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Metti, una sera a cena – per ricordare Lino Capolicchio

La scorsa settimana se n’è andato dopo una lunga malattia anche Lino Capolicchio che nella memoria collettiva cinematografica di chi ha superato gli anta è l’eterno attor giovane imbronciato in cui si sono immedesimati quelli che oggi vengono definiti nerd e che, volente o nolente, è diventato anche oggetto di una discreta fantasia omoerotica, discreta come discreto e schivo è stato lui, attore protagonista di film importanti ma sempre ai margini, più prossimo alla fuga dietro le quinte che al centro della scena. A innestare su di lui un fascino ambiguo è certamente questo film dove interpreta un sedicente contestatore, un po’ rivoluzionario e un po’ marchetta, e lo stare quasi sempre nudo avvolto fra le lenzuola sembra essere la sua condizione più naturale mentre ospita nel suo letto sia donne che uomini.

Nato in provincia di Bolzano cresce a Torino dove comincia a frequentare il palcoscenico con Massimo Scaglione, e appurata la sua passione si trasferisce a Roma dove frequenta l’Accademia Silvio D’Amico, e subito dopo è a Milano dove lavora con Giorgio Strehler al Piccolo; ottenendo un personale successo di pubblico e critica ottiene un ruolo nello sceneggiato Rai “Il Conte di Montecristo” e poi nel fatidico 1968 è protagonista del film arrabbiato opera prima di Roberto Faenza “Escalation” che volendo essere un’allegoria della società risulta però soltanto un pasticcio grottesco, ma per Lino è soltanto l’inizio di una carriera del cui andamento però, quando tirerà le somme, dirà che non è andata come voleva. Senza considerare un piccolissimo ruolo non accreditato in “La bisbetica domata” di Franco Zeffirelli, “Metti, una sera a cena” è il suo terzo film, sempre da protagonista; ed è dell’anno dopo “Il giardino dei Finzi Contini” di Vittorio De Sica che vincerà l’Oscar come miglior film straniero.

A tal proposito una curiosità commerciale: il film di De Sica era nel pacchetto Sky Cinema – pacchetto a pagamento, per chi non conosce quel piano commerciale, dove sono visibili centinaia di film senza costo aggiuntivo; dalla morte di Capolicchio, con l’improvvisa impennata dei download, il titolo è passato a pagamento nel pacchetto Sky Primafila che, come suggerisce il nome, contiene i titoli appena dismessi dalle sale, una sorta di prima visione casalinga: nello specifico una pratica commerciale scorretta che Sky ha voluto offrire ai suoi abbonati.

Dopo l’ambiguo Ric di “Metti, una sera a cena” e la bella parentesi del film di De Sica, Lino gira una serie di film a sfondo sexy-perverso – sono gli anni della liberazione sessuale e il cinema cavalca l’onda – fino al successivo incontro fatale con Pupi Avati nel 1976 con “La casa dalle finestre che ridono” ed è l’inizio di un proficuo sodalizio. Come dirà in un’intervista, Avati come Strehler hanno rappresentato per lui la figura paterna che gli era mancata nell’infanzia. Il suo ultimo film è “Il signor diavolo” di Pupi Avati, del 2019.

Il film è la trasposizione a tambur battente della commedia che ha avuto un clamoroso successo al Teatro Eliseo di Roma dove è stata replicata per ben due anni dalla Compagnia dei Giovani con regia di Giorgio De Lullo e interpretata da Romolo Valli, Rossella Falk, Carlo Giuffrè, Elsa Albani e Umberto Orsini. La commedia conclude una trilogia scritta per quella compagnia e iniziata con “D’amore si muore”, 1958, messa in film nel 1972 con la regia, l’unica, di Carlo Carunchio, già assistente di Patroni Griffi; proseguita con “Anima nera”, 1960, messa in film nel ’62 da Roberto Rossellini; e conclusa appunto con “Metti, una sera a cena” che lo stesso autore dirigerà per lo schermo. Una trilogia che mette in scena i complicati rapporti sentimentali all’interno di coppie, scoppiate o allargate o che diventano triplette e dove si moltiplicano nel numero chiuso tutte le varianti possibili scavalcando i generi e il tanto decantato comune senso del pudore: i suoi protagonisti sono tutti spudorati e cinici, e coltivano l’amoralità come unica via possibile di espressione sentimentale e sessuale.

Il gioco delle parti che mette in scena Giuseppe Patroni Griffi è quello che si svolge all’interno di una società alto borghese, la stessa da cui lui proviene con ascendenze nobili in decadimento; i suoi protagonisti sono quelli del suo stesso mondo, attori scrittori commediografi spesso con latenze omosessuali o messi a confronto con l’omosessuale di turno, dove l’omosessualità – quella dichiarata dell’autore – diventa l’unica chiave di lettura di una società in cui gli eterosessuali – in una diffusa quanto errata visione omocentrica – non sono altro che froci latenti che aspettano di essere liberati alla gaiezza della vita, anzi no perché la vita è sempre cupa amara contorta perversa e non c’è salvezza per nessuno.

Ho qui a lungo precedentemente parlato di Pier Paolo Pasolini, omosessuale nevrotico e introverso che è stato costretto a esibire le sue pulsioni nelle aule dei tribunali e nei processi pubblici perché ahilui amava scandalizzare i minorenni, e che ha reagito facendo dell’omosessualità un manifesto politico. Patroni Griffi è invece un omosessuale di un’altra specie più diffusa, quella apparentemente pacificata con se stessa, ma che in realtà volendo omosessualizzare il mondo intero dichiara – ancora una volta – il proprio senso di inadeguatezza, di incapacità a gestire serenamente la propria omosessualità sempre vissuta come diversità, il cui senso sarebbe: se anche gli etero sono un po’ gay siamo tutti un po’ più uguali…

Dal punto di vista drammaturgico la cosa funziona perché spesso il teatro e il cinema sintetizzano e a volte anticipano ciò che sta per accadere nella vita reale: alla fine degli anni ’60 la borghesia coi suoi riti è al collasso e le perversioni di Patroni Griffi diventano parabole sociali, oltre a essere appetibili esercizi di stile per attori in carriera in cerca di novità. L’autore ha debuttato come regista cinematografico nel 1962 con “Il mare” dove racconta di un attore in vacanza, Umberto Orsini, indeciso fra una seducente donna e un seduttivo giovanotto. Messo da parte Orsini che interpreta lo scandaloso Ric nella messa in scena teatrale ma che non è e mai sarà un divo cinematografico, mette insieme con i produttori un cast internazionale per la sceneggiatura scritta col suo aiuto Carlo Carunchio e soprattutto col giovane Dario Argento che l’anno dopo avrebbe esordito come regista con “L’uccello dalle piume di cristallo”; la sceneggiatura a sei mani dà respiro alla scrittura teatrale con scene in esterni pensate come flash-back che col creativo montaggio di Franco Arcalli conferiscono al film una marcia in più e un ritmo assai intrigante.

Producono Giovanni Bertolucci, cugino dei fratelli registi Bernardo e Giuseppe, e soprattutto Marina Cicogna (Mozzoni Volpi di Misurata) figlia di un conte e di una contessa che in quegli anni è attivissima come lesbica dichiarata nella dolce vita romana, la quale durante un viaggio è stata folgorata dalla bellezza androgina di una hostess brasiliana, Florinda Bolkan, e se la porta in vacanza a Ischia: è l’inizio di un sodalizio umano e professionale che durerà più di vent’anni. Introduce la ragazza nel jet set artistico intellettuale della capitale e Florinda, che oltre al portoghese natio parla inglese francese e italiano, è già pronta per il gran salto artistico e gira tre film, uno dei quali è prodotto da Bino Cicogna, fratello di Marina, poco prima che fratello e sorella fondassero insieme la Euro International Film con la quale distribuirono questo “Metti, una sera a cena”.

Florinda Bolkan si rivela all’altezza delle aspettative con vere doti attoriali tanto da vincere con questa interpretazione la Grolla d’Oro come migliore attrice esordiente (si sono dimenticati gli altri tre film), una Targa d’Oro ai David di Donatello, e altri premi vincerà con altre interpretazioni; qui è doppiata da Livia Giampalmo. Immediatamente, dato il successo del film e della colonna sonora di Ennio Morricone che vinse il Nastro d’Argento, incise una canzone con le parole scritte da Patroni Griffi. E per non farsi mancare niente recitò il suo ruolo anche in una riedizione teatrale con regia di Aldo Terlizzi e nel cast Michele Placido, Remo Girone, Fiorenza Marchegiani e Fabrizio Bentivoglio; e a seguire Patroni Griffi la diresse in un’edizione dello “Zia Vanja” di Cechov.

Per il ruolo di Max, l’attore bisessuale, fu inizialmente scritturato nientemeno che Gian Maria Volonté che firmò un contratto record di 60 milioni di lire, salvo poi pentirsi durante le riprese: temeva che quel ruolo rovinasse la sua immagine di attore impegnato e ruppe il contratto restituendo i soldi, ma fu citato comunque in giudizio per avere fermato la produzione; dichiarò che aveva temuto di diventare “uno strumento nelle mani di persone che perseguono interessi che non sono i miei”. Peccato, sarebbe stato interessante vederlo in quel ruolo. Ruolo per il quale fu scritturato l’emergente italoamericano Tony Musante che in patria si era fatto notare con ruoli da teppista fra cinema e tv; fu importato in Italia per lo spaghetti-western di Sergio Corbucci “Il mercenario” e con questo ruolo in “Metti, una sera cena” si impose all’attenzione di critica, pubblico e cineasti. Qui è doppiato dal mai compianto abbastanza Luigi Vannucchi. Per i cast-insalate in uso all’epoca gli altri due ruoli andarono ai francesi Jean-Louis Trintignant (doppiato da Cesare Barbetti) e Annie Girardot (doppiata da Paila Pavese) che stranamente, rispetto agli altri interpreti, ha il nome sotto il titolo pur avendo un ruolo alla pari. Ne consegue che alla fine Lino Capolicchio è l’unico italiano di un quintetto di gran classe impegnato in ruoli che risultano vagamente sgradevoli e per i quali, cinici e autoreferenziali, si fatica a provare simpatia. Con l’aggravante che i dialoghi rimangono troppo letterari col risultato che il film, nonostante gli accorgimenti di sceneggiatura e montaggio, resta sempre troppo teatrale, con personaggi talmente carichi di simbolismi e di pensieri assoluti da restare estranei alla realtà.

Giustamente definito d’autore per la sua provenienza, il film fu un clamoroso successo con quella scena di bacio a tre che gli procurò guai con la censura e consequenzialmente code al botteghino e cambio di classificazione: da film d’autore venne proclamato film erotico e inserito per acclamazione in quel filone allora emergente. Le new entries Florinda Bolkan e Tony Musante divennero delle star del nostro cinema d’autore e lavorarono di nuovo insieme in “Anonimo veneziano”, film d’esordio come regista di Enrico Maria Salerno, e in “La gabbia” di nuovo con Patroni Griffi. Musante morì 77enne nel 2013 per complicazioni da un intervento chirurgico, mentre l’ottantunenne Florinda Bolkan è oggi una bella signora pensionata che ha diradato la sua presenza sugli schermi e il cui ultimo ruolo è una piccola partecipazione nel film d’esordio di Ginevra Elkann “Magari” del 2019. Di Lino Capolicchio resta da dire che con quel film divenne, suo malgrado e malgrado il suo fisico mingherlino, un sex symbol, ruolo in cui lui, attore di spessore e con altri obiettivi, non si riconosceva e per il quale ha dichiarato di avere anche ricevuto non desiderate attenzioni omoerotiche. Suo figlio Tommaso è oggi uno sceneggiatore.