccia racconta al nostro immaginario altre cose, e benché sia bravo il suo romanesco è pulito e comprensibile come si conviene in un attore professionista, ma questo stona con il sound generale del film. Non stona invece – benché altrettanto e forse più – volto noto, Luca Zingaretti, che nel ruolo di supporto di capo clan mafioso non ha paura di invecchiarsi e imbruttirsi per aderire al suo personaggio che fa parlare senza enfasi e compiacimenti attoriali. Nel ruolo di madre dell’altro c’è Milena Mancini, ex ballerina professionista per la tv italiana con partecipazioni internazionali a clip e tour di pop-star come Robbie Williams e Ricky Martin. Col passare degli anni, che i ballerini sentono di più, si avvicina alla recitazione e in questo film dà veramente il meglio, tanto da sembrare anche lei una presa dalla strada. Nel cast anche l’ottimo Giordano De Plano come braccio destro del boss, attore con formazione teatrale e molta tv.

Nella terra dell’abbastanza ci si deve accontentare del poco che c’è e vivere, o meglio spendere, le proprie vite senza aspirazioni, perché il futuro – o non cambia – o non c’è.