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Palazzina Laf – opera prima di Michele Riondino

Con l’opera prima di Michele Riondino ritorna il cinema di impegno civile, quello che negli anni Sessanta e Settanta vide dietro la macchina da presa autori come Francesco Rosi, Florestano Vancini, Giuliano Montaldo, per dire i primi che mi vengono in mente: cinematografia che aveva una sua ragione d’essere scoprendo come racconto la denuncia sociale e le malefatte del potere, cinema che in quegli anni si proponeva come alternativa alla commedia all’italiana; cinematografia che non ha mai smesso di esistere e che si è ravvivata in questi ultimi due decenni dei Duemila.

Il tarantino Riondino, trasferitosi a Roma per frequentare l’Accademia Nazionale di Arte Drammatica, è uno di quei fortunati che ce l’hanno fatta in un ambiente in cui la fortuna conta più del talento: e lui il talento ce l’ha, insieme a un suo discreto fascino che certo non guasta. Accumula candidature ai premi ma afferra solo il Premio Guglielmo Biraghi assegnato dai giornalisti per “Dieci inverni” del 2009 del debuttante Valerio Mieli. Fino a questi David di Donatello 2024 in cui è ovviamente candidato come regista debuttante accanto a Beppe Fiorello per “Stranizza d’amuri”, Micaela Ramazzotti per “Felicità” e Paola Cortellesi che con “C’è ancora domani” porta via il premio, come da previsioni; al suo film vengono però assegnati due premi di peso: quello per il miglior protagonista a lui personalmente e quello per il non protagonista a Elio Germano, oltre alla miglior canzone originale a Diodato (Antonio) anche lui tarantino benché nato ad Aosta, ma si sa che la gente del sud si sposta molto.

Non sorprende il debutto socialmente impegnato di Riondino: a Taranto è nel “Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti” nato nel 2012 per puntare l’attenzione pubblica sui problemi tarantini legati all’occupazione e all’Ilva nello specifico, comitato che organizza in città il concertone del 1° maggio chiamato “Uno maggio Taranto libero e pensante” di cui il nostro è da qualche anno anche direttore artistico insieme a Diodato, guarda un po’, e il trombettista siracusano (di Augusta) Roy Paci. La sceneggiatura che Riondino ha scritto insieme al napoletano Maurizio Braucci che non è l’ultimo arrivato: “Gomorra” e “Reality” di Matteo Garrone, “Pasolini” e “Padre Pio” di Abel Ferrara, “La paranza dei bambini” di Claudio Giovannesi, “Martin Eden” di Pietro Marcello, per ricordare i film più noti alla cui scrittura ha partecipato; “Palazzina Laf” dove il LAF e l’acronimo di “laminatoio a freddo” che è lo stabilimento accanto alla palazzina in questione, si ispira al romanzo di un altro tarantino, Alessandro Leogrande, giornalista e scrittore decisamente impegnato sul fronte sociale, che in “Fumo sulla città” ha raccontato le malefatte nell’Ilva del Gruppo Riva che l’aveva acquisita nel 1995 quando l’impresa parastatale fu privatizzata; disgraziatamente lo scrittore è morto all’improvviso poco prima di poter prendere parte alla scrittura del film, che nei titoli di coda gli è dedicato: aveva 40 anni.

Alessandro Leogrande

L’anno dopo la capitale albanese Tirana gli ha intitolato una via del centro riconoscendogli l’impegno che lo scrittore profuse a quella nazione col suo libro-inchiesta “Il naufragio” nel quale ha raccontato l’affondamento della Kater I Rades in cui perirono 81 persone dei 120 migranti, per lo più famiglie con bambini, che nel 1997 si erano imbarcati per raggiungere le coste pugliesi ma la nave fu speronata accidentalmente da una corvetta della nostra Marina Militare impegnata in una manovra di respingimento.

Il film, che non possiamo dire biografico perché è a tutti gli effetti un racconto di finzione, pone il punto di vista di un operaio (Riondino) cooptato da un dirigente (Germano) che in cambio di fittizie fugaci e ingannevoli regalie introduce come sua spia nella palazzina in cui venivano confinati gli impiegati di concetto che si erano opposti alla “novazione” del contratto, ovvero l’illegale declassamento a operai, pratica oltremodo pericolosa per persone che non avevano la preparazione specifica per stare ai macchinari: fatti reali, personaggi fittizi.

Film solido e decisamente diretto con mano ferma e felice, ma a tratti poco accattivante: senza voler diventare rigoroso documentario si fa veicolo per due belle interpretazioni ma la scrittura, scegliendo questa via, avrebbe dovuto essere più generosa con gli attori inserendo un paio di quelle necessarie (a mio avviso) scene madri, monologhi o scene forti, che gratificano gli interpreti e strizzano l’occhio al pubblico – che essendo il fruitore finale e principale va in qualche modo assecondato: a tal proposito basta fare il confronto con le altre opere prime in gara a cominciare dal furbissimo film della Cortellesi che giustamente trionfa. E difatti quest’opera prima di Riondino, rispettabilissima e molto apprezzata dalla critica, è stata praticamente ignorata dal pubblico: ha incassato 750 mila euro in tutto. E se da un lato mi viene da dire “peccato” dall’altro penso “che serva da lezione”. È sbagliato anche o soprattutto il titolo: “Palazzina Laf” dice il contenuto del film ma non è accattivante quanto “C’è ancora domani” che dice il film ma incuriosisce, o “Stranizza d’amuri” o, paradossalmente, “Felicità” che invita a comprare il biglietto ma non racconta assolutamente il film, tradendo poi le aspettative del pubblico: altra trappola in cui non cadere perché il passaparola è determinante. Gli editori, quelli che fanno i libri, sanno quanto siano importanti il titolo e la copertina, e si impongono sempre sulla visione ristretta degli autori. Tornando al film, il titolo del romanzo “Fumo sulla città” sarebbe stato senz’altro più vincente dato che richiama “Mani sulla città” glorioso film di Francesco Rosi del 1963 sulla speculazione edilizia dell’allora boom economico.

Il camaleontico Elio Germano, sempre un passo avanti, era stato chiamato da Riondino per il ruolo dell’operaio protagonista, ma l’attore romano che qui recita in perfetto tarantino, ha scelto il ruolo dell’antagonista perché ha anche il talento di chi sa scegliere i ruoli e ha fatto centro, lasciando all’autore la patata bollente del protagonista che altrettanto fa un ottimo lavoro aggiudicandosi anche lui il premio, ma schivando di un filino il centro: il personaggio è un operaio abbastanza ignorante e anche un po’ ottuso, tanto da lasciarsi infinocchiare dal padrone, ma a Michele Riondino che lo interpreta alla perfezione rimane però, nel suo personale sguardo umano, una luce di intelligenza che il personaggio non ha: sto cercando il pelo nell’uovo, lo so. E qui di seguito mi lancerò in una sterile provocazione, tanto per fare pettegolezzo.

C’è un altro attore pugliese cui il neo autore avrebbe potuto rivolgersi: Riccardo Scamarcio, che rispetto a Riondino (gli è una decina d’anni più anziano) vive su un altro pianeta e di certo i due non sono amici. Si erano ritrovati insieme sul set dell’inutile remake Mediaset del 2006 del glorioso sceneggiato Rai “La freccia nera” da Robert Luis Stevenson allora diretto da Anton Giulio Majano che nel 1968 aveva lanciato Loretta Goggi e Aldo Reggiani, e nel remake lanciando Scamarcio che ne era protagonista accanto a Martina Stella che fece parlare di sé solo per il seno nudo; mentre Riondino aveva un ruolo secondario. Sono poi stati di nuovo insieme nell’infelice fiction Rai “Il segreto dell’acqua” sempre protagonista Scamarcio, Riondino in un ruolo di supporto.

Riondino e Scamarcio si fronteggiano sul set

Diciamola tutta: i due non si sopportano. Avevano già fatto a botte, per finta sul set, beninteso, quando entrambi recitavano gli studenti nella serie Rai “Compagni di scuola” e su richiesta di Riondino la cosa si è ripetuta, sempre per finta, per carità, sul set di questo “Il segreto dell’acqua”, come lo stesso attore ha raccontato a Vanity Fair, e anche lì c’è da capire quanto ci sia di giornalisticamente vero e quanto di ulteriormente fiction: “Quando ho letto la sceneggiatura per la prima volta, Riccardo mi è stato subito sul c…! Ma come, io ho una storia idilliaca con la Lodovini (Valentina, n.d.r.) e basta che arrivi uno Scamarcio qualsiasi per rompere tutto? Per di più, il mio personaggio non doveva mai reagire, ma io ho protestato” e ha ottenuto quello che voleva: fare a botte con lo Scamarcio qualsiasi.

Diversità, fra i due, fondamentali. Scamarcio è intemperante, da ragazzo ha cambiato diverse scuole fino a ritirarsi definitivamente dagli studi probabilmente senza neanche conseguire legalmente il diploma; va a Roma a frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia e anche lì abbandona perché insofferente alle regole e all’autorità – al contrario del più ordinato Riondino che conclude il corso all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica e comincia a lavorare in teatro. Debuttano entrambi in tivù e il più anziano Scamarcio diventa fortunosamente un sex-symbol col giovanilistico “Tre metri sopra il cielo” diventando richiestissimo da registi e produttori: scegliendo accortamente, anche con l’illuminante guida della sua più anziana compagna (fino al 2018) Valeria Golino conosciuta nel 2004 sul set di “Texas” dell’esordiente Fausto Paravidino, si piazza nelle produzioni più interessanti lavorando anche all’estero e recitando in inglese e francese, e facendosi anche produttore oltre che occasionalmente sceneggiatore: insomma si dà da fare. Non ha (ancora) debuttato in regia.

Riondino, che ahilui non è mai assurto al ruolo di sex-symbol, tornando appena possibile al teatro (cosa che Scamarcio ha frequentato da guest star) come già detto resta culturalmente e politicamente legato alla sua terra, segno di una coscienza sociale che in un mestiere che si fa col coltello fra i denti può essere a volte un freno piuttosto che uno slancio – a meno di non farsi autori con una propria visione di cinema, che è quello che adesso ha fatto. Però non ha mai preso parte a produzioni internazionali né men che meno ha recitato in lingue straniere. È stato protagonista di “Il giovane Montalbano”, una produzione con la quale la Rai ha tentato il ringiovanimento del glorioso personaggio per liberarsi dall’ormai ingombrante Luca Zingaretti, che stanco di ripetere il personaggio non ne voleva più sapere, salvo poi accettare compensi stratosferici per continuare stancamente il suo “Montalbano sono”. Riondino è poi stato Pietro Mennea nella bio-fiction sempre Rai e al momento è protagonista della serie “I Leoni di Sicilia” su Disney+.

Dice il neo autore: “Il film racconta una storia vera che in pochi sapevano. La Palazzina Laf si chiama così per il nome di un reparto dell’acciaieria ex Ilva dove venivano reclusi, o condannati a stare in attesa, 79 operatori che non hanno accettato di firmare una clausola contrattuale che li avrebbe demansionati a operai. Ma quegli operatori erano altamente qualificati: ingegneri, geometri, informatici. Quando sono arrivati i Riva nel 1995 avevano subito detto di non aver bisogno di impiegati ma solo di operaiE, per una sorta di rimodulazione dell’assetto produttivo dell’azienda, avrebbero dovuto licenziare un certo numero di persone. In quei contratti però c’era l’art. 18, che impediva al proprietario di licenziare senza giusta causa. Il reparto lager è un reparto italiano e non solo di Taranto, ecco perché questo film non parla solo dell’ex Ilva. Veniva usato alla Fiat, nelle realtà industriali molto importanti per costringere i lavoratori, che si trovavano in quelle determinate condizioni, a licenziarsi o a commettere quell’errore che avrebbe prodotto la giusta causa.”

Gli altri interpreti del film sono tutti tarantini o pugliesi: Vanessa Scalera, Anna Ferruzzo, Domenico Fortunato, Marta Limosani, Michele Sinisi, con Eva Cela nel ruolo della fidanzata, che essendo per nascita albanese (è arrivata in Italia a due anni) il suo ruolo rende implicito omaggio all’autore del romanzo scomparso prematuramente e onorato in Albania.

Una voce umana, un tratto di matita

Questo è un video personale che dopo due anni abbiamo deciso di pubblicare. L’abbiamo girato durante la prima pandemia del 2021 e la post produzione si è protratta fino alla metà del 2022. L’idea iniziale era quella di un cortometraggio ma il materiale era tanto e alla fine il montato è poco più di 50 minuti, in pratica un telefilm, non abbastanza lungo come film, in pratica un mediometraggio che per la sua durata che non ha potuto neanche partecipare ad alcun concorso: i mediometraggi non sono più previsti. Liberamente ispirato a “La voce umana” di Jean Cocteau con Antonella Schirò e Vito Damigella, montaggio di Giorgio Cuccia, musica originale di Matteo D’Alessandro, scritto e diretto dal sottoscritto Camillo Sanguedolce.

Felicità – opera prima di Micaela Ramazzotti

Il 2023 è stato un anno felice per i debutti alla regia di attrici e attori, a cominciare dall’acclamatissima opera prima di Paola Cortellesi “C’è ancora domani” che ha sbancato il botteghino; e vale la pena annotare il documentario biografico della polacca italianizzata Kasia Smutniak che in “Mur” racconta la zona geografica caldissima, di grande attualità, tra la sua Polonia e la Biolorussia; e sul versante maschile debuttano gli attori Alessandro Roja con il suo “Con la grazia di Dio”, Michele Riondino con “Palazzina LAF” e il figlio d’arte Brando De Sica con “Mimì – il principe delle tenebre” oltre ad altri interessanti registi puri (non attori) i cui nomi non ci dicono nulla nell’immediato. Ma non tutti hanno goduto o ancora godono dell’attenzione del pubblico, come nel caso di questo debutto che al Festival di Venezia, presentato nella Sezione Orizzonti, ha ricevuto il Premio Spettatori, e una benevola attenzione della critica che però non ha mancato di segnalare alcune debolezze del film.

A mio avviso la debolezza principale sta proprio nell’attrice che dichiaratamente ha realizzato un film sulla scia del suo personale percorso artistico, senza tentare vie meno comode, come quello della Smutniak, o come quell’altro meno riuscito di Jasmine Trinca che con “Marcel!” ha tentato una favola drammatica senza riuscire a maneggiare appieno il materiale, però; o l’originale thriller psicologico “Tapirulàn” molto ben diretto e interpretato da Claudia Gerini.

Il film di Micaela Ramazzotti, che ha incassato meno di 600 mila euro, è già in chiaro su Sky Cinema per accompagnare l’uscita della serie “Un amore” che interpreta insieme a Stefano Accorsi che l’ha ideata e prodotta, e per l’occasione è intervistata da Omar Schillaci nel suo programma “Stories” nel quale si racconta con una voce da donna adulta che mi stupisce perché mi ero convinto che il suo tono sempre cantilenante di bambina un po’ imbronciata, che è il marchio tipico delle sue interpretazioni, fosse il suo naturale modulo espressivo.

Molto generosamente cita il successo della Cortellesi, rivendicando il ruolo delle attrici nel nostro cinema, e nell’insieme si racconta rivelando che per costruirsi la carriera ha seguito un modello: all’inizio ha capito che andava la svampita e come tale si presentava ai provini e sui set, procedendo passo passo nella carriera di attrice dopo il suo debutto a tredici anni come interprete dei fotoromanzi “Cioè” e il suo primo ruolo significativo lo ebbe a 21 anni come “Zora la vampira” che fu il debutto dei fratelli registi accreditati come Manetti Bros. Il grande successo, e la svolta anche nella vita privata, arriva con “Tutta la vita davanti” di Paolo Virzì, col quale scoccò una scintilla sul set tanto da convolare a nozze; nel film, che le valse la nomination ai David di Donatello come non protagonista, era una giovane madre scombinata, un ruolo che immergeva in un contesto drammatico la svampita che l’aveva condotta fin lì; è un personaggio molto riuscito e Micaela, che fedele alla sua ricerca della via che porta al successo prende a cavalcare anche quel tipo di donna che lei definisce “storta”, un tipo nel quale il pubblico e la critica la apprezzano: è intensa, indifesa e forte al contempo, e dimostra anche sicure doti di commediante, tanto che – volendo fare uno di quegli inutili accostamenti che però aiutano la lettura – un po’ ricorda Monica Vitti.

Avevo notato che funzionavano i personaggi svampiti, leggeri, – racconta a Omar Schillaci – quindi i registi un po’ li ho presi In giro fingendo di essere veramente svampita, leggera, frivola. Poi a un certo punto me lo sentivo stretto, sentivo che forse ero anche io un po’ fraintesa come persona. E allora ho iniziato ad amarle veramente queste donne e a studiarmele seriamente, a scegliere quei personaggi e scegliere appunto le loro storture. Perché ho sempre amato chi sbaglia, l’imperfezione, chi cade e si rialza. Mi è sempre piaciuto portare al cinema quelle donne lì”. Ma è anche vittima di queste sue donne “storte” che le riescono così bene e su questa traccia comincia a pensare al suo film da debutto autorale; lo scrive insieme all’amica attrice livornese Isabella Cecchi, un’eredità affettiva che le è rimasta dal marito livornese ormai ex, e la non identificata Alessandra Guidi. In realtà nessuna delle tre sembra avere un percorso formativo di scrittura cinematografica e proprio la sceneggiatura è la parte più debole del film, insieme all’inevitabile sensazione di dejà vu: quante famiglie problematiche abbiamo visto al cinema?

Perché l’argomento potesse passare indenne da queste forche caudine avrebbe avuto bisogno di qualcosa di nuovo, un punto di vista personale, più forte; invece il film percorre la via della commedia drammatica, in cui l’ex marito è maestro, che sembra essere la nuova commedia italiana del nuovo millennio. La scrittura soffre anche di tante ingenuità, a cominciare dalla vecchissima gag delle parole tecniche o straniere storpiate, una gag che si rifà all’avanspettacolo, a un’epoca in cui l’ignoranza era diffusa e ci si rideva sopra: ma oggi che una certa ignoranza è drammaticamente di ritorno, ancora più grossolana e anche cattiva, essa non fa più neanche sorridere e arriva cinematograficamente patetica; per non dire delle caratterizzazioni dei personaggi e di certe situazioni che sono rimaste nel grezzo stadio embrionale.

C’è poi il suo personaggio di sempiterna svampita in salsa drammatica, personaggio che qui sdoppia nella figura del fratello disadattato, e stavolta davvero la misura è colma: perché se lei maneggia con sicurezza il suo modulo recitativo, a Matteo Olivetti, che abbiamo visto debuttare nel film di debutto dei Fratelli D’Innocenzo “La terra dell’abbastanza”, non riesce altrettanto: l’attore non sembra maturo per personaggi di un tale spessore, e la cosa grave è che continua a biascicare incomprensibilmente come in quel debutto, dove però il biascichio era lì funzionale.

Dal punto di vista tecnico, puramente registico, il film è invece molto ben confezionato: basta notare la sequenza d’apertura che si svolge su un set cinematografico dove la nostra lavora come parrucchiera, con un dolly ripreso da un altro dolly in un gioco di specchi dove il cinema racconta il cinema. Per il resto, come dicevo, l’autrice fa partire la sua storia di famiglia “storta” da quei set cinematografici che da attrice ben conosce, non riuscendo a immaginarsi come autrice in un contesto diverso: insomma va sul sicuro, si butta col salvagente, e coinvolgendo gli amici: il regista Giovanni Veronesi, col quale però non ha girato alcun film, fa sé stesso; e si affida ad ottimi professionisti: fotografia di Luca Bigazzi, montaggio di Jacopo Quadri e musiche dell’ex cognato Carlo Virzì al quale deve in qualche modo la sua fortuna di attrice: era stato lui a notarla e a presentarla al fratello Paolo.

Anche il titolo, “Felicità”, appare alquanto improbabile in questa storia di dissoluzioni familiari, tanto che i giornalisti gliene hanno chiesto conto, e Ramazzotti ha spiegato: “L’ho scelto perché è una parola che sta sulla bocca di tutti noi, quasi sempre durante la giornata, sia ai bambini che ai grandi, è una parola che mi piaceva, è facile, si ricorda. La felicità per quanto riguarda il mio film viene dal meraviglioso termine greco eudaimonìa che è il percorso che una persona fa per arrivare a quella famosa felicità, salire su quel benedetto treno. Perché la felicità insomma, oggi come oggi, è difficile trovarla, bisogna quasi inventarsela. Invece l’eudaimonìa è una conquista, un percorso che uno fa, uno stile di vita, è un andargli incontro.” In realtà i giornalisti hanno chiesto, e l’autrice ha dovuto spiegare, perché nel finale sorella e fratello si avviano verso una loro personale presa di coscienza, consapevolezza – ma la felicità è un po’ troppo oltre – e cinematograficamente il finale è debole, resta lì, sospeso, non finale aperto ma solo non conclusivo. Felicità resta solo una bella parola accattivante che strizza l’occhio al pubblico, per poi deluderlo.

Di gran livello il resto dei coprotagonisti. L’ex comico televisivo Max Tortora, giunto in età più che matura si sta reinventando come caratterista di lusso nel cinema romano e romanesco; fu proprio nel film di debutto dei D’Innocenzo che per la prima volta si confrontò con un personaggio drammatico a tutto tondo; è qui il padre di famiglia della tossica famiglia, con un personaggio evidentemente scritto su di lui: si ostina a fare il comico e l’intrattenitore che in età avanzata sogna ancora una brillante carriera ma intanto sbarca il lunario esibendosi nei centri per anziani. Anche il ruolo della madre è scritto su misura per Anna Galiena, attrice con studi e frequentazioni internazionali, che ebbe il suo exploit a 41 anni nel 1990 nel sensuale ruolo del titolo in “Il marito della parrucchiera” accanto a Jean Rochefort e diretta da Patrice Leconte; fama che nell’immediato le portò qualche altro bel ruolo ma con l’avanzare degli anni la sua carriera si è stabilizzata nei ruoli di supporto ancorché importanti.

Qui Ramazzotti le offre un’autocitazione quando il personaggio ricorda il suo passato di parrucchiera che tutti desideravano. Detto questo, l’ottuso razzismo e la grettezza dei personaggi, benché resi benissimo dagli interpreti, sono nella scrittura grossolani, a dir poco.

Assai funzionale e ben tratteggiato il marito della protagonista, un intellettuale interpretato con contenuto istrionismo da Sergio Rubini, un personaggio in cui probabilmente confluiscono anche alcune dinamiche private dell’attrice, ma un personaggio che corre anch’esso verso un finale che vuole essere una svolta drammatica a sorpresa e che invece risulta arraffazzonato. In un piccolo ruolo, quello dell’attore con le mani lunghe, Marco Cocci, rockettaro toscano cooptato al cinema da Paolo Virzì, qui a riprova del fatto che l’ex famiglia d’arte toscana dell’ex marito è divenuta anche la famiglia dell’attrice romana.

In un piccolissimo inconcludente ruolo, neanche un cameo, l’ex bellissima francese Florence Guérin attiva anche in Italia dalla seconda metà degli anni ’80 come icona erotica che nulla ha lasciato all’immaginazione – che nel 1998 però, a 33 anni, interruppe la sua carriera a causa di un gravissimo incidente stradale nel quale perse il figlio di cinque anni, restando lei stessa in coma per lungo tempo e subendo diversi interventi chirurgici; è tornata a recitare nel 2000, soprattutto per la televisione francese, con lo pseudonimo di Florence Nicolas prendendo come cognome il nome del figlio perduto.

In conclusione il debutto di Micaela Ramazzotti come regista è un film con molte imperfezioni che però è nell’insieme scorrevole e gradevole, non a caso il premio del pubblico a Venezia. Se ci sarà un’opera seconda mi auguro che si affidi anche per la scrittura a dei comprovati professionisti, per partire sotto i migliori auspici dalle fondamenta delle sceneggiatura. E che abbandoni le vie già percorse e comode. L’abbiamo vista nuda sul settimanale “Max” e sul grande schermo, ha vinto un David di Donatello, quattro Nastri d’Argento e due Ciak d’Oro, è parimenti amata da pubblico e critica, e oggi che ha 45 anni deve trovare la forza di reinventarsi, a cominciare dal ruolo di regista, o passerà presto nei ruoli secondari della zia svampita dai facili costumi.

C’è ancora domani – opera prima di Paola Cortellesi

Opera prima col botto grazie al concorso di diversi elementi: la popolarità dell’autrice già attrice acclamata in commedie di grande successo dove era giunta con la fama acquisita sul piccolo schermo come tuttofare di talento: ironica conduttrice, camaleontica imitatrice ed eccellente cantante: Mina l’ha definita come delle più belle voci italiane. Poi quasi a sorpresa la svolta drammatica, perlomeno per il pubblico televisivo perché al cinema si era già cimentata benché per un pubblico di nicchia, come interprete di Maria Montessori nella miniserie omonima del 2007 su Canale 5.

Altro elemento che contribuisce al successo del film è l’argomento drammaticamente attuale della violenza sulle donne, rivisto in chiave di commedia però, perché al cinema ci si va per rilassarsi e sognare e perché quello è il terreno su cui la nostra si è meglio espressa; e da questo punto di vista il film è molto furbo, laddove la furbizia è segno di intelligenza, e l’intelligenza segno di sensibilità. Poi c’è l’inattesa svolta politica e sociale che eleva il film a un livello decisamente superiore, sorprendendo ed emozionando le platee che col passaparola fanno la fila al botteghino facendo guadagnare all’opera prima diversi record: con un incasso di un milione e 600mila euro si è dapprima piazzato nella prima posizione del box office nel week end di fine ottobre, guadagnandosi anche il record di migliore esordio dell’anno; al momento con 25 milioni di euro oscilla fra il primo e il terzo posto giocandosela con “Napoleon” di Ridley Scott starring l’amatissimo Joaquin Phoenix post-Joker, e “La ballata dell’usignolo e del serpente” che è il prequel della saga fantasy “Hunger Games”: due blockbuster americani messi nell’angolo da una debuttante italiana. Inoltre è il film col più alto incasso degli ultimi tre anni scalzando dal podio Aldo Giovanni e Giacomo di “Il grande giorno” che fu il primo grande successo post Covid; e notizia del 28 novembre scorso, è al 31º posto dei film con maggiori incassi in Italia di sempre. Alla Festa del Cinema di Roma, dove il film è stato presentato, ha vinto il Premio Speciale della Giuria, quello come Migliore Opera Prima e i premio del pubblico. Insomma, Paola Cortellesi, secondo le regole del mercato è diventata un’intoccabile di cui tutti vorrebbero toccare il lembo del mantello da super-eroina.

Girato in bianco e nero con la fotografia di Davide Leone si apre con il formato 4:3 dei film del dopoguerra cui dichiaratamente si ispira omaggiando il neorealismo; ma l’omaggio dura cinque minuti perché poi lo schermo si allarga nel moderno 16:9 mentre la camminata della protagonista va in ralenti e la canzonetta d’epoca viene sostituita da musica attuale e da “Aprite le finestre” cantata da Fiorella Bini si passa a Daniele Silvestri, Fabio Concato, Lucio Dalla e altri con le musiche originali di Lele Marchitelli. Da qui in poi, pur mantenendo col montaggio secco e pulito di Valentina Mariani lo stile retrò, cui contribuiscono appieno i costumi di Alberto Moretti, il trucco di Ermanno Spera e le scenografie di Massimiliano Paonessa e Lorenzo Lasi, il neorealismo resta formalmente nello stile visivo mentre il film diventa commedia moderna che nulla ha però a che vedere con la commedia italiana di genere, la stessa che l’attrice frequenta con successo, perché l’autrice non è di quella sui generis: la sua commedia passa dal grottesco dello schiaffo di prima mattina senza ragione al surreale della coreografia che stempera nel fantastico la violenza domestica – bellissima intuizione – momenti che la critica ufficiale ha stigmatizzato come ingenuità narrative ma che per me sono segni precisi dello stile della neo-autrice che li maneggia con grande maestria senza farli percepire come corpi estranei alla sua commedia grottesca che ha il momento clou nel funerale del patriarca: grottesco e surreale che con grandissimo equilibrio narrativo e interpretativo di tutto il cast si ferma un attimo prima di diventare il troppo che storpia: segno di una maturità artistica che inscrive la Cortellesi già fra i maestri della commedia italiana: c’è Ettore Scola, c’è Luigi Comencini, c’è  Lina Wertmüller.

“La storia del film è inventata, ma c’è moltissimo dei racconti della mia famiglia. Molte delle storie da cui ho tratto ispirazione sono di mia nonna. È anche il motivo per cui ho immaginato l’opera in bianco e nero. Quando ti tornano in mente le immagini del passato a Roma non sono mai a colori. I cortili romani in cui tutto veniva messo in piazza. Si viveva insieme, non c’era discrezione, però era bello. La Roma di “C’è ancora domani” è molto lontana dalla Roma di oggi. La vita sociale era diversa.” Già sceneggiatrice – ha cominciato collaborando col marito regista Riccardo Milani – ha scritto questo suo primo film con l’amico di lunga data Furio Andreotti che conobbe ai corsi di recitazione di Beatrice Bracco (corsi frequentati anche da Kim Rossi Stuart, Claudio Santamaria e Claudia Gerini fra tanti altri) e Giulia Calenda, figlia di Cristina Comencini per il ramo cinema e del gionalista-scrittore Fabio Calenda per il ramo scrittura.

E da qui in poi siamo a rischio spoiler – che in italiano dicevamo anticipazione o rivelazione. Nella storia immaginata dall’autrice coi suoi due sceneggiatori, sono in primo piano la violenza domestica e il patriarcato, con un’attenzione quasi maniacale ai dettagli per collocare il film nell’immediato dopoguerra: c’è la polizia militare americana a pattugliare le strade e ci sono i mutilati, che furono tanti e per i quali sorsero nelle nostre città fra la fine della Prima Guerra Mondiale fino a tutto il ventennio fascista le Case del Mutilato, enti a sostegno dei soggetti e delle loro famiglia, spazi oggi riconvertiti ad altro uso. C’è un amore di gioventù della protagonista che porta la nostra attenzione volutamente fuori strada, e c’è il militare americano nero che viene da chiedersi dove conduca quel personaggio, e presto lo scopriremo.

Ma soprattutto c’è una lettera che la protagonista riceve a suo nome, una lettera da tenere segreta e da nascondere, e che l’astuzia narrativa ci fa credere una lettera d’amore per la quale Delia prepara la fuga insieme alla vecchia fiamma. Ma a sorpresa la lettera si rivela essere la sua prima carta elettorale perché siamo alla vigilia del suffragio universale, il voto alle donne in Italia per il referendum del 2-3 giugno 1946 che sancì il passaggio dalla monarchia alla repubblica. E la fuga della nostra donna verso il suo primo voto diventa in parallelo la liberazione dal patriarcato e dalla violenza domestica – e anche se sappiamo che nella realtà ciò non è mai avvenuto e le donne continuano a morire per mano degli uomini che dicono di amarle, il film ci regala nel finale la sua bella dose di speranza che fa partire nella platea cinematografica timidi applausi.

Paola Cortellesi, altrimenti molto espressiva, sceglie per la sua Delia una maschera sospesa con le sopracciglia sempre un po’ alzate con l’espressione di una che sembra voler dire: ma che ci faccio qui? e di maschera in maschera anche Valerio Mastrandrea tratteggia il suo marito violento un po’ credendoci e un po’ no anche lui sempre in bilico sul baratro del troppo che storpia. Centratissima la giovane figlia adulta di Romana Maggiora Vergano che dopo un po’ di sana gavetta si è fatta notare nel televisivo “Christian” su Sky e qui tratteggia con grande partecipazione emotiva la figlia che vorrebbe ribellarsi al patriarcato ma che accecata dall’amore non vede il suo personale pericolo dietro l’angolo. Il vecchio patriarca allettato, ferocemente proattivo, è il sempre ottimo Giorgio Colangeli che qui fa scuola di romanesco sboccato ai due nipoti minorenni e incontenibili resi dai debuttanti Gianmarco Filippini e Mattia Baldo. Vinicio Marchioni è l’amore di gioventù, Emanuela Fanelli è la sincera amica del cuore, Gabriele Paolocà il fruttivendolo suo marito, il militare americano è il nero Yonv Joseph che si è fermato a Roma per studiare musica al Conservatorio di Santa Cecilia e alla Scuola di Musica Popolare di Testaccio e va da sé è diventato anche attore; il caratterista Lele Vannoli è il soccorrevole (anche troppo) vicino di casa e la professionista di lungo corso Paola Tiziana Cruciani presta la sua maschera sempre più intensa, col passare degli anni, alla merciaia; Francesco Centorame è il fidanzato della figlia che si rivelerà anch’egli frutto di lombi patriarcali: il padre lo interpreta Federico Tocci e la madre borghesuccia snob ma anch’ella vittima è Alessia Barela; le vicine di casa, in un contesto sociale in cui non esisteva il concetto di privacy, sono Priscilla Micol Marino, Maria Chiara Orti e Silvia Salvatori che è quella più avvelenata, che in romanesco sta per velenosa, e che solo per questo si distingue sulle altre.

Paola Cortellesi dedica questo suo primo film a Lauretta, la sua bambina di dieci anni, che quasi casualmente ha fatto la comparsa nel film lamentandosi di star perdendo un giorno di scuola perché del cinema, come ha detto sua madre, non gliene frega un granché. Staremo a vedere, se ci saremo ancora.

Il Legionario – opera prima di Hleb Papou

Pare che sia la migliore opera prima italiana del 2022 e il suo autore non ha un nome italiano: segno che nella realtà di tutti i giorni, e nel mondo culturale, e cinematografico in questo specifico, le cose cambiano più rapidamente che nella mente di chi fa politica. Un’opera prima che a tutti gli effetti si presenta come nuovissimo neorealismo italiano.

Il 32enne Hleb Papou, nato in Bielorussia ma cresciuto in Italia, è stato premiato al Festival di Locarno come miglior regista esordiente. Da bambino, nel condominio di Minsk dove è nato e cresciuto fino agli 11 anni, giocava coi suoi amici a guardie e ladri versione terzo millennio, ovvero rifacendo le scene d’azione dei film americani sparandosi addosso con i fucili ad aria compressa: dispositivi che non dovrebbero essere dati in mano a ragazzini, ma vabbè, anche riprendendo le battaglie con la videocamera VHS di un amico: insomma il cinema era già nelle sue prospettive anche se al momento era ancora troppo giovane per saperlo. Solo venendo in Italia con la madre e frequentando le scuole italiane si affina il suo gusto per il cinema e lasciato Lecco dopo il liceo si trasferisce a Roma per frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia dove si diploma regista con il corto “Il legionario” che nel 2017 venne selezionato alla Settimana della critica di Venezia e, di conferme in conferme, il corto è poi diventato questo lungometraggio, un film che lui stesso preferisce collocare nel genere action, che è il suo genere di riferimento, forse poco sapendo del neorealismo italiano che questo suo film fa paradossalmente rivivere: interpreti non professionisti per tematiche di strettissima contingenza, ovvero emergenza sociale; che nel neorealismo classico era la ricostruzione del tessuto sociale dopo la fine della seconda guerra mondiale, e oggi è la costruzione ex novo di un tessuto sociale dove devono riuscire a incontrarsi e convivere realtà e culture diverse.

Germano Gentile

La cosa più interessante del film è che il suo autore, essendo nato all’estero, ha un’italianità acquisita e vede la realtà da un altro punto di vista: non va a cercare storie di disagi periferici – vedi gli ormai troppo osannati Fratelli D’Innocenzo – ma cerca le storie nel suo vissuto di immigrato e fra gli altri italiani figli di immigrati scorrettamente ancora definiti immigrati di seconda generazione con la precisa volontà politica, e anche culturale che in certi casi si spinge allo stigma morale, di non riconoscere la loro italianità. L’unico neorealismo possibile: un poliziotto di colore, che parla romanesco, in forza al reparto della squadra mobile ha nascosto ai colleghi che sua madre e suo fratello vivono nello stabile occupato (che realmente esiste e nel quale è stato girato sia il corto che il lungometraggio) che gli hanno appena ordinato di sgomberare; il film è la preparazione a questo scontro, che diventa scontro fra fratelli, all’interno del tormento interiore del protagonista dalle molteplici doppie identità: italiano e straniero, legalità e illegalità, gli atteggiamenti fascistoidi richiesti dallo stare fra i celerini e l’anima sinistroide ed eversiva di chi vive sui confini. Tecnicamente irreprensibile, perfetto come action dal ritmo serrato, non indietreggia di fronte ai tormenti tutti interiori del poliziotto nero e ne fa uno spettacolo sempre avvincente anche grazie alle interpretazioni dei protagonisti. Hleb Papou ha scritto il film con Giuseppe Brigante ed Emanuele Mochi suoi collaboratori già dal corto, coprodotto da Rai Cinema sul cui portale Rai Play è possibile vederlo.

Maurizio Bousso

Germano Gentile e Maurizio Bousso che sono i due fratelli, il poliziotto e l’attivista, appartengono alla nuova generazione di attori italiani di colore in una cinematografia che essendo specchio della società è in clamoroso ritardo sull’inclusione delle diverse etnie. Il professionista di lungo corso più teatrale e televisivo che cinematografico, Marco Falaguasta, come capo dei celerini romanissimo duro e puro, potrebbe fare tesoro di questa interpretazione per ricollocarsi con più visibilità nel cinema. Sabina Guzzanti si presta nel cameo della conduttrice della serata di spettacolo sociale di sostegno ai condomini sotto sfratto. L’unica cosa che sembra sbagliata è il titolo, che immediatamente fa pensare all’esperienza militare dei legionari francesi trattandosi di una storia moderna con un protagonista nero, ma certo nelle intenzioni dell’autore rimanda alle legioni dell’antica Roma dove non erano rari gli stranieri naturalizzati.

L’autore ha costruito la sua storia affiancandosi direttamente a un reparto della Celere e frequentando lo stabile occupato, e nel film entra anche la vicenda reale dell’elemosiniere del Papa che nel 2019 si prese la responsabilità, perché passibile di denuncia, di togliere fisicamente il blocco messo dal comune ai contatori elettrici del palazzo occupato. Durante la realizzazione del corto i tre amici, il regista e i due sceneggiatori, avevano cercato il supporto del Ministero dell’Interno che però non ha approvato la sceneggiatura perché non in linea con l’immagine della Polizia: per avere il supporto economico avrebbero dovuto scrivere un film più istituzionale ma per fortuna i tre giovani autori hanno proseguito per la loro strada.

“Avevo tanti stereotipi – ha dichiarato il regista – ma scrivendo ho imparato che se vuoi raccontare una storia devi lasciare a casa le tue opinioni personali e andare a esplorare i temi su cui si basa il racconto senza giudicare. Io e i due sceneggiatori siamo molto diversi, ma ci siamo messi al servizio della storia lasciando a casa le nostre convinzioni politiche o sociali. Nel caso della celere ho capito che dietro a un casco e a una divisa c’è una persona in carne e ossa che respira e ragiona, un essere umano con dei sentimenti. Non sono dei robot, ognuno può avere la propria idea, ed è assolutamente vero che a volte esagerano e sono violenti, però è tutto molto complicato. Lo stesso discorso vale per la casa occupata: è un microcosmo con una sua costituzione interna. Ho scoperto ad esempio che tra gli occupanti c’è chi vota Salvini e Meloni, non me lo sarei mai aspettato.” Poi arriva una piccola stoccata ai Fratelli D’Innocenzo: “A me basta solo non fare una cosa intellettualina, capito? Voglio pormi delle domande su dove vada la società. In questo film non ci sono le spaghettate, le lenzuola bianche, il parlare romano sbiascicato da periferia…” No non c’è e per questo è davvero un gran bel film da vedere.

Casablanca, Casablanca – opera prima di Francesco Nuti per ricordare la sua scomparsa

Il mio sincero omaggio a Francesco Nuti scomparso dopo un’agonia durata esattamente vent’anni. E ribadisco sincero perché non ero un suo fan, non ho mai visto prima nessuno dei suoi film, né al cinema né nei successivi passaggi televisivi: i personaggi che nascono dal cabaret, e parlo di questa forma di cabaret piacione e onnicomprensivo che si è sviluppata in Italia, restano per me marchiati e macchiati per sempre, a meno che poi non producano cinematograficamente qualcosa di veramente eccezionale, ma il più delle volte si limitano a riprodurre gli stessi modelli narrativi ed espressivi dilatati dal più consono quarto d’ora televisivo all’inutile ora e mezza cinematografica. E Francesco Nuti non è sfuggito al cliché.

Fiorentino dop ha cominciato a calcare le ribalte amatoriali ancora studente scrivendosi da sé i suoi monologhi finché poco più che ventenne (intanto aveva cominciato a lavorare come operaio in un’industria tessile di Prato) entra a far parte del preesistente gruppo toscano dei Giancattivi formato da Athina Cenci e Alessandro Benvenuti con un terzo elemento sempre in entrata e uscita fino all’arrivo del nostro; il trio aveva già un proprio pubblico grazie anche a dei programmi locali di Radio Rai e l’ingresso di Nuti coincide con il programma televisivo Rai1 “Non Stop” degli anni 1977-78 che aumenterà esponenzialmente la loro popolarità; nel 1981 esordiscono al cinema con l’opera prima di Benvenuti che scrive e dirige “Ad ovest di Paperino” che riproponendo il repertorio cabarettistico è molto apprezzato dal pubblico e frutta al suo autore il Nastro d’Argento come miglior regista esordiente e le candidature ai David di Donatello sempre come regista esordiente, oltre alle candidature come miglior attore esordiente insieme alla Cenci candidata miglior attrice esordiente.

Nessun premio e nessuna candidature per Francesco Nuti che dev’esserci rimasto malissimo se già durante la lavorazione del film aveva discusso aspramente coi colleghi, e non era la prima volta: anche in lui covava la creatività e la velleità dell’autore, o comunque la forza espressiva del solista che aveva già sperimentato nei suoi esordi amatoriali, e le dinamiche del trio gli stavano strette: dopo cinque anni di collaborazione lascia il gruppo che sostituendolo sopravvive solo altri tre anni. Francesco comincia la sua collaborazione cinematografica col regista romano Maurizio Ponzi che fino a quel momento aveva all’attivo tre film drammatici poco visti, e insieme arrivano al successo girando tre commedie in due anni: “Madonna che silenzio c’è stasera” “Io, Chiara e lo Scuro” col quale Nuti si aggiudica sia il David di Donatello che il Nastro d’Argento, finalmente, come miglior protagonista e “Son contento”; tre film di cui è anche co-autore delle sceneggiature, ma anche con Ponzi qualcosa ha smesso di funzionare: di fatto l’attore vuol fare tutto da sé, è il momento di passare alla regia.

Esordisce nel 1985 con questo “Casablanca, Casablanca” che è il seguito del fortunato “Io, Chiara e lo Scuro” che gli erano valsi i desiderati riconoscimenti e in cui mantiene il suo personaggio di giovane stralunato e un po’ disadattato: tanto simpatico al pubblico femminile in cui suscita istinti materni, come altrettanto simpatico è al pubblico maschile perché per metà vi si riconosce e per l’altra metà è rassicurante perché non è un maschio alfa; ma soprattutto Nuti continua la narrativa sull’interessante spaccato sul mondo del biliardo che poco viene raccontato al cinema: ci sono molti film con scene di biliardo ma pochi sono incentrati su questa specialità e non si può non ricordare “Lo spaccone” con Paul Newman diretto da Robert Rossen nel 1961, film che ebbe anche un tardivo sequel nel 1986 con un anziano Newman che se la vedrà col giovane rampante Tom Cruise in “Il colore dei soldi” di Martin Scorsese. I film di Francesco Nuti sul biliardo, ne farà un terzo nel 1998, “Il signor Quindicipalle”, hanno il merito di aprire il sipario su un mondo sconosciuto ai più.

La sua è una davvero triste scomparsa: triste per le circostanze e tristissima per l’intempestività dato che è passata totalmente ignorata da tutte le tv che a rete unificata hanno raccontato – fino all’esaurimento degli argomenti e della pazienza dei telespettatori – la dipartita di Silvio Berlusconi avvenuta lo stesso 12 giugno 2023: vale sempre l’amaro adagio latino “ubi maior minor cessat”.

Questo è il primo suo film (e forse anche l’ultimo) che vedo, confermando il mio personale gusto: Francesco Nuti ha messo in scena la sua malinconica simpatia, da interprete maturo, con guizzi di profondità espressiva che arricchiscono la leggerezza di un racconto che arriva a sfiorare l’incongruenza: il suo film sorvola sulla logica per mettere insieme ispirazioni diverse, e inzeppa di bischerate toscane un’esile trama sempre prevedibile fra schermaglie amorose e voglia di riscatto, una trama che si fa ancora più incredibile quando s’invola nell’onirico: anche la narrazione surreale deve avere una sua logica interna, altrimenti è fine a sé stessa. Non bastano i bravi interpreti né la naturale simpatia a dare spessore e credibilità alla storia che si fa interessante e ritmicamente emozionante solo nel raccontare la tesa partita a biliardo nella finale del campionato che si svolge a Casablanca, Marocco, dove il racconto si sposta e dà all’autore l’opportunità, un po’ scontata a dire il vero, di proiettarsi nella Casablanca del 1942 ricostruita all’epoca negli studi della Warner Bros. Con la citazione il film si fa favola e diventa ancor più, semmai è possibile, accattivante, e per i miei gusti anche stucchevole: è un film rassicurante, per le grandi platee, che nel suo tempo ha colto nel segno: grandi incassi al botteghino, secondo David di Donatello come attore e miglior regista esordiente al Festival internazionale del cinema di San Sebastián. Nel resto del cast si porta dietro dal primo film la protagonista Giuliana De Sio; lo Scuro del primo titolo che è anche il vero soprannome del campione di biliardo fiorentino Marcello Lotti che nei due film è sé stesso, qui doppiato da Franco Odoardi; e l’anziano amico Novelli Novelli; all’attore polacco allora di gran moda perché reduce da grandi successi internazionali, Daniel Olbrychski, doppiato da Ennio Coltorti, affida il ruolo dell’antagonista in amore.

La seconda metà degli anni Ottanta sono per lui all’insegna del successo. Realizza altri 5 film e si concede anche il lusso della canzone: nel 1988 partecipa al Festival di Sanremo con la canzone “Sarà per te” con la quale si piazza dodicesimo, e poi nel ’92 duetterà con Mietta nella canzone “Lasciami respirare” scritta da Biagio Antonacci.

Nel 1994 finalmente esce, dopo vari disguidi e ritardi, l’ambizioso e travagliatissimo “OcchioPinocchio” per il quale i Cecchi Gori, padre e figlio, che avevano stanziato 30 miliardi di lire, un budget già spropositato e anche poco accorto per una bislacca commedia italiana con un protagonista sconosciuto all’estero, ché solo con una distribuzione internazionale avrebbero potuto recuperare le spese e sperare anche in un guadagno; non basterà neanche l’ambientazione statunitense, e sforarono pure di altri 13 miliardi: la pressione sanguigna era alle stelle; il film sarebbe dovuto uscire nel Natale 1993 ma la lavorazione era in clamoroso ritardo e a complicare le cose avvenne anche la morte del patron Mario Cecchi Gori nel novembre del ’93. Il figlio Vittorio Cecchi Gori si fece prendere dal panico – come dargli torto avendo ereditato quella patata bollente? – e appoggiato dall’allora socio in affari Berlusconi nella Penta Film ruppe ogni rapporto con Nuti e smantellò i set di Cinecittà. Nuti avviò un’azione legale per poter proseguire la lavorazione e i due addivennero a un accordo: montaggio del girato senza ulteriori indugi e altre riprese se strettamente necessarie; l’autore Francesco Nuti sborsò di tasca propria ben due miliardi per poter concludere il film, che si rivelò un fiasco clamoroso: incassò in tutto solo 4 miliardi degli oltre 30 spesi e anche il giudizio della critica non fu lusinghiero. Solo guardando il manifesto, bello in sé, è evidente che non è più il Francesco Nuti un po’ romantico un po’ bischero e molto rassicurante di tutti i suoi precedenti film.

Va da sé che scottatissimo dal clamoroso insuccesso tenta di rimettersi sulla via maestra e quattro anni dopo torna al biliardo con “Il signor Quindicipalle”, concludendo un trittico, ma il film non incontra il favore dei precedenti. C’era un quarto film in cui avrebbe voluto tornare a impugnare la stecca da biliardo: un post-apocalittico da girare nelle campagne fiorentine in coppia con l’altro toscano Roberto Benigni come fratelli che gestiscono l’unico casello ferroviario rimasto, titolo “I casellanti”. Non sapremo mai quanto Benigni, diversissimo da Nuti, fosse interessato al progetto che per il suo autore avrebbe significato un nuovo punto di partenza mentre per l’acclamatissimo già premio Oscar Benigni, si sarebbe trattato di cosa?

Al volgere del nuovo millennio, che per lui sono la seconda metà dei quarant’anni, gira altri due film con esito altrettanto tiepido al botteghino: il suo pubblico – che non era il suo ma era ed è di chiunque lo faccia sorridere senza troppi pensieri – lo ha abbandonato: lo ha sostituito con un altro bischero fiorentino, Leonardo Pieraccioni, suo amico ed epigono di dieci anni più giovane, altro campione di commedie sentimentali, anch’egli con film exploit campioni d’incassi, ma che dopo quei primi fuochi d’artificio è stato anche lui ridimensionato dalle durissime logiche del mercato.

Arriviamo al 2003, esattamente vent’anni fa. Francesco è caduto in una profonda depressione, è alcolista, e finisce col tentare il suicidio aprendo il gas ma viene salvato in extremis dai pompieri. Si parlerà di incidente domestico ma poco prima aveva telefonato a un amico dicendogli che voleva farla finita, e l’amico ha allertato i vigili del fuoco che l’hanno trovato a letto, in stato confusionale per abuso di alcol, e il gas aperto in cucina: più che un tentato suicidio una disperata ed estrema richiesta di aiuto. Senza considerare che nell’appartamento con lui c’era l’ignara madre. All’ospedale decide di sottoporsi a cure psichiatriche: “Sto male. – dichiarerà – Ho 48 anni e siccome ho una malattia, che è l’alcolismo e che sto ormai superando, non mi fanno più lavorare. Ma io sono stato un uomo d’oro del cinema italiano”.

Nel 2005, a cinquant’anni, gira il suo ultimo film in un ruolo per lui inconsueto e finalmente maturo diretto da Claudio Fragasso nel thriller poliziesco “Concorso di colpa” dove è un ispettore di polizia che alla fine degli anni ’70 indaga su un delitto che l’omicidio di Aldo Moro ha messo in ombra: uno di quei ruoli in cui avrebbe potuto spaziare ed eccellere se avesse avuto l’umiltà di affidare il suo indiscusso talento di attore ad altri registi e sceneggiatori. Un ruolo da protagonista assoluto, anche sulla locandina, perché ne ha umanamente bisogno, con l’antico amico e compagno d’avventure Alessandro Benvenuti a fargli da discreta spalla e garanzia per un ritorno al botteghino. E c’è da dire che Benvenuti nel frattempo si è accreditato come autore cinematografico in grado di spaziare affrontando temi svariati e seri in chiave brillante e in film corali: la famiglia, la politica, la prostituzione, l’autismo, l’industria, l’avvento dei reality show. Attualmente impegnato a teatro Benvenuti dice di non avere altro da dire al cinema e con la scomparsa di Nuti rivela un sogno ormai per sempre irrealizzabile: recitare insieme a teatro “Aspettando Godot” di Samuel Beckett.

Purtroppo l’ultimo film girato è brutto, stroncato dalla critica e ignorato dal pubblico. Francesco non uscirà più dalla sua nuvola nera. L’anno dopo, una sua intervista a Radio 24 viene interrotta a causa del suo forte stato di alterazione. Ai primi del settembre 2006 un vero incidente domestico: cade dalle scale procurandosi un ematoma che lo condurrà al coma dal quale uscirà dopo un intervento d’urgenza alla testa, segue un lungo periodo di riabilitazione neuromotoria: dal giorno di quell’incidente è costretto su una sedia a rotelle e ha perso l’uso della parola. La figlia Ginevra lo assiste, il fratello Giovanni, medico, che si era pubblicamente preso l’impossibile e amoroso incarico di rimetterlo in piedi e ridargli la parola, intanto gli fa da portavoce: “Francesco aveva scritto due sceneggiature: le racconterà lui quando sarà pronto. Con Francesco abbiamo iniziato a scrivere a quattro mani un libro di poesie: c’è già il titolo, ‘Poesie raccolte’. Ha anche iniziato a dipingere. Per me è guarito e sul suo futuro deciderà lui. Se qualcuno si chiede come mai non è qui stasera (si presentava in una discoteca di Firenze il libro di Matteo Norcini ‘Francesco Nuti. La vera storia di un grande talento’ edito da Ibiskos) dico che Francesco è un narcisista e un perfezionista: verrà davanti ai giornalisti quando si sentirà di farlo”.

Riapparirà in in pubblico nel 2010 al cinema Eden di Prato in occasione della presentazione del CD “Le note di Cecco” realizzato dal fratello Giovanni con Marco Baracchino che raccoglie le colonne sonore dei film di Cecco-Francesco alcune delle quali scritte da Giovanni che è anche musicista. Torna anche su Rai2 ospite a “I fatti vostri” dove mostrò all’Italia intera i danni neurologici conseguenti all’incidente: l’incapacità di parlare e di muoversi; portò una lettera scritta dal fratello Giovanni che idealmente dava voce ai suoi pensieri e in cui affermava la sua tenacia nel continuare a vivere. A seguire fu ospite di Barbara D’Urso a Canale 5 in “Stasera che sera!” dove la conduttrice ex attrice che negli anni si era già trovata al centro di disparate controversie, senza andare troppo per il sottile non esitò a fare televisione spazzatura spettacolarizzando la grave disabilità di Nuti: il programma fu chiuso.

Sempre Giovanni Nuti cura la sua autobiografia edita da Rizzoli “Sono un bravo ragazzo – Andata, caduta e ritorno”, 2011. Tre anni dopo partecipò ad una festa organizzata per il suo 59º compleanno dagli amici di sempre Carlo Conti, Giorgio Panariello, Leonardo Pieraccioni e Marco Masini, al Mandela Forum di Firenze alla quale parteciparono circa 7000 persone: un bagno di affettuosa folla che deve avergli molto scaldato il cuore. Nel 2016 l’ennesima caduta e il ricovero in gravissime condizioni al CTO di Firenze. Nel 2019 gli è stato conferito il Premio Artistico Internazionale e cinematografico Vincenzo Crocitti “alla carriera”, ritirato per lui dalla figlia che aveva precedentemente dichiarato: “Francesco è e sarà sempre il mio papà anche se non può più parlare, muovere le mani e camminare ed è giusto che mi occupi di lui.” Va ricordato che il riconoscimento alla carriera, l’unico assegnatogli, è intitolato a un grande caratterista romano morto 61enne dopo una lunga malattia.

All’epoca del suo primo incidente domestico Francesco aveva detto alla madre: “Portami via da Roma quando muoio, così nessuno mi potrà vedere.” Poi la vita ha preso naturalmente il sopravvento e si è fatto vedere: muore a 61 anni con il corpo e il volto stravolti dal tempo e dalla lunga agonia. Non pubblico le sue ultime immagini perché credo sia doveroso ricordarlo col suo sorriso che gli arricciava il viso, triste e impertinente insieme.

Stranizza d’amuri – opera prima di Giuseppe Fiorello

Lo dico subito e senza indugi: non ho mai amato Beppe Fiorello, ma per onestà devo dire che il suo debutto come regista mi ha più che convinto. Considero altri, gli attori, e senza andare all’estero o scomodare la vecchia guardia o addirittura i morti, mi basta citare Elio Germano, Pierfrancesco Favino, Alessandro Gassmann, Kim Rossi Stuart, Claudio Santamaria… di certo ne dimentico qualcuno e certamente ne tralascio qualcun altro, i gusti sono gusti. Beppe Fiorello appartiene a quella categoria di attori che non hanno fatto scuole o seri apprendistati e ha solo avuto ottime frequentazioni ed eccellenti opportunità, dunque fortuna. In questo senso uno che si è inventato dal nulla ma che è cresciuto bene come attore è Valerio Mastandrea. Beppe da ragazzo faceva da tecnico nei villaggi turistici al fratello maggiore Rosario che era lo sfacciato simpatico intrattenitore e che tale è intelligentemente e prudentemente rimasto, sviluppando un personaggio arguto e incisivo; di certo a Rosario Fiorello non saranno mancate le occasione e le succulente offerte per farsi attore ma evidentemente è ben conscio dell’ambito in cui riesce meglio.

Fiorellino, è questo l’ambiguo nomignolo che si è scelto per debuttare ai microfoni di Radio Deejay, e subito a seguire debutta anche in tv sostituendo il fratello alla conduzione del programma “Karaoke” che importò da noi l’orrida esperienza d’intrattenimento sociale che da lì è dilagata anche nei bar e nei ristoranti, e che come “La corrida” ha riempito il piccolo schermo di dilettanti allo sbaraglio, aprendo un terribile Vaso di Pandora. Da buon dilettante allo sbaraglio co’ bullu (col bollo statale, patentato) – e qui sto facendo un richiamo al film dove il ragazzo gay è apostrofato puppu co’ bullo – Fiorellino portò allo sbaraglio il programma che chiuse i battenti. Ma ormai il ragazzo aveva assaggiato le lusinghe della facile fama costruita sul nulla e tentò la carriera musicale come frontman del gruppo pop Patti Chiari che nel 1997 si esibirono al Festibalbar per poi essere subito dimenticati, anche dal web che conserva tutto. Ma il seme del Fiorello attore era già stato seminato l’anno prima: Niccolò Ammaniti ce l’ha sulla coscienza. Si erano conosciuti a Riccione e lo scrittore gli propose di sottoporsi a un provino con Marco Risi che stava preparando il film “L’ultimo capodanno” dal suo libro “L’ultimo capodanno dell’umanità”, film che fu un fiasco, ma l’eroico Beppe aveva trovato la cornice adatta alla sua arte informale.

Fra gli attori teatrali di vecchia scuola si racconta questa parabola: C’era un ragazzo che non sapeva fare nulla ma era ricco di sogni di gloria; in tv vede i trionfi del pugile Nino Benvenuti e decide di farsi pugile ma dopo aver preso i primi pugni decide che non fa per lui. Poi vede i successi del motociclista Giacomo Agostini e decide di darsi al motociclismo ma cade malamente e si frattura varie ossa, e di nuovo decide che non fa per lui. Poi qualcuno lo porta a teatro e lì resta estasiato dagli scroscianti applausi con cui il pubblico omaggia gli attori e allora decide di diventare attore. Anche quel mestiere non fa per lui ma nel bene e nel male il pubblico applaude sempre e oggi quel ragazzo fa ancora l’attore.

Giuseppe Fiorello passa dal grande al piccolo schermo con “Ultimo – il capitano che arrestò Totò Riina” che aveva nel ruolo di protagonista un altro infiltrato nella recitazione, Raul Bova, che però di suo aveva un’indiscutibile avvenenza. L’anno dopo si e ci concede un cameo, nell’hollywoodiano girato in Italia “Il Talento di Mr. Ripley” di Anthony Minghella dove compare fra gli altri italiani anche il fratello Rosario. A quel punto non lo ferma più nessuno e si darà anche al teatro ma sulla sua pagina Wikipedia alla voce “Premi e Riconoscimenti”… no pardon, non c’è questa sezione sulla sua pagina.

Però il regista di oggi gli cresceva dentro. Nel 2007 dirige il video musicale della siciliana Silvia Salemi “Il mutevole abitante del mio solito involucro” e nel 2010 fonda la sua casa di produzione “Ibla Film” mentre Rosario fonda “R.O.S.A.” e insieme producono per i 150 anni dell’unità d’Italia il cortometraggio “Domani” dove fa recitare i suoi figli Anita e Nicola. Si fa dunque produttore e anche sceneggiatore dei progetti in cui recita e a quel punto arriva lo speciale tv autocelebrativo “Il racconto di Beppe Fiorello” firmato dal Vincenzo Mollica per Rai1: l’ego, si sa, va nutrito, e lui a 44 anni ha molto da raccontare di sé e della vita.

Nel 2016, Beppe con la sua casa di produzione opziona i diritti del romanzo del romano Valerio La Martire “Stranizza” che dopo essere uscito nel 2013 edito da “Bakemono Lab.” riceve il patrocinio di Amnesty International per essere rieditato da “David and Matthaus”, dunque sono passati sette anni perché il film prendesse forma, sette anni assai ben spesi. Il romanzo si ispira a una vicenda realmente accaduta nel 1980 nota alle cronache come delitto di Giarre, in provincia di Catania, un duplice delitto di matrice omofoba: le vittime erano Giorgio 25enne dichiaratamente gay e già vittima di bullismo omofobo e Antonio il suo ragazzo 15enne, entrambi uccisi con un colpo di pistola alla testa e ritrovati ancora mano nella mano, che è l’immagine idilliaca sulla quale si chiude il film.

Oggi la vicenda più che per l’amore omosessuale sarebbe stigmatizzata per l’età dei due e si parlerebbe di pedofilia ma quarant’anni fa il crimine era l’omosessualità, in una terra e in un’epoca in cui peraltro erano ancora normali le fuitine con le spose-bambine, quelle che oggi condanniamo in altre culture. L’esecutore del duplice omicidio non fu mai legalmente individuato anche se le indagini condussero al nipote 12enne quasi coetaneo di Antonio, che sarebbe stato incaricato dalle famiglie di compiere il delitto d’onore; interrogato dai carabinieri il bambino, cicciottello e sempliciotto, le cronache diranno che era un po’ ritardato, sostenne che invece erano stati i due innamorati a chiedergli di essere uccisi per l’impossibilità di vivere apertamente la loro relazione, salvo poi ritrattare adducendo che era stato costretto a suon di ceffoni dai carabinieri a dare quella confessione; di fatto non fu mai perseguito per la sua giovane età. Giornalisti e televisioni si affollarono a Giarre da tutta Italia scontrandosi però con l’omertà della comunità locale che non voleva essere associata a una storia di puppi, mentre l’intera opinione pubblica italiana cominciò a fare i conti col problema della discriminazione omofoba, termine che all’epoca neanche esisteva. Il Corriere della Sera titolò: “Derisi da tutto il paese due omosessuali siciliani si fanno uccidere da un ragazzo di 12 anni abbracciati” che è un po’ quello che fecero tutti i quotidiani italiani. Immediatamente il “F.U.O.R.I!”, Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario italiano attivo da Roma in su sin dagli anni ’70 che con quel punto esclamativo fa dell’acronimo una parola di senso compiuto che si associa all’inglese coming out, apre una sede in loco per far sentire la loro voce sul territorio, ma serve a poco: passata l’emergenza i giornalisti se ne vanno e la pace ritorna in provincia.

Marco Bisceglia

Ma se la stampa si distrae così non è per gli omosessuali militanti: dall’altro lato dell’Isola, a Palermo, c’era un prete dichiaratamente omosessuale e sostenitore dei diritti per le persone omo-affettive, Marco Bisceglia; egli era incorso nella sospensione a divinis per essere caduto nella trappola tesagli da due giornalisti del settimanale di destra “Il Borghese”, che fingendosi due cattolici omosessuali gli si rivolsero chiedendogli un “matrimonio di coscienza”; il prete, già sotto i riflettori della Chiesa per le sue posizioni non ortodosse, era divenuto assai cauto nelle manifestazioni pubbliche e acconsentì a una benedizione privata; venne fuori la cronaca dei due solerti giornalisti che nel loro brillante articolo misero insieme le parole “omosessuale” e “ripugnante” e lo scandalo fu servito; Bisceglia li querelò ma i due furono assolti in virtù del diritto di cronaca. Sospeso dal servizio attivo ma ancora religioso e combattente, cominciò a collaborare con l’ARCI, Associazione Ricreativa e Culturale Italiana, fondata nel 1957 a Firenze con l’intento di creare sul territorio, in quel dopoguerra della ricostruzione, dei circoli o case del popolo, di fede comunista e socialista, dunque antigovernativa. Il prete, con la collaborazione del 22enne Nichi Vendola, fondò l’ARCIGAY, la prima sezione dell’ARCI dedicata esclusivamente alla cultura omosessuale, che da Palermo si diffonderà prestissimo in tutta Italia. Anche le femministe lesbiche diedero vita al primo collettivo lesbico siciliano, “Le Papesse”. Per concludere la vicenda di Marco Bisceglia: negli ultimi anni si ammalò di AIDS e, allontanatosi dalle barricate della cultura progressista e omosessuale, fu reintegrato nelle funzioni presbiteriali dall’allora cardinale Joseph Ratzinger e nominato Vicario Coadiutore della Parrocchia di San Cleto a Roma, dove morì nel 2001. Di lui resta, come messaggio laico, la sua rivoluzione per la rivalutazione del corpo, per la liberazione della vita sessuale di ciascuno dalle catene di una morale sessuofobica, colpevolizzante, repressiva, causa di tanta infelicità, che non contraddice la portata positiva del Cristianesimo: il senso del “sacro”, il senso dell’amore. Sacro tra virgolette, a significare dignità, nobiltà, rispetto.

Giuseppe Fiorello con Samuele Segreto.

Digressione dal film molto ampia e particolareggiata, come sempre del resto in questo blog, perché parlando di cinema mi piace contestualizzare i fatti e le persone per una lettura più sociale e umana che strettamente critica. Giuseppe Fiorello realizzando il suo primo film vola alto, come già da attore e produttore dei suoi progetti cine-televisivi aveva mostrato di prediligere un certo impegno, politico e morale. La storia che racconta il film non è la storia vera, ma solo una riuscitissima ispirazione. Così come il romanzo si prendeva delle libertà narrative rispetto alla vicenda reale, altrettanto Giuseppe Fiorello, con i suoi co-sceneggiatori Andrea Cedrola e Carlo Salsa, sviluppa una storia più personale così densa di dettagli e portatrice di emozioni così sincere da sembrare autobiografica, e sappiamo che non lo è; Beppe all’epoca del delitto di Giarre era un undicenne presumibilmente senza dubbi sulla sua identità sessuale, solo di un anno più piccolo del bambino accusato del duplice omicidio, e lui è venuto a conoscenza della vicenda solo in anni recenti, leggendo un articolo di cronaca che parlava del trentennale del delitto e che lo colpì moltissimo, e in quanto siciliano si è sentito co-responsabile del fattaccio e non lo ha più dimenticato, fino ad acquisire i diritti del romanzo che poi romanza e, come dice lui stesso: “Non si è mai scoperta la verità e allora mi sono affidato alla mia immaginazione. Ho immaginato un’estate di due ragazzi che si incontrano e fanno un percorso di vita insieme.”

Gabriele Pizzurro e Samuele Segreto

Colloca la vicenda nel 1982 dei mondiali di calcio, anno calcisticamente vittorioso per l’Italia che utilmente fa da sfondo a molti film che raccontano quegli anni, dando spessore a vicende umane e tensioni narrative; conoscendo bene i luoghi della sua giovinezza compone nel suo film una geografia fantastica che mettendo insieme diversi luoghi reali diventa narrativamente irreale, magica: si tiene lontano da Giarre per non turbare animi ancora dolenti, come ha spiegato, e mette insieme differenti periferie semi-rurali e paesini dove il folclore gioioso fa da contraltare a lavori duri e pericolosi: la cava di pietre e i fuochi d’artificio, con l’impressione sempre sospesa che qualcosa di brutto accadrà in quei luoghi e con quei lavori, ma nulla accade e la vita scorre tranquilla pur nei disagi interiori che non hanno voce. Se qualcosa di brutto deve accadere verrà fuori da quegli animi inquieti.

Gabriele Pizzurro, Simone Raffaele Cordiano e Antonio De Matteo, padre e figli.

E c’è Totò, il fratello piccolo di Nino, intorno al quale il neo-regista tesse una sapientissima tela di sguardi cinematografici che non raccontano nulla di specifico ma che ci insinua sensazioni e dubbi: ammira il fratello maggiore, gli vuole bene? o ne invidioso, e lo odia perché gli ruba attenzioni? e non dimentichiamo che il film si apre con lui che aiutato dallo zio spara a una lepre: il regista segna quel bambino con un battesimo alla polvere da sparo. Così, altrettanto, tutto il film, raccontando la specifica storia di un’amicizia che è anche la scoperta dell’amore adolescenziale, ha sguardi acuti su tutti i personaggi che racconta, scavando nelle loro espressioni, raccontando gesti minimi che hanno il sapore di un antico vissuto e danno spessore e controluce a un film dagli scenari luminosi in cui le ombre si stagliano più nette. Riguardo all’amore adolescenziale omo-affettivo il regista ha dichiarato: “L’adolescenza è quel tratto di vita che trovo divino, in cui ci si ama tra amici pur non essendo omosessuali. Io ho amato il mio amico Carmine, il mio amico Gianni, il mio amico Salvo, il mio amico Emanuele. Ci amavamo, veramente. L’amore adolescenziale va al di là di tutti i discorsi politici. Noi siamo veramente arretratissimi rispetto agli adolescenti. I miei figli si chiedono perché, quando si parla di omosessualità in tv, si usa un tono ‘diverso’. Per loro non è così… Anche del mio film hanno detto è una storia di coraggio. Ma è un peccato pensare che per amarsi ci voglia coraggio.”

La scena dello sberleffo omofobo.

Il neoregista non sbaglia neanche il cast, per comporre il quale guarda senza timore anche fuori dalla Sicilia; un cast da cui tiene fuori nomi e volti più o meno noti e ai debuttanti affianca eccellenti professionisti non ancora “bruciati” da troppe presenze cinematografiche: sono tutti bravissimi, quanto effettivamente lui non è mai stato nella sua carriera di attore. Come regista è bravissimo nel farli esprimere tutti in un credibile siciliano, tenendosi lontano dal finto “sicilianese” di tanti film e interpreti che non sanno cosa sia la lingua siciliana; qua e là affiorano accenti palermitani ma nell’insieme il dialetto di questo film è una sorta di lingua franca in assoluta armonia con le ambientazioni altrettanto di confine.

Luca Pizzurro

Gianni è interpretato dal 19enne palermitano Samuele Segreto che a otto anni ha cominciato a studiare danza e 12enne debutta come attore nel film di Pif “In guerra per amore” e da lì in poi alterna la danza e la recitazione fra programmi e serie tv con una partecipazione ad “Amici” di Maria De Filippi; qui è al suo primo ruolo da protagonista. Nino, l’altro coprotagonista, è il coetaneo romano Gabriele Pizzurro, figlio di Luca Pizzurro attore autore e regista che a Roma dirige il Teatro del Torrino dove a tre anni ha avviato il piccolo Gabriele in laboratori di recitazione per bambini: comprendo il desiderio genitoriale di trasmettere ai figli le proprie passioni ma sono più per il libero arbitrio e lasciare che un bambino sviluppi i suoi propri interessi… magari abbiamo perso un fisico nucleare o un eccellente artigiano ma non lo sapremo mai perché è stato plasmato un altro attore; di fatto il bambino a otto anni va in tournée con Alessia Fabiani nel musical “La bella e la bestia” dove interpreta il candelabro Lumière, quindi sempre bambino va avanti a musical e tournée e viene da chiedersi quando abbia trovato il tempo di andare anche a scuola; passa pure da una masterclass di recitazione all’altra fino a questo suo debutto assoluto nel cinema.

Bellissimi i ruoli delle due madri, magistralmente scritti e magistralmente interpretati: la consapevole e dolente Lina, interpretata dall’ericina (da Erice, Trapani) Simona Malato, che abbiamo già visto in “Le sorelle Macaluso” di Emma Dante, e la napoletana Fabrizia Sacchi, già con una lunga carriera di attrice teatrale televisiva e cinematografica, che interpreta Carmela, donna gioiosa che ama riamata, ma che sprofonda in una cupezza furente e feroce.

I ruoli maschili adulti vanno al casertano Antonio De Matteo, intensissimo padre di Nino, recentemente noto per un ruolo nel televisivo “Mare Fuori”; suo fratello, l’affettuoso zio Pietro, è interpretato con dosatissima ambiguità dal palermitano Roberto Salemi, anch’egli con una lunga carriera sui vari media; Franco, il patrigno di Gianni, è interpretato con la giusta ottusa durezza, e insieme ansia, dal palermitano Enrico Roccaforte, attore e regista che ha partecipato a diversi stage internazionali e ha all’attivo diverse serie tv: qui è cinematograficamente nel suo ruolo più di rilievo.

Il piccolo Totò è l’undicenne messinese Simone Raffaele Cordiano che già lo scorso anno aveva debuttato con “I racconti della domenica” di Giovanni Virgilio e ha all’attivo anche una partecipazione nel televisivo “Buongiorno mamma!”. La palermitana Giuditta Vasile interpreta la sorella maggiore e il ragusano Giuseppe Spata interpreta il suo giovane marito che al dolore del giovane cognato ferito dallo scandalo omofobo confida e consiglia un illuminante: “Quello che fai di nascosto lo puoi fare per cent’anni”. Fra gli altri ruoli di rilievo vanno annoverati gli omofobi tormentatori di Gianni: il palermitano Giuseppe Lo Piccolo, che è il più feroce, e il torinese Alessio Simonetti che è il bello capobranco con una segreta passione omoerotica per la vittima. La ragusana Anita Pomario, anche lei vista in “Le sorelle Macaluso”, interpreta la dolente ragazza in vendita davanti al bar. Divertente il personaggio muto dell’americano con tanto di cappello da cowboy e super-stereo in spalla, figura che appartiene alla memoria collettiva di tanti siciliani di provincia, forse vero americano immigrato per amore oppure paesano di ritorno che fa l’americano; è l’ultima interpretazione di Orazio Alba, amico e attore catanese prematuramente e improvvisamente scomparso in concomitanza all’uscita del film.

Nell’insieme un cast di attori per i quali vedrei bene un premio collettivo in qualche festival, e nello specifico il mio cuore batte per Simona Malato e Antonio De Matteo. Prevedo in ogni caso premi e riconoscimenti anche al regista esordiente, ma per Nastri d’Argento e David di Donatello se ne parla il prossimo anno, dato che i primi sono stati già assegnati e dei secondi sono già stati dati i candidati.

Di stranezza in stranezza il titolo del romanzo conduce Beppe al titolo di una canzone, “Stranizza d’amuri” di Franco Battiato, sul quale non è necessario spendere parole; la canzone parla della capacità dell’amore di sopravvivere in qualsiasi contesto, anche il più difficile, e racconta di una coppia di innamorati in mezzo a una guerra ma che, “nonostante l’orrore che li circonda, sentono che il loro sentimento non cede, non muore, rimane puro e stabile”. Beppe racconta che Battiato è stato la colonna sonora della sua giovinezze e va da sé che la canzone diventi la colonna sonora del film che prende il medesimo titolo, e di Battiato c’è anche “Cucuruccucù” a sottolineare il momento gioioso della relazione fra i due ragazzi. Mentre le musiche originali sono del modicano Giovanni Caccamo già collaboratore di Battiato, e del romano Leonardo Milani. E di stranezza in stranezza mi viene da considerare che quest’anno ben due film ne parlano: prima di questa “Stranizza d’amuri” c’è stato “La stranezza” di Roberto Andò a sottolineare il fatto che la stranezza, come sentimento e come modo di essere, appartiene ai siciliani.

Giuseppe Fiorello fra Giovanni Caccamo e Leonardo Milani.

Tornando al duplice delitto del 1980: Il 9 maggio 2022 il Comune di Giarre ha apposto una targa commemorativa dedicata alle due vittime all’ingresso della biblioteca comunale “Domenico Cucinotta”, e mi sono voluto chiedere che fine avesse fatto Francesco Messina, quel bambino cicciottello forse un po’ ritardato che le famiglie hanno mandato a compiere il delitto d’onore: oggi è in carcere per estorsione e ha all’attivo una lunga lista di precedenti penali: quel duplice omicidio ha fatto tre vittime, perché forse il bambino spinto all’omicidio dall’orgoglio omofobo di due famiglie avrebbe potuto avere altre occasioni di vita.

Falling, storia di un padre – opera prima di Viggo Mortensen

Curioso debutto in regia questo di Viggo Mortensen, anche autore della sceneggiatura e dunque autore a tutto tondo; curioso perché l’attore si è profilato una carriera assai interessante in film che lo hanno impegnato anche in una proficua collaborazione con il mai banale David Cronenberg, ed è dunque curioso che il suo film di debutto come autore sia alquanto banale, duole dirlo, visto che il personaggio stesso non lo è: l’artista è anche poeta, fotografo, pittore, musicista e per non farsi mancare niente anche editore.

Nato a Manhattan da madre statunitense con ascendenze canadesi e padre danese che a sua volta aveva una madre norvegese, Viggo Peter Mortensen Jr. è cresciuto in giro per il mondo poiché la famiglia seguiva il padre Viggo Sr. nei suoi impegni di lavoro legati alla gestione di imprese agricole, e vivendo per diversi anni in Argentina il ragazzo ebbe l’opportunità di imparare fluentemente lo spagnolo, oltre al danese paterno che fra le lingue scandinave è quella che meglio riesce a padroneggiare le altre: il norvegese e lo svedese; e allora perché fermarsi lì? così ha studiato anche francese, italiano, catalano e arabo. Dopo la laurea in scienze politiche e letteratura spagnola trovò un occasionale bell’impiego come traduttore per la squadra svedese di hockey su ghiaccio alle Olimpiadi invernali di Lake Placid nel 1980; e a seguire tornò in Danimarca, dove da ragazzo aveva vissuto col padre appena separato dalla madre, e per un po’ fece vari lavoretti come cameriere, camionista, barista e anche fioraio: il classico periodo sabbatico per chiarirsi le idee sul futuro, quindi si spostò in Canada per frequentare una scuola di teatro e dopo avere lì calcato le scene si trasferisce a Los Angeles per tentare il grande salto nel cinema, che non fu facile; passò attraverso varie comparsate e molte delusioni finché otterrà il ruolo di protagonista nel debutto alla regia di Sean Penn “Lupo solitario” del 1991 e da lì in poi la sua carriera è tutta in crescita fino alla consacrazione internazionale come Aragorn nella trilogia del “Signore degli Anelli” di Peter Jackson all’inizio degli anni duemila.

Per il suo debutto autorale Viggo sceglie il tema della demenza senile, argomento che insieme allo più specifico Alzheimer è ormai anche troppo frequentato: Anthony Hopkins in “The Father” del medesimo 2020 e dell’altrettanto debuttante Florian Zeller, Oscar al protagonista e alla sceneggiatura; ancora del 2020 “Supernova” con Stanley Tucci e Colin Firth, entrambi premiati con i BAFTA, come anziana coppia gay diretti da Harry Mcqueen; andando qualche anno più indietro nel 2014 c’è stato “Still Alice” di Richard Glatzer e Wash Westmoreland con Julianne Moore premiata con Oscar e Golden Globe solo per citare i primi due riconoscimenti; del 2012 è “Amour” di Michael Haneke, Oscar e Golden Globe come miglior film straniero, con Emmanuelle Riva, premiata col BAFTA, e Jean-Louis Trintignant che si aggiudicato l’European Film Awards; nel 2006 Sarah Polley ha diretto Julie Christie premiata con l’Oscar in “Lontano da lei”; del 2001 è “Iris – un amore vero” di Richard Eyre con Jim Broadbent premiato con Oscar e Golden Globe nel ruolo dell’anziano che si prende cura della moglie Judi Dench, solo candidata – solo per citare fin qui i titoli più noti. Dunque, se un attore quotato passa alla regia autorale con un tema così tanto frequentato, ci si aspetta che abbia qualcosa di molto personale da dire o di veramente artistico da mostrare: uno stile, un punto di vista. E Viggo ha avuto modo di spiegarlo, solo che nella realizzazione ha mancato il bersaglio.

L’ispirazione arriva da lontano e nel contempo anche da troppo vicino: entrambi i suoi genitori hanno sofferto di demenza senile, così come tre dei suoi nonni, e anche zie e zii, ma il film non è biografico: “È proprio mia madre che mi ha dato l’ispirazione per il film: rimane la persona più importante per me e ho scritto questa storia subito dopo il suo funerale. Il personaggio dello schermo è però frutto della mia immaginazione o, appunto, di fiction: nasce dall’idea e dai ricordi che ho di lei, e i ricordi sono sempre personali, alterati. La memoria è una collezione di emozioni che si evolvono e che noi modifichiamo in continuazione. Ci sono forme diverse di demenza: c’è chi perde la memoria, chi modifica i ricordi e chi invece trattiene solo quelli lontani, del passato. Spesso, nei film e nei lavori teatrali che ho visto, si rappresenta chi soffre di demenza come una persona confusa: nella mia esperienza – e volevo mostrarlo in ‘Falling’ – questa persona vede, sente e prova emozioni reali, chiare, non necessariamente confuse. Possono essere memorie felici o tristi, ma sono presenti, vivide. il personaggio interpretato da Henriksen, non è certo mio padre, ma è un dato di fatto che in passato gli uomini lavoravano fuori casa e non si occupavano dei figli, erano le donne a crescerli ed educarli. Ci sono poche relazioni fondamentali e complesse come quelle tra padre e figlio e pochi eventi sono destabilizzanti come la perdita di un genitore, quel momento in cui vengono tagliati quei legami che ti collegano con la terra. L’idea di ‘Falling’ mi è venuta mentre attraversavo l’Atlantico in aereo dopo il funerale di mia madre. Non riuscivo a dormire, la mia mente era invasa da ricordi e immagini di lei e della nostra famiglia nelle diverse fasi di vita condivisa. Sentendo il bisogno di descriverli, ho iniziato a scrivere una serie di episodi e frammenti di dialogo che ricordavo dalla mia infanzia. Più scrivevo su mia madre, più pensavo a mio padre. Durante quel volo notturno, le impressioni che appuntavo si erano trasformate in una storia composta principalmente da conversazioni e momenti che non erano mai realmente accaduti, linee parallele e divergenti che in qualche modo si incastravano allargando la prospettiva dei ricordi reali che avevo costruito intorno alla mia famiglia. Sembrava che le sequenze inventate mi permettessero di avvicinarmi alla verità dei miei sentimenti verso mia madre e mio padre piuttosto che un semplice elenco di ricordi specifici. Il risultato ha dato vita a una storia padre-figlio intitolata ‘Falling’ su una famiglia immaginaria che condivide alcuni tratti con la mia”.

L’autore mentre dirige Sverrir Gudnason e Hanna Gross nel ruolo dei suoi genitori quando lui era bambino rappresentato dal bambino biondo seduto a tavola

Ma “Falling” non è il primo film col quale pensava di debuttare in regia, è solo quello per il quale ha trovato più facilmente i finanziamenti, segno che i produttori credono molto nella demenza senile cinematografica: è da ben venticinque anni che Viggo scrive sceneggiature e, nello specifico, qui non pensava di interpretare un ruolo ma è stato spinto a recitare proprio dai produttori che volevano nel cast un nome di spicco. Con una coproduzione di Canada, Regno Unito e Danimarca, l’attore inserisce nel cast altri due interpreti dell’area scandinava: lo svedese-islandese Sverrir Gudnason nel ruolo del padre da giovane, e l’americano di genitori norvegesi Lance Henriksen come padre vecchio, il protagonista del film: qui l’ottantenne è nel suo ruolo probabilmente più impegnativo dato che in una carriera interamente di caratterista è giunto alla notorietà interpretando l’androide Bishop nel secondo Alien “Alien, scontro finale” (che non fu finale, anzi) diretto da James Cameron nel 1989, regista che lo avrebbe voluto come protagonista del suo “Terminator” che ha invece lanciato Arnold Schwarzenner; Henriksen è poi stato protagonista della serie tv fantasy “Millennium”. Completano il cast la supporter di lusso Laura Linney, l’ancora poco nota canadese Hannah Gross e il cino-canadese Terry Chen. Altra presenza di lusso è l’amico regista David Cronenberg nel ruolo del proctologo. In apertura dei titoli di coda l’autore dedica il film ai suoi fratelli. Girato nel 2019 è stato presentato in anteprima al Sundance Film Festival nel gennaio 2020 a ridosso della pandemia che nessuno poteva immaginare, ma in pieno lockdown il film è stato presentato a settembre al Toronto International Film Festival e a dicembre è poi uscito nel Regno Unito, mentre negli USA è andato nelle sale nel febbraio 2021: va da sé che ha incassato meno di mille dollari, solo restando negli Stati Uniti.

L’episodio del bambino che spara a un’anatra e poi da morta se la tiene come fosse un peluche prima che la mamma la cucini per cena, ripropone un episodio reale dell’infanzia dell’autore.

Al di là del tragico inconveniente del lockdown, il lavoro rimane un piccolo film molto ben confezionato che impropriamente alcuni hanno comparato alle regie di Clint Eastwood – che, per inciso, sarebbe stato perfetto nel ruolo del vecchio padre se non fosse che il vecchio Clint sta lasciando di sé l’immagine di un vecchio saggio ispirato e ispiratore di buoni sentimenti, ancorché sempre ribelle – dimenticando che il debutto cinematografico di Eastwood è stato di un altro tenore e che le sue successive regie apparentemente romantiche e melodrammatiche riescono sempre a graffiare lo smalto del perbenismo sociale, di cui il film di Mortensen è invece intriso insieme alle ambizioni filosofiche con le quali intendeva ridisegnare i rapporti, disagiatissimi, fra la persona malata e i suoi congiunti: materiale che il neo-autore non riesce a comporre e nel film manca sempre qualcosa o c’è qualcosa di troppo e i personaggi, a cominciare dal protagonista, non sono empatici e si fatica a entrarci in sintonia e farseli piacere: il vecchio affetto da demenza è violentemente scurrile, razzista, sessista, omofobo – tutti aspetti che coinvolgono la personalità di chi perde l’autocontrollo (so di anziani d’ambo i sessi che si masturbano davanti a figli nipoti e badanti, cosa che non si può raccontare neanche nella vita reale) e la lucida interpretazione di Lance Henriksen, benché interessante poiché non ordinaria, non riesce a diventare straordinaria. Anche la controllata e pacata condiscendenza del figlio interpretato dall’autore – irrita perché arriva come rinunciataria e ipocrita: una filosofia comportamentale molto politically correct o new age ma poco realistica. L’interpretazione più centrata appare quella di Sverrir Gudnason, che nel ruolo del contadino assai brusco con moglie e figlio, riesce a infondere al personaggio inattese e delicate sfumature che rendono appieno l’umanità di un uomo ancorché antipatico; è questo il talento degli interpreti: rendere umani e addirittura affascinanti i personaggi negativi. Jago ringrazia quanti lo hanno interpretato, ricordando che dietro c’era un signor autore.

Io e Lulù – opera prima di Channing Tatum

Dopo aver chiacchierato dei debutti in regia dell’americana Maggie Gyllenhaal e delle italiane Jasmine Trinca e Claudia Gerini risorvoliamo l’Atlantico per tornare negli USA e parlare di un altro debutto di un altro attore famoso che, dire il vero, è un’opera prima firmata a quattro mani dal protagonista e dal suo amico sceneggiatore di fiducia Reid Carolin, ma come la stampa ufficiale metto in primo piano l’attore perché è il volto noto e il nome di punta.

Va detto subito che Channing Tatum, essendo un gran bel bisteccone ha basato l’intera sua carriera sull’avvenenza fisica e anche questa sua prima prova registica rimane in quella traccia, quando magari avrebbe potuto fare un cambio di rotta e concedersi un ruolo più maturo e complesso; e invece, forse consapevole dei suoi limiti o forse davvero senza vere aspirazioni a premi e riconoscimenti importanti (spopola agli MTV Movie Awards e ai Teen Choise Award) si confeziona addosso un film di genere, accattivante melodrammatico e retorico, dove senza sprecare energie interpretative continua a mettesi in mostra a petto nudo e poi drammaticamente va sotto la pioggia a fare il mister maglietta bagnata.

Tatum sin dall’infanzia soffre di ADHD e poiché all’epoca – Channing è oggi 43enne – non si conosceva questo disturbo, il ragazzino venne classificato come terribilmente indisciplinato e allo scopo di conculcargli buona educazione e una solida disciplina a nove anni venne iscritto in un’accademia militare dove completò gli studi dell’obbligo senza ovviamente risolvere i suoi problemi di iperattività e deficit di attenzione, e da lì in poi fece molti lavoretti – commesso dog-sitter muratore – senza mai trovare il suo punto fermo. A 19 anni però, grazie al suo corpo ben modellato nel rigore militare e sulla base della ricchezza dei suoi geni provenienti da diversi gruppi etnici (nativo americano, francese, inglese, irlandese e tedesco) Channing (nome che dall’inglese e dal francese antichi significa “giovane lupo”) con lo pseudonimo di Chan Crawford si avviò alla carriera di spogliarellista e l’anno dopo fu nel corpo di ballo del video di Ricky Martin “She Bangs” dove si fa fatica a individuarlo nel montaggio veloce e nella confusione, ma sembra il tipo con gli occhiali sulla destra.

Inizia così la sua carriera di modello che lo porterà alla copertina di Vogue, e diventando un volto e un corpo delle campagne di Emporio Armani, Dolce & Gabbana e Abercrombie, comincia a girare fra New York, Parigi e Milano: il ragazzino iperattivo ha trovato il suo centro di gravità permanente. Poi nel 2004 partecipa a un episodio di “CSI: Miami” e lì decide di proseguire con la carriera di attore.

Dopo qualche piccolo ruolo è protagonista del musical ballerino “Step Up” e torna con un cameo in “Step Up 2” mentre nel frattempo comincia a far cinema per davvero fino a essere protagonista nel 2009 in “Fighting” passando dai film ballerini ai film di botte da orbi, sempre seguendo la traccia della prestanza fisica, e poi è protagonista del giocattolo bellico “G.I. Joe” basato sui giocattoli Hasbro, di nuovo tornando nel sequel. È anche protagonista drammatico in un film d’autore, “Dear John” di Lasse Hallström, che però è un clamoroso flop: costato 25 milioni di dollari ne incassa meno di 115mila. Ci riprova con “La memoria del cuore” di Michael Sucsy e stavolta la sua prova drammatica è coronata da un successo planetario. E finalmente nel 2012 è protagonista di “Magic Mike” diretto da Steven Soderbergh su sceneggiatura di Reid Carolin che si è ispirata alla reale esperienza dello Channing giovane spogliarellista: un altro film campione di incassi che avrà il suo ovvio seguito, “Magic Mike XXL” e poi nel febbraio di quest’anno l’ultimo della trilogia “Magic Mike – The Last Dance”.

Ma l’ispirazione del suo film d’esordio condiviso è sincera: il bisteccone aveva davvero una cagna di nome Lulù, una pitbull che è morta di cancro nel 2018 e con la quale ha fatto un viaggio in auto quando lei era già malata, un road trip che è diventato questo road movie. “Quando ho fatto il mio ultimo viaggio con la mia cucciola ho provato quella sensazione di: ‘Non c’è niente che io possa fare. Non c’è più niente da fare. Devi solo accettarlo ed essere grato per il tempo che hai ottenuto con lei sapendo che non sono qui per sempre. Io dovevo andare avanti mentre lei doveva andare da un’altra parte”. E il film che ne deriva è un prodotto di genere con un’accoppiata vincente: un reduce di guerra e un cane altrettanto reduce, entrambi affetti da stress post-traumatico che dopo le iniziali incomprensioni finiranno con l’essere terapia l’uno per l’altra. Buoni sentimenti e simpatia spalmati a dovere senza mai approfondire l’aspetto drammatico, tutt’al più qualche contorsione di dolore e qualche smorfia di sofferenza, lasciando la recitazione impegnata fuori dalla storia: come lui dice a lei quando cominciano a fare amicizia “Ora non facciamo i sentimentali” e il film, che è un concentrato di sentimentalismo a stelle e strisce, non lascia spazio a momenti recitativi importanti, benché il film si regga molto sui monologhi-dialoghi col cane. “Io e Lulù” è l’accattivante titolo italiano che sostituisce l’originale e più semplice “Dog” laddove il protagonista all’inizio fa fatica ad entrare in sintonia con l’animale e la chiama semplicemente “cane”. Fra gli altri numerosi interpreti che i due incontrano nel loro viaggio l’unico che vale la pena ricordare per consistenza del ruolo è l’altro reduce interpretato da Ethan Suplee.

Scritto da Reid Carolin con Brett Rodriguez, con l’attore il film mette insieme tre nomi che precedentemente avevano prodotto il documentario “War Dog: a Soldier’s Best Friend” dal cui argomento prende ulteriore spunto questo film di fiction. L’impresa è stata annunciata dai due novelli registi in coppia nel novembre del 2019 con inizio delle riprese previste a metà del 2020, e lo scoppio della pandemia che fermò tante altre lavorazioni non fermò questa e la lavorazione continuò in pieno lockdown. Solo l’uscita fu ritardata, dato che i cinema erano chiusi, dal febbraio al luglio 2021, salvo poi essere ancora posticipata al febbraio 2022. Grande successo di pubblico e critiche tiepidamente positive: probabilmente nessuno si aspettava qualcosa di più.

Tapirulàn – opera prima di Claudia Gerini

Un gran bel debutto quello di Claudia Gerini che si fa regista a coronamento di una brillantissima carriera in cui ha potuto esprimere pienamente il suo talento benché a costo di compromessi.

A 13 anni vinse Miss Teenager, sorta di concorso di bellezza per Lolite spinte sul palco da mamme frustrate, un palcoscenico ad uso e consumo di attempati pedofili – mi si lasci passare la provocazione; quell’anno in giuria c’era Gianni Boncompagni che le mise subito gli occhi addosso e non passerà molto perché i due diventino coppia di fatto, lei ancora minorenne lui di quarant’anni più vecchio; certo, anche se la cosa nell’ambiente fece un po’ di chiacchiere, pubblicamente tutti tacquero, in fondo chi è senza peccato scagli la prima pietra; e poi si sa, da sempre le giovani, ma anche i giovani, arrivano al successo anche passando per le camere da letto e anche sforzandosi di cambiare all’occasione preferenze sessuali.

Solo nel 2017, dopo la morte di lui, lei ha ammesso la relazione in un’intervista al Corriere della Sera: “Capisco che, vista ora e vista da fuori, sembri una relazione scabrosa. Oggi ci arresterebbero, Gianni me lo diceva spesso: ‘Siamo due pazzi’. Ma mi creda: nonostante l’enorme differenza di età, era una relazione alla pari… E non c’era alcun tipo di corruzione, non ho avuto niente in cambio, nulla di materiale.” Sta di fatto che la sua carriera ha avuto degli assist, per usare il gergo sportivo. A quindici anni il suo debutto cinematografico come figlia di Lino Banfi e dopo un altro paio di film secondari a vent’anni c’è la svolta e debutta in tv come conduttrice di un gioco telefonico nel programma Mediaset “Primadonna” ideato da Boncompagni, e poi da lì passa a “Non è la Rai”, dove diva indiscussa sarà un’altra Lolita, Ambra Angiolini di sei anni più giovane della nostra. Parlando degli anni successivi Gerini puntualizza: “Non mi ha aiutato per niente, mi è stato accanto ma non professionalmente. È stato importante per la mia formazione di donna, ma a livello lavorativo zero, non ha aggiunto e non ha tolto niente. ‘Non è la Rai’ l’avrei fatta lo stesso. Vabbè.

A 24 anni arriva la grande occasione per sfondare al cinema facendo coppia con Carlo Verdone nel suo “Viaggi di nozze” dove è stata la Jessica della coppia cult di “O famo strano?”; i due fecero anche coppia fuori dal set, e stavolta lui era più anziano di lei di soli vent’anni; ma era una coppia male assortita e come lei stessa ricorda in un’altra intervista: Mi era venuto a vedere in un piccolo teatro. Avevo fatto il provino per ‘Perdiamoci di vista’, lui era il mio idolo e all’università parlavamo con le battute dei suoi film. C’è stato un coinvolgimento sentimentale, ma era un momento particolare per tutti e due. Ci vogliamo bene, abbiamo diviso molto. Lui è ovviamente un uomo complicato, come io sono una donna complicata. Ci sono stati due anni – quelli in cui abbiamo girato e promosso ‘Viaggi di nozze’ e ‘Sono pazzo di Iris Blond’ – in cui abbiamo praticamente ‘convissuto’. Siamo stati amici, confidenti, poi abbiamo avuto questo crash, questa cotta reciproca, ma eravamo troppo diversi. Lui aveva un’età in cui voleva stare tranquillo, non gli piaceva uscire. Io avevo 25 anni, ero un fuoco d’artificio.” Come Iris Blond riceve la sua prima candidatura ai David di Donatello.

Ma ora la smetto di fare il pettegolo e per ragioni di spazio sorvolo su tutta la sua carriera dove è stata sia protagonista che comprimaria di lusso, apparendo anche in alcuni cameo dove lei ha fatto davvero la differenza, e penso al “Diabolik” dei Manetti Bros. Per questo suo primo film da regista si regala un ruolo da protagonista assoluta col suo nome a campeggiare da solo sopra il titolo, ed è il caso dire: finalmente. Perché Claudia Gerini è cresciuta come una vera attrice che può indistintamente passare dal brillante al drammatico sempre centrando il personaggio; ricordiamoci che come altri suoi colleghi di successo ha studiato recitazione con Beatrice Bracco e Francesca De Sapio.

Il film è scritto da Antonio Baiocco e Fabio Morici e in sede di realizzazioni ci mette le mani anche la stessa regista protagonista, mentre Morici che è anche attore scrittore e sceneggiatore si piazza nel ruolo del supervisore della protagonista. Ma ci sono altri interventi nella scrittura e nei titoli di testa leggiamo “dialoghi di” com’è largamente in uso nella cinematografia francese ma che è una novità nel cinema italiano; si tratta di specialisti che rendono più fluidi i dialoghi ma, spiace dirlo, qui sembrano mancare il bersaglio e si vanifica l’introduzione nella sceneggiatura di questi specialisti, perché proprio i dialoghi – importantissimi in un film di parola come questo – risultano a tratti deboli, a volte scontati, generalmente poco empatici. Supplisce la Gerini con la sua recitazione emotivamente sempre tirata e soprattutto con la sua regia che si può veramente definire raffinata, da mestierante – e il termine non è un dispregiativo – di gran classe.

La protagonista è una psicoterapeuta che fa counseling on line sempre mentre corre sul suo tapis roulant, il tapirulàn del titolo che non è solo la trascrizione della lingua parlata, come fino a ieri credevo, ma anche l’italianizzazione del termine francese. La difficoltà della regia, brillantemente superata, è stata quella di rendere cinematograficamente dinamica una situazione statica – anche se fisicamente l’attrice è sempre in movimento: una donna che corre sul suo super tecnologico tapirulàn, sempre chiusa in un super attico, a dialogare on line con diversi personaggi su schermo. Il rischio della noia è sempre dietro l’angolo ma Claudia Gerini ha mestiere di regista da vendere e, con la complicità del montaggio di Luna Gualano, anche scrittrice regista e creatrice di effetti visivi, realizza un film con un ritmo che non perde mai un colpo.

Essendo tutti usciti da una pandemia che ci ha chiusi in casa nei precedenti due anni, nel vedere questo film con una donna ostinatamente chiusa nel suo attico a svolgere attività on line, facendo un po’ di conti viene naturale pensare che il film sia stato pensato proprio in quel periodo e che dunque è un altro di quei progetti che hanno visto la luce come reazione propositiva al lockdown. Emma, che aiuta gli altri ma non sempre, e che non sa aiutare se stessa, corre sempre e la sua corsa è una metafora, o la fisicizzazione di un disturbo: come comprendiamo subito, quando la contatta la sorella che non vede da 26 anni, sta scappando dal suo passato e, soprattutto, da suo padre. E noi che abbiamo visto centinaia di puntate di “Law & Order – Special Victims Unit” sappiamo subito di che si tratta, e qui sta la parte più debole della storia che non è riuscita a immaginare per la protagonista una fuga da un passato ormai troppo banale perché cinematograficamente e televisivamente abusato. Insomma, un abuso dell’abuso. C’è poi la sequenza dei pazienti-clienti e dei loro disturbi e confessioni: una carrellata di varia umanità messa insieme nel modo più accattivante possibile scremando tutte le varianti immaginabili, dall’ossessivo compulsivo all’aspirante suicida, all’adolescente che fa i conti con la propria omosessualità; e qui viene in mente un’altra serie di successo, la psicoanalitica “In Treatment”. Perché, se la sceneggiatura nell’insieme è un congegno perfetto, nello specifico risente troppo di tanta cinematografia di genere e soprattutto di serialità televisiva, ancorché di qualità internazionale. E il film, magistralmente diretto dalla regista debuttante, inevitabilmente si colloca fra i film di genere di quella produzione tv di qualità come Sky o Netflix o Paramount+. C’è di buono, oltre a quanto detto, che il dramma personale della protagonista viene risolto senza ulteriori stucchevoli drammatizzazioni e senza abusare della nostra pazienza, oltre a tanti altri acuti dettagli della messa in scena: la vista dalla scatola di vetro dell’attico sul parco popolato di vita reale nel quale alla fine la protagonista scenderà a respirare, e poi il disordine di alcuni scatoloni in un angolo dell’algido appartamento, insieme alle prove dei colori sulla parete da dipingere: dettagli sparsi che danno umana profondità alla storia.

“Dirigere ‘Tapirulàn’ ed esserne allo stesso tempo la protagonista, è stato un lavoro complicato e molto impegnativo soprattutto per una prima regia. Il grande trasporto che ho sentito per il personaggio di Emma mi ha dato coraggio e, con energia ed entusiasmo, ho potuto sperimentare e creare un mondo all’interno della casa. La grande sfida era quella di rendere dinamico e vivace il racconto per immagini, poiché Emma rimane per tutto il film sopra una macchina imponente, dialogando con i suoi pazienti-clienti sempre e solo attraverso uno schermo. Ho cercato di sfruttare al meglio questi ‘impedimenti’ e queste difficoltà, cercando di muovere il più possibile le inquadrature e facendo in modo che la partecipazione emotiva di Emma verso i problemi dei suoi pazienti-clienti fosse davvero forte, oltre a rendere ‘tangibile’ la sua empatia attraverso i suoi occhi e i suoi respiri”. Ricordiamo che la 52enne attrice-regista si è potuta fisicamente permettere il film perché è in magnifica forma: è cintura nera di Taekwondo.

Il resto del cast: oltre a Fabio Morici come supervisore ci sono Claudia Vismara che è la sorella, Marcello Mazzarella che è il padre e Corrado Fortuna che fa il toy-boy, mentre i pazienti-utenti sono: Alessandro Bisegna, Niccolò Ferrero, Lia Greco, Maurizio Lombardi, Stefano Pesce e Daniela Virgilio. Ognuno con una storia che potrebbe svilupparsi come spin-off. Anche se il film non è stato premiato al botteghino vale sicuramente una bella serata davanti la tivù. E occhio alla neo-regista alla quale auguro di poter dirigere storie dove lei non sia la protagonista, non perché le manchino il talento e l’energia per fare entrambe le cose, ma perché così avrebbe modo di esplorare storie differenti e accreditarsi come regista a tutto tondo.

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