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Cry Macho

A 91 anni (quest’anno 92) Clint Eastwood è ancora attivissimo e dirige questo suo ultimo film, ultimo in termini di tempo sperando che non sia l’ultimo in assoluto. Va detto subito che non è fra i suoi migliori, lui che ha realizzato dei capolavori, ma è gradevole e qualsiasi film lui abbia ancora l’energia di fare va senz’altro visto. Gli fu offerta questa sceneggiatura già nel 1988, quando aveva 58 anni, ma lui rifiutò per girare l’ultimo capitolo della cinquina con l’Ispettore Callaghan, e perché probabilmente era ancora troppo giovane e aitante per interpretare un cowboy da rodeo a fine carriera, e lo riprende solo oggi quando lui però è già troppo vecchio, ma ormai Clint è Clint, è una leggenda vivente, ha firmato film da Oscar, e se adesso ci risulta improbabile in questo ruolo non ci mettiamo a fare i pignoli: ispira tenerezza e simpatia, e perché no anche solidarietà, vederlo alla sua veneranda età fare gli occhi dolci alla vedova messicana che ha almeno la metà dei suoi anni: un ruolo che al massimo avrebbe potuto interpretare un 70enne.

Il film nasce da una sceneggiatura che il premiatissimo romanziere e drammaturgo N. Richard Nash aveva scritto nei primi anni ’70 ma che le major avevano rifiutato. Pensò allora di trasformare la sceneggiatura, intitolata “Macho” in un romanzo che diventò “Cry Macho”: “Ho pensato di farne una rapida novellizzazione. Ho ricevuto un anticipo di 10.000 dollari (55.000 odierni) e l’ho completato come ‘Cry Macho’ in due settimane. Ha ottenuto recensioni sorprendentemente buone e nell’istante in cui sono apparsi, tre studi, che avevano tutti rifiutato la sceneggiatura, hanno iniziato a fare offerte per questa terribile, piccola cosa. Ho venduto i diritti a uno. Quando mi hanno chiesto di fare la sceneggiatura, ho dato loro quello che avevano rifiutato — non hanno cambiato una parola – e l’hanno adorato!”: a dimostrazione della miopia di tanti produttori che cercano il successo già impacchettato anziché contribuire a crearlo. E in seguito Nash specificò in un’intervista che in realtà era stata la 20th Century Fox a rifiutare la sceneggiatura originale per ben due volte, prima di accettarla quando cambiò “solo quattro pagine”. Dopo il rifiuto di Clint la sceneggiatura passò all’attenzione di Burt Lancaster e Roy Scheider e Pierce Brosnan fino a che al Festival di Cannes del 2011 venne annunciata una produzione con protagonista Arnold Schwarzenegger che aveva appena dismesso i panni di governatore della California, ma a causa di guai personali, prima uno scandalo legale a fine mandato – aveva dimezzato la pena al figlio di un suo amico colpevole di omicidio – e poi il divorzio dopo un matrimonio 25nnale, fece naufragare il progetto e Scwarzy tornò poi a recitare nel trittico di “I mercenari”.

A questo punto torna in lizza il nostro grande vecchio che affida l’adattamento della sceneggiatura originale – Nash era morto 87enne nel 2000 – al fidato Nick Schenk che prima di incontrarlo aveva sbarcato il lunario in vari modi: attore e sceneggiatore in programmi tv sport-spettacolo sul bowling e le arti marziali, ma ha anche fatto il commesso, l’operaio e l’autista, e solo quando Clint acquista un suo script e ne realizza “Gran Torino” e lui vince l’Oscar per la sceneggiatura, il ragazzone diventa un professionista della scrittura; e dopo aver scritto “The Judge” per un altro grande vecchio, Robert Duvall – evidentemente i drammi sulla terza età gli sono congeniali – scrive ancora per Eastwood “Il corriere – The Mule” e poi questo “Cry Macho” in cui Clint deve aver messo del suo, soprattutto nei passaggi in cui parla della vecchiaia in modo assai partecipato, prossimo all’autobiografia.

Lui nelle varie interpretazioni è stato, in un verso o nell’altro, sempre lo stesso personaggio, quello che Sergio Leone aveva intuito in lui: l’eroe solitario e controcorrente, di poche parole, violento a fin di bene, scostante ma partecipativo e dunque il classico burbero benefico dal titolo dalla commedia di Carlo Goldoni che è diventata un’etichetta; in una carriera fatta di western, a cui è sempre tornato, e di thriller polizieschi, la sua maschera non è mai cambiata nonostante qualche incursione nel genere romantico come in “I ponti di Madison County” con Meryl Streep, e con la terza età si è poi aperto ai film corali divertendosi con i suoi coetanei in “Gli spietati” e “Space Cowboys”, oltre a quelli dove è solo regista e qualche volta anche musicista con notevoli incursioni nelle storie di personaggi reali, fino alle ricostruzioni storiche come nel dittico formato da “Flags of Our Fathers” e “Letters from Iwo Jima” che raccontano i due punti vista, americano e giapponese, sulla battaglia di Iwo Jima; con una menzione speciale: è praticamente l’unico fra i suoi coetanei, o comunque star hollywoodiane, che si è sempre tenuto lontano dalla debolezza del divertimento puro, facendo pure cassa che non guasta, e non ha mai partecipato ai blockbuster fantasy con supereroi e cattivi di lusso.

Qui è Mike Milo, un vecchio cowboy da rodeo in disarmo con ovvio bagaglio di dramma personale, che il suo ex datore di lavoro incarica di recuperare o forse rapire il figlio undicenne che vive, si fa per dire, con la scapestrata madre in Messico, perché il ragazzino, più scapestrato della madre, vive per strada e di espedienti, con un gallo da combattimento che si chiama Macho e in cui ovviamente lui si trasfigura: è un duro imberbe. L’incontro col vecchio leone comincia ovviamente nel peggiore dei modi, salvo poi, sempre ovviamente, comprendersi e reciprocamente apprezzarsi in una storia vista e rivista che non riserva sorprese e in cui, ancora ovviamente, non mancano i momenti di commedia che però non sono mai stati congeniali a Clint, né da attore né da regista, e tuttalpiù sfoggia qualche smorfia e qualche battuta ironica; storia di redenzione per il vecchio e il ragazzo spalmata di buoni sentimenti come erano i film di una volta – e in effetti questo film avrebbe dovuto essere già quello “di una volta” ed è necessariamente ambientato negli anni ’70 perché tante cose sono oggi cambiate da quando la storia è stata concepita, e un forzoso ammodernamento gli avrebbe nuociuto più che aiutarlo.

Il ragazzino coprotagonista, messicano di nascita, è il 16enne Eduardo Minett già star di Instagram e di TikTok in un mondo dove il talento si esprime e si impone attraverso percorsi che personalmente mai avrei immaginato. La vedova dal cuore d’oro che fa brillare gli occhi al vecchietto è l’americana Natalia Traven che, al contrario del ragazzino, non è sui social ed è molto riservata. Fra i ruoli principali completano il cast la cilena Fernanda Urrejola in patria star di telenovelas e da poco trasferita negli States per dare una svolta alla carriera; mentre il cantautore Dwight Yoakam è nel ruolo del padre del ragazzo. In conclusione un film leggero e gradevole che mi auguro non rimanga la firma definitiva di un Clint Eastwood che già si staglia sul suo tramonto.

The Father – il cinema 2020-21 disperso nella pandemia

Nel 2020 i cinema hanno timidamente riaperto in estate per richiudere subito dopo. Nel 2021 si va al cinema col green pass ma le sale sono praticamente deserte: gli spettatori sono decimati dalla pandemia e non mancano solo quelli che non hanno il green pass; fra quelli che ce l’hanno non tutti ritengono opportuno, o necessario, tornare al cinema, e i pochi volenterosi spettatori rimasti sono ulteriormente scoraggiati dall’obbligo della mascherina FFP2. I film usciti in sala passano subito sulle piattaforme web e in tv.

Come “Comedians” un altro film tratto, ma forse è più corretto dire sviluppato, da un’opera teatrale, e che è anche l’opera prima cinematografica del suo autore, il drammaturgo francese Florian Zeller, che ha scritto un’opera sorprendente ma che è stato anche capace, in pochi anni, di raccogliere il massimo dei consensi mondiali con il massimo dell’esposizione.

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Alessandro Haber con Lucrezia Lante Della Rovere

Dopo l’acclamato debutto francese nel 2012, la pièce è stata tradotta dal britannico Christopher Hampton che l’ha messa in scena a Londra l’anno successivo, e da lì in poi – forte della veicolazione della lingua inglese – il dramma teatrale è stato rappresentato in tutto il mondo; in Italia è stato realizzato dal regista Piero Maccarinelli nel 2017 con l’interpretazione di Alessandro Haber e Lucrezia Lante Della Rovere.

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Jean Rochefort

Del 2015 è il primo adattamento cinematografico, il francese “Florida” diretto da Philippe Le Guay con protagonista l’eclettico commediante, anche frequentatore dei set italiani, Jean Rochefort, alla sua ultima interpretazione; un film che nella scrittura non vede coinvolto il suo autore teatrale e che prende lo spunto del dramma per farne una storia con altre ispirazioni, sin dal titolo.

Quell’operazione non deve aver soddisfatto Florian Zeller, che ora coinvolge l’inglese che l’ha fatto conoscere al mondo, Christopher Hampton, per scrivere la sceneggiatura di un nuovo film; e per non sbagliare stavolta lo dirige pure, debuttando come regista cinematografico con un film in lingua inglese, con grandi interpreti già premiati con l’Oscar, e pronto già sulla carta a raccogliere ulteriori consensi. Ne è protagonista il grandioso Anthony Hopkins, premio Oscar nel 1992 per “Il Silenzio degli Innocenti”, cui gli sceneggiatori pensano sin da subito chiamando Anthony il suo personaggio. La figlia è interpretata da Olivia Colman, Oscar 2019 per “La Favorita”, e per entrambi mi limito a ricordare solo gli Oscar dato che gli scaffali dei loro premi sono più che pieni.

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Frank Langella e Kathryn Erbe nella messa in scena di Broadway del 2016

Il film, come il dramma teatrale, racconta la perdita della memoria, e dell’intera personalità, a causa della degenerazione progressiva dovuta all’Alzheimer, ma è nuovo e vincente, oltre che narrativamente affascinante e coinvolgente, il racconto dal punto di vista del malato: il dramma comincia come un thriller psicologico in cui l’uomo sembra al centro di un oscuro complotto per cui gli vengono tolti i suoi punti di riferimento, e viene inspiegabilmente ingannato da estranei che si sostituiscono ai suoi familiari: qui c’è il colpo di genio dell’autore, quello di fare interpretare a dei doppi i ruoli dei coprotagonisti, facendoci così precipitare all’interno dello spaesamento del protagonista che non riconosce più le persone: sua figlia, che nel film è fisicamente doppiata da un’altra attrice di gran classe, Olivia Williams, mentre il genero ostile interpretato da un altro protagonista del cinema internazionale, Rufus Sewell, ha il suo doppio nel caratterista di provenienza brillante Mark Gatiss, il quale dà alla sua interpretazione un ghigno che vuole essere rassicurante ma che è molto inquietante; conclude il ristretto cast la più giovane Imogen Poots nel ruolo della badante.

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L’autore regista debuttante firma un film di altissimo livello, coinvolgente e spiazzante, come deve essere stato il suo dramma teatrale per chi ha avuto l’opportunità di vederlo: uno spazio scenico che a poco a poco si spogliava di tutti i suoi arredi, come espediente concettuale e visivo della progressione dello svuotamento della mente del protagonista, che alla fine si ritrovava nella stanza di un ospizio per lungo degenti; e se nel dramma teatrale c’era la figlia ad assisterlo, nel film resta a prendersi cura di lui la sconosciuta che ora è un’infermiera. Uno svuotamento di spazi che non è possibile rendere al cinema dove il racconto deve essere più naturalistico e meno simbolico, così la scrittura esplora altre vie narrative: i silenzi, le solitudini dei personaggi e i dettagli minimi, i sogni e le visioni che arrivano improvvisi dietro porte che si aprono su altri spazi e altre epoche, in uno spiazzamento che una scrittura esemplare diventa interpretazione magistrale. Premio Oscar ad Anthony Hopkins, candidature a Olivia Colman e alla sceneggiatura, candidature anche come Miglior Film, Miglior Montaggio e Migliore Scenografia. E ancora mi limito agli Oscar. Qui da noi la BiM ha ritenuto opportuno distribuire il film con lo stupido sottotitolo “Nulla è come sembra” facendolo sembrare una sciocca commedia degli equivoci. Era stato presentato in anteprima al Sundance Film Festival nel gennaio 2020 e successivamente è uscito nelle sale di New York e Los Angeles, poi chiuse per la pandemia, così è stato distribuito on demand; in Europa si è affacciato nelle sale nel 2021 e in qualsiasi uscita ha fatto sempre eccellenti incassi.

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Fra le curiosità va detto che Hopkins con i suoi 83 anni si è piazzato come il più vecchio a ricevere il premio da protagonista: il detentore del primato per anzianità era il 76enne Henry Fonda che però aveva ricevuto nel 1981 l’Oscar onorario e l’anno dopo quello come Non Protagonista per “Sul Lago Dorato”; per trovare il protagonista più anziano bisogna risalire al 1970 e al 62enne John Wayne “Il Grinta”. Il miglior Non Protagonista più vecchio al momento è il recentemente scomparso Christopher Plummer per “Beginners” 2012. Fra le donne le più anziane detentrici del primato sono Jessica Tandy, 80 anni, protagonista per “A spasso con Daisy” 1980 e Peggy Ashcroft, 77 anni, non protagonista in “Passaggio in India” 1985.

Vale la pena ricordare che questo non è il primo film sull’Alzheimer, benché sia il primo che racconta il punto di vista del malato. Per chi volesse recuperarli ci sono stati l’inglese “Iris – Un Amore Vero” del 2001 con Judi Dench e Kate Winslet nel ruolo di Iris nelle diverse età e con Jim Broadbent vincitore dell’Oscar, diretti da Richard Eyre. “Lontano da Lei” del 2006 diretto da Sarah Polley con Julie Christie candidata all’Oscar e premiata con il Golden Globe. Del 2010 è il Sud Coreano “Poetry” di Lee Chang-dong, premiato per la sceneggiatura a Cannes. Del 2011 è l’iraniano “Una Separazione” di Asghar Farhadi, Orso d’Oro a Berlino, Golden Globe e Oscar.

Se ne conclude che l’Alzheimer, restando un dramma per chi lo vive su di sé e per le loro famiglie, si conferma un dramma sempre vincente per l’industria dell’intrattenimento.

Processo e morte di Socrate

Processo e morte di Socrate (1939) - IMDb

Un’occasione più unica che rara per gettare uno sguardo sul teatro ottocentesco di cui Ermete Zacconi è uno degli ultimi rappresentanti ancora attivi nella prima metà del Novecento: il film è del 1939 e lui è già 82enne, acclamato prim’attore che aveva recitato, in Italia e all’estero, anche con la coetanea Eleonora Duse, colei che fu detta la “Divina” da Gabriele D’Annunzio e che morì 66enne nel 1924. Come lei è stato un precursore del verismo interpretativo svecchiando lo stile enfatico che caratterizzava la recitazione.

Paul van Yperen's Blog, page 87

Ma va considerato, oggi, che quel verismo interpretativo, ispirato al movimento letterario promosso sul finire dell’Ottocento da Giovanni Verga e Luigi Capuana fra i capofila, è espressione del suo tempo, perché la naturalezza interpretativa degli attori di teatro, e oggi anche di cinema tv e web, è di fatto lo specchio della società, del linguaggio che evolve nei tempi. Ermete Zacconi ha svecchiato lo stile aulico e pomposo delle precedenti generazioni di attori – di cui purtroppo non possiamo avere testimonianze audio e video, e che possiamo solo immaginare – ma visto e sentito oggi, egli stesso, appare pomposo perché la lingua parlata si è evoluta – ma anche involuta per altri versi – verso moduli ancora più semplificati e insieme anche meno precisi nella dizione e nell’articolazione delle sillabe: oggi è un tripudio del parla come magni come si dice a Roma, o del parlare pisciato come si dice in palcoscenico, con descrizione onomatopeica di una dizione imprecisa e biascicata. Per un esempio di questo tipo di parlata – che ormai è un’espressione che bisogna ritenere disgiunta dall’arte recitativa – basta andare a vedere “Favolacce” dei Fratelli D’Innocenzo, o una delle tante interviste che gli stessi gemelli hanno rilasciato.

La sillaba - Docsity

Va riconosciuto, oggi, che nella recitazione di Zacconi non si perde una sola sillaba insieme al fatto, però, che il parlato è fluido e discorsivo, pur nell’assoluta difficoltà dei testi platonici che non sono certo una chiacchierata al bar fra amici, che lui rende con la medesima naturalezza, tuttavia, pur appoggiando l’accento su ogni sillaba; personalmente mi ricorda certi vecchi professori o avvocati della mia gioventù, che si esprimevano con la medesima enfasi trattenuta ed erano naturali al contempo. Un modello di espressione che oggi non esiste più e che possono ricordare solo i miei coetanei figli del baby boom degli anni Sessanta.

Socrate: pensiero e vita del filosofo greco

Del film va ricordato che l’attore aveva interpretato Socrate in palcoscenico nei “Dialoghi Platonici” proprio l’anno prima della realizzazione del film, è quindi plausibile ritenere che l’ispirazione cinematografica nasce proprio dalla sua interpretazione teatrale che ebbe anche una tournée in America. E il film, poi, di ritorno, influenzò le successive rappresentazioni teatrali. Ma la critica lo giudicò molto severamente: impacciato, scolastico e tecnicamente povero. Di fatto, sceneggiato dallo stesso regista Corrado D’Errico, è la trasposizione di un monologo teatrale, interpuntato da occasionali dialoghi e inserito in un contesto scenografico decisamente teatrale, dove la cartapesta e i fondali dipinti sono assai evidenti; più ricchezza visiva si ha nel raccordo fra la prima e la seconda parte – il film è diviso in tre parti seguendo pedissequamente i dialoghi “Apologia” “Critone” e “Fedone” – momento filmico in cui delle sacerdotesse eseguono un’improbabile danza intorno a un fuoco sacro, a mo’ dei siparietti da varietà.

Bianco&Nero | Attori, Cinema, Ritratti

Per il resto il regista fa un buon lavoro, a mio avviso, cambiando spesso le inquadrature per dare al film un suo movimento interno in un’epoca in cui la cinepresa non si muoveva ancora, e usa tutta la tecnica fotografica disponibile: i primi piani, i campi medi e quelli lunghi, il campo e il controcampo e tutta una serie di interessanti prospettive e punti di vista. Fra gli altri interpreti un giovanissimo Rossano Brazzi che diventerà uno dei protagonisti del cinema di regime, e altri quotati interpreti dell’epoca fra cui Luigi Almirante, zio di quel Giorgio Almirante che fu capo di gabinetto del MinCulPop e poi fra i fondatori del Movimento Sociale Italiano.

Socrate: la vita - Rai Scuola

Ma come mai la critica fu così severa? Come ricordo in “Cinecittà Babilonia” sono gli anni in cui il cinema passa dal muto al sonoro e in Italia prende forma il regime fascista. Il regista Corrado D’Errico era integrato nel regime ed ebbe anche un incarico nel MinCulPop, il Ministero per la Stampa e la Propaganda detto anche Ministero della Cultura Popolare da cui l’abbreviazione usata anche come termine spregiativo; fu corrispondente per il Cinegiornale Luce in Etiopia, e lì contrasse una malattia tropicale che gli fu fatale. Il cinema di quegli anni è quello che vuole il regime fascista, un cinema spensierato e sentimentale, quello dei cosiddetti telefoni bianchi, che porta sullo schermo anche quei drammi storici in cui esso si possa riconoscere e che lo possa esprimere e propagandare: in questo film su Socrate c’è un passaggio in cui una folla di figuranti fa il saluto romano altrimenti detto fascista. Ma probabilmente non basta, e poiché non ci sono note storiche che associano Ermete Zacconi al fascismo, è probabile che la critica ingenerosa sia un attacco indiretto al vecchio mattatore che non si è lasciato inquadrare. Certamente il film è, come dice la critica, impacciato, scolastico e tecnicamente povero, ma l’impaccio è più di alcuni comprimari del prim’attore, scolastico è il contenuto e non può essere altrimenti, tecnicamente povero senz’altro ma è solo uno sfondo in cui si è fatto muovere un grande mattatore. Per me, poi, che non ho mai letto Platone, è anche una ghiotta occasione culturale.

Con “I Dialoghi di Platone” l’80enne Ermete Zacconi calcò per l’ultima volta la scena e farà ancora cinque film prima di morire 91enne nella sua casa di Viareggio, lui che era nato emiliano. “Alle ore 14,40 di ieri, – dice il manifesto fatto affiggere dall’amministrazione comunale – nella sua casa nei Giardini d’Azeglio, si è spento un astro fulgido, Ermete Zacconi. Per più di mezzo secolo questo nome, divenuto a Viareggio concittadino e famigliare, ha rappresentato nel mondo non solo il prestigio dell’arte drammatica più nobile e pura, ma la potenza dell’animo italiano capace di orizzonti profondi e di elevazioni senza pari nell’interpretazione dell’eroismo, della gioia e della umana sofferenza.”

Il giornalista viareggino Adolfo Lippi ricorda una “fotografia” mai scattata: in una caldissima sera del 1946 al tavolo di un bar sedevano e chiacchieravano tre prim’attori di generazioni diverse, e l’uno erede dell’altro: Ermete Zacconi, suo genero Renzo Ricci che aveva sposato l’attrice Margherita Bagni figliastra ma forse figlia naturale di Zacconi, e il di lui genero Vittorio Gassman che aveva sposato l’attrice Nora Ricci; tutti i tre sono legati a Viareggio: Zacconi che l’ha eletta a città patria, Renzo Ricci che grazie al suocero vi iniziò una strabiliante carriera, e Gassman che sarà sempre di casa nella cittadina toscana, tanto che in un cortocircuito persona-personaggio dirà “Io a Viareggio sono di casa” in “Il sorpasso”. Viareggio, con l’innesto di Ermete Zacconi che vi attirò i suoi amici, divenne meta del bel mondo artistico e culturale: vi soggiornarono Eleonora Duse e la sua amica danzatrice Isadora Duncan, i fratelli De Filippo che portarono in teatro “Natale in casa Cupiello”, teatro in cui si esibì anche Ettore Petrolini, e a Viareggio si stabilì anche un vecchissimo Leopoldo Fregoli che vi venne a morire, mentre Luigi Pirandello vi soggiornò amoreggiando con Marta Abba. Memorie da enciclopedia dello spettacolo che un film d’epoca inevitabilmente suscita, dove un nome tira l’altro in una ricerca di curiosità che potrebbe non avere fine…

Eleonora Duse, una donna
Eleonora Duse
Isadora Duncan, la storia della fondatrice della danza moderna
Isadora Duncan
Autografo originale cantante lirica Margherita Bagni | eBay
Margherita Bagni
Renzo Ricci
La dinastia Zacconi - Il Tirreno Versilia
Nora Ricci e Vittorio Gassman a Viareggio
I fratelli De Filippo: partono le riprese | La Gazzetta dello Spettacolo
Eduardo Titina e Peppino De Filippo
Ettore Petrolini nel mare di Viareggio
Leopoldo Fregoli (@_fregoli) | Twitter
Leopoldo Fregoli
Sanremo, incontri per rivivere il rapporto tra Luigi Pirandello e Marta Abba  - La Stampa
Luigi Pirandello e Marta Abba
Da YouTube il film completo

Old Man & the Gun – in tv

82 anni quando il film è uscito, nel 2018, Robert Redford porta in giro le sue rughe come una mappa della sua vita: “Bisogna mostrare la vita sul proprio volto, come è giusto che sia, perché essere anziani, ha il suo fascino. Mi guardo in giro e vedo persone ossessionate dall’età e dalle apparenze. Sono impressionato da quante persone rifatte ci siano in giro: persone senza volto, senza espressione, che rinunciano a mostrare la loro vita”.

E presta questa maschera che sembra di terracotta a un personaggio veramente esistito: Forest Tucker, un vecchio criminale, rapinatore seriale di banche, nonché artista delle evasioni: nel film ne vengono recensite ben 16. Un criminale gentiluomo che, nonostante vittime e testimoni lo raccontino come un vecchio con la pistola, non ha mai sparato un colpo e mai fatto del male a nessuno, perché la pistola è solo per impressionare i rapinandi, che restano pure impressionati dalla sua cortesia.

Diretto con grazia da David Lowery, siamo lontani dalle rapine spettacolari che hanno fatto la storia del cinema di genere: il vecchio gentiluomo, coi due altrettanto vecchi soci, Danny Glover e Tom Waits, si accontentano di poco, quanto basta per tirare avanti fino alla prossima rapina e senza tirarsi addosso troppa attenzione da parte delle forze dell’ordine: sono decenni che vanno avanti così, se non fosse che gli ultimi colpi hanno incuriosito un giovane detective interpretato dal fratello stazzonato di Ben Affleck, Casey, che da bravo segugio in carriera si mette a fiutare le loro tracce in un film che ha l’andamento lento e coinvolgente di una di quelle ballate country che raccontano gli eroi di un west che non c’è più. Ha anche il passo cauto e rilassato del suo vecchio protagonista, che trova anche il tempo di fare il piacione con un’anziana vedova che ha il volto altrettanto segnato dal tempo di Sissy Spacek, star degli anni ’70 e ’80, arrivata alla fama con “Carrie, lo sguardo di Satana” (1976) di Brian De Palma e subito divenuta attrice di culto, e vederli qui duettare ha il gusto di un ingannevole dejà vu, perché i due non hanno mai lavorato insieme, nonostante 50 anni di reciproca conoscenza: tutto il film è pervaso da questo senso di nostalgia, che si acuisce quando nelle immagini “di repertorio” vediamo una serie di ritratti del giovane bandito Redford così come il cinema lo ha consegnato alla nostra memoria, e riconosciamo “A piedi nudi nel parco” come anche “Butch Cassidy” e “Corvo Rosso non avrai il mio scalpo”.

Nel 2016, al compiere dei suoi 80 anni, Robert Redford aveva annunciato il ritiro dalle scene, almeno come attore. Poi nel 2017 torna a recitare accanto alla sua amica Jane Fonda in “Le nostre anime di notte”. E nel 2018 si appassiona al progetto di questo vecchio con la pistola. Nel 2019 si lascia tentare ed entra nel cast del kolossal fantasy “Avengers: Endgame” e i registi, Joe e Anthony Russo, dicono che non è escluso che Redford ci ripensi un’altra volta. E una notizia ancora più recente conferma che sarà nel cast della seconda serie del televisivo “Watchmen”, dai fumetti omonimi, in cui in una realtà distopica Nixon è ancora presidente degli Stati Uniti senza più limiti di mandato, avendo fatto uccidere i giornalisti Bernstein e Woodward che volevano incastrarlo col caso Watergate. Robert Redford, interpretando se stesso, succederà alla morte di Nixon e sarà il nuovo presidente degli Stati Uniti, democratico come è il suo reale impegno politico, in un mondo fantasy in cui non c’è traccia del conservatore Ronald Reagan. Robert Redford come presidente che vorremmo, questo sì un bel ruolo con cui dare l’addio alle scene.

The Mule – Il Corriere –

Clint Eastwood a 88 anni è ancora in gran forma e interpreta e dirige un film scritto da Nick Schenk spirato alla storia reale di un ottantenne che per necessità diventa corriere, dapprima inconsapevolmente, di un cartello messicano che movimenta grossi quantitativi di droga. Nella storia, una volta comprese le problematiche familiari del protagonista, non c’è nulla di nuovo – ma il buono, anzi l’eccellente, viene dalla qualità della scrittura che arricchisce di dettagli non banali l’intera vicenda e il protagonista: un vecchio di buon cuore ma sanamente politicamente scorretto che ancora chiama negri i neri e mangiafagioli i messicani, non perché sia razzista ma perché esponente di un’altra epoca. Il film acquista ovviamente spessore per la presenza di Clint come protagonista e regista che si prende e ci prende in giro, complice col suo sceneggiatore, quando qualcuno gli dice che somiglia a Jimmy Stewart (star del cinema in bianco e nero hollywoodiano), cosa che gli è successa nella vita reale, e lui manda sommessamente affanculo.

Il film non ha candidature, né ai Golden Globe né agli Oscar. Oltre al pluri premiato Clint Eastwood il cast schiera altri nome di peso fra i quali Bradley Cooper che quest’anno è candidato agli Oscar come Miglior Protagonista per “A Star is Born” che è anche candidato come miglior film e per la cui regia dice, in un’intervista, di essere stato ispirato dal clima amichevole e rilassato che Clint Eastwood crea sui suoi set. Ma ci sono anche Dianne Wiest (due Oscar all’attivo) Laurence Fishburne, Andy Garcia, Michael Peña, Ignacio Serricchio, Taissa Farmiga e sua figlia Alison Eastwood nel ruolo di sua figlia. Decisamente un film da mettere in agenda anche perché, data la veneranda età di Clint, non si sa quanti ce ne potremo ancora godere.

L’incredibile vita di Norman, un credibile Richard Gere

L’American Gigolò è definitivamente diventato un vecchietto. Norman è un anziano faccendiere, un mitomane che tesse trame apparentemente molto più grandi di lui ma nelle quali riesce sempre a districarsi con grande lucidità e assoluta protervia fino a ritrovarsi invischiato in un intrigo internazionale. Ma già dal titolo “L’incredibile vita…” e dal commento musicale siamo subito immersi in una commedia, benché amara, e addirittura in una favola, benché noir, dove Norman non è altro che la versione aggiornata e tragica nel mondo degli squali dell’economia e della politica, di Mary Poppins e Tata Matilda che dal nulla arrivano e nel nulla spariscono solo per mettere le cose a posto e dare gioia e serenità a una piccola comunità di prescelti.

Richard Gere, in questo personaggio apparentemente semplice ma assai complesso, è in forma smagliante: addirittura sembra rimpicciolirsi fisicamente per tratteggiare con grazia e misura questo Norman un po’ meschino e un po’ grandeur, che fa della piaggeria il suo stile di vita. All’inizio sembra uno di quei piccoli squali che vogliono farsi spazio nel mondo dei grandi ma via via è sempre più chiaro che il suo è un sogno positivo e che usa qualsiasi mezzo per metterlo in scena, costi quel che costi: il suo tornaconto personale non è quello di fregare gli altri ma solo essere parte del “sistema”, gratificarsi di diventare il motore di un ingranaggio più grande di lui perché con la vita è in credito di qualcosa che non sapremo mai, di una rivincita su un passato misterioso di cui poco ci importa perché lui è la Mary Poppins scesa dal cielo a far felici tutti.

Il film, scritto e diretto dall’israeliano Joseph Cedar con candidature agli Oscar per i suoi precedenti film e qui per la prima volta con produzione americana, si muove in un ambito culturale congeniale alla cultura del regista: quello degli ebrei americani, rabbini e finanzieri, mettendo in scena anche la politica e i servizi segreti israeliani, senza fare sconti a nessuno. Scandito da un interessante montaggio ma appesantito da una inutile divisione in capitoli ha un ritmo gradevole di girandola nella quale orbitano attorno a Richard Gere caratteristi e interpreti anche protagonisti in altri film: Lior Ashkenazi come coprotagonista, Michael Sheen, Steve Buscemi, Dan Stevens, Josh Charles, Harris Yulin, con una Charlotte Gainsbourg in un ruolo adulto senza le ansie e le pruderie degli ultimi ruoli in cui l’ha confinata Lars Von Trier. Tutti i personaggi si incastrano perfettamente nel puzzle disegnato dal Norman disegnato dal regista ma solo uno, che appare sotto finale e interpretato da Hank Azaria come emulo di Norman, risulta come fuori schema e come un compiacimento di troppo in un film che non è perfetto ma che merita il costo del biglietto per l’interpretazione di Richard Gere e per la gustosa favola nera che ci racconta.

Remember – or better not

Atom Egoyan, regista valente e discontinuo, di famiglia armena e nato al Cairo ma cresciuto canadese, è sempre indeciso fra il mondo e la provincia, fra l’universale e l’intimo, fra il cinema indipendente e la dipendenza hollywoodiana, e adesso firma un altro dei suoi algidi film di gran classe ma sempre per pochi intimi, a dispetto del suo indiscutibile talento. Sceneggiatore in proprio e per conto altrui stavolta filma una davvero eccellente sceneggiatura originale di Benjamin August che all’inizio sembra l’ennesimo film di vecchi, ormai vecchissimi, ebrei alla ricerca di una (im)probabile vendetta su altrettanto vecchi e vecchissimi ex nazisti. E prendendo come filo narrativo la demenza senile di cui soffre il protagonista sembra anche l’ennesimo thriller, perché di questo si tratta, sui vuoti di memoria che tengono alta la tensione dell’impianto narrativo in cui il protagonista, e noi pubblico con lui, non sa da dove viene e dove deve andare.

Qui il thriller ha un andamento lento, come l’incedere dell’ultra ottuagenario, e il fascino (per chi lo apprezza) della recitazione sommessa e profonda di grandi attori che hanno molto e vissuto e molto sanno comunicare anche con un solo sguardo. Ma in questo intenso dramma della memoria perduta c’è di nuovo lo sguardo dei giovani, giovanissimi compagni di viaggio, che richiamano il vecchio al presente, quasi con una speranza di un eventuale futuro: perché ricordare il passato non ha senso se non c’è un futuro verso cui avviarlo… E in questo ennesimo dramma dell’ebreo errante alla ricerca della vendetta c’è anche il nuovo della cattiva memoria che si rinnova, del nazismo che non è morto e si rinnova nel neo nazismo. Poi nel finale c’è un colpo d’ala improvviso che non posso svelare: ricordare, ritrovare la memoria, è più drammatico che averla persa.

Christopher Plummer giganteggia con la sua recitazione che somma per sottrazione, tanto quanto il Martin Landau che dalla sua sedia a rotelle lucidamente organizza e pianifica ed etero dirige tutta l’azione dello smemorato errante alla ricerca del nazista che ha sterminato le loro famiglie. Nei ruoli di ex nazisti i poco più giovani, e qui invecchiati da un trucco sapiente, Bruno Ganz e Jurgen Prochnow mentre Dean Norris e Henry Czerny sono la generazione di mezzo senza memoria o con una memoria corrotta.

Un film perfetto su una sceneggiatura perfetta che con la sua circolarità potrebbe anche diventare un dramma teatrale: un vecchio ebreo che ormai costretto su una sedia a rotelle muove le fila della sua storia di vendetta usando come marionette gli accidentali compagni di sventura.

“Youth – La Giovinezza”, e le sue conseguenze…

Ovviamente viene subito da pensare: Ecco l’ennesimo film sulla terza età così tanto di moda in questo decennio grazie ai pensionati che vanno volentieri al cinema a vedere i loro divi invecchiati con loro, e quindi ecco i successi di commedie agrodolci tipo “Marigold Hotel” ma anche di film drammatici come “Amour” di Michael Haneke Palma d’Oro a Cannes 2012 e poi Oscar miglior film straniero e migliore attrice: insomma la vecchiaia ha molto da raccontare, per fortuna. Ma trattandosi di Paolo Sorrentino è semplicistico pensare a questi presupposti: l’uomo, nato romanziere e molto autoreferenziale, racconta solo il suo, e con stile. Uno stile tutto suo: da autore, appunto. E togliamoci di mezzo la sterile polemica dei premi mancati a Cannes 2015 dove “Youth” era in concorso assieme a “Il Racconto dei Racconti” di Matteo Garrone e “Mia Madre” di Nanni Moretti, che dei tre è quello che mi è piaciuto meno ma che ha vinto il Premio Ecumenico perché dove c’è sofferenza ecumenica arriva sempre questo premio a riprova del fatto che la religione cattolica è la religione che santifica il dolore. Detto questo, Sorrentino se l’è presa a male perché è uno che non sa perdere e i tanti premi lo hanno rassicurato nella sua arroganza, ma questo suo film è bellissimo e del terzetto è quello che mi è piaciuto più, perché oltre all’incanto, che ho ritrovato nel film di Garrone, mi ha trasmesso anche ispirazione, che è pensiero in movimento rispetto al pensiero statico ed estatico dell’incantamento.

La storia è semplice: in un albergo svizzero dove fra saune e massaggi vanno a ritemprarsi anziani e ricconi di mezzo mondo, si ritrovano una coppia di amici, Michael Caine che superlativamente è un musicista ritiratosi dalle scene e in ritiro anche dal consesso umano e dal mondo intero, è l’immagine del vecchio che attende solo la morte: ostinatamente rifiuta la proposta di un libro biografico in Francia e addirittura l’insistente offerta di un emissario della Regina Elisabetta che vuole un suo concerto per il compleanno del principe consorte; in contrappunto il personaggio altrettanto magistralmente interpretato da Harvey Keitel sembra ancora giovane dinamico e propositivo, e circondato da giovani co-sceneggiatori sta scrivendo il suo ultimo film, quello che lui definisce il suo testamento spirituale e per il quale vuole scritturare una vecchia diva, ignorante e di talento come vuole il luogo comune, da lui lanciata in gioventù. Le giornate passano tutte uguali in un equilibrio di simmetrie scenografiche e cinematografiche in cui Sorrentino è maestro: l’asettico albergo svizzero e la ripetitività dei rituali e il distacco dal mondo sono gli stessi in cui si muoveva Toni Servillo in “Le Conseguenze dell’Amore” e il ritiro artistico o l’incapacità creativa e il disincanto sono gli stessi della rockstar/bambino di Sean Penn in “This Must Be the Place” ma anche dello scrittore Toni Servillo in “La Grande Bellezza”. Poi le storie evolvono e dentro i girotondi apparentemente sempre uguali si aprono spiragli e fessure, fratture silenziose e inattese che aprono altri mondi e altre prospettive: il camorrista Servillo si annota in un taccuino di “non sottovalutare le conseguenze dell’amore” e Sorrentino ci ricorda che tutto ha una conseguenza e che questa conseguenza non sempre è quella che ci aspettavamo, sia come essere umani che come suoi spettatori. La giovinezza di questo suo ultimo film non è dunque dove sembrava all’inizio e i ruoli in commedia si capovolgono attraverso la tragedia.

Intorno: Rachel Weisz, che per lavoro “fa la figlia e l’assistente di suo padre” in un ulteriore cortocircuito/girotondo, ha un rapporto ovviamente conflittuale con l’ingombrante padre musicista ed è anche stata appena lasciata dal marito e la sua innata tentazione di tornare a rifugiarsi nell’asfittico bozzolo familiare viene messa in discussione dallo sguardo di un improbabile ammiratore, un alpinista interpretato dallo scrittore Robert Seethaler, il cui sguardo seguendo finirà appesa nel vuoto, quel vuoto che non aveva mai sperimentato. Paul Dano è un giovane divo cinematografico, anch’egli in crisi professionale perché riconosciuto solo per un personaggio fantasy in cui si sente ancora intrappolato e che sta lì in ritiro spirituale studiando i vecchi e i malati per infondere verità umana ed emotiva al suo prossimo sorprendente personaggio. Jane Fonda entra ed esce dal film con una forte scena da gran diva, con accenti di rottura rispetto al clima rarefatto in cui ci eravamo rilassati, volgare e violenta, brutale e sgradevole, è il boccino con cui impatta il regista Keitel e che gli fa cambiare percorso e prospettive, le sue conseguenze dell’amore. Alex MacQueen è l’imbarazzato e imbarazzante emissario della regina che torna e torna a infastidire il vecchio musicista. Mădălina Diana Ghenea è una Miss Universo non così cretina come sembra; i co-sceneggiatori Tom Lipinski, Chloe Pirrie, Alex Beckett, Nate Dern e Mark Gessner non sono così intelligenti come sembrano; Luna Zimic Mijovic è la massaggiatrice saggia. Altri ospiti dell’albergo sono un grassissimo sofferente vecchio calciatore simil-Maradona (per cui Sorrentino ha una passione innata e che cita anche in “La Grande Bellezza”), un monaco buddista che medita per levitare, una gelida coppia di anziani che non comunicano e sui quali la coppia di amici scommette, una escort disadattata, una bambina adulta…

Le cose non sono come sembrano, i personaggi nascondono altre nature e Sorrentino abilmente cela le sue carte e le scopre poco a poco in un film rigoroso affascinante commovente e sorprendente che purtroppo, come leggo sui social, si sta attirando le antipatie preconcette che il suo autore probabilmente merita come uomo: le conseguenze del disamore.