Archivi categoria: la battaglia di alamo – opera prima di john wayne

La Battaglia di Alamo – opera prima di John Wayne

Non ho mai amato John Wayne e da quando ho potuto scegliere (da adolescente) non ho più visto un suo film, ed estensivamente tutti i film western e di guerra, perché nel mio immaginario portavano tutti il marchio di John Wayne, che da bambino non mi piaceva per istinto e solo da adulto ho saputo trovare le parole per spiegare la mia antipatia: non mi piaceva il suo atteggiamento da super uomo, quello del “so tutto io” e, peggio, da suprematista bianco; ma i miei non erano precoci ragionamenti politici quanto piuttosto, sempre, il mio istinto, la mia natura, il mio personale sentire che mi faceva dubitare che gli indiani fossero così gratuitamente cattivi e feroci, tanto quanto non riuscivo a capire perché i negri dovessero fare gli schiavi. Solo con i film degli anni ’70 – “Corvo rosso non avrai il mio scalpo” “Soldato blu” “Un uomo chiamato cavallo” – per citare i primi tre titoli che mi vengono in mente, film che hanno cominciato a raccontare in modo diverso ragionato revisionista i conflitti con i pellerossa, ho fatto pace con il genere western perché finalmente trovavo alcune risposte ai miei dubbi, e potevo tornare a guardare i vecchi classici sospendendo il mio spirito critico e apprezzandoli per ciò che erano e sono: film spettacolari che raccontano dal punto di vista dei conquistatori l’America da conquistare.

La Battaglia di Alamo sta alla storia degli Stati Uniti d’America come da noi sarebbe, ad esempio, la Battaglia del Piave: una sconfitta territoriale nel percorso bellico di formazione di un’intera nazione. Gli Stati Uniti d’America all’inizio erano 13 colonie inglesi situate sulla costa atlantica, che avevano conquistato l’indipendenza dalla Corona Britannica nel 1776, e non furono tutte rose e fiori dato che i 13 già litigavano fra loro sulla schiavitù dei neri, dividendosi fra abolizionisti a nord e schiavisti a sud. Successivamente si pensò bene di ampliare i territori verso ovest, il selvaggio west, entrando in conflitto con gli abitanti autoctoni che via via gli americani incontravano, ovvero le popolazioni native, che sterminarono in una sorta di vera e propria pulizia etnica che durò fino al 1830, anno in cui fu varata una legge che regolamentava la deportazione dei nativi sopravvissuti in determinate aree di confinamento, dette riserve, e anche quegli stessi territori divennero campi di battaglia per le ricchezze minerarie che nascondevano e perché agli americani sembrava non bastare mai lo spazio conquistato: si sarebbero fermati solo sull’altra sponda, sull’oceano Pacifico.

In questo percorso di conquista, nel 1835 i nostri misero gli occhi sul territorio del Texas che solo pochi anni prima, il 1821, aveva conquistato la sua indipendenza dagli Spagnoli che a loro volta l’avevano strappato ai Francesi, e non dimentichiamo che Francesi e Spagnoli erano anche loro dei conquistatori venuti dall’Europa a soppiantare i nativi. Il Texas faceva gola perché vi erano ricchi giacimenti di argento – il petrolio era di là da venire – e a prescindere dal governo in carica vi si installavano genti di ogni nazionalità europea, compresi i nuovi coloni sedicenti Americani, molti dei quali erano ricchi commercianti possidenti di schiavi che vivevano chiusi nei loro ranch senza rispettare le leggi dello stato che aveva abolito la schiavitù su tutto il territorio messicano. Per contrastarli il presidente Anastasio Bustamante minacciò interventi militari nelle enclave anglo-americane, e per evitare ulteriori colonizzazioni di territori texani da parte dei confederati ne proibì l’immigrazione e, ulteriormente, fece costruire delle fortificazioni lungo il confine: il muro che avrebbe voluto Donald Trump lo avevano già pensato i messicani per difendersi dall’invasione americana. Questo però non fermò l’immigrazione fino al punto che contro 7800 residenti texani si contavano 30000 americani e a quel punto la questione si fece assai spinosa: gli speculatori americani non volevano più dover rendere conto al governo texano e il governo americano già pensava a un’annessione, anche per dare altro spazio a sud agli schiavisti e tenere buoni gli abolizionisti nordisti. Così fra manovre politiche e varie battaglie si giunse ad Alamo.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è image.jpeg

La missione di Alamo presso cui si svolse la famosa battaglia raccontata nel film, prima era la missione religiosa di San Antonio de Valero e prese il nuovo nome dalla città Alamo de Parras da cui provenivano le truppe che la trasformarono in presidio militare, poi abbandonato in rovina. All’interno di quelle rovine si erano installati meno di duecento di quelli che la storia chiamerà eroi texani, ma in realtà i veri nativi texani erano solo 13 di cui 11 con ascendenze messicane; 41 combattenti erano di provenienza europea e il restante centinaio o poco più erano coloni americani che provenivano da altri stati dell’unione, e con loro due neri schiavi. Il film ricorda che erano 185 americani che si sono battuti con forze messicane che li superavano in un numero dieci volte superiore. Nel tempo l’evento si è caricato di enfasi e retorica nella memoria statunitense alimentata dalla fiction cine-televisiva, mentre i messicani la ricordano appena come un episodio secondario di tutto il conflitto con gli Stati Uniti.

Il film fortemente voluto da John Wayne tace tutti i retroscena che metterebbero in ombra il fulgido esempio di patriottismo americano, a cominciare dalla realtà dello schiavismo che fu fra le cause principali del conflitto e, in questo senso, l’opera è un classico della cinematografia dell’epoca con i buoni e i cattivi nettamente schierati su fronti opposti. Ma non del tutto perché Wayne (col suo sceneggiatore James Edward Grant) trova il modo di far dire a uno dei personaggi che i messicani sono brave persone che combattono per le loro idee, mentre dopo la battaglia mostra anche i morti sul campo messicano con un primo piano a una donna anziana che piange, in un apprezzabile tentativo di visione totale sul conflitto. Per il resto John Wayne è il John Wayne che ricordavo, quello “so tutto io” che non disdegna a donne e bambini messicani i suoi sorrisi di amabile superiorità.

John Wayne e Richard Widmark

Erano anni che il divo – al tredicesimo posto fra le più grandi star americane, che per un trentennio,1940-1970, è stato fra gli attori più famosi nel mondo ma che aveva già cominciato a recitare nel cinema muto degli anni ’20 – voleva fare questo film, una storia carica di spirito eroico con protagonisti mitici, a cominciare dall’avventuriero Davy Crockett divenuto eroe popolare protagonista di molta letteratura. E poiché nessuna major era interessata a realizzare il suo film, decide di metterci soldi di tasca sua appoggiandosi alla Republic Pictures che fino ad allora aveva prodotto western di serie B; a quel punto va da sé che sarà anche regista oltre che protagonista. Ma il film costò talmente tanto che il grande successo al botteghino gli fece solo recuperare i soldi spesi e per vedere un po’ di guadagno dovette attendere gli introiti dai passaggi televisivi. Vinse un solo Oscar tecnico per il Miglior Sonoro nonostante fosse candidato anche come Miglior Film, premio che quell’anno, il 1961, andò a “L’appartamento” di Billy Wilder. Non fu candidato come Miglior Regia dato che nell’ambiente era noto a tutti, benché non ufficialmente dichiarato, che l’amico John Ford regista di tanti film di Wayne gli aveva dato più di una mano durante le riprese. Il film che circola in tv è la versione corta di quasi tre ore a fronte di quella originale di ben quattro ore che meglio spiegherebbe gli attriti fra i personaggi di Bowie e Travis, nonché l’avventura romantica di Davy Crockett e, in ogni caso, le tre ore di film scorrono velocemente, ancora oggi, a riprova della sua validità anche a sessant’anni di distanza.

Chill Wills

Il film non gli portò neanche la candidatura come Attore Protagonista ma solo quella al Non Protagonista Chill Wills, un vecchio caratterista canterino che nel film ha il compito di alleggerire la vicenda. Nel ruolo dell’altro eroe Jim Bowie a capo di un drappello di volontari irregolari, Wayne avrebbe voluto Charlton Heston che invece rifiutò proprio perché non voleva essere diretto dal collega e, diciamola tutta, in un ruolo secondario rispetto a quello di Wayne, così la parte andò a Richard Widmark, ottimo attore che passava dai protagonisti agli antagonisti e che diede al personaggio quel tono un po’ canagliesco che l’aureo Charlton Heston non avrebbe potuto dare: non dimentichiamo che Jim Bowie fu anche un attivo schiavista. L’altro protagonista, il colonnello dell’esercito regolare William Travis, è interpretato dal meno noto Lawrence Harvey, in quegli anni apprezzato interprete di personaggi freddi e apparentemente senz’anima, dunque un’altra ottima scelta nel terzetto dei protagonisti, fra i quali gigioneggia al suo solito modo il solito John Wayne, quanto mai intriso di tutta la sua retorica, che qui sfoggia il famoso cappello di pelliccia di opossum alla Davy Crockett con tanto di testa dell’animale sulla fronte a mo’ di stemma.

LAURENCE HARVEY & PATRICK WAYNE in "The Alamo" Original
Richard Boone, Lawrence Harvey e Patrick Wayne

Fra gli altri personaggi realmente esistiti Richard Boone interpreta il Generale Sam Houston che non riuscì a inviare gli aiuti per tempo ma sconfisse il generale messicano Antonio López de Santa Anna in una successiva battaglia e poi eletto primo presidente del Texas americanizzato; mentre il Capitano James Butler Bonham lo interpreta il primogenito Patrick Wayne, che dal padre aveva ereditato altezza e fascino ma non a sufficienza da farlo emergere come stella di prima grandezza.

Aissa Wayne e Joan O’Brien

Nel resto del cast il giovane cantant’attore Frankie Avalon (all’anagrafe Francis Avallone) immaginato come unico superstite maschio adulto della battaglia perché inviato a chiedere aiuto al Generale Houston. L’argentina Linda Cristal (Marta Victoria Moya Burges) e l’americana Joan O’Brien hanno il compiuto di alleggerire il film con la loro femminilità, la prima facendo intuire una storia d’amore con Davy Crokett, la seconda come superstite al massacro insieme a uno schiavetto nero e alla bionda figlioletta interpretata da Aissa Wayne, figlia di terzo letto del patriarca John.

La quale, proseguendo negli ideali politici del padre, da anziana bella signora bionda ha appoggiato un altro patriarca della destra americana, Donald Trump, fino a dichiarare che gli attivisti progressisti americani odiano la figura di suo padre perché fu un uomo forte e indipendente, un odio che si estende a tutto il cinema western considerato veicolo di razzismo e suprematismo bianco. E probabilmente ha pure ragione dato che da quelle parti il revisionismo ad alzo zero del politically correct è una piaga che non conosce mezze misure né contestualizzazione dei fatti e dei personaggi nel loro tempo. Di fatto, the Duke, come veniva rispettosamente chiamato John Wayne, era talmente di destra da fondare la “Società Cinematografica per la Salvaguardia degli Ideali Americani” che si poneva lo scopo di difendere l’industria del cinema, e attraverso essa l’intera società, dalla perniciosa infiltrazione del pensiero comunista e, sulla carta, anche fascista. Nel loro statuto, fra le altre cose, si leggeva: “Nel nostro speciale campo della cinematografia, siamo allarmati dalla crescente impressione che questa industria sia composta e dominata da comunisti, radicali e pazzi. Noi crediamo di rappresentare la stragrande maggioranza delle persone che servono in questo grande mezzo di comunicazione. Ma purtroppo essa è stata una maggioranza disorganizzata…” Può sorprendere che vi aderirono beniamini del nostro immaginario cinematografico come Walt Disney, Gary Cooper, Clark Gable, Barbara Stanwyck, Ginger Rogers e, ma lui non sorprende, Ronald Reagan. La società ebbe vita fino al 1974.

The Duke era nato come Marion Robert Morrison e aveva all’incirca quattro anni quando i vicini di casa cominciarono a chiamarlo Big Duke perché andava sempre in giro col suo cagnolino Little Duke, e poiché quel soprannome gli piaceva più del nome Marion, se lo tenne e così si fece conoscere crescendo. Ma il completo nome d’arte John Wayne gli venne dalla casa di produzioni dove aveva cominciato con piccoli ruoli nei film della star del muto Tom Mix. Al suo primo ruolo da protagonista in “Il grande sentiero” del 1930, il regista Raoul Walsh gli suggerì il nome d’arte Anthony Wayne in onore al generale che aveva combattuto nella Guerra d’Indipendenza dall’Inghilterra, e se ne deduce che i due si fossero già riconosciuti come osservanti patrioti; ma poiché al boss dello studio il nome Anthony suonava troppo italiano alla fine scelsero John, John Wayne. Peccato che l’interessato non fosse presente alla scelta del nome che lo avrebbe consacrato star internazionale per i successivi quarant’anni!