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Il Colosso di Rodi, opera prima di Sergio Leone

Non tutti gli estimatori di Sergio Leone sanno che il suo primo film è questo “peplum”, genere molto in voga all’epoca di qua e di là dell’Atlantico, che gli americani chiamano “sword-and-sandals”. Il film è del 1961 e vale la pena fare una rapida panoramica sui titoli di quell’anno. In Italia escono “La dolce vita” di Fellini, “Accattone” di Pasolini e “Divorzio all’italiana” di Germi. Dall’America arrivano invece “Il Re dei Re” di Nicholas Ray, “Colazione da Tiffany” di Blake Edwards, ma anche il musical “West Side Story” di Jerome Robbins e il disneyano “La carica dei 101”. Tutti titoli che ancora oggi vale la pena vedere e rivedere.

Il 32enne Sergio Leone non è però un debuttante allo sbaraglio. Figlio di attori dell’epoca del muto, a 18 anni comincia a muoversi sui set e come comparsa appare in “Ladri di biciclette” di De Sica del ’48, ma nei primi anni ’50 lo ritroviamo già assistente alla regia o addirittura regista della seconda unità – e questo dice molto sulle sue capacità – in importanti film che gli americani venivano a girare a Roma – per la sua speciale luce, il suo sole, e soprattutto i bassi costi di manodopera altamente qualificata. Cinecittà, venne rinominata per l’occasione Hollywood sul Tevere, e Leone si ritrovò a dirigere scene secondarie in film della portata di “Quo Vadis” di Mervyn LeRoy, “Sodoma e Gomorra” di Robert Aldrich, “Elena di Troia” di Robert Wise e soprattutto il pluripremiato (11 Oscar) “Ben-Hur” di William Wyler: tutti film “sword-and-sandals”. Nel 1959 subentra alla regia di “Gli ultimi giorni di Pompei”, di cui era co-sceneggiatore, causa malattia del regista Mario Bonnard, col quale firmerà a quattro mani la regia: un peplum catastrofico, che insieme alle esperienze americane, avvia Sergio Leone a questo suo primo film firmato in solitario – ma scritto però insieme ad altri sette sceneggiatori.

Prendendo spunto dal mitico Colosso di Rodi scrivono una favola assai accattivante, molto dinamica nella struttura, ricca di colpi di scena e tradimenti, inganni e rivelazioni, cambi di casacca e di prospettiva, che il 32enne dirige con mani sicura, anzi sicurissima, confezionando un kolossal di tutto rispetto nonostante un budget limitato, povero rispetto a quelli hollywoodiani: per fronteggiare le ricche produzioni degli Stati Uniti, in Europa si univano diversi stati in coproduzioni le cui cifre restavano però un decimo, e solo il vero talento poteva sopperire a tanta differenza: Sergio Leone lo dimostrò tutto confezionando un film spettacolare che non perde mai il ritmo, con scene assai impegnative nel movimento di masse – quelle che oggi vengono create digitalmente – e battaglie ricche di profondità con scene di duelli su più livelli visivi, anzi con un surplus di acrobazie che mancano nei corrispettivi americani. La sceneggiatura fa del Colosso una costruzione cava che contiene, oltre alle lunghe scalinate in salita, botole e marchingegni che, insieme ai personaggi traditori e doppiogiochisti, sembrano appartenere più alla cultura rinascimentale che a quella greco-romana: ma la forza del film è anche in questa sua scrittura che tiene sempre in sospeso lo spettatore in due ore e mezza di film: non faccio fatica a usare il termine “magistrale”.

Ho parlato di favola in quanto il mitico Colosso realmente esistito sull’isola di Rodi era stato edificato solo come faro all’ingresso del porto: pare che fosse alto 32 metri e restò in piedi 67 anni, quando fu distrutto da un catastrofico terremoto. Altrettanto, nel film, crolla in seguito al cataclisma, ma non dura che pochi giorni: da quello della sua inaugurazione ad opera di Re Serse, e posto davanti al porto con le due maestose gambe di qua e di là delle banchine dell’imbocco, per evitare che navi nemiche accedessero, facendovi rovinare sopra i carboni ardenti dell’enorme braciere che il colosso teneva fra le mani: fantasia allo stato puro, ma fantasia narrativa vincente.

Del vero Colosso possiamo ricordare che riproduceva il dio Helios, fondatore della città, opera di Carete di Lindo (discepolo di Lisippo) e che probabilmente non aveva le gambe spalancate sopra l’ingresso del porto; che assai più probabilmente era stato edificato su una collina retrostante il porto, e che dopo la caduta e nonostante fosse sommerso veniva ancora ammirato dai turisti dell’epoca, fino a che Rodi non fu conquistata dagli arabi che ne smembrarono i resti per venderli a un mercante ebreo.

Tornando al film è interessante parlare del cast, in cui c’erano attori – come era anche fra la troupe tecnica – che provenivano dai differenti Paesi produttori e che recitavano, come si vede dal labiale, ognuno nella propria lingua, cosicché il set dev’essere stato una vera Torre di Babele. Ma il protagonista doveva essere per forza americano per riuscire a vendere su quel mercato (opportunamente doppiato) il prodotto europeo; e non sempre accadeva, o perché il film non meritava lo sforzo o perché la star non era così importante (causa budget limitati) da suscitare l’interesse dei distributori. Ma come dimostrano anche le locandine nelle varie lingue, “The Colussus of Rhodes” fu distribuito dalla MGM, incassò però solo 350mila dollari, pari a circa 3 milioni di dollari attuali.

Per il ruolo del protagonista, l’ateniese Dario in vacanza e Rodi e coinvolto nel complotto per spodestare il re, era stato scritturato il supporter character John Derek, genere Errol Flynn dei poveri con dignitosa carriera, già attivo come regista in tv, che vide nel film europeo l’occasione per fare il salto di qualità e auto incoronarsi regista per il grande schermo: entrò in conflitto con Sergio Leone, a suo dire inesperto e incapace, proponendosi di sostituirlo nella direzione, ma il resto del cast – molti dei quali già diretti d Leone in precedenza – si schierò col regista titolare, e John Derek fu costretto a fare i bagagli e tornare in patria dove si autodiresse in un paio di film che nessuno ricorda. Divenne però famoso come marito di belle signore del grande schermo: prima Ursula Andress e poi Linda Evans; nel frattempo dirige un porno e poi a 50 anni sposa la 20enne Mary Cathleen Collins che prenderà il nome di Bo Derek e che lui dirigerà in alcuni film che gli varranno il Razzy Award come peggior regista: chi si ricorda “Bolero Extasy”?

Venne sostituito da Rory Calhoun, altro belloccio molto attivo nei western, ed erano coprotagonisti l’italiana Lea Massari, attrice di provenienza teatrale la cui recitazione è una spanna sopra tutti gli altri e in quegli anni molto attiva al cinema, lo spagnolo Conrado San Martìn e il francese Georges Marchal. Fra gli altri nomi che oggi non ci dicono niente, vale la pena ricordare l’altro italiano Mimmo Palmara, un sardo che dopo aver frequentato l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, spopola nei peplum per il suo fisico possente e le capacità acrobatiche che molti attori odierni si sognano, e che poi con lo pseudonimo Dick Palmer continuò la sua carriera negli spaghetti-western, genere “inventato” da Sergio Leone quando il peplum passò di moda.

Resta da dire che questo primo film di Sergio Leone, è l’unico il cui commento sonoro non è curato dal suo amico ed ex compagno di scuola delle elementari Ennio Morricone. Infatti la colonna sonora è di Angelo F. Lavagnino e si sviluppa in segmenti che accompagnano pedissequamente l’azione: trombe e tamburi nelle scene virili e xilofono arpa e violini quando è in campo una donna.

Sergio Leone, oggi grande maestro del cinema italiano e internazionale, che ha ispirato registi come Sam Peckinpah, Martin Scorsese, Brian De Palma e Quentin Tarantino, ha in realtà una filmografia fatta di soli 7 titoli conclusa con l’affresco di “C’era una volta in America” col quale reinventa il genere “american gangster” e dà agli stessi americani una lezione sulla loro cinematografia. Breve filmografia anche per la morte relativamente prematura, a 60 anni. E pensare che sarebbe potuto restare vittima, tanti anni prima, nel 1969, nel massacro compiuto dai seguaci di Charles Manson nella casa hollywoodiana di Roman Polanski: era stato invitato a un dopocena da Sharon Tate, ma poiché timidamente non riteneva il suo inglese all’altezza di una serata mondana, declinò l’invito. Con la morte.