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Duel, opera prima di Steven Spielberg

L’opera prima di Steven Spielberg è controversa ma questo film viene accreditato come tale a maggioranza. Per tanti la sua opera prima è il lungometraggio “Firelight” che a 17 anni girò in super8 con un budget di 500 dollari datigli dai genitori e proiettato nel cinema locale preso in affitto dal padre e coi biglietti a un dollaro; il film, che guarda un po’ parlava di alieni, ne incassò 501. Mentre “Duel”, benché film professionale prodotto dalla Universal, era un film televisivo di 74 minuti poi allungato a 90, con l’aggiunta di scene prima tagliate, per il mercato cinematografico europeo, e in questa versione divenne un cult e universalmente indicato come opera prima.

Il ragazzo, che inizialmente si firmava Steve Spielberg, cominciò a fare i suoi primi film sperimentali a 13 anni, coinvolgendo le quattro sorelle e i compagni di scuola, perlomeno quelli che non lo bullizzavano chiamando “sporco ebreo”, e come dice in un’intervista, allora fare film fu la sua salvezza perché in Arizona “potevi solo ascoltare crescere i cactus”: il nulla assoluto per un adolescente dall’intelligenza eversiva. Sempre usando le sue parole, il super8 divenne la sua penna con cui riscrivere la realtà, e i suoi cortometraggi furono principalmente ispirati ai film bellici e western che vedeva al cinema. Punto di svolta, sempre a suo dire, fu “Lawrence d’Arabia” di David Lean, la cui grandiosità lo mise in crisi: non sarebbe mai stato capace di fare film così, ma poi superando la crisi decise di studiare cinema per diventare un professionista.

Dopo il diploma si trasferì in California per frequentare un corso di cinematografia alla University of Southern California ma per ben due volte fallì l’esame di ammissione; così ripiegò su studi classici presso un’altra università statale e nel frattempo cominciò a intrufolarsi agli studi Universal, a fare domande di ogni genere a ogni genere di tecnico, e una volta riuscì a confondersi in una troupe che stava girando con Alfred Hitchcock: scoperto venne cacciato. Ma il mito racconta che successivamente riuscì a occupare un ufficio vuoto e per qualche mese mise anche la targa col suo nome sulla porta: anche quella volta fu cacciato, ma il suo destino alla Universal era segnato.

Conobbe un certo Denis Hoffman, un tizio che a sua volta voleva accreditarsi presso la Universal come produttore, che diede al giovane regista 25mila dollari per il suo primo cortometraggio girato con mezzi professionali: “Amblin”, storia d’amore fra due hippy adolescenti che dal deserto viaggiano fino al mare; e “Amblin Entertainment” sarà la sua casa di produzione fondata nel 1981. Con questo corto Spielberg vinse l’Atlanta Film Festival e finalmente ottenne un contratto settennale alla Universal, dove comunque era rimasto segnalato e tenuto sott’occhio. Ma il contratto con l’aspirante produttore prevedeva delle clausole capestro che avrebbero legato il giovane regista per i successivi dieci anni: il produttore, in cambio di quei 25mila dollari avrebbe avuto il 5% degli incassi di tutti i film girati da Spielberg nel decennio successivo. Ma ora Spielberg non era più un regista indipendente da poter sfruttare e lavorando come regista tv per la Universal ebbe un periodo di formazione assai importante, e tranquillo dal punto di vista economico. Diresse Joan Crawford senza lasciarsi intimorire, e Peter Falk in un episodio di “Colombo”.

Il 1971 è l’anno di “Duel”, dal racconto omonimo di Richard Matheson che lo sceneggiò. Quando lo vidi in tv diversi decenni fa rimasi folgorato per il suo ritmo e anche oggi l’emozione non cambia. E’ il duello che un mite automobilista, impiegato di commercio, è costretto a intraprendere con una gigantesca autocisterna dopo un sorpasso: il bestione, che sembra vivere di vita propria dato che non vedremo mai il suo conducente, si fa sempre più cattivo e non dà più tregua al pover’uomo. In pratica si tratta di un lungo inseguimento su strada ma è girato con tale maestria, e montato altrettanto magnificamente da Frank Morriss, da tenere lo spettatore incollato allo schermo, ancora oggi. A metà film c’è una pausa ristoro in un caffè ristorante dove il film si fa più letterario con i lunghi pensieri del protagonista che cerca di individuare l’autista nemico fra la mezza dozzina di altri uomini che sono nel locale: anche qui, però, complice la musica e il montaggio, la tensione non cala, rallenta solo quel tanto per farci prendere respiro prima della corsa finale.

A detta dello stesso Spielberg l’autocisterna è la sua visione dei bulli che lo perseguitavano, e mette in campo quello che sarà un suo tema ricorrente: l’uomo comune che fronteggia situazioni straordinarie. E’ un film al quale tutti i film d’azione automobilistica devono qualcosa. Fu girato in soli 13 giorni e la produzione voleva costringere il regista a rigirare il finale perché avrebbero voluto che l’autocisterna, cadendo giù nel burrone, esplodesse spettacolarmente, mentre Spielberg impose, e meno male, la sua visione del bestione che muore lentamente: dettagli dei suoi rottami, refoli di fumo come ultimi respiri, una ruota che lentamente si ferma e l’olio del motore che gocciola come sangue.

Unico interprete del film è Dennis Weaver, attore principalmente televisivo nella scuderia Universal che in cinema restò sempre un comprimario, in genere come uomo tutto d’un pezzo, militare o sceriffo, ma qui nel ruolo per lui inconsueto dell’uomo comune, debole e vittima, che però si riscatta in modo inaspettato.

Per concludere la vicenda del contratto-capestro: dopo il successo planetario de “Lo Squalo” del 1975, sempre Universal, Spielberg riscattò quell’accordo versando 30mila dollari, anche se nulla gli era dovuto avendo firmato quel contratto da minorenne, e quindi non legalmente valido. Nonostante questo il sedicente produttore Denis Hoffman ci ritentò nel 1995 chiedendo un risarcimento di 33 milioni di dollari ma non ebbe più nulla.

Qui di seguito, eccezionalmente su YouTube, il film completo.