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Viale del Tramonto – rivisto in tv

1950, un film unico che travalica i generi, all’epoca molto più definiti di oggi, che si apre come un noir, un morto ammazzato in piscina, continua come una commedia degli equivoci con l’ignaro protagonista che viene accolto in villa da un “Se vi occorre una mano con la bara, chiamate”, e si scopre che la bara è per una scimmia da salotto appena morta, e siamo nel grottesco; ma il film è anche una storia d’amore impossibile con una dattilografa della Paramount e, anche, un impietoso documentario sul mondo del cinema come non si era mai visto: la voce fuori campo del protagonista che ci accompagnerà nella sua vicenda per tutto il film, due ore piene senza mai un cedimento anche alla visione odierna, avverte, elegantemente, che le giovani attrici non devono credere a tutto quello che dice un produttore; produttori e padroni di mondi che letteralmente possiedono le star che hanno sotto contratto, e qui si fa un fugace riferimento a Barbara Stanwyck e Tyron Power, due fra i tanti, in un sistema di ingaggi che non prevedeva autodeterminazione neanche per la vita privata. Ma è, soprattutto, un sontuoso melodramma dove la modernità del protagonista, sceneggiatore in fuga dai creditori, si scontra con la retorica, linguistica e comportamentale, dell’anziana protagonista esponente di un mondo che non c’è più: quello del cinema muto. Ed è curioso, e interessante notare, come la modernità del 1950 sia oggi retorica a sua volta, nel dinamismo del linguaggio e delle espressioni che cambiano sempre, inevitabilmente, con buona pace dei nostalgici: se la lingua parlata, che è sempre viva e in mutamento, avesse dato retta ai puristi, oggi parleremmo ancora latino.

Non si era neanche mai visto, o meglio sentito, come voce fuori campo, quella dello stesso protagonista che vediamo morto all’inizio del film, come se ci raccontasse la sua storia dall’aldilà con tutta la consapevolezza, e l’amarezza, del senno di poi che ne deriva. Un espediente narrativo surreale e nel contempo talmente innovativo, e artisticamente forte, che per decenni nessuno ha avuto il coraggio di copiare: si arriva al 1999 con “American Beauty” e “Donnie Darko” del 2001 perché il morto torni a raccontarsi in prima persona.

Un film irripetibile in cui converge un miracoloso concentrato di esperienze, situazioni e personalità. Le cronache erano piene di ex divi del cinema muto che, caduti in disgrazia e prigionieri di un’arte che non esisteva più, si rendevano protagonisti di drammatiche scene, sia pubbliche che private, che richiamavano l’attenzione della stampa e delle forze dell’ordine. Il muto è stato spazzato via negli anni ’30: è del 1928 il primo lungometraggio (57 minuti) interamente parlato: “Lights of New York” mentre il primo esperimento in assoluto è dell’anno prima: “Il cantante di jazz” dove il sonoro era limitato a poche battute parlate e alle 9 canzoni interamente cantate e suonate, entrambi i film prodotti della Warner Bros.

Billy Wilder ha scritto e diretto il film: oggi lo definiremmo “autore”. Di religione ebraica e nazionalità austro-ungarica poiché nacque sotto quell’impero oggi inesistente, e in seguito di nazionalità polacca perché la sua città natale alla fine della seconda guerra mondiale era entrata a far parte della Polonia: è uno dei tanti europei geniali che hanno fatto grande la storia del cinema statunitense. Conosce bene il cinema muto perché a casa vi comincia a lavorare come sceneggiatore e firma un film tedesco, una sorta di documentario brillante sulla vita di Berlino firmato da vari registi, fra i quali Robert Siodmak e Fred Zinnemann, altri ebrei che, come lui, emigreranno negli Stati Uniti. Wilder per sfuggire al nazismo passa prima dalla Francia (sua madre, sua nonna e il patrigno moriranno ad Auschwitz) dove firma da regista il suo primo film con quella che diventerà una star francese: Danielle Darrieux. Sbarcato poi in America riceve il sostegno di altri ebrei tedeschi come l’attore Peter Lorre e il regista Ernst Lubitsch e diviene presto uno sceneggiatore da candidature agli Oscar, mentre la sua prima regia americana è “Frutto Proibito” con Ginger Rogers e Ray Milland che segnerà la sua carriera di regista brillante, benché abbia esplorato anche altri generi, soprattutto quello propagandistico anti nazismo come “I Cinque Segreti del Deserto” dove a interpretare Erwin Rommel c’è l’attore e regista Eric Von Stroheim, anch’egli fuoruscito ebreo, che ritroviamo in questo “Viale del Tramonto”.

Eric Von Stroheim è arrivato in America prima degli altri, già 1909, dove non c’è un clan ebraico-tedesco a facilitargli la carriera. All’inizio fece la comparsa e lo stuntman per grandiosi film del muto come “Nascita di una Nazione” e “Intolerance” di D. W. Griffith. Grandiosità narrativa che segnò il suo stile come regista del muto e che gli procurò non poche difficoltà con gli studios. Ma fra il 1915 e il 1928 è stato nel trio dei grandi registi del muto insieme a Charlie Chaplin e Buster Keaton, ognuno con stili e narrative diverse. Nel 1928 diresse Gloria Swanson in “La Regina Kelly” prodotto dalla “Gloria Swanson Pictures” ma si era già al tramonto del muto e per evitare la catastrofe al botteghino la signora Swanson fece distribuire il film solo in Europa.

Gloria Swanson, americana di Chicago il cui vero cognome era Svensson, dunque di origine scandinava. Debutta nel cinema con piccoli ruoli e a sedici anni è nel cast di “Charlot principiante”; ma a vent’anni conosce il 38enne Cecil B. De Mille che, e un loro legame intimo non è accreditato, le fa avere un contratto con la Paramount e la sua carriera decolla, diventando una delle più celebri dive del muto. Fino al crollo di quel mondo.

La Paramount è un’altra protagonista del film dato che molte scene sono girate nei suoi uffici e in un suo teatro di posa dove Cecil B. De Mille, interpretando se stesso, sta dirigendo un peplum, durante la lavorazione del quale la star del muto Norma Desmond-Gloria Swanson lo va a trovare, e in un divertente passaggio la vediamo scansare con stizza il microfono “a giraffa” che le viene a sfiorare la piuma del cappello, a ribadire il suo rifiuto per il sonoro che le ha stroncato la carriera. In un momento cruciale del film dirà: “Io sono sempre grande, è il cinema che è diventato piccolo!” e renderà merito solo alla Garbo, che come lei ha cominciato nel muto ma che si è saputa riciclare nel sonoro grazie a un film che sfruttava il suo accento straniero, “Anna Christie” dal dramma teatrale di Eugene O’Neill, e del quale fu girata una seconda versione in tedesco con diverso cast e diverso regista, per la Germania. Per quel debutto sonoro fu inventato il lancio “Garbo talks!” e a Greta Garbo era inizialmente stato proposto “Viale del Tramonto” ma lei si era già ritirata nel ’41 dopo l’insuccesso di “Non tradirmi con me” e non prese in considerazione l’offerta.

Billy Wilder ha avuto il genio di mettere insieme le intemperanze degli ex divi di cui si parla in cronaca, Gloria Swanson che a vent’anni dalla fine della sua carriera si rimette in gioco facendo il verso ai suoi stessi vezzi di star del muto: candidatura all’Oscar, Golden Globe come migliore attrice drammatica, e in Italia il Nastro d’Argento insieme a Billy Wilder; ma dopo questo rientro in grande stile non ci fu una nuova carriera cinematografica e lavorò solo in teatro, ottenendo qualche partecipazione a serie tv e nel 1956 venne in Italia a girare con Steno “Mio figlio Nerone” con Alberto Sordi nel ruolo e lei come sua madre Agrippina; Brigitte Bardot era Poppea e Vittorio De Sica, Seneca. La diva non legò mai con Sordi e soprattutto era gelosa della giovane e bella Bardot a inizio carriera. In seguito il regista ebbe modo di dire che la Swanson non aveva capito l’umorismo nero del film, avendolo giudicato come il peggior film della sua carriera. Vittorio De Sica le aveva chiesto come mai si fosse trovata male: “Non lo sapete? – gli disse la Swanson – ho accettato solo perché c’eravate voi”. “E io perché c’eravate voi”, replicò De Sica. “Allora – concluse lei – siamo stati imbecilli tutt’e due”. Nel 1975 è nel corale film catastrofico “Airport ’75” messo dalla critica fra i peggiori 50 film ma gran successo al botteghino, dove recita se stessa e, fra gli altri, ritrova un’altra diva del muto che però era saputa passare al sonoro: Mirna Loy.

Eric Von Stroheim, specializzato in ruoli di nazista cattivo, qui interpreta il fedele servitore tuttofare, angelo custode del mito vivente, che sotto finale svelerà di essere il primo marito della diva nonché suo regista e pigmalione in una sorta di cortocircuito con alcuni aspetti della vita reale.

Oltre a Hedda Hopper, che con Elsa Maxwell e Louella Parsons era nota come il trio delle più grandi pettegole di Hollywood, che nel film è se stessa e tenta di intervistare la diva ormai perduta per sempre nelle sue deliranti fantasie, a rifare se stessi ci sono il già citato Cecil B. De Mille, amico della diva ma anche lui preso nell’ingranaggio degli studios dove è consentito provare pena ma non esprimere solidarietà; bisogna ricordare che De Mille è stato fra i fondatori dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences che nel 1929 istituì il Premio Oscar. A rifare se stessi, in una triste partita a bridge fra ex star del muto, ci sono anche Anna Q. Nilsson, H. B. Warner e un attonito Buster Keaton, che Charlie Chaplin due anni dopo chiamerà a fargli da spalla in “Luci della Ribalta”: Keaton, al contrario di Chaplin, non si è saputo riciclare nel sonoro, e il suo genio, all’epoca, non era più considerato; solo oggi viene ricordato come uno dei grandi del cinema.

Protagonista assoluto del film è il trentenne William Holden, attore già in carriera ma che con questo film, anche lui candidato all’Oscar, darà una svolta al suo percorso artistico, e sempre diretto da Billy Wilder otterrà l’Oscar nel ’53 con “Stalag 17” dove è un prigioniero americano in un campo tedesco. Sarà ancora un prigioniero, ma in un campo giapponese, in “Il ponte sul fiume Kwai” e il fratello minore di Humphrey Bogart in “Sabrina” sul cui set ebbe una relazione con Audrey Hepburn. Ma negli anni ’60 lo attende il suo viale del tramonto: è quarantenne e la carriera rallenta, beve molto, e nel 1966 causò un incidente automolistico, in Versilia, dove morì un uomo: venne condannato a una pena, sospesa, di otto mesi, e privatamente versò una cospicua somma di denaro alla famiglia della vittima; il senso di colpa, però, peggiorò la sua dipendenza dall’alcol. A fine carriera anche lui passa sul set di un film catastrofico, “L’inferno di cristallo” e con “Quinto potere” di Sidney Lumet, nel 1977 riceve una nuova nomination all’Oscar che però va al suo collega Peter Finch. Cinque anni dopo morirà solo, nella sua villa, in seguito a una caduta, e il suo corpo verrà ritrovato almeno quattro giorni dopo, secondo le conclusioni dell’autopsia.

A completare il cast di “Viale del Tramonto” c’è Nancy Olson come amore segreto e impossibile del protagonista: lei è la fidanzata del suo migliore amico e lui è già legato sentimentalmente alla vecchia diva che lo mantiene assai generosamente. Ottiene la candidatura come migliore attrice non protagonista ma la sua carriera non ne beneficerà. Si ritroverà con Gloria Swanson in “Airport ’75”.

Fra le tante starlette che riempiono il film si riconosce un’ancora (per poco) sconosciuta Marilyn Monroe, che all’epoca campava di piccoli ruoli e lavorando come modella; qualche anno prima, senza lavoro, per mantenersi si era anche prostituita sul Sunset Boulevard che dà il titolo al film: evocativo in italiano e ancora di più per i losangelini, dato che oltre al significato intrinseco, è un luogo reale: 39 km che vanno dall’interno di Los Angeles verso ovest, verso l’oceano, verso il tramonto, attraversando quartieri come Echo Park, Silver Lake, Hollywood, Beverly Hills, Bel Air: tutti luoghi evocativi, a loro volta, con le ville delle star, gli scandali, gli incidenti, i set, e i film e i telefilm che ne riprendono i nomi. Un Viale del Tramonto sempre vivo immortalato per sempre in un film geniale e unico.