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Bianco Natale, in brillante Technicolor

Il Technicolor che caratterizza questo film è stato il procedimento di cinematografia più usato negli Stati Uniti nel trentennio 1922-52, e proprio per i suoi colori saturi e brillanti fu usato soprattutto per girare musical e film in costume, oltre che i film d’animazione di Walt Disney: film che uscivano fuori dalla dimensione del naturalismo quotidiano, un quotidiano dove i colori sono più smorzati e confusi. La Technicolor Motion Picture Corporation, fondata nel 1914, realizzò il primo film a colori già nel 1917, il muto “The Gulf Between” che però è andato perduto. Il procedimento impiegherà ancora qualche anno per perfezionarsi e si arriva al 1932, anno in cui riceve l’Oscar Scientifico e Tecnico in contemporanea all’Oscar Miglior Cortometraggio d’Animazione al disneyano “Fiori e Alberi” che lo utilizza. Nel 1955 verrà fondata a Roma la Technicolor Italiana, che poi nel 1963 inventa in proprio il formato “Techniscope” che, senza scendere in dettagli tecnici, consentiva un notevole risparmio di pellicola; il primo ad utilizzarlo fu Vittorio De Sica con il suo “Ieri, oggi, domani” e poi Sergio Leone lo usò per tutti i suoi western. Questo “Bianco Natale”, del 1954, è anche il primo in VistaVision, un formato per film su schermo panoramico che resistette fino agli anni ’70, quando fra i suoi ultimi impieghi ci furono i primi esperimenti della LucasFilm sugli effetti speciali che porteranno nel 1977 a “Guerre Stellari”.

“Bianco Natale” è un classico che da decenni vediamo e rivediamo nel periodo natalizio e che non stanca mai. La ragione del suo eterno successo è che è una favola per adulti, e come tutte le favole il suo fascino non si estingue mai. Buoni sentimenti, fraintendimenti che trovano sempre la via della pacificazione, stratagemmi la cui soluzione ci tiene sempre in sospeso e l’immancabile catarsi finale; il tutto scandito da dialoghi brillanti e scene auto conclusive come piccoli quadri teatrali che si chiudono con una battuta o un’azione significative, eccellenti numeri musicali con coreografie che ancora sorprendono per la loro scoppiettante complessità e per quel gusto oggi perduto per il tip-tap. I personaggi non sono mai credibili ma sempre amabili, proprio come nelle favole, e contrariamente a qualsiasi altra favola qui non ci sono personaggi cattivi ma solo cattive circostanze che però i nostri eroi superano sempre, cantando e ballando. Per non amare questo film, o film di questo genere, bisogna non amare i musical, ed è plausibile, oppure bisogna essere degli inguaribili cinici senza fantasia.

Il film si apre con lui, Bing Crosby, che mirabilmente canta una versione rallentata e triste del già famoso successo “White Christmas” che Irving Berlin (pseudonimo del russo Izrail’ Moiseevič Bejlin) aveva scritto per il film del ’42 “La Taverna dell’Allegria” con Crosby e Fred Astaire, canzone che ricevette l’Oscar e che da allora è stata un cavallo di battaglia di Bing Crosby, il quale, quando la sentì per la prima volta disse all’autore: “Ecco un’altra delle tue canzoni per piangere.” E Berlin ne era consapevole se, come dicono le cronache, la mattina dopo averla scritta corse in ufficio per sollecitare la sua segretaria: “Prendi la penna, prendi appunti su questa canzone. Ho appena scritto la mia migliore canzone; diavolo, ho appena scritto la migliore canzone che chiunque abbia mai scritto!” “White Christmas” cantata da Bing Crosby rimane il disco più venduto fino ad oggi, nonostante praticamente tutti ne abbiano fatto una propria versione, da Louis Armstrong a Michael Bublé passando per Frank Sinatra e Barbra Streisand, e nella versione italiana con testo di Filibello (pseudonimo del paroliere Filippo Bellobuono) da Andrea Bocelli a Cristina D’Avena passando per Celentano e Laura Pausini.

L’inizio del film è un cartello che annuncia la vigilia di Natale del 1944 col noto cantante Bob Wallace (Bing Crosby) che per la truppa accampata fra le rovine di Montecassino, Italia, intona le famose note. L’inquadratura si allarga e scopriamo che il quieto paesaggio innevato è il fondale di un precario palcoscenico allestito su un fondale ancora più ampio di uno scorcio visibilmente ricostruito in studio, con rovine di cartapesta: nei decenni passati della televisione in bianco e nero sembrava tutto – paradossalmente – più reale, mentre oggi svela tutto l’artificio della finzione, che però non guasta perché sappiamo che di bella finzione si tratta. Bob Wallace viene salvato dal crollo di un muro dal soldato Phil Davis che ha la maschera plastica di Danny Kaye, che gli si propone come paroliere e il duo si avvia al successo in patria negli anni a seguire. Conoscono due sorelle che si esibiscono come cantanti, le Haynes Sisters, Betty e Judy, Rosemary Clooney e Vera-Ellen, e insieme metteranno su uno spettacolo per aiutare l’ex generale dei due, oggi albergatore in crisi finanziaria, e poi finire in bellezza, formando anche due coppie sentimentali bene affiatate: quella spigolosa litigiosa e principalmente canterina formata da Bing Crosby e Rosemary Clooney, e l’altra principalmente ballerina formata dal gigione Danny Kaye e dalla leziosa e intraprendente Vera Ellen – in un film dove comunque tutti fanno tutto benissimo e cantano e ballano e recitano con un eterno sorriso stampato in viso.

Dirige il rumeno Manó Kertész Kaminer naturalizzato americano nel 1926 col nome di Michael Kurtiz, regista assai eclettico che, benché mancando di uno stile proprio immediatamente riconoscibile, fu uno dei più quotati di Hollywood negli anni ’40. Passò dai film d’avventura con Errol Flynn all’iconico “Casablanca”, al drammatico “Il Romanzo di Mildred” che fruttò l’Oscar a Joan Crawford e ne rilanciò la carriera. Con i suoi lauti guadagni, durante il secondo conflitto mondiale, aiutò diversi ebrei ad immigrare in America ma non poté fare nulla per i suoi genitori che morirono ad Auschwitz.

20 Facts About White Christmas (The Movie) | Sporcle Blog
Library of Congress on Twitter: "Did you know that Bing Crosby got his  nickname from the Bingville Bugle, a weekly satirical newspaper section?  Check out its take on March weather #OTD 1915 #

Bing Crosby all’epoca ha già 50 anni, un Oscar in bacheca per “La mia via” del ’45 e la fama di capostipite dei crooner. Bing, il cui vero nome è Harry Lillis Crosby, è un soprannome che si è meritato a 7 anni, quando era appassionato lettore dei fumetti “Bingville Bugle”. Appena terminati gli studi viene reclutato per il trio Rhythm Boys col quale gira il Paese per un paio d’anni e cresce artisticamente tanto da ricevere delle offerte di contratto da solista, che Bing rifiuta. Pare che durante i tour i tre giovanotti ne facessero di tutti i colori e Bing, in particolare, finì in galera per guida in stato di ebbrezza e perse il contratto da solista in “Il Re del Jazz” del 1930, e fu poi recuperato nell’esibizione del trio; ma alle sue intemperanze e alla dipendenza dall’alcol pare sia dovuto lo scioglimento dei Rhythm Boys allorché, a causa della sua irreperibilità, il gruppo non si presentò a un’importante esibizione. Ma come si dice: si chiude una porta e si apre un portone, e Bing Crosby da solista è diventato il più grande intrattenitore del XX secolo.

Anche Danny Kaye, al secolo David Daniel Kaminsky, all’epoca del film con i suoi 43 anni non era di primo pelo, ed era un già noto fantasista che si era fatto le ossa nel varietà e che si è imposto come personaggio eccentrico e assai singolare dotato di grande mimica, con un gusto per il nonsense che esibisce in molte sue filastrocche insieme a tic e mossette che diventano suoi tipici, sfoggiando anche un acrobatismo vocale che gli permette di imitare qualsiasi cosa: animali, strumenti e suoni vari. Con la sua aria perennemente in bilico fra il timido restio e l’avventuriero svagato, prese parte a molti film comici e brillanti, che vanno dal fiabesco al romanzesco al surreale. Nel 1955 ricevette l’Oscar alla carriera, insieme a Greta Garbo, e nel 1982 sempre nel corso delle premiazioni Oscar fu insignito del “Premio Umanitario Jean Hersholt” per il suo impegno con l’Unicef, di cui fu il primo ambasciatore nel mondo, a favore dei bambini poveri; e ancora per questo suo impegno ricevette nel 1986 la “Legion d’Onore” francese.

Rosemary Clooney, ebbene sì zia di George Clooney, ma anche madre del prematuramente scomparso Miguel Ferrer, primogenito che ebbe con il doppio marito José Ferrer che risposò dopo aver divorziato – ma all’epoca da quelle parti usava così, vedi Liz Taylor e Richard Burton. “White Christmas” fu il suo primo ruolo importante, in seguito al quale ebbe un suo programma tv, “The Rosemary Clooney Show” e poi vagò come cantante da un casa discografica all’altra, mentre al cinema non farà molto altro di importante. La sua carriera altalenante, nonostante l’indubbio talento, è probabilmente dovuta al disturbo bipolare di cui soffriva, aggravato dalla tragica perdita dell’amico John Fitzgerald Kennedy al cui assassinio assistette praticamente in diretta televisiva; questo trauma la segnò per il resto della vita tanto da renderla dipendente da medicinali stupefacenti. Morì di cancro a 72 anni nel 2001 e il nipote George ricordò come lo protesse a inizio carriera.

trudy stevens | The Heavy Petting Zoo
Trudy Stevens

Vera-Ellen, senza il cognome Westmeier Rohe, iniziò a danzare a 9 anni e ancora giovanissima divenne star del Radio City Music Hall di New York, approdando poi a Broadway e infine arrivò al cinema grazie al produttore Samuel Goldwyn, dove ballerà sul grande schermo con le grandi star maschili dell’epoca, da Frank Sinatra a Gene Kelly e il suo nome diverrà praticamente sinonimo di musical. “White Christmas” fu però il penultimo film di una carriera infelicemente breve a causa dell’anoressia di cui soffriva e della conseguente artrite che sviluppò, costringendola a ritirarsi dalle scene nel 1957. Oggi, purtroppo, eccezion fatta per i cultori del musical d’antan, è un nome praticamente dimenticato nonostante il suo grande talento. Pochi sanno che benché fosse un’eccellente ballerina Vera-Ellen non fosse altrettanto versata nel canto e in questo film i suoi interventi sonori sono doppiati dalla stessa Rosemary Clooney e, quando le due fanno coppia, da Trudy Stevens.

Altre curiosità sul film. I costumi di Vera-Ellen le coprono sempre il collo che mostrava non ben specificati segni del suo disturbo alimentare. La costumista Edith Head non è neanche menzionata nonostante il suo eccellente lavoro e, per il colmo, fu e ancora è la donna con più nomine e Oscar ricevuti, addirittura vincendone 2 nel 1951 perché erano ancora separate le categorie Film in bianco e nero e Film a colori, così lei vinse in B/N per “Eva contro Eva” e a colori per “Sansone e Dalila”. Danny Kaye non fu la prima scelta e prima di lui rifiutarono il ruolo Fred Astaire e Donald O’Connor. E per finire il critico del New York Times scrisse: “E’ un peccato che il film non centri l’obiettivo del divertimento tanto quanto i colori hanno invece colpito i nostri occhi.”

Nel numero da solista di Rosemary Clooney si nota nel quartetto dei boys un giovanissimo George Chakiris già in carriera a Hollywood e visto anche al fianco di Marilyn Monroe. Dopo questo film nel 1959 entrerà nel cast londinese di “West Side Story” e due anni dopo sarà anche nel film di Robert Wise e Jerome Robbins, per il quale vinse nella categoria Miglior Attore non Protagonista sia l’Oscar che il Golden Globe.

Official Website of Academy Award Winner George Chakiris

Anche lui non avrà nuove occasioni per bissare il successo di cui è stato protagonista. Nel 1996, 64enne, si ritira dalle scene e si reinventa come quotato disegnatore di gioielli.