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Un posto al sole, per un “ribelle” introspettivo

Il film è uscito nel 1951 ma è stato girato nel ’49, quando la Taylor aveva ancora solo 17 anni, e pochi oggi ricordano che è stata un’attrice bambina per la Universal – due film col cane Lassie e “Gran Premio”, fra gli altri – in stretta competizione con la piccola diva della 20th Century Fox, Shirley Temple, sulla quale ha avuto la meglio nel costruirsi una carriera da adulta. Restava però intrappolata in commedie sentimentali per famiglie – “Piccole Donne”, “Il padre della sposa” con Spencer Tracy – e scalciava per ruoli più impegnativi. In quel fatidico 1949 interpretò anche il suo primo ruolo drammatico, assai lodato dalla critica, come giovane sposa di una spia nel flop “Alto tradimento” che però le aprì la strada verso questo “Un posto al sole” dove conobbe Montgomery Clift divenendone amica per la vita. Qui è una giovane ereditiera dalla bellezza davvero mozzafiato che si innamora del giovane spiantato di bell’aspetto e belle speranze.

L’altra star femminile è Shelley Winters, attrice già affermata e con un curriculum già impressionante che sceglie di interpretare questo ruolo di donna dalla bellezza dimessa e rassicurante, una semplice operaia alla catena di montaggio, per soddisfare la sua esigenza di personaggi con più profondità; questa interpretazione le vale una candidatura all’Oscar e la sua carriera continuerà ricca di ruoli principali sapientemente alternati ad altri da coprotagonista e antagonista.

Ma le due donne, nel film, fanno da ala al protagonista assoluto che è la star in ascesa Montgomery Clift che a 15 anni se ne va dalla provincia a New York per studiare teatro e divenire nei dieci anni successivi uno dei protagonisti di Broadway, dove diventerà amico del drammaturgo omosessuale Tennessee Williams, e proprio la sua omosessualità, nota nell’ambiente ma non al grande pubblico, fu il suo personale dramma al quale si devono però il suo tormento e la sua profondità interpretativa che lo imposero all’attenzione generale; ma era anche l’epoca dei “giovani leoni ribelli”, definizione che lo accomunava a Marlon Brando e James Dean. In particolare col primo fu legato, sin dai tempi dell’Actor’s Studio, da un’altalena di sentimenti che vanno dall’ammirazione all’invidia, in sana competizione; ma mentre Clift era il ribelle tormentato introverso e passivo, Marlon era il ribelle estroverso ed esplosivo. Entrambi oggetto erotico dell’immaginario femminile. James Dean, di poco più giovane dei due, ebbe a dire della sua carriera: “Come potrei non avere successo io, che ho in una mano il vaffanculo di Brando e nell’altra il midispiace di Clift?”

La ribellione di Montgomery Clift si spingeva al punto da mettere in discussione sceneggiature e dialoghi, sui quali interveniva, o improvvisava sul set, per renderli più veri e meno letterari, meno costruiti a tavolino. Quando girò questo film ne aveva solo quattro all’attivo e già una candidatura all’Oscar, e con quest’altra candidatura si consacrò a Hollywood, verso la quale rimase però diffidente, continuando a vivere a New York.

La storia del film viene da lontano, da un fatto di cronaca del 1906: l’omicidio di una giovane donna incinta da parte del suo fidanzato che sognava per sé un futuro migliore. Una vicenda che impressionò l’opinione pubblica americana, un’opinione pubblica – non sono io il primo a dirlo – che ha la morale bloccata allo stato infantile, che si scandalizza con le storie di sesso ma poi ama giocare con le pistole. Da noi italiani, resi cinici dal nostro feroce Rinascimento con le sue storie di incesti, omicidi, avvelenamenti, trabocchetti e tradimenti, una storia così sarebbe passata quasi inosservata. Non nella sensibile America, e nel 1925 la storia ispira il romanzo “Una tragedia americana” di Theodore Dreiser, che a sua volta ispira l’opera teatrale omonima di Patrick Kearney, e nel 1931 Joseph Von Sternberg ne fa un film. Nel 1962 diventerà anche uno sceneggiato Rai con la regia di Anton Giulio Majano e interpretato da Warner Bentivegna, Virna Lisi e Giuliana Lojodice.

Accantonando il termine “tragedia” che per noi Mediterranei ha un significato più preciso e profondo, il film è interessante per il suo punto di vista: ci invita all’attenzione, e subito a parteggiare, per questo bravo ragazzo di bell’aspetto, gran lavoratore, che legittimamente aspira a un futuro migliore, definitivamente fuori dalle privazioni dell’infanzia. Non ci stupisce che rimanga folgorato dalla bellezza di un’irraggiungibile ereditiera, né che gli ormoni in subbuglio lo facciano cadere fra le braccia accoglienti della bella operaia, contravvenendo al codice di comportamento aziendale che vieta relazioni fra colleghi. Non ci stupisce neanche che la bella ereditiera si accorga di lui e, qui entra in gioco la pregnante tormentata interpretazione di Monty Clift, siamo con lui e patiamo il suo stesso dilemma quando si trova a dover scegliere fra le due donne: chi di noi, come lui, rinuncerebbe a una brillante carriera al fianco di una ricca bellissima ragazza, a costo di dispiacere la generosa pacata ragazza che ci aspetta a casa? Cominciamo a sentire il vero disagio quando il nostro protagonista comincia a pensare all’omicidio della brava ragazza che gli ha anche rivelato di essere incinta – ma ormai per noi spettatori è troppo tardi: sceneggiatura, regia e interpretazione ci hanno attirati in quel cerchio concentrico di scelte morali da cui anche noi, come lui sullo schermo, non sappiamo come uscirne. Non a caso sceneggiatura e regia si aggiudicano l’Oscar, insieme a fotografia – un tagliente bianco e nero – montaggio, costumi e colonna sonora.

Il protagonista è perduto, e noi con lui siamo o delusi o colpevolmente ancora complici. E l’antipatia che ci suscita il freddo procuratore legale interpretato dal “Perry Mason” tv Raymond Burr (altro omosessuale nascosto) non ci aiuta nella nostra scelta: se schierarci con il povero protagonista vittima delle circostanze, o prendere le distanze dal freddo calcolatore assassino. La forza del film è tutta qui, nel fare del dramma – altrimenti quasi banale del personaggio – un dramma esistenziale che richiede il nostro coinvolgimento morale. Non è poco. Del regista George Stevens ho scritto anche sul suo “La più grande storia mai raccontata”.

Montgomery Clift in seguito rifiutò film come “Moby Dick” che andò a Gregory Peck, “La gatta sul tetto che scotta” dove avrebbe recitato con la sua amica Liz e che andò a Paul Newman: la storia era un velato melodramma su una velata omosessualità, e pare che non volle esporsi; rifiutò anche “Viale del tramonto” e “Fronte del porto” che fruttò all’amico-nemico Marlon Brando la candidatura all’Oscar, e “La Valle dell’Eden” che segnò il debutto di James Dean. Quest’ultimo, altro gay non dichiarato, dei tre “ribelli” ebbe la vita più breve, tre film in tre anni e poi l’incidente mortale. Su di lui viene ritagliata la definizione di “bello e dannato”.

Monty sopravvisse al suo incidente avvenuto nel 1956 durante la lavorazione di “L’albero della vita” di nuovo accanto a Liz – mai lei preferiva il nome per esteso – Elizabeth Taylor; riportò la frattura della mandibola e altre gravi ferite al volto che segnarono la sua espressività e, a causa della depressione e della dipendenza da farmaci e alcol, sprofondò in un vortice di autodistruzione che il suo amico Robert Lewis, fondatore dell’Actor’s Studio, definì “il più lungo suicidio della storia del cinema”. Pian piano la sua credibilità professionale venne meno e la sua amica Liz si impose per farlo assumere nel cast di “Improvvisamente l’estate scorsa” ancora un dramma di Tennesse Williams che di nuovo aveva al centro del racconto un’altra storia di omosessualità che però non riguardava il suo personaggio; entrambi i film, “improvvisamente” e “la gatta”, nella costrizione delle regole per la morale del cinema dettate dal Codice Hays, vennero pesantemente purgati da riferimenti espliciti all’omosessualità.

Col senno di poi va considerato il clima oppressivo e colpevolizzante dell’epoca: omosessuali come lo stand-up comedian Lenny Bruce – poi impersonato da Dustin Hoffman in “Lenny” del 1974 di Bob Fosse – erano perseguitati per oscenità, insieme a scrittori del calibro di Henry Miller e poeti come Allen Ginsberg. Ma era anche il tempo esplosivo del bebop e del rock’n’roll, del corpo femminile che cominciava a liberarsi dai vitini di vespa e i seni a balconcino, della prima timida rivoluzione sessuale, e Montgomery Clift si teneva tutto dentro, costretto e inesploso. Rifiutava i copioni e gli studios rifiutavano lui, però girò ancora “Gli spostati” e “Freud, passioni segrete” per John Huston, e “Vincitori e vinti” con Stanley Kramer. Ancora una volta Liz lo impose poi come suo coprotagonista in “Riflessi in un occhio d’oro”, altro torbido dramma omosessuale in barba al morente Codice Hays, dove all’ultimo momento Monty fu sostituito da Marlon Brando: Clift morì improvvisamente di attacco cardiaco, a 46 anni, in un periodo in cui i rotocalchi non parlavano ancora di mix letali di alcol e farmaci.

Dei tre “ribelli” del cinema hollywoodiano Brando è stato l’unico ad invecchiare e a sformarsi – o trasformarsi – in un grasso ricco signore sempre goloso di soldi, giovani donne e isole tropicali. Ma questa è un’altra storia.