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Moby Dick la balena bianca

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Ho un ricordo assai personale di questo film grandioso che devo aver visto due volte o più nella televisione in bianco e nero di quando ero bambino e ragazzo, e oggi che lo rivedo dopo decenni, a colori, rimane immutata la fascinazione, riaccendendo quelle emozioni che sono depositate in me profondamente. Il capitano Achab di Gregory Peck, un personaggio che mi ha intimorito e attratto al contempo, intrappolato fra i cordami degli arpioni infitti sul corpo dell’enorme balena bianca che lo trascina via per sempre nei flutti senza che la vendetta umana sia compiuta, è rimasto impresso nella mia memoria di cinefilo insieme a tanti altri momenti di tanti altri film diversi.

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L’idea di rivedere oggi il film a colori, io assai più maturo e disincantato, mi suscitava il timore della delusione per una antica emozione che non avrei più ritrovato. Ma non è così, il film è potente ancora oggi, dinamico e moderno, e quel colore polveroso, grigiastro e a tratti cupo, aggiunge un’emozione nuova.

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L’unica delusione è l’invecchiamento che subisce il doppiaggio italiano dell’epoca con toni troppo enfatici; anche nella lingua originale che oggi è possibile selezionare, qua e là affiora un’enfasi evidentemente tipica dello stile recitativo dell’epoca, ma sempre in misura assai più contenuta della versione italiana che arriva a rendere ridicolo il personaggio del selvaggio Queequeg mettendogli in bocca solo verbi all’infinito: io fare questo tu dire quello noi andare là, senza neanche un tentativo di accento per caratterizzare l’alterità del personaggio, mentre nell’originale, l’interprete che era austriaco, parla un inglese molto semplificato e con un vago quanto indefinito accento straniero.

La storia del film è nota, come il romanzo di Herman Melville da cui è tratto con molte libertà, e la più importante è l’ultima scena: la spettacolare morte di Achab trascinato via sul corpo della balena, che nel romanzo accade a un altro importante personaggio completamente ignorato nel film, il misterioso parsi Fedallah, mentre Achab muore trascinato negli abissi perché impigliato per il collo alla corda dell’ultimo rampone che ha scagliato contro Moby Dick.

Moby Dick, definito balena anche nel romanzo, è in realtà un capodoglio, come i due avvenimenti che hanno ispirato il romanziere: nel primo un enorme capodoglio affonda una baleniera, il secondo è l’uccisione del mostruoso e tristemente noto capodoglio albino Mocha Dick; e vale la pena ricordare che il nomignolo Dick non è solo il casuale diminutivo di Richard, perché nello slang inglese sta anche per cazzo e associato a un altro nome proprio, Mocha o Moby che sia, diventa un insulto tipo Moby Testadicazzo.

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Detto questo, Melville semplifica la natura del cetaceo perché la balena è narrativamente più comune, a cominciare dalla balena che inghiotte Giona, racconto biblico al centro dell’omelia dell’ex baleniere Padre Mapple che nel romanzo e nel film benedice e terrorizza i marinai, per finire col racconto della balena che inghiotte Pinocchio. La differenza fondamentale fra i due cetacei sta nella dentatura: la balena, del sottordine dei misticeti, è fornita solo di fanoni, lamine che filtrano l’acqua trattenendo i minuscoli organismi marini di cui si nutre; il capodoglio, del sottordine degli odontoceti, ha invece quei veri e propri denti che hanno potuto staccare la gamba di Achab.

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Sulla lavorazione del film circola una leggenda metropolitana secondo cui il modello della balena realizzato in gomma dalla Dunlop, lunga 23 metri, pesante 12 tonnellate e munita di 80 batterie ad aria compressa che la facevano galleggiare e muovere mediante congegni idraulici, si staccò dagli ormeggi e prese il largo perdendosi nella nebbia, poi probabilmente affondando per esaurimento dell’energia; da lì in poi il 90% delle riprese fu fatto utilizzando diversi modelli, anche parziali, di varie dimensioni.

bradbury huston
John Huston e Ray Bradbury

Ma i problemi nacquero fin dalla stesura della sceneggiatura, per la quale il regista e anche produttore John Huston aveva ingaggiato lo scrittore Ray Bradbury, innovatore del genere fantascientifico, già noto nel mondo con le sue “Cronache marziane” e con “Fahrenheit 451”. La collaborazione fu conflittuale sin dall’inizio, con lo scrittore che dice al regista che “non era mai stato in grado di leggere quella dannata cosa” e che prosegue anche con liti sui set già allestiti e operativi, tipici dei due galli nello stesso pollaio: Huston stimava Bradbury che ne ricambiava la stima, ma col il suo carattere forte e e la visione autoritaria del lavoro non poteva fare a meno di metterne in discussione il lavoro e ci furono molte scintille.

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1949. Walter e John Huston con i loro Oscar per “Il tesoro della Sierra Madre” diretto dal figlio, il padre come Miglior Attore non protagonista e il figlio premiato per la sceneggiatura.

Non tutti sanno che lo stesso John Huston inizialmente avrebbe voluto interpretare Achab dato che il romanzo era da sempre una sua passione; aveva probabilmente visto i due precedenti film, il muto “Il mostro del mare” del 1926 con John Barrymore, che poi reinterpretò Achab nel remake sonoro del 1930 “Moby Dick, il mostro bianco”. Ma prima che a se stesso come interprete, e fra i tanti ruoli basta ricordare che interpretò anche Noè nel suo “La Bibbia” del 1966, John Huston avrebbe voluto avere in quel ruolo suo padre, Walter, morto per un aneurisma a 67 anni nel 1950, nella stessa villa di Beverly Hills e nel giorno in cui lui, John, stava festeggiando il suo 44° compleanno insieme ai suoi amici, fra i quali Spencer Tracy. Da qui l’attaccamento emotivo al personaggio.

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Dopo l’uscita del film Gregory Peck litigò col regista perché scoprì di non essere stato la prima scelta per quel ruolo e che anzi era stato imposto come nome di punta (a quel tempo aveva già accumulato quattro candidature all’Oscar) dai finanziatori che partecipavano alla produzione. Un peccato d’orgoglio che Peck scontò fino alla fine: anni dopo, essendosi reso conto di avere esagerato, cercò di riappacificarsi col regista, il quale però, ferito nell’intimo per il forte significato che quel film aveva avuto per lui, rifiutò di incontrarlo e non si parlarono mai più. Solo in tempi recenti è giunto un messaggio pacificatore dalla figlia del regista, l’attrice Anjelica Huston che quattrenne aveva incontrato Peck vestito da Achab sul set, e che ha dichiarato che suo padre aveva sempre adorato l’attore nonostante tutto. Dell’attore si sa che non restò contento di quella sua interpretazione: probabilmente aspirava all’Oscar ma l’intero film fu ignorato. Nonostante questo fu un grande successo e oggi è inserito dal National Board of Review nella lista dei dieci migliori film del 1956; se non l’Oscar vinse il nostro Nastro d’Argento come Miglior Film Straniero e altri premi secondari.

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L’io narrante del film, come nel romanzo, è il marinaio avventuriero Ismaele in cui Herman Melville riversa molte delle sue reali esperienze, che si presenta con il noto “Chiamatemi Ismaele” che nei riferimenti culturali del romanziere, non immediatamente leggibili, è come dire: chiamatemi vagabondo, dato che l’Ismaele biblico, figlio della schiava Agar, è stato scacciato dal padre Abramo insieme alla madre nel deserto. Stesso riferimento biblico per il nome Achab, riportato nel film, che nel Primo Libro dei Re è colui che “commise molti abomini, seguendo gli idoli” e che nella narrazione commetterà l’abominio di condurre tutti i suoi uomini alla morte nell’inseguire il suo idolo, la balena bianca.

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Lo interpreta Richard Basehart, un ottimo attore che non è mai diventato una star assoluta, e che per un periodo ha vissuto in Italia dove ha seguito la sposina Valentina Cortese conosciuta sul set di “Ho paura di lui” di Robert Wise; Il matrimonio non durerà molto ma nel frattempo ha avuto l’opportunità di lavorare con Federico Fellini in “La strada” e “Il bidone” accanto a Giulietta Masina. Friedrich Von Ledebur è Queequeg; Leo Genn è il primo ufficiale Starbuck, e Harry Andrews è il secondo Stubb.

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Orson Welles sul set del suo Moby Dick

Nel ruolo del predicatore, una sola scena ma molto significativa, un altro maestro del cinema statunitense, Orson Welles, che Valentina Cortese ricorda sempre con un bicchiere di whisky in mano e sempre alla ricerca di finanziamenti per i suoi film, non stupisce quindi che accettasse quelle partecipazioni straordinarie pur di fare cassa. Ma c’è di più: Welles è fresco reduce di una sua riduzione teatrale di Moby Dick andata in scena a Londra, dove era ovviamente Achab, esperienza da cui in futuro avrebbe tentato invano di farne un film nel 1971, che purtroppo rimase incompiuto, purtroppo anche per noi spettatori: un film sperimentale in cui lui leggeva il romanzo davanti a un blue screen su cui sarebbero state proiettate delle immagini che non sapremo mai.

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La mia giovanile impressione di Gregory Peck nel ruolo di Achab, mi diede la confusa sensazione – ero uno spettatore assai giovane – che l’attore, a differenza di tutti quegli altri divi hollywoodiani che passavano nella tivù in bianco e nero – Spencer Tracy, Clark Gable, James Sterwart, Gary Cooper – fosse un attore con un lato oscuro, come il personaggio che aveva interpretato. Nei film americani dell’epoca, western commedie drammi, quei protagonisti erano sempre i buoni e i finali erano quasi tutti positivi, mentre lui, Gregory Peck, con Achab aveva mostrato i tormenti di un’animo esasperato e distruttivo che, con segrete fascinazione e paura, trovavo assai più congeniali alla mia natura. Poi da ragazzo divenni adulto e cominciai ad andare al cinema da solo, a scegliermi i miei film, e mentre gli altri divi americani morivano o si ritiravano, lui, Gregory Peck continuava a interpretare quei suoi personaggi problematici se non addirittura agghiaccianti: il noir demoniaco “Il Presagio” 1976; la controversa figura del generale in “Mac Arthur, il generale ribelle” 1977; il nazista Joseph Mengele in “I ragazzi venuti dal Brasile”; fino al suo ultimo film, il remake di “Il promontorio della paura” del 1991 regia di Martin Scorsese, film di cui era stato protagonista nel 1962 con Robert Mitchum nel ruolo del cattivo, e adesso entrambi, Peck e Mitchum, in ruoli secondari nel remake, anche con Martin Balsam che nell’originale era il capo della polizia e nel remake un giudice. Così, oggi, anche rivedendo Gregory Peck nel rassicurante “Vacanze romane” resto sempre sul chi vive.