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Cena con Delitto – Knives Out


Nulla unisce una famiglia come un omicidio, recita il claim, e le cene sono il luogo ideale per i delitti cinematografici. Ma il titolo italiano, benché funzionale e assertivo, è fuorviante, perché rimanda a “Invito a cena con delitto” scritto nel 1976 dal commediografo Neil Simon, e fa immediatamente pensare a un remake. Ma questo è un progetto originale, originalissimo, e il titolo “Knives out” è traducibile come “Fuori i coltelli” o “Coltelli alla mano” per dire dell’atmosfera che si respira in famiglia, oltre a indicare una bizzarra scultura fatta di coltelli che campeggia nel maniero dove avviene il fattaccio. Anche nel suo ritratto, il patriarca, tiene in mano un coltello, a indicare la sua proficua professione di scrittore di romanzi gialli: quindi, chi più, meglio di lui, è in grado di imbastire in due minuti una trama gialla che mette in scena la sua stessa morte? e qui mi fermo perché sono a rischio spoiler, anticipazione.

L’autore, Rian Johnson, deve essersi divertito molto a scrivere e dirigere il film, e ci consegna un giallo che di diritto si inserisce nel filone del giallo deduttivo alla Agatha Christie, quello dove un investigatore segue tracce indizi e trame di un ristretto gruppo di persone per scoprire, fra loro, il colpevole del delitto. E Rian Johnson dichiara apertamente le sue ispirazioni: Agatha Christie, appunto, con “Delitto sotto il sole” “Assassinio allo specchio” “Assassinio sul Nilo” “Assassinio sull’Orient Express” ma anche “Signori, il delitto è servito” ispirato al gioco da tavolo Cluedo che qui viene citato, insieme al già citato “Invito a cena con delitto”. I suoi “Coltelli” sono già in testa nella classifica degli incassi e presto sentiremo parlare di premi.

Certo ispirato al personaggio del belga Hercule Poirot, anche qui l’investigatore ha un nome francofono, Benoît Blanc, interpretato dal quasi ex 007 Daniel Craig: il prossimo film sull’agente speciale al servizio di Sua Maestà la Regina, il suo quinto, il 25° della serie, sarà il suo ultimo, e chissà che questo Benoît Blanc non sia l’ispirazione per una nuova serie gialla: i produttori tendono a serializzare i successi commerciali.

Qui l’investigatore è un consulente del tenente Elliot, Lakeith Stanfield, che insieme all’agente Wagner, Noah Segan, si presenta al castello per indagare sulla morte, apparentemente suicidio, dello scrittore Harlan Thrombey, che aveva riunito per il suo 85° compleanno la sua disfunzionale (e come potrebbe essere altrimenti) famiglia. Il patriarca è interpretato dal 90enne Christopher Plummer, patriara del cinema inglese; e nella famiglia delittuosa ritroviamo due vecchie glorie del cinema anni ’80: Jamie Lee Curtis, nella vita figlia di Tony Curtis e Janet Leigh, e nel film figlia del vecchio scrittore, e Don Johnson come suo marito, attore di B movies e soprattutto marito di Melanie Griffith: in seguito alla separazione si perde fra alcol droga e problemi finanziari; qui li ritroviamo naturalmente invecchiati, senza aiutini estetici, e in gran forma a capeggiare questo cast di gran classe. La coppia ha un figlio bello e antipatico interpretato da Chris Evans, qui nel suo primo ruolo negativo dopo essere stato (quasi) sempre il super eroe Capitan America. L’altro figlio dello scrittore, il suo editore frustrato e depresso, è interpretato da Michael Shannon, che con la spigolosa moglie Riki Lindhome sfoggia un figlio adolescente precoce nazista, Jaeden Martell. C’è poi la vedova di un terzo figlio, interpretata da Toni Collette con vaporoso opportunismo, e sua figlia Katherine Langford impegnata in corsi di studio tanto costosi quanto altrettanto vaporosi. Il centro nodale del racconto giallo è, insieme al vecchio scrittore morto la sera del suo compleanno, la sua fedele affezionata e onesta infermiera-amica, Ana de Armas che, involontaria testimone della morte del vecchio, e non posso aggiungere altro, diventa l’occhio del ciclone che investe l’intera famiglia. Completano il cast Edi Patterson come segretria e grandi vegliardi caratteristi come Frank Oz, il notaio, M. Emmet Walsh, il guardiano del maniero, e K Callan come vecchissima (nessuno sa la sua età) madre del defunto: quasi un soprammobile che nessuno considera ma che ovviamente sarà determinante per la soluzione dell’intrigo.

Intrigo eccellente: a metà film sappiamo già tutto sulla morte del patriarca ma il giallo si sposta su un altro piano: come farà l’investigatore a scoprire l’inganno e, soprattutto, chi lo ha assunto ancora prima che il fattaccio accadesse? I colpi di scena si susseguono e spostano sempre altrove il punto focale dell’intrigo in questo film che, a mio avviso, è uno dei migliori gialli degli ultimi decenni.

Assassinio sull’Orient Express, sempre grandi star

Nel 1974 dirigeva Sidney Lumet (4 nomination agli Oscar e uno alla carriera nel 2005) un cast all stars con 11 interpreti nominati agli Oscar di cui 6 vincitori e uno alla carriera nel 2009 a Lauren Bacall; un cast che il regista riuscì a mettere insieme facendo firmare per primo Sean Connery, allora una punta di diamante dello star system. Ingrid Bergman rifiutò il ruolo della Principessa Dragomiroff e si offrì per quello della missionaria col quale vinse l’Oscar come non protagonista; nomination ebbero il regista e il protagonista Albert Finney. Un gran film che è un classico da rivedere. Come gran film è anche quello attuale e per il quale, conoscere l’identità dell’assassino, nulla toglie al piacere della visione, anzi!

Nel 2017 dirige Kenneth Branagh che interpreta anche il protagonista Hercule Poirot e mette il cappello sul prossimo film con un richiamo nel finale nel quale viene richiesto in Egitto per un delitto sul Nilo. “Assassinio sul Nilo” fece seguito nel ’78 all’Orient Express del ’74 con un nuovo regista, John Guillermin, che si era fatto notare per la regia del catastrofico “Inferno di Cristallo” altro filmone all stars ma di qualità inferiore, come di qualità inferiore fu il film dal romanzo della Christie; anche l’interprete di Poirot cambiò con l’interpretazione di Peter Ustinov, che a mio avviso fu un interprete più azzeccato.

Branagh, e la più moderna sceneggiatura di Michael Green lo supporta, tratteggia un Poirot meno macchiettistico di come l’ha creato l’autrice, con la sua precisione maniacale che però si stempera in un afflato di umanità che arricchisce e dà profondità al personaggio – ma per il quale si inventa degli spettacoli doppi baffetti! Anche lui dirige un cast all stars, anche se gli Oscar al seguito sono di meno per motivi anagrafici, e tecnicamente il film è più ricco di azione ed effetti speciali, per cui la bufera di neve che blocca il treno diventa una vera e propria spettacolare valanga. E’ ovvio e divertente fare adesso il confronto fra il vecchio e il nuovo cast.

L’ambiguo antagonista, che nel ’74 fu Richard Widmark che accettò il ruolo solo per poter lavorare con tutte quelle star, oggi è un sorprendente Johnny Depp che con gustoso e misurato ghigno con cicatrice incorporata si muove fuori dal seminato dei suoi personaggi sempre positivi e sbruffoni portando una ventata di freschezza al film e alla sua filmografia.

Si è detto di Ingrid Bergman premiata per il ruolo della missionaria svedese Greta Ohlsson che qui diventa spagnola, Pilar Estravados, con l’aderente interpretazione di Penelope Cruz che però rimane negli standard: il carattere riprende il nome di un personaggio di Agatha Christie che compare in “Il Natale di Poirot” messo in film nel 1994 ma di cui non rimane traccia nella memoria.

Si è anche detto di Sean Connery, che interpretava Arbuthnot, colonnello nel romanzo e nel film, che di innamora di miss Debenham durante l’azione. Oggi il personaggio cambia vistosamente, rendendo più moderna e dinamica la trama e rimanendo altresì credibile: Arbuthnot è un medico di colore, interpretato da Leslie Odom jr, già segretamente in amore con la bella e giovane Debenham, segretamente perché all’epoca dei fatti narrati, gli anni ’30 del Novecento, non si parlava di amori interraziali, esistenti ma stigmatizzati.

La bella e giovane Mary Debenham oggi è interpretata dalla pressoché sconosciuta Daisy Ridley mentre nel ’74 era nientepopodimeno che Vanessa Redgrave in azzeccatissima coppia con Sean Connery.

Ruolo chiave della vicenda è Mrs Hubbard, vedova americana dalla parlantina brillante e tagliente che da Lauren Bacall passa oggi a Michelle Pfeiffer: entrambe star di prima grandezza ormai sessantenni, entrambe totalmente in parte, con una mia personale debolezza, anche anagrafica, per la Pfeiffer che mostra una dolcezza in più rispetto alla Bacall: le auguro una candidatura agli Oscar, anche senza premio, che la possa rilanciare nello star business, dato che il suo ultimo film con buoni esiti al botteghino è “Chéri” di Stephen Frears del 2009. Ma vale la pena fare l’elenco dei film di grande successo che ha rifiutato perché non ha saputo valutare sulla carta (tra parentesi l’attrice che la sostituì): Thelma e Louise (Geena Davis), Basic Istinct (Sharon Stone, nomination Golden Globe), Il Silenzio degli Innocenti (Jodie Foster, premio Oscar), Insonnia d’Amore (Meg Ryan, nomination Golden Globe), Pretty Woman (Julia Roberts, nomination Oscar e Golden Globe), Evita (Madonna, Golden Globe) e altri ancora.

Anche il personaggio di Hector MacQueen, segretario tuttofare del cattivo Ratchett/Cassetti, subisce una interessante evoluzione. Nel ’74 era interpretato da un Anthony Perkins con ancora attaccate addosso le nevrosi dello “Psycho” di quattordici anni prima. Oggi è interpretato da Josh Gad, cicciottello comico ebraico-americano che qui fa un salto di qualità ben riuscito, certo cercando di allinearsi ai suoi colleghi comici cicciottelli ormai star mainframe come Jack Black o Jonah Hill.

Il maggiordomo passa da John Gielgud (nominato agli Oscar) a Derek Jacobi nella migliore tradizione dei maggiordomi inglesi.

Ma sul treno c’è un altro investigatore privato in incognito, altro ruolo chiave della vicenda, Cyrus Hardman che, già interpretato dal caratterista Colin Blakely, cambia nome di battesimo in Gerhard e lo fa Willem Dafoe, con una performance a mio avviso sotto tono rispetto all’impegno generale – o forse il ruolo, a tratti lievemente grottesco, non è adatto a lui.

L’anziana Principessa Natalia Dragomiroff che fu Wendy Hiller oggi entra nello schermo con lo sguardo assassino di Judy Dench che dà subito il carattere del personaggio, che poi però rimane tutto lì: un personaggio di supporto poco definito da interpretare proprio come un cameo. La sua dama di compagnia, la tedesca Hildegarde Schmidt passa da Rachel Roberts a Olivia Colman senza colpo ferire.

Ci sono poi i Conti Rudolph Andrenyi e la Contessa Helena Maria Andrenyi che se ne stanno in disparte chiusi nella loro cabina che, interpretati originariamente da due nomi come Michael York e Jacqueline Bisset qui vengono affidati agli sconosciuti Sergei Polunin, che nasce come ballerino russo, e Lucy Boynton, ex attrice bambina inglese, condannando di fatto questi due personaggi al bozzetto di fondo.

C’è poi Antonio Foscarelli, venditore di automobili un po’ sbruffone, ovviamente italiano nella fantasia di Agatha Christie, che fu interpretato dallo sconosciuto inglese Denis Quilley e che oggi diventa Biniamino Marquez, interpretato dal messicano Manuel Garcia-Rulfo, certo per coprire la quota hispanica della super produzione statunitensi.

Il capo carrozza Pierre Michel, che fu interpretato dal francese Jean-Pierre Cassell oggi è il tunisino-olandese Marwan Kenzari; mentre il capotreno, il belga Bouc, che in francese significa caprone, certo con qualche intenzionalità nell’autrice, conterraneo amico e assistente improvvisato di Poirot, cui oggi dà il volto l’aitante australiano Tom Bateman, nel ’74 era diventato un Mr Bianchi interpretato da Martin Balsam.

Il film è riuscitissimo. Le star non sono quelle di una volta ma neanche il pubblico lo è, ben che vada è invecchiato come il sottoscritto. E la trovata più azzeccata è quella della risoluzione finale del giallo, che nel primo film avveniva all’interno del lussuoso treno, come da racconto, quando Poirot riunisce tutti per svelare il nome dell’assassino: oggi, a causa del treno bloccato per la valanga, la scena è montata all’aperto, e i 12 personaggi coinvolti sono tutti seduti a un lungo tavolo come in un’ultima cena, per un ultimo resoconto dove al peccato segue, ancora una volta, il perdono.

Note di costume: il pubblico in sala era per lo più fatto di adulti e anziani. I pochi giovani erano un ragazzo solitario, come ero io che al calcio preferivo un pomeriggio al cinema, e ragazzine selfie-dipendenti che erano solo venute a vedere Johnny Depp restando deluse (è il loro punto di vista) dalla performance, e sorprese che la storia fosse scritta da Agatha Christie: chissà che si credevano, povere stelle!