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Dillinger è morto, omaggio a Michel Piccoli

Qualche giorno fa, il 12 maggio 2020, se n’è andato l’85enne Michel Piccoli, un’icona del cinema francese con frequentazioni del cinema internazionale e quasi di casa in Italia dove ha lavorato anche con Marco Bellocchio, Ettore Scola, Elio Petri, Liliana Cavani, per concludere nel 2011 con Nanni Moretti in “Habemus Papam” dove riempie il film come neo eletto papa, restio e confuso, che vaga per la città in cerca del senso della sua esistenza: il suo desiderio è quello di scomparire senza lasciare traccia del suo passaggio, sia in Vaticano che nella Vita.

Col senno di poi, e con un mio personale azzardo, quel vecchio papa confuso e spaesato fa la coppia con l’ingegnere – designer industriale – del film di Marco Ferreri del 1969 che racconta di un uomo che, altrettanto, cerca un senso per la sua vita e che, similmente, sparirà dalla società, di cui è però un prodotto tipico: quarantenne affermato, benestante, bella casa al centro di Roma (quella che era del pittore Mario Schifano, con alcune sue opere alle pareti – mentre la cucina-teatro è quella di casa Tognazzi), con moglie giovane e decorativa, domestica compiacente, filmini delle vacanze… Michel Piccoli riempie questo film one-man-show con la sua sola naturale presenza, quasi senza interpretare, filmato dal regista come una cavia in una gabbia, che per tre quarti del film non parla e cincischia dentro casa, con lunga sequenza in cucina dove si prepara una cena quasi in tempo reale: un iper-realismo talmente minuzioso da darmi ai nervi, lo confesso. All’inizio mi sono chiesto: ma cosa sto guardando?

La svolta narrativa avviene quando trova una vecchia pistola avvolta in un vecchio giornale del 1934 che riporta la notizia della morte del criminale americano John Dillinger, da cui il titolo del film senza alcun apparente imparentamento narrativo. Comincia a smontare la pistola, a oliarla, rimontarla, dipingerla di rosso a puntini bianchi come il cappello di un fungo velenoso, e poi mima il suicidio: tutti conosciamo la vecchia regola narrativa secondo cui quando compare un’arma prima o poi verrà usata.

Il senso del film, e del personaggio, è tutto all’inizio, quando un suo collega (Gino Lavagetto) gli legge brani di un saggio che sta scrivendo, e che è la reale poetica di Marco Ferreri per questo suo film: “l’isolamento dell’uomo in uno spazio chiuso, letale, lo induce a indossare una maschera, e sapere di dovere indossare una maschera non dà un senso d’angoscia? L’introiezioni di bisogni ossessivi e allucinatori non dà come risultato l’adattamento alla realtà ma l’annullamento dell’individuo…” Concetti assai astratti e molto intellettuali che nel corso del film vengono tentati ed esplorati come forma narrativa. Un film difficile, ostico, e allo stesso tempo incantatorio, come quando ci si ferma a osservare un criceto che gira su una ruota, o il cestello della lavatrice che gira, presi dalla reiterazione del nulla che conduce al nulla: in questo senso il film è riuscitissimo e il prezzo della sua comprensione è quello di lasciarsi incantare dalla sequenza reiterata di dettagli insignificanti. Poi va a finire che spara – apparentemente senza motivo né emozione – alla moglie addormentata, quindi tenta un insoddisfacente giochino erotico con la domestica e infine abbandona la sua vita nota per imbarcarsi come cuoco su un yacht destinazione Tahiti.

Nel finale il film registra un vistoso cambio di marcia narrativo e passa dall’iper-realismo (a tratti faticoso da seguire) al surreale (faticoso da digerire): sull’imbarcazione stanno facendo il funerale al cuoco e ne buttano la salma in mare, lì appena sotto costa, come sarebbe avvenuto su un veliero di bucanieri nel mari del sud del ‘700, senza preoccuparsi di procedure legali e brogliacci iper-realisti; e altrettanto, senza preoccuparsi di documenti e altre procedure legali, lui viene accolto nella ciurma pronta a partire all’avventura. A mio avviso un finale frettoloso per una storia che, seguendo una sua logica interna, non avrebbe dovuto avere alcun finale, un finale aperto.

Alla sua uscita il film, presentato a Cannes, fu oggetto di polemiche, soprattutto per la violenza fredda e gratuita della scena dell’uxoricidio, che oggi diremmo femminicidio. Ma fece anche parlare, sia bene che male, per questo suo essere espressione del tempo, la fine degli anni ’60, periodo di contestazioni dei valori dominanti e dell’ordine costituito, periodo in cui sembrava necessario dirsi e manifestarsi alternativi e diversi, e Marco Ferreri fa la sua contestazione rielaborando il linguaggio filmico e qui delineando il suo stile e i suoi temi: l’afasia, la fuga dalla realtà, gli ambienti claustrofobici, l’ossessione per il dettagli, il feticismo, il nudo, il sesso, il cibo, la morte. Riguardo al nudo, è evidente che in questo film era largamente previsto, ma risulta chiaro che il protagonista non si è reso disponibile, e lo vediamo coprirsi le pudenda con un risicato e anche ridicolo asciugamani arancione. Deplorando il ridicolo, bisogna convenire che il nudo di Michel Piccoli non ci manca affatto.

Il personaggio e la storia erano stati pensati da Ferreri al femminile, per Annie Girardot che era già stata sua protagonista in “La donna scimmia” del 1964, ma l’attrice ritenne troppo impegnativo il ruolo e preferì ritagliarsi quello secondario della domestica erotomane e compiacente: è un peccato, perché al femminile, nel 1969, questo film sarebbe stato davvero esplosivo. Quindi il soggetto passò nelle mani di Michel Piccoli che entusiasticamente si propose, divenendo uno degli assidui attori di Ferreri: sarà anche in “La cagna” 1971, “La grande abbuffata” 1973, “Non toccare la donna bianca” 1974, “L’ultima donna” 1976 e “Come sono buoni i bianchi” 1988. Da notare che in locandina il nome di Annie Girardot è il primo, chiaro segno di galanteria del gentilhomme Michel Piccoli.

Nel ruolo della giovane bella moglie a letto perché indisposta, ma forse solo annoiata, l’italiana (a dispetto del cognome) Anita Pallenberg, modella, già sentimentalmente legata al pittore Mario Schifano nel cui vero letto si ritrova a miagolare, e poi groupie dei Rolling Stones, essendosi legata prima a Brian Jones e poi a Keith Richards. Arriva sul set di “Dillinger” dopo essere stata nel cast di “Barbarella” con Jane Fonda, di Roger Vadim, l’anno prima. L’anno dopo girerà “Sadismo” di Donald Cammell e Nicholas Roeg, dove pare avrà un affair anche col debuttante attore Mick Jagger, front-man dei già assai frequentati Rolling Stones. Continuerà la carriera come stilista.

Di Michel Piccoli resta da dire che è difficile sintetizzare la sua grande filmografia, coronata da numerosi riconoscimenti e premi. Ma la sua interpretazione che più mi è rimasta impressa è quella di “Salto nel vuoto” di Marco Bellocchio, 1980, premio a Cannes come migliore interpretazione maschile, e premio anche alla coprotagonista Anouk Aimée: due anziani fratelli intrappolati in una quotidiana e claustrofobica nevrosi di inesplicabile interdipendenza. Da applausi in sala.

“Dillinger è morto” passa raramente in tv ma lo si può vedere integralmente su YouTube e RaiPlay.