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La Rosa Tatuata – in tv

Il film è del 1955 ma è dal 1950, anno in cui aveva scritto la parola fine al suo copione teatrale, che il drammaturgo Tennessee Williams corre dietro ad Anna Magnani per convincerla ad accettare il ruolo di protagonista, dato che aveva scritto “The Rose Tattoo” proprio per lei. Era innamorato di lei, artisticamente si intende, dato che non faceva mistero della sua omosessualità, e venne a Roma per incontrarla al Caffè Doney di via Veneto, che allora era la via del bel mondo e delle star.

Tennessee, Ten come cominciò a chiamarlo Nannarella, era emozionatissimo di incontrare la diva italiana che l’aveva incantato con “Roma città aperta” di Roberto Rossellini e “Bellissima” di Luchino Visconti, tanto per citare due punte di diamante della sua filmografia. Divennero grandi amici, anche lei si innamorò di lui, sempre platonicamente, tanto che se lo portò persino in giro a dar da mangiare ai gatti randagi, lei che amava gli animali più degli esseri umani. Masticava appena l’inglese però e, pur gratificata dall’offerta, non se la sentì di andare a recitare a Brodway, così, baci e abbracci, non se ne fece niente. “The Rose Tattoo” andò in scena con una bravissima Maureen Stapleton e fu un successo, benché era chiaro che non fosse una delle opere migliori di Tennessee Williams.

Eli Wallach e Maureen Stapleton in “The Rose Tattoo” a Broadway

A vedere oggi il film, che confesso di non aver mai visto, se ne notano tutte le debolezze, a cominciare proprio dalla scrittura. Il primo grande successo dell’autore era stato “Lo Zoo di Vetro” e poi aveva sfondato col torrido e torbido “Tram che si chiama desiderio” che gli valse il Premio Pulitzer e da qui in poi i suoi più riusciti melodrammi sensuali e ambigui saranno trasposti in film: “Estate e Fumo”, “La gatta sul tetto che scotta”, “Improvvisamente l’estate scorsa”, “La dolce ala della giovinezza”, tutti concentrati negli anni ’50. “The Rose Tattoo” si colloca cronologicamente dopo i primi due titoli e la sua debolezza sta proprio nell’ispirazione: si capisce che è una scrittura confezionata a servizio e si discosta dai temi e dallo stile che gli sono più congeniali: torbidi drammi familiari, omosessualità represse o latenti nelle figure maschili, figure femminili centrali forti e tormentate in cui l’autore dichiaratamente si riconosceva, tutti sempre ambientati in quel contraddittorio sud degli Stati Uniti da cui proveniva.

Qui mette al centro della sua storia un’altra figura femminile forte, ma stavolta siciliana d’origine, ed è il primo scivolone retorico, che poi il cinema statunitense ha alimentato e cavalcato: tutti gli italo-americani sono siciliani, qualche volta napoletani. Serafina è venuta in America tramite un matrimonio per procura ed ha avuto la fortuna di trovare un marito bello di cui innamorarsi profondamente, tale Rosario Delle Rose, con il quale avrà la figlia Rosa, in uno scioglilingua di rose che in immagini retoriche e tatuaggi sul petto tornano per tutto il film in sdolcinature senza precedenti nella drammaturgia di Tennesse Williams.

E’ utile e piacevole vedere il film in lingua originale per apprezzare il lavoro di Anna Magnani, che certamente aiutata da coach linguistici, sfoggia un inglese molto fluido con quel tanto di accento italiano che la caratterizza senza farne una macchietta, ed è così sciolta e sicura da inframmezzare esclamazioni in italiano secondo il suo stile che lascia ampio spazio all’improvvisazione. Dalle inquadrature è evidente che anche il regista Daniel Mann, qui al suo quarto film ma già regista della messa in scena a teatro, è totalmente soggiogato dal fascino scenico di Anna Magnani e si mette a suo servizio, e anche questo nuoce alla composizione del film, tutto troppo “annamagnanicentrico”.

Marisa Pavan e Pier Angeli

Per fortuna le contende lo schermo, nel ruolo della figlia, Marisa Pavan, all’anagrafe Maria Luisa Pierangeli, gemella di Anna Maria Pierangeli che come Pier Angeli ebbe una sua carriera a Hollywood dove per esigenze pubblicitarie le affibbiarono un improbabile fidanzamento con James Dean. Ma in realtà l’amore che l’aveva condotta oltre oceano era stato Kirk Douglas, e seguendo le sue orme anche la sorella Marisa Pavan ebbe una carriera tutta americana. Con all’attivo quattro film si presentò al provino per “La Rosa Tatuata” fra altre 300 e di Anna Magnani ricorda in una recente intervista a “Vanity Fair” che aveva un carattere difficile, era sempre nervosa, vittima di un’insicurezza congenita che le faceva vedere congiure dovunque, esasperata dal fatto che recitava in inglese e non capiva quello che le si diceva intorno. Pare che l’avesse presa di mira proprio perché frustrata dall’inglese fluente della giovane italo-americana, e aveva tentato di confonderla con dei consigli non richiesti: “Nun devi fa’ così, devi fa’ cosà!” al che Marisa le aveva risposto che la regista non era lei e che ce n’era uno al quale affidarsi: non fu un vero litigio ma ci andarono vicino. Fu lei, poi, a ritirare l’Oscar per Anna Magnani dato che la Nostra aveva paura dell’aereo e per girare il film si era imbarcata per l’America insieme a Tennessee Williams sull’Andrea Doria.

Nel 1956 Anna Magnani fu la prima italiana, e genericamente non-americana, a vincere l’Oscar, sbaragliando star come Katharine Hepburn (Tempo d’Estate), Jennifer Jones (L’Amore è una cosa meravigliosa), Susan Hayward (Piangerò domani) ed Eleanor Parker (Oltre il destino), regine dello schermo candidate per lacrimose storie sentimentali che hanno dovuto fare i conti con un’attrice non bella, non glamour e con uno stile per loro totalmente alieno. Anche Marisa Pavan era candidata come non protagonista ma l’Oscar andò a Jo Van Fleet per “La Valle dell’Eden”, attrice che era anche in “La Rosa Tatuata” nel ruolo dell’antipatica Bessie che brutalmente svela a Serafina il tradimento dell’amato marito Rosario Delle Rose con la malafemmina interpretata da Virginia Grey.

Nella seconda parte del film entra in scena Burt Lancaster e il film da melodramma si volge in commedia buffa. La star maschile era stata voluta dalla produzione per assicurarsi l’attenzione del botteghino dato che Tennessee Williams aveva imposto, oltre che se stesso come sceneggiatore, Anna Magnani per il ruolo principale: attrice sconosciuta alle grandi platee che ha fatto sudare freddo i dirigenti della Paramount. Burt Lancaster si vede che si diverte molto a dare vita all’improbabile Alvaro Mangiacavallo, che recita evitando l’ovvio e insostenibile accento italianish ma usa una cadenza da campagnolo, buffo e sopra le righe come prevede il copione ma senza mai scadere nel ridicolo della macchietta. Il suo macho non ha ombre o tentennamenti omosessuali e il lungo battibecco con Serafina è tutta commedia che sfacciatamente abusa di quella retorica, necessaria nel melodramma, ma che qui è tutta al servizio del luogo comune del siculo-miricano. Anche il lieto fine non è in linea con la miglior drammaturgia dell’autore, ma questo è: un film così così che è andato bene al botteghino e che ha fruttato alla Magnani l’Oscar e il Golden Globe che è andato anche a Marisa Pavan.

Burt Lancaster si è accontentato del divertimento, ma essendo già una star impegnata su diversi fronti, ha visto lungo su un altro progetto e ha prodotto “Marty” con Ernest Borgnine diretto da un altro Mann, Delbert, film attore e regista che hanno trionfato a quegli Oscar del ’56. L’indomani Borgnine mandò alla Magnani un biglietto: “Congratulazioni, è un grande giorno per gli italiani” includendo se stesso nell’italianità. Borgnine, che stava lavorando a “Pranzo di nozze” diretto da Richard Brooks con Bette Davis, dettò all’amica e collega che voleva complimentarsi in italiano con la Magnani, questo telegramma: “Anna carissima, io lavoro con uno italiano, Ernest Borgnine. Lui vencutto. – Forse intendeva “venciuto”, vinto – Io competo con una italiana, Anna Magnani. Lei vince. Voi italiani meglio se state a casa seriamente. Ernest e io mandiamo tutta la nostra amore e nostri congratulazioni. Bette Davis.” Arrivarono anche telegrammi di registi italiani e stranieri, il suo amico Luchino Visconti le scrisse parole affettuose, ma al ricevimento che seguì si notò l’eclatante assenza di Gina Lollobrigida e Sofia Loren, nonché quella dei divi della farsa italiana come Totò, Alberto Sordi e Renato Rascel coi quali aveva pure diviso le glorie del palcoscenico: brutta cosa l’invidia.

Conclude il quartetto del cast principale l’ex attore bambino Ben Cooper nel ruolo di innocente marinaio innamorato dell’innocente Rosa Delle Rose, quasi un’altra macchietta a riprova del fatto che gli innocenti risultano estranei alla scrittura di Tennessee Williams. Aveva debuttato in teatro a 6 anni nella commedia “Vita col padre” e restando in scena per 4 anni concluse le repliche passando al ruolo del fratello maggiore. 18enne debutta in una serie tv che amplifica la sua fama e il suo primo ruolo importante al cinema, quasi tutta spesa nei western, sarà in “Johnny Guitar” di Nicholas Ray con Joan Crawford. E’ morto 86enne lo scorso febbraio senza sapere che il mondo stava per cambiare a causa di una pandemia, portato via da una malattia neuro degenerativa.

In conclusione un excursus sui nomi scelti da Tennessee Williams: se Mangiacavallo è plausibile perché davvero originario di Monreale, Palermo – Delle Rose, più evocativo per l’autore tanto da imbastirci sopra tutta la trama e i tatuaggi sul petto, risulta più immaginifico dato che è un cognome abbastanza raro in Italia, meno di 90 famiglie in tutto, quasi la metà delle quali in Puglia, e con il Lazio al secondo posto è un cognome assolutamente non presente in Sicilia. Personale pignoleria.