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L’Innocente

1976. Ultimo film di Luchino Visconti, che malato lo ha girato in carrozzella e muore quando ancora la pellicola è in post produzione e il montaggio definitivo verrà curato dalla co-sceneggiatrice Suso Cecchi D’Amico, la quale aveva raccolto le sue ultime indicazioni. Il film vincerà solo il David di Donatello a Franco Mannino per le musiche e ricordiamo, anche per farci un’idea del periodo, che è l’anno del miglior film “Cadaveri eccellenti” di Francesco Rosi, migliore attrice Monica Vitti per “L’anatra all’arancia”, miglior attore un ex aequo per Ugo Tognazzi “Amici miei” e Adriano Celentano “Bluff”, migliore attrice straniera altro ex aequo per Isabelle Adjani “Adele H” e Glenda Jackson “Il mistero della Signora Gabler”, miglior attore straniero ulteriore ex aequo (forse non si voleva scontentare nessuno) per Philippe Noiret “Frau Marlene” e Jack Nicholson “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, mentre miglior film straniero è stato “Nashville” di Robert Altman. Ma i David di Donatello di quell’anno si arricchirono di un premio speciale intitolato proprio all’appena scomparso Luchino Visconti e che è andato a Michelangelo Antonioni per “Professione: reporter”. Il David “Luchino Visconti” verrà assegnato fino al 1995, a Pupi Avati come sorta di premio alla carriera. Poi questo premio verrà accantonato.

Torniamo al film. E’ ispirato a un romanzo omonimo di Gabriele D’Annunzio che non è fra le sue opere fondamentali: si tratta di una sorta di racconto sperimentale di stampo modernista pur non mancando il “superomismo” e il decadentismo fine ‘800. Il romanzo si apre col protagonista, Tullio Hermil, che sara l’io narrante della storia, e che scrive del funerale del piccolo Innocente che intitola il romanzo.

Nulla di tutto ciò nel film, e chi non conosce il romanzo si chiederà fino alla fine, quando il bambino morirà, chi è l’Innocente, cercando di individuarlo fra i tre protagonisti: il dandy egocentrico e piacente, rigoroso con gli altri ma non con se stesso, interpretato con cipiglio da un sempre eccellente Giancarlo Giannini, star italiana dall’impressionante curriculum anche internazionale, che proprio l’anno prima era stato candidato all’Oscar insieme alla regista Lina Wermuller per “Pasqualino Settebellezze”: della Wertmuller sarà un attore feticcio, e lei lo utilizzerà sempre come maschera popolare, essendo il suo cinema espressione di quel mondo.

Secondo nome nel cast è Laura Antonelli, come remissiva Giuliana moglie di cotanto marito: donna pudica e apparentemente frigida, rassegnata a quella situazione maritale fatta ormai solo di stima e rispetto. Ora, tutti sappiamo quale sia stata la carriera di Laura Antonelli, nativa di Pola e profuga con la famiglia durante l’Esodo Istriano: verrà ricordata Insieme a Femi Benussi, Alida Valli e Sylva Koscina come una “delle bellissime quattro” dalmato-istriane. Dopo una variegata carriera con piccoli ruoli o film dimenticati, arriverà al successo con “Malizia” di Salvatore Samperi, accanto a Turi Ferro e la giovane promessa Alessandro Momo prematuramente scomparso per un incidente motociclistico. Sarà uno dei più grandi successi del filone sexy all’italiana e il resto della sua carriera sarà improntato su questo genere, passando anche per la cosiddetta “commedia all’italiana” e da un cachet da 4 milioni di lire a uno di 100 milioni, per film. Dopo “Malizia”, che le era valso anche il Nastro d’Argento come migliore attrice, era passata al cinema d’autore, o per meglio dire al cinema sexy d’autore: ha partecipato al film a episodi “Sesso matto” di Dino Risi, poi rifà la siciliana in “Mio Dio come sono caduta in basso!” di Luigi Comencini, segue “Divina Creatura” di Giuseppe Patroni Griffi e finalmente arriva quella che avrebbe dovuto essere la consacrazione con Luchino Visconti dove sì, mostra il seno, ma il suo personaggio è senza erotismo e la sua recitazione piatta, come sempre e nonostante i premi, politici e di mercato. A 45 anni tenterà ancora l’eros d’autore con “La Venexiana” di Mauro Bolognini fino al finale tragico di “Malizia 2mila” del 1991, dove con Samperi tenterà di bissare il successo della Malizia del 1973: ha 50 anni e il produttore Silvio Clementelli le impone iniezioni di collagene al viso: il film fu un flop e lei rimase permanentemente sfregiata; seguirono depressione, con ricoveri presso un centro di igiene mentale, uso di stupefacenti con conseguenti denunce, e contro denunce al Ministero di Grazia e Giustizia per ottenere un indennizzo. E’ morta in miseria a 73 anni.

Terzo nome nel cast e nel romanzo è quello della bella nobildonna Teresa Raffo, amante di Tullio, interpretata dall’americana Jennifer O’Neill, attrice di moda negli anni Settanta e Ottanta con nessun film memorabile nel portfolio; era già stata interprete in Italia di “Gente di rispetto” di Luigi Zampa dal romanzo di Giuseppe Fava e poi sarà anche nell’horror-spaghetti “Sette note in nero” di Lucio Fulci. Erano i decenni in cui nel cinema italiano – quasi unico al mondo – recitavano interpreti di vari paesi in un’insalata linguistica che poi veniva risolta in sala doppiaggio.

Il film, certamente anche grazie alla scrittura di Suso Cecchi D’Amico, si distacca dal romanzo e mette in evidenza le istanze femminili fra cui, soprattutto, il tema del diritto alla maternità come anche quello dell’auto determinazione, sia come comportamento pubblico (la nobildonna) che in quello, assai più delicato, della libera decisione nell’aborto: sono temi politici molto importanti per la società italiana dell’epoca. Per il resto il film è un prodotto tipico di Visconti: opulenza, rigore nella ricerca stilistica di ambientazioni e costumi, sicurezza nell’intero impianto, anche attoriale, nonostante le insalate linguistiche dell’epoca e l’inadeguatezza di Laura Antonelli. Nel cast anche il francese Marc Porel, esibito da Visconti in uno dei suoi nudi integrali maschili, nel ruolo delle scrittore altrettanto dandy, quindi da subito diretto rivale del protagonista, che fa tornare a palpitare la troppo presto abbandonata Giuliana Hermil, dandole la maternità del povero Innocente che Tullio Hermil sacrificherà all’orgoglio del suo ruolo di marito padrone. Da ricordare anche la partecipazione di Rina Morelli come madre nobile: un’interprete di teatro che col compagno Paolo Stoppa aveva fatto “ditta” insieme a Luchino Visconti: la sua interpretazione, essenziale e dimessa, è di una modernità sconcertante. Ma nell’insieme, il film, come firma conclusiva della vita artistica e terrena del Maestro Luchino Visconti, non è fra i migliori. Se non addirittura il peggiore. Che nulla toglie alla grandezza di un maestro cine-teatrale del Novecento, con una personalità fatta di chiari e scuri, che mi piacerà tornare a raccontare prossimamente.