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Chi lavora è perduto – opera prima di Tinto Brass

Il giovane Tinto Brass in un ritratto di Ugo Mulas

Anni ’60, cinema e lavoro. Dopo “La giornata balorda” ecco il film d’esordio del trentenne Tinto (Giovanni) Brass, con un cognome di origini austriache. Nato a Milano è cresciuto a Venezia e in quella città con quella parlata colloca questo suo primo film, subito censurato per ragioni politiche e siamo ancora lontani dalla deriva erotica del suo cinema. Come “La giornata balorda” è una coproduzione franco-italiana e francese è l’attore protagonista, ma la coproduzione non è soltanto un affare commerciale quanto davvero una conseguenza culturale avendo avuto Brass proficue frequentazioni oltralpe: si era laureato in giurisprudenza con la tesi “Rapporti di lavoro con imprese della produzione cinematografica”, perché nel cinema vedeva già il suo futuro, e trascorse un biennio come archivista presso la “Cinémathèque” di Parigi dove ebbe modo di avvicinarsi anche agli ambienti della nascente Nouvelle Vague che influenzerà i suoi primi film.

Come assistente del documentarista olandese Joris Ivens e del nostro Roberto Rossellini deve avere imparato molto se al suo debutto fa tutto da solo e scrive dirige e monta il suo primo film, oltre a fare da controfigura al protagonista nella voga durante la regata, e a doppiare con accento veneto il romano (di Frascati) Tino Buazzelli. Era il 1963 e il suo film si intitolava “In capo al mondo” e, cosa abbastanza nuova per l’epoca, recava un claim in veneto abbastanza vistoso: “Mondo can, mondo boia, se crepa de fam, se crepa de noia. Mondo boia, mondo can, che ernia per un toco de pan”, che in pratica è la filosofia spicciola su cui è costruito il film. La censura intervenne subito bollando così il lavoro: “Il film, oltre a essere offensivo del buon costume sessuale, è altamente offensivo di quello morale e sociale, è distruttore di tutti i valori spirituali, è scurrile nel linguaggio” e impose all’autore dei pesanti tagli. Che fece Tinto Brass? cambiò titolo e non tagliò nulla, operazione di re-styling tutta esteriore che gli fu resa possibile dall’insediamento del governo di centro-sinistra in quegli anni, con preciso riferimento al ministero dello spettacolo in mano ai socialisti. E fece di più: se il titolo “In capo al mondo” poteva significare tutto e il contrario di tutto, re-intitolando il suo film “Chi lavora è perduto” rende più esplicito il messaggio che contiene e si fa beffa dell’istituzione della censura.

La guerra è finita da meno di vent’anni e gli adulti dell’epoca l’hanno vissuta insieme al regime fascista: queste radici sono presenti nel film; gli anni della contestazione, il ’68, sono di là da venire ma Tinto, che ha viaggiato e ha sentito gli umori che serpeggiavano oltre l’arco alpino, anticipa i tempi con un’opera sperimentale e assolutamente nichilista. Il suo film è un monologo, non autobiografico come ha precisato in seguito, ma certamente significativo del suo sentire. Il protagonista si chiama Bonifacio, come il figlio dell’autore, e il film si apre mentre scappa correndo via da un colloquio di lavoro, con la voce dell’esaminatore che lo insegue col timbro grottesco di un personaggio da cartone animato, mentre lui snocciola una filastrocca a mo’ di sberleffo. E per tutto il film, un one day movie, vaga per una Venezia estiva ricordando eventi della sua vita che vediamo in flash back o fotografando col suo sguardo la realtà che lo circonda, e che commenta, snocciolando nel mezzo tre parole chiave che sono il suo credo: erotomania, pornomorale, abortocredo.

Scena del film "Chi lavora è perduto" - Regia Tinto Brass - 1963 - Gli attori Pascale Audret e Sady Rebbot scherzano tra loro in una stanza
Una scena del film

Il monologo come voce fuori campo del personaggio è recitato da Tonino Micheluzzi, che fu ultimo erede delle compagnie del teatro di tradizione veneto, e solo qua e là le scene sono dialogate, nei ricordi, nelle fantasie grottesche e negli incontri odierni. Si parte dall’infanzia quando il bambino al catechismo era carezzato con troppa insistenza dalla mano moscia, che immaginiamo anche sudaticcia, del prete, e il protagonista si chiede, osservando una confessione, che senso ha quella cosa. Poi passando da un cimitero fra le tombe ancora aperte viene redarguito da un guardiano perché sta fumando, e le tombe non sono posacenere, e il nostro allora si chiede che differenza ci sia fra cenere e ceneri. Già basta questo a sconvolgere la censura. Ricordando la sua relazione con Gabriella, Bonifacio fa l’elogio del sesso senza amore e le scene che vediamo, benché oggi vediamo molto di più nelle serie tv, sono per l’epoca davvero sensuali, carnali, avvolgenti: i baci sono a labbra aperte e umide e c’è una naturalezza, anche una scompostezza, non ancora usuale per gli schermi dell’epoca: Tinto Brass è ancora ben lontano dal divenire il maestro del cinema erotico italiano, ma è subito chiaro sin da questo suo primo film – erotomania, pornomorale, abortocredo – che ha una sua precisa visione del corpo e del libero uso che ognuno ne deve fare, e del libero linguaggio col quale un cineasta lo può raccontare, e non casualmente parla anche di aborto.

Bonifacio-Tinto è in guerra contro tutto, è comunista – suo maestro di partito è il Claudio interpretato da Tino Buazzelli – ma è soprattutto un nichilista che non trova valore in nulla e a nulla sembra dare valore, e spende la sua giornata a bighellonare per la città osservando le persone che vivono le loro vite senza senso. E in questo è anche il guardone che Tinto sarà esplicitamente un paio di decenni più tardi: il protagonista spia col cannocchiale una donna discinta alla finestra, ma si aggira in spiaggia spiando anche i bagnanti, e le riprese sono rubate su soggetti reali, persone in costume in pose scomposte, coppiette che si appartano fra i cespugli dell’entroterra, un gruppo di reduci della guerra che espongono gli arti mancanti e le storpiature rimaste; lui stesso fa il bagno nudo liberandosi delle mutande come ultimo vincolo con la società in cui si sente alieno. Non sa se il colloquio di lavoro è andato bene ma soprattutto non sa se accetterà quel lavoro, perché come ammonisce il nuovo titolo “chi lavora è perduto” anche in una repubblica democratica fondata sul lavoro, come recita il primo comma della nostra costituzione che lui manda al macero; e non può non ricordare la scritta beffardamente tragica sui cancelli dei lager tedeschi: il lavoro rende liberi.

Il film, oggi selezionato fra i 100 film film italiani da salvare, non è facile da seguire per il suo profluvio di pensieri spesso in un veneto stretto, per il montaggio alla ricerca di soluzioni sperimentali e molto frammentato, un film già molto dinamico nelle riprese con l’ampio uso di zoom e carrellate, e che sin dalle prime immagini risulta ardito e poco convenzionale, anche oggi che abbiamo visto di tutto. Tinto Brass anticipa i tempi ed è già un contestatore con un film che è l’apologia dell’insofferenza al potere, qualsiasi esso sia. E non si può non considerare che alla sua opera prima fa un film assolutamente personale, che ha l’urgenza di dire la sua visione della realtà senza preoccuparsi di dover piacere, di essere accettato e premiato, tutt’altro… E’ vero, quelli erano altri tempi, la società stava cambiando i propri modelli culturali e un giovane cineasta non poteva non tenerne conto (tanto quando quelli meno giovani, beninteso) ma facendo un arditissimo parallelo col cinema odierno c’è da osservare che i registi di oggi alla loro opera prima non confezionano altro che un compito bene eseguito con l’intento di farsi accettare nel sistema: non mancherebbero gli spunti per odierne contestazioni sociali ma oggi non ci sono più debuttanti che hanno il coraggio di dire che sono dei ragazzacci e che il mondo fa schifo. Per lo meno non nel cinema nostrano.

Sady Rebbot è l’attore francese che presta volto e fisicità al protagonista di Tinto Brass, e che forse a causa di questo personaggio poco allineato e a tratti anche irritante non avrà una carriera in Italia, al contrario di tanti altri suoi colleghi, vedi il Jean Sorel di “La giornata balorda”; era già stato protagonista per Jean-Luc Godard in “Questa è la mia vita” e avrà una buona carriera in patria, passando anche per il doppiaggio e la televisione; è morto di cancro 59enne. Stesso discorso per l’altra francese, Pascale Audret, che interpreta la Gabriella del trascorso di Bonifacio, e la cui carriera resterà entro in confini nazionali. Anche lei morirà prematuramente in un incidente stradale, 63enne. Stessa morte prematura per l’altro nome di punta, Tino Buazzelli, equamente diviso fra teatro cinema tv e radio, scomparso a 58 anni per una patologia infiammatoria del sistema linfatico. L’eclettico Franco Arcalli – che non accreditato collabora alla sceneggiatura del film che Brass ha firmato insieme all’altro eclettico Giancarlo Fusco – qui interpreta l’amico finito al manicomio proprio a causa del suo pensiero non allineato alla morale vigente; Brass lo introduce anche al lavoro di montatore e come tale, oltre che come sceneggiatore, avrà una brillante carriera collaborando con grandi registi in importanti film. Altri interpreti sono Piero Vida e Nando Angelini.

L’ottantottenne Tinto Brass ha scelto di abbandonare il cinema serio, o serioso come lui dice, per dedicarsi quasi completamente al cinema erotico: non era più tempo di contestazioni e, seguendo certamente una sua personale passione, l’unico modo di fare contestazione ed eversione è stato per lui l’erotismo, fino alla deriva dell’eros fine a se stesso nel soft porn dove si compiace di mostrare molte vagine mentre gli uomini sfoggiano solo falli di silicone: ci spinge ad immaginare un mondo erotico dove nel suo harem lui è l’unico reale beneficiario mentre i suoi figuranti non sono altro che eunuchi dalla virilità fittizia… ma questa è un’altra materia per altre riflessioni. Cinematograficamente aveva già ampiamente sperimentato con “Salon Kitty”, 1975, nel cast Helmut Berger e Ingrid Thulin, e “Caligola”, 1979, con Malcom McDowell, John Gielgud, Peter O’Toole e altri interpreti eccellenti: il primo denso delle atmosfere morbose già viste in Luchino Visconti o Liliana Cavani, il secondo come personalissima ricostruzione storica e oggi considerato come uno dei più malfamati film cult. Segue “Action”, una sorta di grottesca riflessione sul rapporto fra pornografia e cinema, e poi si dedica completamente al cinema non serio o serioso denudando una non più giovane Stefania Sandrelli in “La chiave” dal romanzo di Tanizaki Jun’ichirō. Dal successivo “Miranda” liberamente ispirato a “La locandiera” di Goldoni che crea il fenomeno Serena Grandi, e si libera dalle limitazioni che gli attori di rango impongono, è tutto un percorso in discesa in cui il discorso eversivo resta sempre più sullo sfondo, messo in ombra dalla gioiosa carnalità delle sue interpreti, dive di un cinema per guardoni in cui lui stesso si mette in scene come tale in diversi camei. Si prende una sola pausa nel 1988 con l’interessante “Snack Bar Budapest” interpretato da Giancarlo Giannini. Sulla recente pandemia ha dichiarato: “State a casa e dedicatevi ai giochi erotici. Meglio morire godendo che di coronavirus. Il sesso è vita. Bisogna scegliere di vivere senza avere indecisioni. Ho 88 anni e non ho più tempo per cambiare idea”. Il suo ultimo film “Monamour” è del 2005 e da allora praticamente non esce più di casa e sta lavorando insieme alla moglie alla sua autobiografia: ne leggeremo di tutti i colori.

Con la moglie Caterina Varzi

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