Archivi categoria: johnny guitar

Johnny Guitar – Joan Star

Visualizza immagine di origine

E’ del 1954 questo western anomalo diventato un cult malgrado il suo discusso debutto. Anomalo perché letterario, con personaggi psicologicamente indagati e una trama quasi da tragedia greca dove il fato attende i suoi tragici eroi – ed eroine, per carità, non me n’abbia il fantasma della signora Crawford! – che inutilmente hanno cercato di opporsi a quanto era stato scritto dagli dei. Non a caso la sceneggiatura viene da un romanzo di tal Roy Chanslor, di cui rimane scarsa memoria, autore anche di “The Ballad of Cat Ballou” che nel ’65 diventerà un film con Jane Fonda, un western, stavolta, volto in parodia.

Visualizza immagine di origine

Anche “Johnny Guitar” è al limite della parodia con la sua carica fortemente melodrammatica, ma nonostante i tumultuosi interpreti, il regista Nicholas Ray è riuscito a firmare un film che farà scuola fra i cineasti europei dei decenni successivi. Ray, che aveva studiato architettura con Frank Lloyd Wright, ha cominciato in teatro affermandosi come attore e regista, e al momento di darsi al cinema aveva già formato una sua personalità artistica capace di imprimere una propria visione e un proprio stile ai film che realizzerà, lirici e struggenti con al centro la figura di un combattente solitario, inquieto, spesso controcorrente: dopo “Johnny Guitar” firmerà “Gioventù Bruciata” con James Dean; e quando negli anni ’60 sarà chiamato a dirigere dei kolossal dal forte impatto spettacolare – “Il Re dei Re” e “55 giorni a Pechino” – la sua vocazione al lirismo si spingerà nel simbolismo e darà anche un senso ai suoi studi di architettura lavorando molto sulle inquadrature. Per “Johnny Guitar” ha lavorato anche alla definizione della scenografia, creando il saloon di Vienna su due piani, come poi spesso vedremo in altri film, e immaginando l’esterno incastonato sul fianco di una montagna, in un film tutto ambientato in montagna, fra gole precipizi stretti camminamenti e passaggi segreti: quanto di più lontano dai classici western girati fra grandi pianure. Non ci sono neanche gli indiani o i messicani, che sono gli antagonisti tipici di quell’epoca western, cinematograficamente parlando, ma ogni personaggio è antagonista di un altro, quando non di se stesso: tutti hanno un lato oscuro, o col quale combattono, o che li perseguita, o che esprimono apertamente, perseguitando l’altro.

Visualizza immagine di origine
Joan Crawford all’epoca del muto

La star assoluta del film è Joan Crawford, come si può vedere anche dalla locandina, l’unica ad avere il nome prima del titolo, nonostante il film sia abbastanza corale, con almeno quattro protagonisti e un paio di comprimari importanti. La signora ha già 50 anni, ben portati, e la fama di star dalla forte personalità, modo di dire assai elegante che oggi tradurremmo in grandissima stronza rompi coglioni. Aveva debuttato al cinema già negli anni ’20 all’epoca del muto, e aveva anche superato con successo il passaggio al sonoro dove, avendo studiato danza da bambina, si ritagliò una carriera nei musicarelli ballerini tanto di moda con l’avvento del sonoro; ma la ragazza voleva passare al dramma e anche lì fece centro. Ma erano anni in cui le major macinavano le star che avevano sotto contratto e fra la fine degli anni ’30 e i primi anni ’40 la sua carriera ebbe un declino, e nonostante gli otto film girati con Clark Gable, col quale formò un’affiatata coppia di gran successo, le arrivarono sempre meno proposte, anche perché nel frattempo si era fatta la fama che la seguirà per sempre, quella di donna e attrice assai difficile: sul set dell’ultimo film con Gable litigò furiosamente col collega per la posizione del nome nei titoli e in cartellone. Nel 1943, mentre le truppe americane combattevano in Europa, Joan Crawford firmò con la Warner Brothers e partecipò a un film all stars di sostegno alle truppe, ma il suo sogno era interpretare un film tratto da un romanzo di Edith Wharton in cui avrebbe interpretato una “giovane donna” – lei era già quarantenne – che avrebbe portato l’amore nella vita di un uomo infelicemente sposato con una donna arida e meschina, per interpretare la quale aveva pensato – udite! udite! – nientedimeno che a Bette Davis, più giovane di lei di quattro anni, che avrebbe dovuto invecchiarsi imbruttirsi e incattivirsi, signora mia: un ruolo, sulla carta, assai adatto al temperamento della Davis, ma era ancora troppo presto per quel genere di ruoli e le due si confronteranno-scontreranno molto più tardi, nel 1962, nel memorabile “Che fine ha fatto Baby Jane?”.

Visualizza immagine di origine
Chi è la più falsa fra le due?

Ma era il 1943, Bette Davis rifiutò sdegnosamente e il film non si fece mai. A quel punto Joan Crawford mise gli occhi su un altro copione, “Il Romanzo di Mildred” ma la prima scelta dello studio era sempre Bette Davis, che anche stavolta si tirò indietro senza sapere che avrebbe lasciato campo libero alla rivale: sapeva che il regista Michael Curtiz stava facendo pressioni per avere Barbara Stanwyck, e che diceva di Joan Crawford: “Viene qui con le sue arie e le sue maledette spalline… perché dovrei sprecare il mio tempo dirigendo il passato?”. Giudizio arrogante e ingeneroso. Ma il passato per la Crawford aveva ancora un futuro e il ruolo fu suo, nonostante tutte le opposizioni, e la portò fino all’Oscar nel 1946, mentre Bette Davis si sarà sicuramente mangiata le mani: dalla Warner Bros. ora i copioni migliori andavano a Joan mentre a Bette lasciavano le seconde scelte, conducendola a un declino qualitativo interrotto dal successo di “Eva contro Eva”. Ovvio che le due non si amassero. Attraverso altri successi, altre nomination Oscar e un brutto film, l’unico nel quale ha recitato coi capelli rossi, il dramma musicale “La Maschera e il Cuore”, arriviamo al dunque. Ormai star freelance sganciata dagli studios aveva acquistato i diritti di “Johnny Guitar” per ritagliarsi l’appetibile ruolo dell’avventuriera Vienna, proprietaria di un saloon con un passato turbolento, anche come prostituta, come si lascia intuire. Nella sua prima apparizione sullo schermo indossa calzoni e stivali e guarda dall’alto della balconata dentro il saloon tutti i convenuti al suo cospetto, tutti sotto di lei, amici e nemici. Il suo sguardo è magnetico, il fascino da prima donna indubbio. I critici diranno di lei che è troppo hollywoodian, nel senso che è troppo manierata e stilosa per essere la tenutaria di un saloon. Ma come detto il film è un dramma letterario in cui il regista accentua il pathos, e che la storia sia un western è secondario.

Visualizza immagine di origine
Finte amiche e un sorriso per la stampa

Ma fa sempre meglio della sua antagonista, nel film e fra le quinte, Mercedes McCambridge, già premio Oscar come non protagonista al suo debutto cinematografico nel ’50 in “Tutti gli Uomini del Re”; avrà una carriera sempre in ruoli di supporto ma ben definiti, il cui apice rimane questa sua interpretazione in “Johnny Guitar”, una cattiva assoluta che l’attrice rese in modo troppo estremo, nevrotica, certo nevrotizzata dal fatto di doversi confrontare e competere, con discussioni a macchine spente, con cotanta Joan Crawford: i critici la massacrarono, e giustamente, perché è sempre sopra le righe, e per darsi forza e dare forza alle sue battute, gira sempre la testa in scatti nervosi da automa, fino al monologo finale in cui darà il suo meglio e il suo peggio. Non dev’essere stato facile per lei sostenere il confronto con Joan Crawford, la quale, da vecchia marpiona, nella prima scena, più la cattiva antagonista era sovreccitata e sopra le righe, più lei si manteneva sottotono e tranquilla, così da far risaltare gli eccessi della giovane collega e darle una lezione di stile.

Visualizza immagine di origine
Sterling Hayden posa come modello

Sterling Hayden è il Johnny del titolo, protagonista emerito. In passato noto come temibile pistolero Johnny Logan, un passato turbolento che condivide con Vienna, oggi si accompagna a una chitarra, da cui il nuovo nome, e fa il menestrello pacifista, finché gli dei non lo ricondurranno al suo destino in questa tragedia di pistolettate. Attore assai anomalo, Hayden, mai candidato a nessun premio e per cui il mestiere di attore era un altro modo di guadagnare, oltre che di incontrare belle donne: 5 matrimoni e 6 figli. Una carriera spesa in figure di avventurieri, cowboy o militari, molto in linea col suo personale percorso di gioventù: si imbarca come mozzo a 17 anni, poi fa il pescatore sui grandi pescherecci d’altura, farà il pompiere e a 22 anni sarà già capitano di navi in giro per il mondo. Sempre per soldi farà il modello e viene notato dalla Paramount che dapprima lo scrittura come controfigura. Durante la Seconda Guerra Mondiale va coi Marines e sarà molto attivo sul fronte jugoslavo: sfondando le linee tedesche si paracaduta in aiuto ai patrioti croati, con pubblico riconoscimento del Maresciallo Tito e conferimento della Stella d’Argento delle forze armate americane. Di quest’avventura gli rimane l’ammirazione per i patrioti comunisti europei e si iscrive al Partito Comunista degli Stati Uniti d’America. Ma l’America non è l’Europa, ha altri fantasmi, e Sterling Hayden si vedrà stroncata la carriera dalla “Commissione per le attività antiamericane”, con simili intenti ma organo differente dalla più nota commissione di Joseph McCarthy.

Visualizza immagine di origine

Il quarto perotagonista è il meno noto, oggi, Scott Brady, nel ruolo di Dancin’ Kid, inutilente tradotto in italiano nel brutto e ridicolo Kid il Ballerino, bandito innamorato di Vienna e di cui è innamorata la cattiva Emma di Dolores MacCambridge: gelosie e vendette che non portano a nulla di buono. Anche Scott Brady ha combattuto durante la Seconda Guerra Mondiale, in marina, e fu pugile e taglialegna, altro uomo vero dunque, che poi come fratello minore dell’attore Lawrence Tierney, si scelse un nome d’arte e si buttò ne business anche lui; nonostante abbia recitato da protagonista, anche per lui “Johhny Guitar” rimane il suo film più celebre e celebrato.

Borgnine riceve l’Oscar da Grace Kelly

Completano il cast, come banditi cui Vienna dà rifugio nel suo locale, Ernest Borgnine, qui al suo settimo film dopo una carriera a Broadway; anche lui aveva prestato servizio in marina durante la guerra, alla fine della quale era uno sfaccendato irrequieto che preoccupava la madre; tentò la carriera in palcoscenico e siccome gli piacque, e piacque, si trasferì a Los Angeles per fare il cinema: la sua faccia lo condusse a una carriera da caratterista, spesso antagonista come in questo film dove è il malmostoso e malfidato Bart, ma è già dell’anno dopo “Marty” dove come timido macellaio vincerà l’Oscar contro ogni pronostico. L’ex attore bambino Ben Cooper, di cui parlo più diffusamente in “La Rosa Tatuata” è il giovane Turkey che risveglia l’istinto materno di Vienna e che sarà la prima vittima dell’ecatombe finale, ecatombe con lieto film hollywoodiano.

Il film fu girato in uno di quei primi tentativi a colori e ogni major procedeva sperimentando in proprio, prima che la Eastman Kodak brevettasse la pellicola che verrà utilizzata da tutti; in questo film la Republic Pictures utilizzò il Tru-color dalla saturazione piena con colori accentuati, che il regista ebbe l’accortezza di usare come cifra stilista del suo film senza lasciare nessun dettaglio al caso. Divenne nota anche la canzone omonima scritta dal musicista Victor Young con le parole di Peggy Lee, anche interprete. Come accennato il film è diventato un cult grazie ai francesi François Truffaut che lo citerà in “La mia droga si chiama Julie” e Jean-Luc Godard che lo richiamerà in due film: “Il bandito delle unidici” e “la cinese”; anche Pedro Almodòvar metterà Carmen Maura a doppiare Vienna in “Donne sull’orlo di una crisi di nervi”, forse non a caso, dato che le due donne di questo film sono anche loro sull’orlo di una crisi di nervi: una da santificare in abito bianco e l’altra da condannare all’inferno nel suo abito nero.